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Autore: Dicembre    13/10/2008    2 recensioni
Inghilterra, 1347.
Di ritorno dalla battaglia di Crécy, un gruppo di sette mercenari è costretto a chiedere ospitalità ed aiuto a Lord Thurlow, noto per le sue abilità mediche. Qui si conoscono il Nero, capo dei mercenari, e Lord Aaron. Gravati da un passato che vorrebbero diverso, i due uomini s'avvicinano l'uno all'altro senza esserne consapevoli. Ne nasce un amore disperato che però non può sbocciare, nonostante Maria sia dalla loro parte. Un tradimento e una conseguente maledizione li poterà lontani, ma loro si ricorreranno nel tempo, fino ad approdare ai giorni nostri, dove però la maledizione non è ancora stata sconfitta. E' Lucifero infatti, a garantirne la validità, bramoso di avere nel suo regno l'anima di Aaron, un prescelto di Dio. Ma nulla avrebbe avuto inizio se non fosse esistita la gelosia di un mortale. E nulla avrebbe fine se la Madonna e Lucifero fossero davvero così diversi.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo Diciotto

- William -

 

 

Cleto volava alto nel cielo finalmente terso.

Di ritorno da Londra il falco sembrava particolarmente contento di ritrovare il suo padrone. Ma le notizie che portava non erano delle più incoraggianti.

Nella capitale avevano cominciato a parlare della strana malattia che aveva colpito i porti dell’Europa meridionale. Alcuni dicevano che l’avevano portata i mercanti dall’oriente, altri vociferavano che fosse la punizione di Dio per il periodo dissoluto che si stava vivendo. Di certo le vittime erano numerosissime e si temeva che presto la morte nera sarebbe arrivata anche sulle sponde inglesi. Qualche mercante poi, preso dal panico, aveva rallentato se non addirittura interrotto le rotte col Sud.

Si raccontava portasse febbre e brividi e uno o più bubboni neri sul corpo. Era fatale, pochi ne erano sopravvissuti. Tuttavia, nonostante la preoccupazione serpeggiasse nella capitale, alcuni erano convinti che la malattia si sarebbe arginata prima di arrivare sull’isola.

Lo stesso giorno in cui Cleto ritornò, arrivarono a fare visita al castello Thurlow la sorella di Aaron, Lady Davida, suo marito e i figli.

Stanchi per il lungo viaggio e per il tempo, che non era stato clemente, rimandarono alla sera i racconti ascoltati a Suffolk e a Londra. Passarono invece il pomeriggio a sistemarsi nelle stanze e riposarsi, in attesa della cena.

Lady Davida ricordava Lord Aaron nella fisionomia del viso e in qualche espressione di cordialità, tuttavia Nero trovò la donna assai più sgraziata del fratello. Il tempo era stato decisamente impietoso con lei, sebbene non l’avesse resa grassa, la donna aveva perso quelle forme sinuose tipiche della gioventù; i sei figli che aveva partorito, poi, erano stati inclementi coi suoi fianchi, ora larghi e circolari. Il marito invece, un uomo sulla quarantina, era di fisico piuttosto asciutto e con un’aria naturalmente sofferente. Gli occhi incavati e la pelle diafana gli davano un aspetto poco in salute, nonostante in realtà stesse benissimo.

Ma fu il primo dei figli di Lord Hamill a colpire Nero: gli ricordava in tutto e per tutto Lord Aaron. Nonostante i lineamenti più infantili, l’ovale, la forma degli occhi e la linea delle labbra erano identiche a quelle dello zio. Portava i capelli nello stesso modo, se non che apparivano leggermente scompigliati dopo un viaggio del genere. Gli occhi invece erano sì azzurri, ma di una diversa tonalità: quelli del ragazzino erano più scuri e cupi. Ciononostante possedevano quel guizzo e quel bagliore che spesso Nero s’era fermato ad osservare in Aaron. Così, quando il ragazzino si avvicinò al cavaliere, questi lo osservò attentamente.

