Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Black_Lily_13    05/10/2014    5 recensioni
C’erano molte leggende che venivano tramandate a Castlecross, la più famosa di tutte quella riguardante la figura che abitava il castello nel cuore della palude. C’era chi sosteneva che si trattasse di uno Spettro, chi di un Demone. Su una cosa però tutti concordavano: Sherlock era in grado di esaudire i desideri celati nel cuore di chi fosse disposto a rinunciare a qualcosa di prezioso. John Watson, dal canto suo, era un uomo di scienza, e non aveva la minima intenzione di farsi coinvolgere nello strano gusto per il soprannaturale che i suoi nuovi compaesani sembravano condividere. Questo, almeno, fino a quando il destino non decise di portargli via la cosa che più amava al mondo... e lui, impotente, non poté che affidare la sua unica possibilità di salvarla a chi non avrebbe mai creduto potesse esistere. Costretto in cambio a mettersi al servizio di Sherlock per un anno, John imparerà pian piano che il buono può celarsi anche laddove non dovrebbe esserci per antonomasia. E, forse, riuscirà a scoprire e salvare da una minaccia nascosta il cuore di chi credeva di avere il petto pieno di sola polvere.
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Image and video hosting by TinyPic

III.        Painful

Pioveva quando la carrozza finalmente fermò la sua corsa di fronte alla loro casa. Una pioggia sottile e gelida, come tanti piccoli aghi che penetravano attraverso i vestiti e trasmettevano a John delicate scosse di brividi. Il cielo era così grigio e la temperatura così bassa che John si chiedeva se avrebbe nevicato di nuovo, o se l’acqua avrebbe spazzato via la neve che si era ammucchiata per strada. Sperò vivamente che quello non fosse il caso: Hamish amava la neve, soprattutto la parte in cui poteva raccoglierla in tante palle e lanciarla a sua zia, mandandola su tutte le furie. Ripensandoci, anche John amava la neve.

“Eccoli! Eccoli!”

John guardò Harry rimbalzare da un piede all’altro, incapace di contenere l’entusiasmo. Tremava leggermente per il freddo - nessuno dei due aveva avuto la decenza di afferrare un cappotto prima di uscire, figurarsi un ombrello - e indicava una figura nera che si avvicinava rapidamente in lontananza.

John si congelò sul posto; prima che riprendesse il controllo di sé, aveva le braccia piene di Hamish ed era circondato da due donne che urlavano come ossesse, tanto erano felici di rivedersi.

“Papà!”

Dal modo in cui il piccolo si ancorò a lui appena lo vide, tremando leggermente e rischiando di farli cadere entrambi per lo slancio con cui lo raggiunse, John capì che qualcosa durante il viaggio doveva averlo scosso, ma quando interrogò il bambino lui gli rispose che non era successo niente. Questo, insieme alle rassicurazioni di Clara, la quale affermava che il viaggio era stato tranquillo se non noioso, gli fece accantonare momentaneamente la questione in favore della necessità di scaricare i bagagli e sistemare gli ultimi dettagli nell’appartamento…. anche se John non riusciva a togliersi dalla mente la strana luce che era apparsa negli occhi di Hamish quando gli aveva domandato: “Successo niente di interessante durante il viaggio?”.

Prima che tutto fosse sistemato, erano ormai le dieci di sera. Avevano cenato rapidamente con pollo freddo e verdure, preparati di gran fretta da Clara e consumati ancor più velocemente tra un quadro da appendere (“E secondo il tuo genio come dovrei fare a attaccare quella cosa? Ho un bastone, vedi? E se lo lascio per prendere in mano la cornice il mio equilibrio ne sarà di certo compromesso!”) e un tappeto da buttare (“Ci sono talmente tante tarme in quel coso che è un mistero non stia camminando da solo, John!”), e nel momento stesso in cui l’ultimo vestito era stato piazzato nell’armadio Clara e Harry erano evase dall’appartamento per ‘esplorare il paese’, frase che, John era più che sicuro visto l’entusiasmo con cui sua sorella l’aveva pronunciata, poteva essere tradotta con ‘cercherò la bettola più economica di tutto Castlecross e non me ne andrò fino a che Clara non mi trascinerà a casa per i capelli’.

