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Autore: Yuliya    19/10/2014    4 recensioni
“E’ in questo modo che intendi preservare la pace, Principessa? Minacciando con un coltello i tuoi vecchi compagni di avventure?”
Bellamy l’aveva trovata.
[Bellarke]
Genere: Guerra, Sentimentale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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I dreamed a dream




 
 
 
 
 





 
Il peggior modo di sentire la mancanza di qualcuno è esserci seduto accanto e sapere che non l’avrai mai.












Questa one shot Bellarke nasce da una What If?
Si piazza tra l’episodio 1x10/1x11 e continua con uno sviluppo totalmente differente da quello intrapreso dalla serie. Clarke è riuscita a fuggire dal covo di Anya, ma convinta che avesse ucciso Finn non è mai tonata al campo. E’ scappata lontano, afflitta dalle sue colpe e consapevole di essere l’unica causa della morte del ragazzo –che non ama, ma per cui provava un insano affetto-. In realtà Finn non è morto, è a sua volta sopravvissuto credendo che fosse stata Clarke tra i due a pagare con la vita. Tornato al campo ha raccontato a tutti quanto successo e si è rassegnato davanti all’evidenza dei fatti. Ma Bellamy non ha mai creduto fino in fondo alla sua versione, e una volta sconfitti i terresti in una terribile battaglia che ha visto spargimenti di sangue da ambedue gli schieramenti, ha deciso di cercarla per tutto il continente. Perché ne è convinto: Clarke non può essere morta. E non importa quanto tempo impiegherà a trovarla, lui riuscirà nel suo proposito. A costo di morire nell’impresa.

















 
Le fronde delle piante vibravano sotto i pesanti colpi della frescura notturna, e la luna che i poeti del passato avevano decantato in celebri versi, si oscurò come se fosse stata affondata in una vasca nera.
La ragazza spalancò di scatto gli occhi non appena il suo udito sviluppato percepì un tenue rumore di foglie secche provenire da dietro un cespuglio. La radura, che era stata testimone di un religioso silenzio, si animò all’improvviso.
La mano corse fulminea alla cintola e si ritrovò a premere la lama scheggiata e incrostata di sangue rappreso contro la gola di un uomo. Ad un rapido studio dimostrava ventitré anni, con i muscoli allenati da soldato che guizzavano da sotto la maglia logora. Non un cenno di barba gli invecchiava i lineamenti spigolosi, solo le iridi scure e rapaci come le bolge dell’inferno attestavano tutta la maturità e il dolore che covava nel profondo. Le ricordavano una persona costretta a crescere in fretta.
Proprio per merito di uno sguardo più approfondito riconobbe all’istante il portatore di quelle iridi, e visibilmente tremante abbassò l’arma.
Non lo vedeva da un tempo che sembrava infinito, un tempo odoroso di pagine ingiallite consumate troppo rapidamente.
“E’ in questo modo che intendi preservare la pace, Principessa? Minacciando con un coltello i tuoi vecchi compagni di avventure?”
Bellamy l’aveva trovata.

