III.
Painful
Pioveva
quando la carrozza finalmente fermò la sua corsa di fronte alla loro casa. Una
pioggia sottile e gelida, come tanti piccoli aghi che penetravano attraverso i
vestiti e trasmettevano a John delicate scosse di brividi. Il cielo era così grigio
e la temperatura così bassa che John si chiedeva se avrebbe nevicato di nuovo,
o se l’acqua avrebbe spazzato via la neve che si era ammucchiata per strada.
Sperò vivamente che quello non fosse il caso: Hamish amava la neve, soprattutto
la parte in cui poteva raccoglierla in tante palle e lanciarla a sua zia,
mandandola su tutte le furie. Ripensandoci, anche John amava la neve.
“Eccoli!
Eccoli!”
John
guardò Harry rimbalzare da un piede all’altro, incapace di contenere
l’entusiasmo. Tremava leggermente per il freddo - nessuno dei due aveva avuto
la decenza di afferrare un cappotto prima di uscire, figurarsi un ombrello - e
indicava una figura nera che si avvicinava rapidamente in lontananza.
John
si congelò sul posto; prima che riprendesse il controllo di sé, aveva le
braccia piene di Hamish ed era circondato da due donne che urlavano come
ossesse, tanto erano felici di rivedersi.
“Papà!”
Dal
modo in cui il piccolo si ancorò a lui appena lo vide, tremando leggermente e
rischiando di farli cadere entrambi per lo slancio con cui lo raggiunse, John
capì che qualcosa durante il viaggio doveva averlo scosso, ma quando interrogò
il bambino lui gli rispose che non era successo niente. Questo, insieme alle
rassicurazioni di Clara, la quale affermava che il viaggio era stato tranquillo
se non noioso, gli fece accantonare momentaneamente la questione in favore
della necessità di scaricare i bagagli e sistemare gli ultimi dettagli
nell’appartamento…. anche se John non riusciva a togliersi dalla mente la
strana luce che era apparsa negli occhi di Hamish quando gli aveva domandato:
“Successo niente di interessante durante il viaggio?”.
Prima
che tutto fosse sistemato, erano ormai le dieci di sera. Avevano cenato
rapidamente con pollo freddo e verdure, preparati di gran fretta da Clara e
consumati ancor più velocemente tra un quadro da appendere (“E secondo il tuo
genio come dovrei fare a attaccare quella cosa? Ho un bastone, vedi? E se lo
lascio per prendere in mano la cornice il mio equilibrio ne sarà di certo
compromesso!”) e un tappeto da buttare (“Ci sono talmente tante tarme in quel
coso che è un mistero non stia camminando da solo, John!”), e nel momento
stesso in cui l’ultimo vestito era stato piazzato nell’armadio Clara e Harry
erano evase dall’appartamento per ‘esplorare il paese’, frase che, John era più
che sicuro visto l’entusiasmo con cui sua sorella l’aveva pronunciata, poteva
essere tradotta con ‘cercherò la bettola più economica di tutto Castlecross e
non me ne andrò fino a che Clara non mi trascinerà a casa per i capelli’.
A
quel punto, esclusa quella palla di pelo grigio di Gladstone che russava
beatamente davanti al camino sognando di masticare una bistecca, la casa era
tutta per John e Hamish.
Il
piccolo era, ovviamente, praticamente barricato nella sua stanza, stanco morto
per il viaggio ma decisamente troppo eccitato per decidersi a dormire. John lo
raggiunse con due tazze di thé fumanti e un piatto pieno di biscotti al
cioccolato (regalo di Mrs. Turner, consegnato con l’ordine di portare Hamish a
conoscerla al più presto), e si mise a sedere accanto a lui sul letto. Per la
prima volta da quando era arrivato, afferrando un biscotto, Hamish sorrise.