A quel punto, esclusa quella palla di pelo grigio di Gladstone che russava beatamente davanti al camino sognando di masticare una bistecca, la casa era tutta per John e Hamish.

Il piccolo era, ovviamente, praticamente barricato nella sua stanza, stanco morto per il viaggio ma decisamente troppo eccitato per decidersi a dormire. John lo raggiunse con due tazze di thé fumanti e un piatto pieno di biscotti al cioccolato (regalo di Mrs. Turner, consegnato con l’ordine di portare Hamish a conoscerla al più presto), e si mise a sedere accanto a lui sul letto. Per la prima volta da quando era arrivato, afferrando un biscotto, Hamish sorrise.

“Alloooora…” iniziò John, riempiendosi la bocca di quel liquido bollente (latte, niente zucchero, semplicemente perfetto) “…ti piace la tua nuova stanza?”

Masticando golosamente l’ultimo boccone del biscotto, Hamish si guardò intorno, sporgendo un po’ le labbra in avanti con aria pensosa, e John cercò guardare la stanza attraverso i suoi occhi. Era piccola, più piccola di quella che suo figlio occupava a Londra, ma d’altronde tutto l’appartamento lo era (e anche l’affitto, tante grazie!). Poi con quella carta da parati a metà tra il grigio e l’azzurro e quei mobili a misura di bambino, gli sembrava più che adatta ad Hamish. Oh, e scavata nella parete c’era una nicchia abbastanza spaziosa da poterci giocare: John ci avrebbe montato davanti una tenda, e Hamish avrebbe potuto utilizzarla come fortino. Quando lui era piccolo, avrebbe dato chissà cosa per avere una stanza come quella.

“Di chi era questa stanza?”

L’innocente domanda di Hamish lo scosse più di quanto avrebbe dovuto, perso com’era nelle sue riflessioni.

Si schiarì la voce. “Beh, probabilmente, visto che prima le pareti erano rosa, della bambina della proprietaria. Mrs. Turner non ci ha detto granché.”

“La proprietaria ha una figlia? Più grande o più piccola di me? E ora dov’è? Credi che potremo giocare insieme?” L’entusiasmo di Hamish era palpabile. Sperava di farsi dei nuovi amici al più presto, e John avrebbe davvero voluto aiutarlo, ma non aveva realmente idea di che cosa rispondergli.

“Non lo so, te l’ho detto. Ho solo parlato con la nostra affittuaria, non con la padrona vera e propria.”

Hamish lo guardò, un pizzico di delusione negli occhi. John sospirò. “Domani chiederò a Mrs. Turner, promesso…”

“Grazie!”

Hamish gli si gettò addosso, sorridendo felice. Un attimo dopo, due tazze da tè erano a terra, un piatto relativamente nuovo era in frantumi e la moquette beige mostrava due vistose macchie marroni nonché un sentiero di biscotti. Padre e figlio rimasero basiti per un minuto buono, sul viso identiche espressioni di stupore, le mani aperte per afferrare quello che a tutti gli effetti era già caduto; quando riuscirono a muoversi di nuovo si guardarono negli occhi, blu nel blu… e scoppiarono a ridere senza ritegno, fino a perdere il fiato. John scompigliò i capelli di suo figlio con affetto, stringendolo in un abbraccio soffocante mentre ancora erano entrambi scossi dalle risa.

Gli era mancato.

Quanto gli era mancato.

***

Avrebbe dovuto presagire un risvolto così poco piacevole nella sua vita. Come sempre, quando tutto sembra andare per il meglio e non si vedono nuvoloni all’orizzonte, c’è un temporale che si sta preparando in sordina, pronto a scuotere le fondamenta del tuo essere. Purtroppo per lui, John Watson confidò in una fase positiva della sua sorte: i drammi che l’aspettavano non li vide neppure arrivare.