“Scusatemi, signore, siete voi il Nero, giusto?” gli chiese il ragazzino

“E tu sei…?”

“William David Edward Hamill, signore, sono il nipote di Lord Aaron” Affermò felice.

“Sembra che tu ne sia particolarmente orgoglioso”
”O sì signore, molto” poi aggiunse, esitando leggermente “E’ vero che anche voi parlate con gli animali?”
”Non come vostro zio… Diciamo che riesco a comunicare con alcuni di loro”

“ E come fate?”

Nero sorrise “Non ho idea, l’ho sempre fatto fin da quando ero piccolo”
”Ah.” Esclamò deluso il ragazzo. “Quindi non pensate che possa imparare?”

“Non saprei, davvero. Non hai mai provato a chiederlo a Lord Aaron?”

“Sì” sospirò il biondino “Però non è stato molto esauriente. Non so se non voglia farmi capire, oppure pensi che sia troppo piccolo per farlo”
Nero annuì

“Ma ho già undici anni!” continuò William con veemenza “e…se non ora, quando?”
”Mi sembri impaziente…”
”Lo sono per forza! Se voglio essere un degno cavaliere nelle terre dei Thurlow. E ho paura che non ne sarò mai all’altezza se non conosco le lingue dei boschi” disse indicando le selve che si vedevano in lontananza “Oppure quelle dei cieli”
”Ma ho sentito dire” obiettò Nero “Che sei andato ad addestrarti fra i cadetti di sua maestà”

William sospirò “Per volere dei miei genitori… Non certo mio”
”Non sei contento di diventare un soldato?”

“Anche voi lo siete, e non fate parte delle guardie del Re, mi sbaglio?”

L’acume del ragazzo e la prontezza nella risposta piacquero subito a Nero.

“E’ vero, tuttavia non è certo una brutta posizione quella in cui ti trovi ora”

“Se mi accontentassi, non lo sarebbe” esclamò con forza “Ma io…voglio vivere qui!”
Quest’affermazione così decisa stupì Nero “Perché?”
”Perché voglio vivere con mio zio” rispose William come se fosse una cosa naturale “è l’unico in famiglia col quale mi trovo bene…Purtroppo però”aggiunse con un sospiro “posso venire qui così poco che…” cercò le parole “Mi chiedo se mi voglia qui con lui”.
”Perché non dovrebbe volerti?”

William si strinse nelle spalle  “Il fatto che mi chiami William di certo non aiuta…”

Nero non capì. Sapeva che il nome era lo stesso del fratello di Aaron, ma ebbe come l’impressione che ci fosse ben altro che preoccupasse il bambino, e non solo la paura di ricordare, col proprio nome, il fratello defunto.

“Voi non sapete di William?” ma poi si pentì di quella domanda “Eh no, immagino di no” disse ritornando sui suoi passi. “Scusatemi se vi sono sembrato inopportuno. E’ che da come ho sentito parlare di voi da Josephine e le altre ragazze, ho pensato che foste qui da molto tempo…”
Il ragazzino era in grave imbarazzo, nel timore di avere detto qualcosa che non avrebbe dovuto dire. Nonostante la curiosità, Nero cercò di metterlo a proprio agio: “Penso sinceramente che Lord Aaron sia contento di averti qui con lui”
”Lo credete davvero?” chiese William con gli occhi pieni di speranza “Vedete, quando io ne parlo a casa mi dicono che sono inopportuno. Che è sbagliato sperare di venire a vivere in una casa non propria”
”E cosa ci sarebbe di strano?”.

“Beh, mia madre dice sempre che questo posto è troppo isolato” spiegò stringendosi nelle spalle “E che prima o poi lo zio avrà un figlio, quindi non vorrà avermi fra i piedi”
Nero sorrise: “Io penso semplicemente che siano le parole di una madre preoccupata. Anche a me spesso dicevano che ero troppo irrequieto”.
”E avevano ragione?”
”Credo proprio di sì. Anche se io non ero il primogenito, quindi avevo meno responsabilità…”
”Non siete il maggiore? Che strano!” Aggrottò le sopracciglia “Mi pare che Josephine m’avesse detto così”

Nero rise “Ma quanto t’ha raccontato Josephine?”
”Oh, credo tutto quello che è venuta a sapere” sorrise William.