“Alloooora…”
iniziò John, riempiendosi la bocca di quel liquido bollente (latte, niente zucchero,
semplicemente perfetto) “…ti piace la tua nuova stanza?”
Masticando
golosamente l’ultimo boccone del biscotto, Hamish si guardò intorno, sporgendo
un po’ le labbra in avanti con aria pensosa, e John cercò guardare la stanza
attraverso i suoi occhi. Era piccola, più piccola di quella che suo figlio
occupava a Londra, ma d’altronde tutto l’appartamento lo era (e anche
l’affitto, tante grazie!). Poi con quella carta da parati a metà tra il grigio
e l’azzurro e quei mobili a misura di bambino, gli sembrava più che adatta ad
Hamish. Oh, e scavata nella parete c’era una nicchia abbastanza spaziosa da
poterci giocare: John ci avrebbe montato davanti una tenda, e Hamish avrebbe
potuto utilizzarla come fortino. Quando lui era piccolo, avrebbe dato chissà
cosa per avere una stanza come quella.
“Di
chi era questa stanza?”
L’innocente
domanda di Hamish lo scosse più di quanto avrebbe dovuto, perso com’era nelle
sue riflessioni.
Si
schiarì la voce. “Beh, probabilmente, visto che prima le pareti erano rosa,
della bambina della proprietaria. Mrs. Turner non ci ha detto granché.”
“La
proprietaria ha una figlia? Più grande o più piccola di me? E ora dov’è? Credi
che potremo giocare insieme?” L’entusiasmo di Hamish era palpabile. Sperava di
farsi dei nuovi amici al più presto, e John avrebbe davvero voluto aiutarlo, ma
non aveva realmente idea di che cosa rispondergli.
“Non
lo so, te l’ho detto. Ho solo parlato con la nostra affittuaria, non con la
padrona vera e propria.”
Hamish
lo guardò, un pizzico di delusione negli occhi. John sospirò. “Domani chiederò
a Mrs. Turner, promesso…”
“Grazie!”
Hamish
gli si gettò addosso, sorridendo felice. Un attimo dopo, due tazze da tè erano
a terra, un piatto relativamente nuovo era in frantumi e la moquette beige
mostrava due vistose macchie marroni nonché un sentiero di biscotti. Padre e
figlio rimasero basiti per un minuto buono, sul viso identiche espressioni di
stupore, le mani aperte per afferrare quello che a tutti gli effetti era già
caduto; quando riuscirono a muoversi di nuovo si guardarono negli occhi, blu
nel blu… e scoppiarono a ridere senza ritegno, fino a perdere il fiato. John
scompigliò i capelli di suo figlio con affetto, stringendolo in un abbraccio
soffocante mentre ancora erano entrambi scossi dalle risa.
Gli
era mancato.
Quanto
gli era mancato.
***
Avrebbe
dovuto presagire un risvolto così poco piacevole nella sua vita. Come sempre,
quando tutto sembra andare per il meglio e non si vedono nuvoloni
all’orizzonte, c’è un temporale che si sta preparando in sordina, pronto a
scuotere le fondamenta del tuo essere. Purtroppo per lui, John Watson confidò
in una fase positiva della sua sorte: i drammi che l’aspettavano non li vide
neppure arrivare.
Nell’arco
di un mese dal loro arrivo, gli Watson si erano assestati perfettamente nella
placida routine di Castlecross: era come se fossero appartenuti alla città da
sempre.
Hamish
si era affezionato immediatamente alla sua insegnate, Mrs. Ella Thompson, tanto
più quando essa gli aveva proposto di portare i suoi due figli (Carl e Conrad,
otto e dieci anni) a giocare con lui durante i fine settimana. In quanto a
John, presto la sua vita era piombata in quella confortante e deprimente
routine tipica di un medico di paese: giornate intere trascorse allo studio,
destreggiandosi tra nasi colanti, infezioni e ferite di vario genere (nulla di
grave, quell’inverno era stato misericordioso), serate spese a sonnecchiare in
poltrona cercando al contempo di prestare attenzione a Hamish, Gladstone e
tutta la baracca. Ciliegina sulla torta: domeniche mattina impegnate ad
ascoltare gli interminabili sermoni di Padre Stamford strizzato su una delle
panche di legno della Chiesa. Harriet e Clara litigavano spesso, e sua sorella
lo aiutava sempre meno alla clinica, ma nel compendio generale dei pro e dei
contro quella era una minuzia trascurabile.