Nell’arco di un mese dal loro arrivo, gli Watson si erano assestati perfettamente nella placida routine di Castlecross: era come se fossero appartenuti alla città da sempre.

Hamish si era affezionato immediatamente alla sua insegnate, Mrs. Ella Thompson, tanto più quando essa gli aveva proposto di portare i suoi due figli (Carl e Conrad, otto e dieci anni) a giocare con lui durante i fine settimana. In quanto a John, presto la sua vita era piombata in quella confortante e deprimente routine tipica di un medico di paese: giornate intere trascorse allo studio, destreggiandosi tra nasi colanti, infezioni e ferite di vario genere (nulla di grave, quell’inverno era stato misericordioso), serate spese a sonnecchiare in poltrona cercando al contempo di prestare attenzione a Hamish, Gladstone e tutta la baracca. Ciliegina sulla torta: domeniche mattina impegnate ad ascoltare gli interminabili sermoni di Padre Stamford strizzato su una delle panche di legno della Chiesa. Harriet e Clara litigavano spesso, e sua sorella lo aiutava sempre meno alla clinica, ma nel compendio generale dei pro e dei contro quella era una minuzia trascurabile.

Tuttavia, ogni tanto, guardando fuori da finestra la nebbia che si alzava, mentre si massaggiava la gamba intorpidita e lanciava quiete maledizioni all’umidità, John si chiedeva se tutto il resto della sua vita sarebbe stato a quel modo. Se la dose a lui assegnata di adrenalina e avventura si fosse esaurita, e fosse ora condannato alla monotonia.

Non mi succede mai niente…” rifletteva, interrogandosi sulla natura del nodo in gola che nasceva insieme a quel pensiero.

Dio, se solo avesse saputo.

Cominciò tutto il primo giorno di Primavera, quando una folla di paesani spaventati lo tirò giù dal letto alle sei del mattino gridando alla tragedia. Fu Harriet in realtà ad irrompere nella sua stanza, scuotendolo per le spalle e dicendogli che c’era un emergenza.

Forse per il panico nella voce di sua sorella, forse per il passaggio improvviso dal sonno alla veglia, ma per pochi, terribili secondi John ebbe l’impressione di essere di nuovo a Passo Maiwand. Non importava quanto il suo cervello gli ripetesse che non era così, che era a miglia e miglia di distanza, al sicuro nel suo letto: John poteva sentire distintamente il tonfo degli stivali nella polvere, il sapore di sudore e sangue nella bocca, il crepitio dei mortai, le grida… prima che riuscisse a mettere a fuoco la stanza intorno a lui e a sentire sua sorella ripetere il suo nome per fargli riprendere il contatto con la realtà, un morso di panico minacciò di serrargli la gola.

Cercò di respirare.

“Harry? C-che cosa c’è?”

“Ci sono delle persone giù, Johnny. È successo qualcosa di grave, devi venire a vedere, c’è bisogno di te.”

Boccheggiando, John si catapultò fuori dalle coperte, afferrando al volo una vestaglia e seguendo Harry fuori dalla stanza e giù, fino alla porta dello studio. Se quello che vedeva era un minimo indicatore della gravità di quello che era successo, erano veramente guai grossi: di fronte alla porta dello studio si era radunato infatti quello che aveva l’aria di essere mezzo paese, una processione di facce tirate e sconvolte che lo guardavano come se fosse l’unica soluzione a tutti i loro problemi.

“Cosa succede?” domandò a nessuno in particolare, iniziando a tirarsi su le maniche penzolanti della vestaglia.

Ci fu un rapido e doloroso scambio di sguardi, un brivido collettivo, il tutto nel più completo silenzio. Poi, una figura si fece strada nella calca, prendendo posto davanti a lui, ed esclamò con voce cantilenante:

“Credo che sia meglio che lo vediate con i vostri occhi, Dottore.”

