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Autore: Thiliol    18/10/2014    2 recensioni
Galmoth non ha più nulla, nè onore, nè titolo, nè ricchezze, nulla se non la sua piccola nave da contrabbandiere e Laer, la figlia del suo migliore amico morto anni prima. Laer è giovane e ha la testardaggine di una ragazzina, ma non ha mai smesso di sognare i sogni di quando era bambina.
E poi c'è Silevril, il figlio di un amore morboso che vorrebbe solo andare per mare e che invece sconvolgerà le vite di entrambi.
Galmoth osservò con sguardo inquisitore l'elfo che gli stava di fronte:era nato e cresciuto a Dol Amroth e lì non era raro imbattersi nei Priminati e conoscerne anche qualcuno, ma quel Silevril aveva qualcosa di diverso, come un fuoco latente in lui. Non era come i Silvani che sempre più spesso salpavano da lì, diretti alle loro terre al di là del mare, riusciva a percepirlo chiaramente: riconosceva un elfo di alto lignaggio, quando lo vedeva.
< Dici che vuoi metterti al mio servizio? >
< Desidero solo il mare e la compagnia degli uomini, inoltre, la tua nave è meravigliosa. >
Galmoth rise, strofinandosi il mento sporco di barba non rasata.
< Sei un elfo ben strano, Silevril. >
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Finrod Felagund, Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Narn o Alatariel ar Aeglos'
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Hold your breath and count to ten (parte seconda)





Forlond inspirò fumo dalla lunga pipa che tringeva tra le labbra, in silenzio, l'espressione corrucciata e le braccia conserte.

Non riusciva a trarre piacere nemmeno dalle sue migliori foglie di Pianilungone, quelle che teneva gelosamente conservate e che tirava fuori solo nelle occasioni speciali. E quella, maledizione, era un'occasione speciale.

Corrente a sfavore, vento contrario, e la maledettissima Cair Andros proprio davanti a lui, con le sue rocce aguzze che si stagliavano minacciose sul pelo dell'acqua a ricordargli quanto l'Anduin fosse infido. Lui detestava il fiume con tutto se stesso.

Una ciotola di zuppa bollente entrò di prepotenza nel suo campo visivo, facendolo sobbalzare. Conn era accanto a lui e gli porgeva quella che aveva tutta l'aria di essere la miglior zuppa dell'intera carriera culinaria di quel dannato Rohirrim, eppure Forlond al solo guardarla si sentiva rivoltare le budella. Grugnì.

< No, no, no, > disse Conn, con il suo accento leggermente strascicato, < devi mangiare, mellon nin. >

< Preferisco fumare, > ribatté Forlond, e per dare maggiore enfasi alle sue parole sbuffò altro fumo proprio nella ciotola che l'altro gli porgeva.

< Sei un uomo che porta rancore, lo sai vero? >

< Certo che lo so, e toglimi questa dannata brodaglia da sotto il naso! > Allontanò bruscamente il braccio del Rohirrim, rovesciando il contenuto della ciotola sul ponte della Stella Marina.

< Quel bastardo di Galmoth se ne va in giro a tramare colpi di stato e mi manda a Nord per proteggere la sua bagnarola, come se fossi un mozzo qualsiasi! >

Conn scosse la testa, poggiò di lato il piatto ormai mezzo vuoto, e gli si avvicinò, appoggiandosi con disinvoltura sulla sua spalla.

< Sì, e ti paga anche un bel gruzzolo per questo, altrimenti te ne saresti già andato da un pezzo. Ho torto, Forlond? >

Il mercenariò ghignò e un dente d'oro luccicò nel suo sorriso storto.

< Sei un maledetto bastardo di uno stalliere, Conn. >

Il volto del cuoco era aperto e gioviale, sotto i lunghi capelli biondi.

< Lo so, mellon nin, anche io ti voglio bene. >

Gli tolse la pipa di bocca e diede una lunga tirata a sua volta.

< Hai sempre il tabacco migliore, devo dartene atto. >

Forlond glie la strappò via dalle mani, riprendendosela con uno strattone, ma stava sorridendo.

< Bastardo e ladro anche. >

Conn rise.