Tuttavia,
ogni tanto, guardando fuori da finestra la nebbia che si alzava, mentre si
massaggiava la gamba intorpidita e lanciava quiete maledizioni all’umidità, John
si chiedeva se tutto il resto della sua vita sarebbe stato a quel modo. Se la
dose a lui assegnata di adrenalina e avventura si fosse esaurita, e fosse ora
condannato alla monotonia.
“Non mi succede mai niente…” rifletteva,
interrogandosi sulla natura del nodo in gola che nasceva insieme a quel
pensiero.
Dio,
se solo avesse saputo.
Cominciò
tutto il primo giorno di Primavera, quando una folla di paesani spaventati lo
tirò giù dal letto alle sei del mattino gridando alla tragedia. Fu Harriet in
realtà ad irrompere nella sua stanza, scuotendolo per le spalle e dicendogli
che c’era un emergenza.
Forse
per il panico nella voce di sua sorella, forse per il passaggio improvviso dal
sonno alla veglia, ma per pochi, terribili secondi John ebbe l’impressione di essere
di nuovo a Passo Maiwand. Non importava quanto il suo
cervello gli ripetesse che non era così, che era a miglia e miglia di distanza,
al sicuro nel suo letto: John poteva sentire distintamente il tonfo degli
stivali nella polvere, il sapore di sudore e sangue nella bocca, il crepitio
dei mortai, le grida… prima che riuscisse a mettere a fuoco la stanza intorno a
lui e a sentire sua sorella ripetere il suo nome per fargli riprendere il
contatto con la realtà, un morso di panico minacciò di serrargli la gola.
Cercò
di respirare.
“Harry?
C-che cosa c’è?”
“Ci
sono delle persone giù, Johnny. È successo qualcosa di grave, devi venire a
vedere, c’è bisogno di te.”
Boccheggiando,
John si catapultò fuori dalle coperte, afferrando al volo una vestaglia e
seguendo Harry fuori dalla stanza e giù, fino alla porta dello studio. Se
quello che vedeva era un minimo indicatore della gravità di quello che era successo,
erano veramente guai grossi: di fronte alla porta dello studio si era radunato
infatti quello che aveva l’aria di essere mezzo paese, una processione di facce
tirate e sconvolte che lo guardavano come se fosse l’unica soluzione a tutti i
loro problemi.
“Cosa
succede?” domandò a nessuno in particolare, iniziando a tirarsi su le maniche
penzolanti della vestaglia.
Ci
fu un rapido e doloroso scambio di sguardi, un brivido collettivo, il tutto nel
più completo silenzio. Poi, una figura si fece strada nella calca, prendendo
posto davanti a lui, ed esclamò con voce cantilenante:
“Credo
che sia meglio che lo vediate con i vostri occhi, Dottore.”
Se
John avesse dovuto descrivere in una parola l’uomo che aveva parlato,
probabilmente avrebbe scelto la parola serpente.
Fece un passo indietro, inclinando la testa e osservando lo sconosciuto con
sguardo caustico: era un uomo non troppo alto, eppure sembrava torreggiare
sugli altri cittadini con un’imponenza propria di un’epoca passata; se i suoi
occhi grandi, scuri e lucidi potevano creare un’illusione di innocenza e
infantilità (sempre se fosse stata ignorata la luce sinistra che li
illuminava), il modo in cui scopriva i denti nel sorridere aveva un che di
pericoloso… sembrava, appunto, un serpente pronto a scattare in avanti e
mordere la sua preda.