Se John avesse dovuto descrivere in una parola l’uomo che aveva parlato, probabilmente avrebbe scelto la parola serpente. Fece un passo indietro, inclinando la testa e osservando lo sconosciuto con sguardo caustico: era un uomo non troppo alto, eppure sembrava torreggiare sugli altri cittadini con un’imponenza propria di un’epoca passata; se i suoi occhi grandi, scuri e lucidi potevano creare un’illusione di innocenza e infantilità (sempre se fosse stata ignorata la luce sinistra che li illuminava), il modo in cui scopriva i denti nel sorridere aveva un che di pericoloso… sembrava, appunto, un serpente pronto a scattare in avanti e mordere la sua preda.

John si rese conto di digrignare i denti. “Sarà meglio che vada allora.” Sibilò allo sconosciuto, facendo un deciso passo in avanti con Harry alle calcagna. Ma mentre le altre persone sgombrarono loro il passaggio immediatamente, l’uomo dagli occhi scuri rimase immobile, davanti alla porta… fissando John in un modo che gli fece venire i brividi.

“Non credo di aver avuto il piacere di presentarmi.” Esclamò, inclinando la testa di lato in maniera quasi innaturale e tendendo verso John una mano piena di aspettative, “Il mio nome è James, James Moriarty.”

John avrebbe imparato fin troppo presto a conoscere Moriarty, attraverso le chiacchiere interminabili di Mrs. Turner nei pomeriggi in cui avrebbe deciso che nella loro cucina i dolci le venivano più buoni (pallida scusa per poter viziare Hamish ancora un po’) così come attraverso la sua propria esperienza. Avrebbe scoperto che era una personalità molto influente in paese, che nelle sue vene scorreva una quantità non meglio definita di sangue nobiliare e che niente succedeva a Castlecross senza che lui lo venisse a sapere. Comunque, in quel momento per John quel viso e quella figura appartenevano a un perfetto sconosciuto, e il nome James Moriarty non aveva ancora trovato spazio nella breve lista delle persone che scatenavano il peggio di lui.

“Piacere.” Disse John tendendo la mano a sua volta, e ghignando quando l’altro la strinse. Anche se avesse incontrato quell’uomo in un altro momento, in momento in cui la sua mente non fosse stata annebbiata da sonno e paura, in cui non fosse dovuto accorrere al capezzale di qualcuno che necessitava delle sue abilità mediche, in cui tutto quanto fosse stato favorevole a un nuovo incontro, era sicuro che quella parola che aveva sputato più che pronunciato non avrebbe rispecchiato la realtà.

Dovete sapere che, fin dalla più tenera età, John non era mai stato capace di impedire che le sue emozioni traspirassero sul suo volto: era bravo a tenere la lingua fra i denti, a non dare voce a collera, tristezza e disappunto quando non era il caso; comunque, qualsiasi cosa transitasse anche temporaneamente nei suoi pensieri poteva essere letta lì, nell’arco delle sue sopracciglia, nel modo in cui arricciava inconsapevolmente il naso o in cui le sue pupille si dilatavano e le sue labbra si serravano.

Moriarty non identificò - o, se lo fece, non lo diede a vedere affatto - le palesi tracce di ostilità nei lineamenti di John, e apparentemente soddisfatto si decise a farsi da parte e lasciar passare lui e Harriet.

La scena che i due si trovarono davanti appena varcata la soglia dello studio avrebbe perfettamente potuto popolare un incubo.

C’erano quattro persone nella stanza, escludendo John e Harriet. Una sola candela, la cui fiammella tremolante minacciava di spegnersi da un momento all’altro, le illuminava di una luce quasi innaturale, dando loro l’apparenza di ombre, più che di persone - e se non le avesse sentite respirare e piangere, John si sarebbe convinto che di ombre effettivamente si trattava.