“Non ti sei andato a riposare come i tuoi genitori e i tuoi fratelli, come mai?”

“Per dormire ho tempo la notte! Ora volevo rivedere lo zio e volevo conoscere i cavalieri che passeranno con lui l’inverno”.

“Non capisco come tu faccia ad avere così tante energie!” disse una voce proveniente da dietro di loro.

“Zio Aaron” quasi fosse ancora un bimbo, William iniziò a corrergli incontro e l’abbracciò con foga

“Sono così felice di vedervi”
”Hai fatto un buon viaggio?”

Il ragazzino annuì.

Visti vicini, i due sembravano assomigliarsi ancora di più. Rimasero stretti nell’abbraccio per un attimo, poi William parlò: “Zio…” esitò “pensi…pensi che potrei venire a vivere qui dopo aver finito l’addestramento dai cadetti?”

Lord Aaron si stupì di quella domanda “Perchè me lo chiedi?”

“Io …Preferirei vivere qui, piuttosto che a casa. Suffolk è... estranea”

“Non capisco…”

Ma il ragazzino alzò le sopracciglia sconfitto “Non so bene. Non so dire esattamente cosa non vada. So semplicemente che vivo meglio qui. E che considero questa casa mia”

Casa. Come poteva negargli un posto quando quella, davvero, era casa sua? William aveva ereditato il carattere ed il temperamento del lato materno della sua famiglia. Di sangue Hamill, nel fisico o nel carattere, non pareva esserci traccia.

E Aaron non poté fare a meno di pensare al fratello.

Quando Davida aveva scelto quel nome per il proprio figlio, Aaron s’era stupito, convinto com’era che la sorella si fosse dimenticata del fratello morto. O che comunque, avesse accantonato il ricordo per poi non riprenderlo più in mano.

Si ricordò quando William aveva sei anni e Davida l’aveva portato con sé. Vederlo lì, in piedi nel salone dove così spesso aveva visto suo fratello gli aveva fatto male: William lo ricordava tantissimo. Ma gli era stato sufficiente poco, qualche ora, per distinguere il nipote dal fratello. Il giorno dopo aveva persino pensato che fosse impossibile scambiare l’uno per l’altro.

Ora, del ragazzino di fronte, solo il nome gli ricordava il fratello.

 “Sarebbe molto bello” disse in tono leggermente più basso del solito “se potessi stare qui”.
”E al nonno andrebbe bene?”
”Sì, ne sono certo” sorrise Aaron “sai che è scorbutico, ma il suo è solo brontolare”

Il ragazzo annuì felice.

Qualcuno bisbigliò: “Finalmente non potrai più dirmi di essere il moccioso del gruppo”

“Ecco vedi” rispose Luppolo “sei sempre il solito cafone con l’aria in testa”

William non conosceva le due persone che si stavano avvicinando, né capiva se stessero litigando davvero oppure solo bonariamente.

“E voi quando siete arrivati?”

Un’espressione greve comparve sul viso di Luppolo.

“Il ragazzo qui davanti a te s’è scolato più di un gallone di birra da solo, ieri notte”

Tutti spalancarono gli occhi, mentre Cencio li abbassò colpevole

“Mi sono perso, avevo sete…E poi, diciamola tutta, io non mi ricordo di aver bevuto un gallone di birra. Magari Luppolo lo dice solo per prendersi gioco di me!”
”Certo che non te lo ricordi, arrivato a metà, già non capivi più nulla!”
”Ma non siamo maleducati!” disse Cencio cercando un modo per cambiare discorso “non ci siamo ancora presentati.” Si rivolse così al ragazzino “Io sono Cencio e questo è il mio compagno Luppolo”
”Io sono William David Edward Hamill, nipote di Lord Aaron. Onorato di fare la vostra conoscenza. Anche voi siete cavalieri?”