John
si rese conto di digrignare i denti. “Sarà meglio che vada allora.” Sibilò allo
sconosciuto, facendo un deciso passo in avanti con Harry alle calcagna. Ma
mentre le altre persone sgombrarono loro il passaggio immediatamente, l’uomo
dagli occhi scuri rimase immobile, davanti alla porta… fissando John in un modo
che gli fece venire i brividi.
“Non
credo di aver avuto il piacere di presentarmi.” Esclamò, inclinando la testa di
lato in maniera quasi innaturale e tendendo verso John una mano piena di
aspettative, “Il mio nome è James, James Moriarty.”
John
avrebbe imparato fin troppo presto a conoscere Moriarty, attraverso le
chiacchiere interminabili di Mrs. Turner nei pomeriggi in cui avrebbe deciso
che nella loro cucina i dolci le venivano più buoni (pallida scusa per poter
viziare Hamish ancora un po’) così come attraverso la sua propria esperienza. Avrebbe
scoperto che era una personalità molto influente in paese, che nelle sue vene
scorreva una quantità non meglio definita di sangue nobiliare e che niente
succedeva a Castlecross senza che lui lo venisse a sapere. Comunque, in quel
momento per John quel viso e quella figura appartenevano a un perfetto
sconosciuto, e il nome James Moriarty non aveva ancora trovato spazio nella
breve lista delle persone che scatenavano il peggio di lui.
“Piacere.”
Disse John tendendo la mano a sua volta, e ghignando quando l’altro la strinse.
Anche se avesse incontrato quell’uomo in un altro momento, in momento in cui la
sua mente non fosse stata annebbiata da sonno e paura, in cui non fosse dovuto
accorrere al capezzale di qualcuno che necessitava delle sue abilità mediche,
in cui tutto quanto fosse stato favorevole a un nuovo incontro, era sicuro che
quella parola che aveva sputato più che pronunciato non avrebbe rispecchiato la
realtà.
Dovete sapere che, fin dalla più tenera età,
John non era mai stato capace di impedire che le sue emozioni traspirassero sul
suo volto: era bravo a tenere la lingua fra i denti, a non dare voce a collera,
tristezza e disappunto quando non era il caso; comunque, qualsiasi cosa
transitasse anche temporaneamente nei suoi pensieri poteva essere letta lì,
nell’arco delle sue sopracciglia, nel modo in cui arricciava inconsapevolmente
il naso o in cui le sue pupille si dilatavano e le sue labbra si serravano.
Moriarty non identificò - o, se lo fece, non lo
diede a vedere affatto - le palesi tracce di ostilità nei lineamenti di John, e
apparentemente soddisfatto si decise a farsi da parte e lasciar passare lui e
Harriet.
La scena che i due si trovarono davanti appena
varcata la soglia dello studio avrebbe perfettamente potuto popolare un incubo.
C’erano
quattro persone nella stanza, escludendo John e Harriet. Una sola candela, la
cui fiammella tremolante minacciava di spegnersi da un momento all’altro, le
illuminava di una luce quasi innaturale, dando loro l’apparenza di ombre, più
che di persone - e se non le avesse sentite respirare e piangere, John si
sarebbe convinto che di ombre effettivamente si trattava.
Nell’angolo
più buio della stanza, Berenice Donovan - la fornaia del paese - sedeva sul
pavimento, dondolando avanti e indietro e stringendo al petto una delle sue figlie
-difficile stabilire quale delle due, Sally e Aggie erano gemelle. Chiunque
fosse, comunque, aveva la sua controparte distesa sulla scrivania di John, tra due
cornice -LE cornici- divelte e
diversi fogli sparpagliati, tremante e avvolta in abiti laceri e sporchi di
sangue. L’altro occupante della stanza, gettato malamente sul lettino, non si
muoveva né sembrava respirare.