Nell’angolo più buio della stanza, Berenice Donovan - la fornaia del paese - sedeva sul pavimento, dondolando avanti e indietro e stringendo al petto una delle sue figlie -difficile stabilire quale delle due, Sally e Aggie erano gemelle. Chiunque fosse, comunque, aveva la sua controparte distesa sulla scrivania di John, tra due cornice -LE cornici- divelte e diversi fogli sparpagliati, tremante e avvolta in abiti laceri e sporchi di sangue. L’altro occupante della stanza, gettato malamente sul lettino, non si muoveva né sembrava respirare.

John sentì Harriet emettere un lieve singulto dietro di lui, e seppe per certo che l’assurda familiarità dell’immagine che si proponeva davanti ai loro occhi, viva e remota insieme come un dipinto ad olio, doveva averli colpiti entrambi con la medesima forza. Si sforzò di resistere alla tentazione di chiudere gli occhi, sapendo che dietro le sue palpebre chiuse lo avrebbero atteso i volti di Mary e dell’Altro; invece, si impose di mantenere il sangue freddo. Strinse i pugni, e respirò a pieni polmoni: l’istinto di uomo di medicina e armi calciò dentro di lui, e nel medesimo istante in cui la sua schiena si irrigidiva e i suoi muscoli si distendevano la calma lo avvolse come un manto.

“Harriet, occupati di Mrs. e Miss Donovan.” La sua voce era ferma, i suoi muscoli in tumulto. Coprì la distanza tra lui e il piccolo lavabo in tre passi. Il modo in cui si preparava per i suoi pazienti era meticoloso e preciso, mai frettoloso e impaziente, neppure nelle situazioni in cui la pressione era palpabile. Non appena si ritenne sufficientemente sterile, si affrettò al capezzale della giovane Donovan.

Registrò in fretta le ferite che poteva scorgere attraverso i logori stracci che la ricoprivano (“Tagli parzialmente cicatrizzati a piedi, caviglie e polpacci. Non sembrano profondi, ma sono sporchi e rossi: infetti. Tagli anche su braccia e mani: sembrano provocati dalla medesima cosa. Macchie di erba e terra: probabilmente si è tagliata camminando nella foresta.”). Con delicatezza, ripetendo cose senza senso per calmare la ragazza, le tastò collo e testa, alla ricerca di traumi. Non trovandone, si concentrò su ciò che, della ragazza, lo preoccupava di più: le enormi macchie di sangue rappreso che le circondavano gli occhi, serrati e incavati in una maniera sospetta.

Non dovrebbero essere così…” pensava John, “Non così vuoti. Dovrei poter vedere la rotondità del bulbo oculare… dovrei poterne distinguere i movimenti involontari dietro la palpebra.”

Zittì con una carezza il soffocato grido di aiuto della ragazza (il primo, da quando aveva messo piede nella stanza), mentre un nero sospetto si infiltrava nella sua mente. Esitò un istante: quando forzò gli occhi della ragazza ad aprirsi, si trovò a fissare solamente le due cavità che li avrebbero dovuti ospitare. Trattenne un grido.

“Harriet…” Deglutì: stavolta, la voce l’aveva tradito. “Harriet. Metti a bollire dell’acqua. Sterilizza uno degli aghi, uno qualunque. Fai in fretta.”

Ed esplosero le urla. Strazianti, acute grida di Banshee che scossero le mura e non lasciarono in John neppure una goccia di sangue. Le due donne ancora nella stanza: come aveva potuto scordarsi di loro?

“AGGIE! NO!”

John si voltò con una lentezza snervante, una mano stretta intorno al braccio della sua paziente, i denti piantati nella carne soffice delle sue guance, lo stesso atteggiamento di chi ha a che fare con un animale selvaggio e imprevedibile. Cercò di non tremare, quando Miss Donovan (“Sally… è Sally…”) gli si gettò tra le braccia in preda a una crisi isterica.

“Aggie! Aggie!”