 
***


 
“Mi devi parecchie spiegazioni.”
Clarke non poté che annuire. “Lo so.”
Gli fece cenno di seguirla attraverso un sentiero pietroso, avviandosi a passo spedito fino ad una casupola costruita con fango e legno al limitare di un piccolo villaggio rurale.
L’esterno dell’abitazione era spartano e quasi completamente spoglio ad eccezione di un fucile da caccia che faceva da monito sopra lo stipite della porta. Crani consumati dal tempo e dalle intemperie risplendevano in modo sinistro dal recinto che racchiudeva la dimora.
“Carini, li hai uccisi tu?” domando imperturbabile Bellamy,  indicando i teschi. Non c’era accusa nella sua voce, solo mera curiosità. Era invidiabile la sua discrezione, e nemmeno la morte probabilmente avrebbe potuto strapparlo da quella fredda e calcolatrice calma che lo caratterizzava.
Una risata rauca le fuoriuscì dalla gola. “No, me li hanno prestati gli abitanti del villaggio. E’ loro tradizione esporre i crani degli antenati. Dicono che tengano lontano i pericoli e il malocchio.”
Il ragazzo ascoltò con distaccato interesse e non diede segno di voler approfondire il discorso. Bellamy era da sempre stato un soggetto interessante, un misto di durezza e puro menefreghismo. Ma in quel momento le parve più sereno senza la mascella resa indurita dalla rabbia.
Clarke lo fece accomodare su una poltrona consunta, reduce di numerose bombe nucleari, e perciò ancora più preziosa di altri cimeli che aveva raccattato nei mesi in cui aveva girovagato per il paese senza una meta precisa.
“Perché te ne sei andata?”
“Perché sei venuto a cercarmi?”
Parlarono in contemporanea, coprendosi a vicenda. In qualche maniera riuscirono a capirsi lo stesso. Un silenzio imbarazzante scese nell’abitacolo, presto rotto dal tono sicuro di Clarke.
“Che ne dici di affrontare un discorso per volta?” propose increspando le labbra in un tenue sorriso.
Bellamy acconsentì all’istante. “Continui tutt’ora ad essere la più razionale tra i due.”
Si ritrovò a fissarlo attentamente, fino a imprimere ancora una volta nella memoria quel volto che aveva potuto tracciare solo tramite ricordi sfocati e al più confusi. Non rammentava ad esempio che una cicatrice gli deturpasse il sopracciglio destro. Era rimarginata e un leggero strato bianco la ricopriva, dunque non doveva essere recente.
Bellamy dovette captare la direzione del suo sguardo e prontamente rispose: “Trofeo di guerra.”
Clarke non diede a vedere quanto l’avesse lasciata basita la semplicità con cui affrontava una tematica talmente delicata per lei.
Guerra.
E dire che la sua fuga era stata causata da quella semplice parola. E codardia, le suggeriva la coscienza. Ma soprattutto guerra.
Clarke aveva sperimentato sulla pelle cosa significasse guidare al pari di un generale i propri uomini verso morte certa, e proprio per i sensi di colpa e la mortificazione verso se stessa aveva deciso di recidere ogni legame con quella vita che la riconduceva all’Arca.
Era stato più facile e naturale di quanto credesse farsi accogliere e poi ambientarsi tra i nativi. Da tempo cercavano invano una guaritrice, e Clarke, con il giusto carisma e la voglia di redimersi dagli sbagli del passato, era riuscita a conquistare la fiducia anche di quei tradizionisti e scettici che si erano inizialmente opposti alla sua permanenza.
Il vero e unico problema era stato fingere di dimenticare chi fosse stata Clarke Griffin prima dell’arrivo, la propria identità e tutti i problemi che ne derivavano.
Ma dopotutto, continuava a ripetersi con convinzione, era libera di agire come meglio credeva per raggiungere la pace interiore.
Le avevano insegnato ad avvalersi del libero arbitrio, ed era stata certa che i 100 –o quelli che ne rimanevano- presto si sarebbero dimenticati dell’intransigente leader del campo. O almeno così credeva prima dell’irruzione di Bellamy nella sua nuova vita.
“Sarà un'intensa chiacchierata” borbottò, sporgendosi con il busto verso il suo interlocutore.
 

 
***



“Ti ho cercata ovunque” le svelò un giorno, il terzo della sua permanenza presso il piccolo villaggio marittimo. Quella mattina, sotto un cielo plumbeo,  soffiava un vento forte e tagliente tanto da mozzare il respiro.
“Non era facile trovarmi. Speravo non ci riusciste.”
“Hai ragione: non era facile, ma nemmeno impossibile.”
Quella fu una delle prime volte in cui Clarke gli sorrise mossa da convinzione e gratitudine. Non era una smorfia, e nemmeno un sorriso tirato di quelli che aveva esibito per convenienza nei giorni precedenti.
“Sei cambiato, Bellamy.”
In risposta la guardò indecifrabile per un lasso di tempo che le parve infinito, accasciati sulla sabbia con i piedi che affondavano nel terriccio scuro. Un tempo doveva essere stata soffice e tendente a sfumature chiare, ma dopo tutte le devastazioni che l’avevano colpita era già tanto che fosse sopravvissuta. Era mutata e creava fastidio per certi aspetti al contatto con la tenera pelle nuda. Ma esisteva ancora.
“Anche tu sei cambiata. Non sei più una principessa” ammise ponendo bruscamente fine al loro contatto visivo, prima di tornare a rimirare l’oceano anch’esso scuro quanto un’oleosa pozza di melma.