Il problema di Galmoth in quel momento è che avrebbe davvero desiderato sapere cose passava per la testa di quell'elfo, ma cercare di decifrare cosa stesse pensando o provando era praticamente impossibile.

Aveva sì l'aspetto di uno a cui avrebbbe fatto bene una bella dormita, ma per il resto avrebbe potuto essere una statua di marmo per quanto poco espressivo risultava.

Era una cosa che lo faceva impazzire, e che allo stesso tempo lo stuzzicava come non mai. Decise che avrebbe svelato il mistero Silevril, perchè altrimenti avrebbe pensato a Laer e non era sicuro di potercela fare.

Poi notò la ragazzina. Non più di una bambina, dieci anni al massimo, piccola e sporca, che li osservava intensamente senza nemmeno tentare di nascondersi.

< Sì > disse Silevril, < ci sta guardando e si sta chiedendo se siamo davvero noi. >

< Leggi anche nel pensiero ora, elfo? >

Silevril non si prese nemmeno la briga di rispondere, lo liquidò semplicemente con un sorrisetto dei suoi, uno di quelli che volevano dire tutto e niente e che Galmoth ormai associava al suo amico.

< Bene allora > disse infine, prendendo l'iniziativa, < dato che non vuoi dirmi nulla faremo a modo mio. >

Si avvicinò alla ragazzina a passo deciso, ma quella non si mosse nè distolse lo sguardo.

< Cos'hai da guardare, piccola? > le chiese.

Lei alzò un sopracciglio.

< Sto cercando un uomo di nome Galmoth e mi avevano detto che era accompagnato da un elfo che si dava delle arie. Non ho visto molti elfi io, cercavo di capire se lui si dava delle arie oppure no. >

< E cos'hai concluso? >

< Non lo so, non ne sono sicura. >

< Ma io sono Galmoth. >

La ragazzina lo fissò per alcuni secondi, studiandolo dalla testa ai piedi, poi lanciò un rapido sguardo a Silevril che, nel frattempo, si era avvicinato a loro.

< Seguitemi > disse infine e, voltandosi senza aggiungere altro, iniziò a camminare a passo svelto verso la parte più interna della Cittadella.

Galmoth la seguì, Silevril al suo fianco, con il cappuccio sul capo, silenzioso.

Minas Tirith, nel suo cerchio più alto, era come un labirinto di viottoli stretti, fatti di pietra, dove il sole sembrava non riuscire a penetrare mai del tutto.

Salirono e scesero molte scale, passarono sotto archi di pietra bianca, attraversarono piccoli cortili su cui si affacciavano molte case, fino a che non si ritrovarono davanti a un portoncino di legno massiccio.

La ragazzina bussò tre volte di seguito e poi una quarta, più lentamente. Attesero, il silenzio che faceva risaltare le voci della città che sembravano echeggiare per quelle viuzze.

E poi, finalmente, la porta si aprì e loro entrarono in quella che era, senza ombra di dubbio, una casa da ricchi.

< Seguitemi > disse gentilmente un giovane valletto, vestito finemente di velluto bianco. Li precedette lungo un corridoio illuminato da molti candelieri, fino a una porta elegante. Il giovane entrò, lasciandoli soli in quella che sembrava un'anticamera.

Galmoth si voltò e vide gli occhi dell'elfo saettare in ogni direzione, come se tentasse freneticamente di memorizzare ogni particolare dei muri, del soffitto, del pavimento. Aveva le labbra serrate.

< Stai calmo > gli intimò in un sibilo, < sei teso come un maledetto arco! >

Silevril lo fissò.

< Niente è come mi ero aspettato, > disse, < questa casa è... > si interruppe di scatto appena il valletto tornò.

< La signora vi aspetta, > annunciò, tenendo la porta aperta.

Galmoth entrò per primo e per poco non gli venne un colpo.




Silevril trattenne il respiro, sentendosi quasi mancare.

La donna che gli stava di fronte era bellissima, di una bellezza che non aveva mai visto e che non credeva possibile: non era eterea e dura, come sua madre, non era solare come Laer, non era nemmeno prorompente come quella che aveva notato in molte delle donne di Dol Amroth... l'unica parola che gli veniva in mente era ammaliante.