“Calmatevi Miss Donovan… state calma, va tutto bene.”

“I suoi occhi…”

“Lo so, lo so. Ci penso io. HARRIET!” Sua sorella lo guardò, inerme: stava tenendo stretta Mrs. Donovan, che in quel momento aveva deciso di seguire la figlia in una crisi isterica. Aveva gli occhi lucidi e disperati. John sospirò, e afferrò Sally per le spalle, costringendola a guardarlo negli occhi.

“Miss Donovan, dovete ascoltarmi.” La sua voce era calma, rassicurante. Gli occhi della ragazza, prima annebbiati dal lutto, si focalizzarono su di lui. “È importante adesso che io mi prenda cura di vostra sorella….”

“Aggie…”

“…ed è importante che voi vi facciate forza. Vostra sorella sta molto male, ha bisogno di voi, e sentirvi urlare non le sarà di alcun giovamento…”

Sally lo guardò per un lungo istante. Lacrime bollenti le solcavano le guance, e tremava come una foglia tra le sue braccia. Dopo un momento in cui sembrò soppesare le parole di John, annuì debolmente.

“Bene.” Esclamò John, sollevato, “Harriet porterà voi e vostra madre in salotto. Un tè caldo vi calmerà un poco.”

Come se l’avesse invocata, Harriet apparve al suo fianco. Con una dolcezza che, davvero, non le apparteneva, sottrasse la ragazza alla stretta del fratello, cingendole le spalle con un braccio e sostenendola quando le sue ginocchia cedettero sotto il peso degli eventi di quella maledetta notte. John le osservò avviarsi verso il portone insieme, non rendendosi conto che un elemento mancava all’equazione fino a quando esso non comparve alle sue spalle, facendolo sobbalzare.

“Il mio Ford non era un buon uomo, Dottore. Ma non si meritava una fine tanto crudele.”

Si ritrovò a fissare gli occhi rossi e gonfi di pianto di Mrs. Donovan, e fece istintivamente un passo indietro. Quando aveva perso traccia della donna? L’ultima volta che l’aveva catturata con lo sguardo, era in ginocchio, in lacrime. Deglutì, registrando le parole della donna: a quanto pareva, il corpo che stava diventando progressivamente più freddo sul lettino dall’altra parte della stanza aveva finalmente un nome. Non che la cosa fosse a John di alcun conforto: sapere che la povera donna aveva dovuto affrontare due eventi così tragici in così poco tempo non poteva far altro che addolorarlo profondamente.

“Ne sono certo.” Disse alla donna, che intanto gli aveva afferrato una mano.

Mrs. Donovan sospirò. “Vi prego, non lasciate che anche la mia Aggie se ne vada…”

“Farò tutto il possibile.” la rassicurò, stringendo la sua mano per rafforzare la sua affermazione, “E se non sarà abbastanza, cercherà di fare anche di più.” tralasciò di dirle.

Alle sue parole, il volto di Mrs. Donovan si illuminò lievemente. Ogni ruga del suo volto scuro gridava tanto a gran voce il suo amore e il suo dolore che John ebbe difficoltà a sostenerne la vista. Con un rapido gesto del capo fece cenno a Harry, che lo guardava basita, di portare anche la povera Mrs. Donovan con sé, quando la donna lo sorprese con un gesto improvviso: sfruttando la presa che aveva sulla sua mano, lo strattono verso di sé, fino a sfiorare il suo orecchio con le sue labbra.

“Mia figlia ha giocato con qualcosa di pericoloso, Dottore. Vi auguro di non sperimentare quest’oscurità in tutta la vostra vita. Salvatela. Non lasciatela morire. Perché non sono sicura che per lei ci sia ancora qualcosa da attendere quando il suo cuore avrà smesso di battere.”