John
sentì Harriet emettere un lieve singulto dietro di lui, e seppe per certo che
l’assurda familiarità dell’immagine che si proponeva davanti ai loro occhi,
viva e remota insieme come un dipinto ad olio, doveva averli colpiti entrambi
con la medesima forza. Si sforzò di resistere alla tentazione di chiudere gli
occhi, sapendo che dietro le sue palpebre chiuse lo avrebbero atteso i volti di
Mary e dell’Altro; invece, si impose di mantenere il sangue freddo. Strinse i
pugni, e respirò a pieni polmoni: l’istinto di uomo di medicina e armi calciò
dentro di lui, e nel medesimo istante in cui la sua schiena si irrigidiva e i
suoi muscoli si distendevano la calma lo avvolse come un manto.
“Harriet,
occupati di Mrs. e Miss Donovan.” La sua voce era ferma, i suoi muscoli in
tumulto. Coprì la distanza tra lui e il piccolo lavabo in tre passi. Il modo in
cui si preparava per i suoi pazienti era meticoloso e preciso, mai frettoloso e
impaziente, neppure nelle situazioni in cui la pressione era palpabile. Non
appena si ritenne sufficientemente sterile, si affrettò al capezzale della giovane
Donovan.
Registrò
in fretta le ferite che poteva scorgere attraverso i logori stracci che la
ricoprivano (“Tagli parzialmente
cicatrizzati a piedi, caviglie e polpacci. Non sembrano profondi, ma sono
sporchi e rossi: infetti. Tagli anche su braccia e mani: sembrano provocati
dalla medesima cosa. Macchie di erba e terra: probabilmente si è tagliata
camminando nella foresta.”). Con delicatezza, ripetendo cose senza senso
per calmare la ragazza, le tastò collo e testa, alla ricerca di traumi. Non
trovandone, si concentrò su ciò che, della ragazza, lo preoccupava di più: le
enormi macchie di sangue rappreso che le circondavano gli occhi, serrati e
incavati in una maniera sospetta.
“Non dovrebbero essere così…” pensava
John, “Non così vuoti. Dovrei poter
vedere la rotondità del bulbo oculare… dovrei poterne distinguere i movimenti
involontari dietro la palpebra.”
Zittì
con una carezza il soffocato grido di aiuto della ragazza (il primo, da quando
aveva messo piede nella stanza), mentre un nero sospetto si infiltrava nella
sua mente. Esitò un istante: quando forzò gli occhi della ragazza ad aprirsi,
si trovò a fissare solamente le due cavità che li avrebbero dovuti ospitare. Trattenne un
grido.
“Harriet…”
Deglutì: stavolta, la voce l’aveva tradito. “Harriet. Metti a bollire
dell’acqua. Sterilizza uno degli aghi, uno qualunque. Fai in fretta.”
Ed
esplosero le urla. Strazianti, acute grida di Banshee che scossero le mura e
non lasciarono in John neppure una goccia di sangue. Le due donne ancora nella stanza:
come aveva potuto scordarsi di loro?
“AGGIE!
NO!”
John
si voltò con una lentezza snervante, una mano stretta intorno al braccio della
sua paziente, i denti piantati nella carne soffice delle sue guance, lo stesso
atteggiamento di chi ha a che fare con un animale selvaggio e imprevedibile.
Cercò di non tremare, quando Miss Donovan (“Sally… è Sally…”) gli si gettò tra
le braccia in preda a una crisi isterica.
“Aggie!
Aggie!”
“Calmatevi
Miss Donovan… state calma, va tutto bene.”
“I
suoi occhi…”
“Lo
so, lo so. Ci penso io. HARRIET!” Sua sorella lo guardò, inerme: stava tenendo
stretta Mrs. Donovan, che in quel momento aveva deciso di seguire la figlia in
una crisi isterica. Aveva gli occhi lucidi e disperati. John sospirò, e afferrò
Sally per le spalle, costringendola a guardarlo negli occhi.