Non riusciva a smettere di guardarla, non riusciva a respirare, si sentiva la bocca secca come se non bevesse da giorni, poteva solo guardarla, guardare i boccoli rossi che le incorniciavano il viso, come una fiamma dotata di vita propria, lunghi e morbidi, e la pelle diafana, gli occhi verdissimi e le labbra piene e leggermente rosate.

Teneva tra le braccia un gatto dal pelo folto e candido, che faceva pigramente le fusa con il muso poggiato su una sua spalla.

< Benvenuti, miei ospiti, sono Rùth > disse con un sorriso, e la sua voce era dolce come miele e melodiosa, < ero ansiosa di incontrarvi. Galmoth, ho sentito a lungo parlare di te e credo che non potrei essere più felice di vederti finalmente di persona. > Rùth sorrise e Silevril vide la mascella di Galmoth irrigidirsi.

Poi lei si voltò dalla sua parte e gli si avvicinò.

< Silevril, un nome insolito, portartore di grande speranza o grande dolore. Lunghe e sanguinose guerre sono state combattute per i Gioielli di Fëanor, > appoggò una piccola mano affusolata sul suo braccio e gli parve rovente, < sono sicura che con una tua sola parola tu potresti scatenare una guerra ancora più violenta... ah, se solo lo volessi potresti avere chiunque ai tuoi piedi e governare sui cuori della gente. >

Improvvisamente si allontanò da lui e si mise a sedere su un divano, spostando il gatto dalla spalla al grembo, senza che l'animale smettesse mai di fare le fusa.

< Ma vi starete chiedendo perchè siete qui. > Il tono di voce di Rùth cambiò e divenne pratico, più adulto e meno sognante. Silevril si sentì come risvegliato da un incantesimo.

< Immagino che tu sia il contatto di Baran in Città, > disse Galmoth. La sua voce era roca e, Silevril lo sapeva, anche lui era ancora scosso dallo stato di trance in cui la bellezza della loro ospite li aveva gettati.

< Baran è un amico leale, un uomo a cui affiderei la mia stessa vita, > disse lei, < lui ha rubato il Tesoro di Ulmo per me ed io glie lo renderò... dopo aver raggiunto i miei scopi, naturalmente. >

< I tuoi scopi? Rovesciare il Re, favorire gli interessi dei mercanti di Erba Pipa, non mi sembra il genere di scopi che una signora possa coltivare. >

Rùth rise, un suono cristallino che riaccese l'incantesimo. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso e riusciva a sentire il respiro affannoso di Galmoth accanto a lui, a indicare che anche il suo Capitano faceva molta fatica a concentrarsi su qualcosa che non fosse la straordinaria bellezza della donna.

< Il denaro è uno scopo comune a molti, mio adorato Galmoth, ed io non sono che una portavoce di un movimento più ampio. >

< Perchè siamo qui, mia signora? > si intromise Silevril. Si sentiva inquieto, completamente abbagliato da quella donna tanto da dubitare di se stesso. Voleva andare via da quella stanza, allontanarsi da lei, anche se il solo pensiero gli provocava una sofferenza quasi fisica.

Il gatto bianco aveva preso a fissarli con i suoi occhi blu, come se volesse scrutare le loro anime.

< Il Tesoro di Ulmo non è più in mio possesso, ormai, ma è stato rubato. Aihmé, non conosco l'identità del ladro, ma molte opposte fazioni si contendono il suo potere. >

< Governa il Mare e governerai Gondor > mormorò Galmoth.

< Esatto. > Ruth rivolse il più dolce dei sorrisi verso di loro. < Torna con il Tesoro, Gamoth, portalo da me ed io te ne farò dono, che tu possa restituirlo al Principe in cambio delle tue navi. E tu, Silevril, qualsiasi cosa brami il tuo cuore io ti darò. Tornate da me con il Tesoro di Ulmo e il nuovo Re di Gondor vi ricompenserà. >

Rùth tacque e la porta alle loro spalle si aprì quando entrò lo stesso valletto di prima.

