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Autore: Johanna_Reprise    14/10/2014    2 recensioni
A Sherlock non importa che gli altri la notino: gli basta sapere che è lì e buttarci un occhio di tanto in tanto, quando con le mani intrecciate sotto il mento si ferma per un attimo e sospira.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Premessa
Breve storia piuttosto sofferta e senza particolari pretese, suggeritami dai significati che può nascondere un soprammobile vivace e a suo modo misterioso come la matrioska. Spero soltanto di non aver reso Sherlock troppo OOC e di non aver partorito una roba che non sta né in cielo né in terra.
Fatemi sapere, se vi va, cosa ne pensate! Vi lascio alla lettura, a presto,
Giovanna



Matrioska

Sherlock l’ha trovata per caso al mercatino delle pulci: tronfia e sgargiante in mezzo ad un mucchio di altre cianfrusaglie.
Camminava assorto fissando un punto indefinito all’orizzonte quando i colori di quell’insolito soprammobile hanno fatto irruzione nel suo campo visivo.
A Sherlock non è mai piaciuto quel genere di ninnoli: li trova tremendamente di cattivo gusto, nonché inutili, sebbene la definizione di inutile per lui si adatti su per giù al 93% delle cose della vita.
Sherlock non sa perché non sia passato semplicemente oltre, o perché in quel momento abbia tirato fuori il portafogli e pagato dieci sterline per portarsi a casa un soprammobile – un soprammobile!- né cerca di spiegarsi il quarto d’ora – un prezioso quarto d’ora! – che ha impiegato, una volta giunto a casa, a fare tentativi, spostare scartoffie, a pensare all’angolino migliore dove avrebbe potuto mettere quell’affare.
Eppure, Sherlock ha trovato una sistemazione che gli sembra ottimale: in vista, ma non troppo, solo un occhio attento vi si soffermerebbe, camuffata per metà com’è dietro ad una pila di libri scompaginati.
A Sherlock non importa che gli altri la notino: gli basta sapere che è lì e buttarci un occhio di tanto in tanto, quando, con le mani intrecciate sotto al mento, si ferma per un attimo e sospira.

*

Quattro contadine paffute di legno perfettamente lavorate per inserirsi l’una nell’altra. Quattro bambole, ciascuna composta di due metà innestate l’una sull’altra. Ogni pezzo al suo posto, ognuno sigillato da un sorriso dipinto.

La più grande, quella che le contiene tutte, è la madre: il nostro primo incontro. 
Chiunque, qualsiasi persona con neppure la metà del mio quoziente intellettivo ti avrebbe inquadrato subito, senza che neanche ti sforzassi di aprire bocca: tutto rivelava di te piccoli ma eloquenti dettagli, il tuo sguardo scettico ma curioso, la tua andatura difettosa, i tuoi vestiti dimessi e spiegazzati, il vago sentore di guerra che ti portavi addosso come il persistente odore di naftalina sulle giacche degli anziani.

La seconda bambola, più piccola: la prima volta in cui ho dubitato.
Per una mente reattiva ed iperattiva come la mia, la consapevolezza di poter possedere la realtà attraverso capacità deduttive e lucidità intellettiva ha costituito una sicurezza, sempre, così come l’unica fede che io abbia coltivato per tutta la vita: quella che, eliminato l’impossibile, rimanga la verità.
Ma il tuo giubbotto imbottito di esplosivo, no.
Quella era la verità che non sapevo accettare, capriccio di un nemico per il quale non ero pronto, motivo di una paura che non avevo mai conosciuto: la paura di perderti.


La terza, ancora più piccola: la prima volta in cui sono morto.
Mi dispiace, John. Dopo tutto questo tempo, maledizione, continuo a rimproverarmelo. Penso a come sarebbe potuta andare diversamente: capita che passi ore a gambe incrociate sul divano a valutare i pro e i contro del mio gesto, costruendo nella maniera più razionale possibile tutti i ventisette modi – sì, per ora ne ho contati ventisette- in cui avrei potuto gestire diversamente l’affare della mia morte, in maniera da aumentare il rischio per me, ma diminuire il dolore per te. A volte mi perdo e allora afferro il violino e suono poche note stridenti, altre volte mi addormento, e, con me, per qualche ora, dorme anche l'emicrania.

La quarta, la più piccola di tutte, il seme: la seconda volta in cui sono morto.
Mi capita ancora di svegliarmi di soprassalto, con la fronte imperlata di sudore e le mani fredde.
Mi capita sempre, da quando sei morto, John.
Mi capita e allora mi alzo, col fiato corto, e scalzo percorro a passi veloci il salotto, mi siedo a braccia conserte e un attimo dopo mi tiro su di scatto, apro una pagina a caso di un libro a caso preso dal mucchio per poi buttarlo via, vado al frigo ma non prendo nulla, riempio la tazza con il tè ormai freddo della sera prima ma dimentico di berlo.

Mi capita e allora l’occhio mi cade sulla matrioska: la osservo a lungo prima di afferrarla tra il pollice e l’indice, posarla sul tavolino, aprirne ogni pezzo per poi rimontarli tra loro, posandoli in ordine di grandezza davanti a me come una scaletta colorata che va dalla madre al seme.
Il seme non è composto da due metà. È un pezzo unico, non può essere estratto se non aprendo tutte le altre. È il cuore della matrioska: lo si può cavare fuori o tener celato. Liberarlo o seppellirlo.
Il mio, John, lo tengo sepolto da qualche parte.

 I don't have friends; I've just had one.


 
  
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