“Miss
Donovan, dovete ascoltarmi.” La sua voce era calma, rassicurante. Gli occhi
della ragazza, prima annebbiati dal lutto, si focalizzarono su di lui. “È
importante adesso che io mi prenda cura di vostra sorella….”
“Aggie…”
“…ed
è importante che voi vi facciate forza. Vostra sorella sta molto male, ha
bisogno di voi, e sentirvi urlare non le sarà di alcun giovamento…”
Sally
lo guardò per un lungo istante. Lacrime bollenti le solcavano le guance, e
tremava come una foglia tra le sue braccia. Dopo un momento in cui sembrò
soppesare le parole di John, annuì debolmente.
“Bene.”
Esclamò John, sollevato, “Harriet porterà voi e vostra madre in salotto. Un tè
caldo vi calmerà un poco.”
Come
se l’avesse invocata, Harriet apparve al suo fianco. Con una dolcezza che,
davvero, non le apparteneva, sottrasse la ragazza alla stretta del fratello, cingendole
le spalle con un braccio e sostenendola quando le sue ginocchia cedettero sotto
il peso degli eventi di quella maledetta notte. John le osservò avviarsi verso
il portone insieme, non rendendosi conto che un elemento mancava all’equazione
fino a quando esso non comparve alle sue spalle, facendolo sobbalzare.
“Il
mio Ford non era un buon uomo, Dottore. Ma non si meritava una fine tanto
crudele.”
Si
ritrovò a fissare gli occhi rossi e gonfi di pianto di Mrs. Donovan, e fece
istintivamente un passo indietro. Quando aveva perso traccia della donna?
L’ultima volta che l’aveva catturata con lo sguardo, era in ginocchio, in
lacrime. Deglutì, registrando le parole della donna: a quanto pareva, il corpo
che stava diventando progressivamente più freddo sul lettino dall’altra parte
della stanza aveva finalmente un nome. Non che la cosa fosse a John di alcun
conforto: sapere che la povera donna aveva dovuto affrontare due eventi così
tragici in così poco tempo non poteva far altro che addolorarlo profondamente.
“Ne
sono certo.” Disse alla donna, che intanto gli aveva afferrato una mano.
Mrs.
Donovan sospirò. “Vi prego, non lasciate che anche la mia Aggie se ne vada…”
“Farò
tutto il possibile.” la rassicurò, stringendo la sua mano per rafforzare la sua
affermazione, “E se non sarà abbastanza,
cercherà di fare anche di più.” tralasciò di dirle.
Alle
sue parole, il volto di Mrs. Donovan si illuminò lievemente. Ogni ruga del suo
volto scuro gridava tanto a gran voce il suo amore e il suo dolore che John
ebbe difficoltà a sostenerne la vista. Con un rapido gesto del capo fece cenno
a Harry, che lo guardava basita, di portare anche la povera Mrs. Donovan con
sé, quando la donna lo sorprese con un gesto improvviso: sfruttando la presa
che aveva sulla sua mano, lo strattono verso di sé, fino a sfiorare il suo
orecchio con le sue labbra.
“Mia
figlia ha giocato con qualcosa di pericoloso, Dottore. Vi auguro di non
sperimentare quest’oscurità in tutta la vostra vita. Salvatela. Non lasciatela
morire. Perché non sono sicura che per lei ci sia ancora qualcosa da attendere
quando il suo cuore avrà smesso di battere.”