 

***



 
“Come stanno gli altri?” gli domandò il quinto giorno.
Bellamy raddrizzò la testa dalla piccola ciotola su cui un brodino artigianale si agitava in modo sinistro. Clarke, pensò divertito, aveva numerose doti positive, ma di certo quelle culinarie non ne facevano parte.
“Direi bene, per quanto risvegliarsi con un arto amputato o senza un occhio possa esserlo. Io sono stato tra i più fortunati” rispose, alludendo alla cicatrice.
Clarke non trovò la forza di ribattere. Era stanca di scusarsi per il suo errore, stanca di sentire ancora una volta il peso della frustrazione e dei propri sbagli gravarle come un macigno sullo stomaco. Proprio da quelli aveva deciso di fuggire, e Bellamy inconsapevolmente non stava facendo altro che farli emergere. La sua stessa presenza a capotavola le sembrava sbagliata.
Ti sei allontanata anche per Bellamy, ricordi?
Ricordi quella sensazione sgradevole che ti provocavano i suoi occhi scuri e guardinghi ogni volta che entravano in collisione con i tuoi?
Silenzio rotto solo dal raschiare delle posate sul fondo delle ciotole. Bellamy dopo lunghi minuti riprese parola, anche se a fatica, come se quanto stesse per sibilare lo turbasse. Gli occhi sembravano lanciare lampi, o forse era solo colpa dei giochi di luce provocati dalle fumose candele addensate al centro della tavola. Però sulle dita che si contraevano nervose non aveva scusanti. L’argomento lo agitava.
“Finn era convinto che fossi morta. Non ti ha mai vista uscire viva dalle grinfie di Anya, e anche in seguito alla loro sconfitta non abbiamo rinvenuto il tuo corpo. Credeva che i terresti l’avessero bruciato per provare la loro supremazia.”
Clarke deglutì, a disagio. Il pensiero di Finn era una ferita antica ormai, ma il leggero fastidio come di schegge che le pizzicavano l’addome l’avvertiva tutt’ora. “E tu?”
Bellamy puntò i gomiti ai lati della tavola, appoggiò il mento sui palmi delle mani e la guardò inumidendosi le labbra. C’era un che di lascivo nel modo in cui la stava scrutando, e un brivido freddo le percorse la schiena.
Io ho sempre saputo che eri viva, Clarke Griffin. Non ne ho mai dubitato. Non saresti mai morta da martire, sei sempre stata destinata a qualcosa di più grande, a un disegno migliore.”
Una sola lacrima le sfuggì dal controllo, infrangendosi dentro alla zuppa. Il piatto era ormai raffreddato, ma a nessuno dei due importava.
Si affrettò a ricomporsi, schiarendosi la voce prima di aprir bocca. Ringraziò la stanza immersa nella penombra, altrimenti Bellamy avrebbe colto l’istante di debolezza e l’effetto che avevano sortito le sue parole. “Da quando sei diventato così saggio?”
Bellamy sorrise arrogante. Le era mancato il suo sguardo, un connubio di ironia, impassibilità e provocazione.
“Da quando ho scoperto cos’è la filosofia, una scienza davvero illuminante. Non capisco perché sull’Arca non l’abbiano mai nominata. C’è un tale Platone che ha espresso delle teorie notevoli per l'epoca.”
“Se capissi a cosa ti stai riferendo, potrei darti ragione” gli fece presente.
“Abbiamo tempo, Clarke” si limitò a risponderle con voce roca e più baritonale del solito. “Tutto il tempo.”