Luppolo annuì

“Anch’io presto lo sarò” continuò William “ma appena finisco di studiare nei cadetti reali, vengo qui”
”Studi a Londra?” chiese Cencio entusiasta

“Sì” rispose però il ragazzo con ben poca verve

“Sembra però che non ti piaccia”

“Non è che non mi piaccia… E’ che non voglio che gli altri decidano per me dove devo vivere”.

Nero guardò quel ragazzino e i suoi capelli biondi disordinati che gli ricadevano sulle spalle. Aveva un aspetto infantile, gli occhi grandi e quell’imbarazzo tipico dei più piccoli quando stanno coi più grandi. Ma, nonostante la differenza d’età, capì così bene quel ragazzino che non poté fare altro che sorridere. Si ritrovò a pensare quale fortuna avesse quel bambino che, scontento della propria casa, poteva già indicarne una nuova. E si ritrovò, per un istante, ad invidiarlo.

Ma l’invidia fece subito posto ad un senso di gratitudine verso quelle terre.

In un inverno rigido erano state un approdo pieno di calore. Forse non era così importante se il conforto di un luogo dove vivere si fosse trovato a undici o a trent’anni, l’importante era saperlo riconoscere.

Nero non si accorse di averlo già fatto.

 

Chiaro era seduto nel saloncino delle armature e guardava il fuoco ardere nel camino.

Quella stanza, più di altre, gli ricordava casa sua. Anche lì, i suoi genitori, così come i loro avi, conservavano le armature e le armi dei personaggi più importanti della loro famiglia. Ne avevano di diverse, alcune ben tenute, altre usurate dal tempo.

Ogni volta che entrava in una di quelle stanze, da piccolo, si chiedeva se, prima o poi, anche la sua spada non sarebbe stata esposta con orgoglio.

Ora sapeva che la risposta sarebbe stata negativa, probabilmente. I suoi genitori non avevano mai accettato la fuga di Nero, tanto meno il fatto che Chiaro l’avesse seguito. Non avevano mai condiviso le idee del primo né vedevano di buon occhio la subordinazione del secondo.

Ma lui che cosa poteva farci?
Aveva parlato più e più volte col fratello, ma non aveva mai ottenuto nulla se non un secco rifiuto. E purtroppo, Chiaro sapeva ormai che una vita senza Nero non avrebbe avuto più alcun senso.

Quand’era piccolo quel ragazzino impertinente era tutto per lui: un fratello, un compagno di giochi, l’unico amico. Ora era diventato l’unica luce guida che Chiaro era in grado di seguire.

Tutto ciò che diceva, tutto ciò che faceva, Chiaro lo ripeteva e non era importante se in realtà volesse dire o fare qualcosa di diverso.

Chiaro s’era annullato, nel tentativo di essere ciò che lui più ammirava.

Nonostante questo gli comportasse dolore e frustrazione continua perché non otteneva dalla controparte quello che richiedeva. Mai.

Sospirò.

Sapeva che fare troppe pressioni a Nero era sbagliato, lo sapeva bene.

Il giorno prima era persino andato a scusarsi per il suo comportamento, e capiva che la sua reazione era stata, anche in quell’occasione, sbagliata. Nero doveva essere libero perché quello che lo rendeva forte, ai suoi occhi, era proprio la sua assoluta libertà. Né lui né altri avrebbero mai dovuto intaccarla. Sebbene difficile, si ripromise per l’ennesima volta di non farlo.

Si alzò dalla sedia e guardò fuori dalla finestra, appoggiato alla parete nella stessa maniera in cui Nero era solito appoggiarsi.

Si chiese che cosa sarebbe successo se avesse richiamato i suoi cavalieri e avesse chiesto loro di partire.

Sorrise divertito, nessuno l’avrebbe seguito, lui non era certo Nero. Ma ugualmente ne mimò qualche movenza, per gioco.

Un gioco che ormai durava da anni, come il suo disperato tentativo di somigliargli.

  
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