< A presto, miei Signori. >

Era un congedo. Silevril seguì Galmoth nel corridoio da cui erano venuti, una sensazione di perdita che si faceva largo in lui. Gli sembrava di aver perduto qualcosa di inestimabile, ora che Rùth era da un'altra parte, e i suoi sensi di colpa tornarono a farsi sentire, così come lo sgradevole seppur violento desiderio di rivedere Finrod Felagund. Per lunghi e meravigliosi minuti non c'era stato altro che Rùth nella sua mente, i capelli rossi e la curva del viso, la sensualità delle sue labbra. Eppure era come se non riuscisse a ricordare esattamente come fosse fatta, nonostante non fossero passati che pochi istanti da quando aveva lasciato la sua presenza.

Uscirono in strada e si incamminarono fianco a fianco verso la piazza dell'Albero Bianco, in silenzio.

Infine fu Galmoth a parlare per primo.

< Cosa ne pensi, elfo? >

< Non so cosa dirti, Capitano, se non che lei era bellissima. >

< Bellissima? > Sbuffò, < non ho mai visto niente di più bello in tutta la mia miserabile vita, ma mi ha spaventato a morte. >

Silevril alzò un sopracciglio, ma non rispose.

< Ho i brividi al solo pensiero, non so come puoi startene lì tutto impettito, ma come accidenti vi fabbricano a voi, eh elfo? >

< Ho provato inquietudine, > disse infine, lentamente, < in un certo senso mi ha ricordato... no, lascia perdere. >

< Chi? >

< Nessuno. >

No, non era assolutamente così, era solo che lui non riusciva a dissociare l'idea di bellezza da lei, non riusciva a vedre nessuna donna senza che il pensiero di lei gli si palesasse alla mente. Se ne vergognava, ma non riusciva ad evitarlo, una delle troppe maledizioni che sua madre scagliava su chi aveva avuto a che fare con lei.

Era però innegabile che non si era mai sentito così inquieto eppure in pace come con Alatariel e ora con Rùth... che incantesimo era mai questo?

< Mi sembrava di essere incatenato a lei, > ricordò, < qualsiasi cosa mi avesse chiesto, io l'avrei fatta. >

< E continuava ad accarezzare quel gatto. Te lo giuro, elfo, non ho mai voluto qualcosa come essere quel dannatissimo gatto. >

Già, si disse Silevril, mentre un brivido gli attraversava la schiena, facendogli drizzare tutti i peli del corpo, poi c'era il gatto.




Laer si sforzò di non battere i denti, invano. Tremava da capo a piedi, dopo essere stata ancora una volta immersa nell'acqua gelida, senza che riuscisse a smettere. Il freddo le penetrava fin dentro le ossa, ma doveva assolutamente smettere di battere i denti.

Non sapeva da quanto tempo fosse lì, potevano essere ore, giorni, persino mesi, tutto ciò che poteva dire era che i suoi rapitori erano venuti tre volte e ogni loro visita aveva significato acqua gelida e un bruciore intenso ai polmoni che dubitava sarebbe mai scomparso, ma di una cosa era sicura, ovvero che non c'erano mai stati rumori.

Quando sentì il clangore delle spade e voci confuse, Laer trattenne il fiato. Potevano essere nemici, potevano essere i suoi salvatori, poteva accaderle di tutto, ma non aveva scelta. Quando era bambina e la morte di suo padre le dava gli incubi, Galmoth le accarezzava i capelli e le diceva di contare fino a dieci, che in quel lasso di tempo ogni cosa sarebbe andata a posto. Quando era bambina funzionava e, dopo dieci secondi, i suoi incubi sparivano nell'oblio.

Ora era adulta, ma non si era mai sentita tanto indifesa e impaurita prima, come se fosse ancora quella bambina in preda agli incubi.

Laer trattenne il fiato, chiuse gli occhi, e iniziò a contare.















Eccomi! Salve a tutti, se è rimasto qualcuno a seguire questa storia (sì dai, qualche numerino nella casella delle visite ci sta) si inizia a entrare nel vivo (e finalmente, direte voi), mi è persino tornata la voglia i scrivere, cosa non da poco dato che è più o meno un anno che ero psicologicamente bloccata. Magari fatevi sentire, che qualche motivazione in più non fa mai male, che ne dite?


Thiliol

   
 
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