 
***
 

 
Trascorsero i mesi e con essi le bufere aumentarono. In quel villaggio che sorgeva sulla riviera, sembravano essere amplificate. In lontananza, nelle poche giornate senza nebbia, si potevano già scorgere le cime delle montagne incappucciate di bianco.
L’inverno era alle porte.
“Non si preoccuperanno gli altri vedendo che non ritorni al campo?”
Bellamy sospirò, e una nuvoletta di condensa si formò dal suo alito. “Il campo è stato distrutto.”
Clarke arrestò i piedi per terra. “Cosa?” sbottò, chiudendosi maggiormente nella spessa pelliccia.
“La battaglia è stata un incubo, non sono rimaste che macerie carbonizzate di ciò che avevamo accumulato.”
“Ma…era la nostra casa!” esclamò con foga crescente.
“Eppure non hai pensato due volte prima di abbandonarla.”
Clarke spalancò la bocca, scioccata. Era vero, e per questo faceva male. Proprio quando stava iniziando a credere di poter ricominciare ad affrontare il passato, Bellamy se ne usciva con una delle sue solite frecciatine intrise di veleno.
Era come se fosse risentito con lei. Per cosa, non riusciva lontanamente ad immaginarlo.
“Scusa” mormorò, appoggiandole una mano sulla spalla, in un gesto che era solito fare in passato.
E quell’aroma antico le invase ancora una volta le narici, unendosi alla fragranza muschiata di Bellamy.


 
***



 
Clarke riconobbe quanto effettivamente Bellamy fosse bello solo in quell’occasione.
Bello non nel senso estetico, ma di una bellezza più profonda e intima.
Calda, a tratti.
Bellamy era ovunque. Nella terra e nello spazio, eppure il mondo faticava a riconoscerlo.
“Ti prego, dimmi qual è il problema” lo implorò, osservando il petto alzarsi ed abbassarsi a un ritmo forsennato sotto la maglietta sgualcita. Poteva scandire senza fatica anche da quella distanza l’andatura del cuore di Bellamy.
Gli occhi liquidi del ragazzo erano puntati verso la parete sverniciata, smarriti in chissà quali elucubrazioni.
“Perché non mi hai avvisato prima di andartene?” Era la prima volta che sottolineava -senza che fosse lei a richiederlo- la sua diretta persona in un discorso. “Ti avrei capita, se non addirittura appoggiata. Ma avevo il diritto di saperlo dopo tutto ciò che abbiamo condiviso!”
Dopo tutto ciò che abbiamo condiviso. Dopo quella strana relazione che avevano intrecciato, più solida dell’amicizia ma allo stesso tempo troppo debole per definirsi affetto.
Clarke scosse la testa, affranta. “Avevo paura che se ti avessi rivisto, non avrei più trovato il coraggio di partire.”
Un silenzio dolce e denso di significati calò tra di loro, come se fossero racchiusi in una morbida bolla.
Non ci fu bisogno di aggiungere altro.
 

 ***
 
 


Una mattina Clarke si destò prima del solito, quando l’alba ancora faticava a sorgere e spodestare la notte. All’interno della casupola regnava il buio totale, e fu  costretta a spalancare la porta per far filtrare un po’ di luce. Solo in quell’istante si accorse dell’assenza di Bellamy nel giaciglio che l’aveva ospitato per sei lunghi mesi. Era freddo, come se non fosse stato scaldato da anima viva per ore, e anche la sacca che portava sempre con sé era scomparsa.
Si precipitò fuori, correndo per il villaggio scalza e con solo una misera vestaglia a proteggerla dal vento.
Lo cercò in riva al mare, nel piccolo porto e infine al limitare del bosco.
Di Bellamy non c’era traccia, come se quella parentesi tra di loro non fosse mai esistita.
Se n’era andato senza avvisarla, probabilmente per sempre.
E l’unica cosa a cui riuscì a pensare, prima di cadere in ginocchio sull’erbetta bagnata di rugiada, fu alla sua ammissione: “Avevo paura che se ti avessi rivisto, non avrei più trovato il coraggio di partire.”
Era l’unica speranza a cui poteva affidarsi, per poterlo forse nuovamente incontrare un giorno.