John non ebbe neppure il tempo di reagire a quel gesto che la donna si era già allontanata, raggiungendo Harriet e sua figlia e sparendo dietro la spessa porta di legno che le avrebbe condotte nel caldo e accogliente salotto. A lungo i suoi occhi rimasero immobilizzati su quella stessa porta, mentre la sua mente si crogiolava nella spiacevole sensazione di essersi lasciato in qualche modo sfuggire qualcosa di grave e di estremamente  importante; non necessariamente durante quella conversazione… ma in qualche momento cruciale della sua vita. Riuscì a riscuotersi soltanto quando si rese conto di aver qualcosa stretto nella mano, qualcosa che (ne fu sicuro non appena vi posò gli occhi sopra) non possedeva prima del suo incontro con ciò che restava della famiglia Donovan:

“Un… rosario…” sussurrò, rigirandosi fra le dita la catenella argentata da cui una croce pendeva pigramente.

Perché un rosario? Di nuovo, quella sensazione di aver smarrito un pezzo basilare di quell’enigma che era l’esistenza umana. Con un mugolio irritato, John si infilò distrattamente in tasca quel dono inaspettato, per poi affrettarsi verso il mobiletto in cui conservava tutti i suoi medicamenti e afferrare una boccetta semivuota e trasparente.

Il vetro era leggermente ingiallito, e l’etichetta aveva un’aria assai consunta. Su di essa, scritta con un inchiostro di una stranissima tonalità di verde, campeggiava la scritta ‘Morphin’. Lì accanto, avvolta in un panno di lino bianco, c’era una siringa.

John la impugnò come un’arma, scuotendo le spalle irrigidite dalla tensione, e si affrettò nuovamente al capezzale delle giovane, agonizzante Aggie Donovan. Non gettò neppure uno sguardo sul pover’uomo che, dietro di lui, fissava il soffitto con occhi ciechi, ignaro di ciò che lo circondava, irrigidito dalla morte. A parte costatare la sua dipartita, non c’era niente che avrebbe potuto fare per lui, mentre per Aggie… beh… per lo meno sarebbe stato in grado di salvarle la vita. Forse.

Si mise al lavoro immediatamente, lasciando che il surreale silenzio piombato sulla stanza non appena l’ago della siringa fu penetrato nella pelle della giovane lo cullasse.

Era ignaro che, lontano, nel fitto della palude, qualcuno stava osservando con interesse ogni sua mossa: non poteva sentire i suoi commenti riguardo il bastone che giaceva dimenticato nella sua camera da letto, o il modo in cui ripeteva che, sì, ciò che aveva detto sulla condizione della ragazza era esatto, ma si era limitato a vedere senza osservare realmente.

Non fu mai a conoscenza della risata di disgusto che sfuggì dalle labbra del suo osservatore quando la vedova di Ford Donovan aveva fatto scivolare quell’inutile pezzo di metallo tra le dita, né del modo in cui roteò gli occhi quando la questione ‘anima’ entrò nel discorso.

Eppure, per tutta la notte quegli occhi più pallidi di un cielo invernale rimasero con lui, mentre medicava i tagli e i graffi sugli arti di Aggie, mentre cuciva le sue palpebre per evitare future infezioni, mentre infine consegnava il corpo del defunto Mr. Donovan alle autorità del paese.

Gli ingranaggi del destino si erano messi in moto. E correvano, rapidi.

 

 

Note dell’autrice:

Wow. Quante recensioni meravigliose… non so come ringraziare tutti quanti voi!

Questo capitolo è totalmente scritto dal punto di vista del nostro Johnny boy… sì, amo far soffrire i personaggi di cui scrivo e no, non mi pento di nulla xD

Ps: presto farà la sua comparsa il fedelissimo teschietto che fa da soprammobile per il nostro Sherlock… anche se qui avrà un ruolo più “attivo” :) Ho bisogno di una dritta: in molte storie gli appioppano il nome Billy… ehm… io non sono molto amante di quel nome. Pensavo a qualcosa di più artistico ;) cosa ne dite? Vada per Billy o posso sfogare il mio estro?

 

   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Black_Lily_13