John
non ebbe neppure il tempo di reagire a quel gesto che la donna si era già
allontanata, raggiungendo Harriet e sua figlia e sparendo dietro la spessa
porta di legno che le avrebbe condotte nel caldo e accogliente salotto. A lungo
i suoi occhi rimasero immobilizzati su quella stessa porta, mentre la sua mente
si crogiolava nella spiacevole sensazione di essersi lasciato in qualche modo
sfuggire qualcosa di grave e di estremamente
importante; non necessariamente durante quella conversazione… ma in
qualche momento cruciale della sua vita. Riuscì a riscuotersi soltanto quando
si rese conto di aver qualcosa stretto nella mano, qualcosa che (ne fu sicuro
non appena vi posò gli occhi sopra) non possedeva prima del suo incontro con
ciò che restava della famiglia Donovan:
“Un…
rosario…” sussurrò, rigirandosi fra le dita la catenella argentata da cui una
croce pendeva pigramente.
Perché
un rosario? Di nuovo, quella sensazione di aver smarrito un pezzo basilare di
quell’enigma che era l’esistenza umana. Con un mugolio irritato, John si infilò
distrattamente in tasca quel dono inaspettato, per poi affrettarsi verso il
mobiletto in cui conservava tutti i suoi medicamenti e afferrare una boccetta
semivuota e trasparente.
Il
vetro era leggermente ingiallito, e l’etichetta aveva un’aria assai consunta.
Su di essa, scritta con un inchiostro di una stranissima tonalità di verde,
campeggiava la scritta ‘Morphin’.
Lì accanto, avvolta in un panno di lino bianco, c’era una siringa.
John
la impugnò come un’arma, scuotendo le spalle irrigidite dalla tensione, e si
affrettò nuovamente al capezzale delle giovane, agonizzante Aggie Donovan. Non
gettò neppure uno sguardo sul pover’uomo che, dietro di lui, fissava il
soffitto con occhi ciechi, ignaro di ciò che lo circondava, irrigidito dalla
morte. A parte costatare la sua dipartita, non c’era niente che avrebbe potuto
fare per lui, mentre per Aggie… beh… per lo meno sarebbe stato in grado di
salvarle la vita. Forse.
Si
mise al lavoro immediatamente, lasciando che il surreale silenzio piombato
sulla stanza non appena l’ago della siringa fu penetrato nella pelle della
giovane lo cullasse.
Era
ignaro che, lontano, nel fitto della palude, qualcuno stava osservando con
interesse ogni sua mossa: non poteva sentire i suoi commenti riguardo il bastone
che giaceva dimenticato nella sua camera da letto, o il modo in cui ripeteva
che, sì, ciò che aveva detto sulla condizione della ragazza era esatto, ma si
era limitato a vedere senza osservare realmente.
Non
fu mai a conoscenza della risata di disgusto che sfuggì dalle labbra del suo
osservatore quando la vedova di Ford Donovan aveva fatto scivolare
quell’inutile pezzo di metallo tra le dita, né del modo in cui roteò gli occhi
quando la questione ‘anima’ entrò nel discorso.
Eppure,
per tutta la notte quegli occhi più pallidi di un cielo invernale rimasero con
lui, mentre medicava i tagli e i graffi sugli arti di Aggie, mentre cuciva le
sue palpebre per evitare future infezioni, mentre infine consegnava il corpo
del defunto Mr. Donovan alle autorità del paese.
Gli
ingranaggi del destino si erano messi in moto. E correvano, rapidi.
Note dell’autrice:
Wow. Quante recensioni
meravigliose… non so come ringraziare tutti quanti voi!
Questo capitolo è
totalmente scritto dal punto di vista del nostro Johnny boy… sì, amo far
soffrire i personaggi di cui scrivo e no, non mi pento di nulla xD
Ps: presto farà la sua comparsa
il fedelissimo teschietto che fa da soprammobile per
il nostro Sherlock… anche se qui avrà un ruolo più “attivo” :) Ho bisogno di
una dritta: in molte storie gli appioppano il nome Billy… ehm… io non sono molto
amante di quel nome. Pensavo a qualcosa di più artistico ;) cosa ne dite? Vada
per Billy o posso sfogare il mio estro?