 

***

 
 
Il dolore uccide il tempo.
Di quella notte e dei crepuscoli che seguirono, le rimasero solo frammenti simili ad allucinazioni.
Ma Clarke ricominciò. Con fatica vi riuscì, e trasse soddisfazione nel narrare ogni sera una favola diversa ai bambini del villaggio.
“…E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.”
Clarke terminò il racconto tra i gridolini di protesta generali.
Marcus, un ragazzino brillante e particolarmente sveglio rispetto i coetanei, batté i piedi per terra. Aveva il viso ricoperto da fuliggine, segno che fosse sottoposto a un rito di iniziazione per diventare uomo.
“Ne vogliamo un’altra!”
Clarke si sciolse in un ampio sorriso. “Oggi è la giornata dedicata a Giovanni, domandi vi leggerò di un altro apostolo” promise, dando un buffetto scherzoso al giovane guerriero.
Si alzò dal tronco che aveva adibito a panca, salutando e augurando buona notte ai bambini. Attese che si allontanassero prima di spegnere con una secchiata d’acqua le alte fiamme del focolare.
Si perse un istante nel rimirare i grappoli che formavano le stelle, brillanti più del solito. Era come se volessero trasmetterle l’arrivo di una ventata di cambiamento.
Scosse la testa, affrettandosi a ritrovare al buio il sentiero principale. Camminò immersa in un quieto silenzio per una manciata di minuti, finché non riconobbe uno scalpiccio di zoccoli in lontananza. Si voltò di scatto, udendo il rumore avanzare sempre più nitidamente, fino a interrompersi una volta giunto dinnanzi al cancelletto che segnava il confine del suo orto con quello dei vicini.
Dovette socchiudere gli occhi per scorgere nella sagoma tremolante un uomo in sella ad un cavallo.
Vide scendere con estrema lentezza la figura, e accennare un passo nella sua direzione.
Clarke di istinto estrasse il pugnale, ma non appena quella fragranza le penetrò le narici, l’arma le scivolò dalle mani andando a conficcarsi nel terriccio.
Non aveva bisogno di vederlo in viso per riconoscere a chi appartenesse l’odore.
“Sei tornato” sussurrò, prima di gettarsi di impulso tra le sue forti braccia. Per un istante ebbe il timore che la respingesse, poiché i loro gesti di affetto non erano mai andati oltre ad una semplice pacca sulla spalla; ma presto i suoi dubbi vennero cancellati dalle mani di Bellamy che la stringevano con disperazione, fino ad affondare nella sua pelle. Non le procuravano dolore, era anzi la sensazione più bella e viva che provasse da tempo.
Bellamy non rispose. Si limitò a cullarla per tutta la notte.
 

 
***


 
 
Il giorno seguente avvenne la svolta.
La baciò. Dopo che l’aveva persa, ritrovata e infine abbandonata, Bellamy la baciò.
La baciò imprimendo in quel gesto tutto il rancore e il dolore che provava. La baciò con i denti, facendo scontrare le loro fronti e i loro nasi in una muta battaglia, e per la prima volta Clarke riuscì a comprendere le emozioni contrastanti che il ragazzo nascondeva dentro di sé: un vortice di desolazione e solitudine.
Si staccò dalla sua bocca confusa e ansante.
“Non eri indifferente alle passioni, di qualunque tipo fossero?”
Gli occhi ardevano nei suoi, e le regalò il sorriso più bello che avesse mai visto.  “No, Clarke. Sono pur sempre umano.”
Deglutì. Passarono i secondi.
“Cosa significa…questo?”
“Significa che non posso assicurarti di amarti, o almeno non nel modo in cui intende la gente. Posso però garantirti che non ho mai provato una sensazione simile per nessuna.”
“Confortante” mugolò Clarke, reclinando la testa all’indietro, con ancora le mani affondate nei suoi capelli. Era indecisa se scoppiare a ridere o a piangere. Nel dubbio fece entrambe le cose, ma un’occhiata gelida di Bellamy le fece capire che non aveva ancora finito.
“Devi sapere una cosa, meriti di saperla. Me ne sono andato perché sentivo di essere diventato troppo dipendente da te, e come avrai capito non sono abituato a dipendere dagli altri. La lontananza mi ha portato a riflettere su quanto fossi cambiato, e sul fatto che dovessi smetterla una volta per tutte di comportarmi da leader indifferente verso il mondo. Non ci sono più minacce e compagni da difendere che ci impediscano di essere per davvero noi stessi. Siamo liberi, Clarke.” Capì così che a Bellamy serviva solo qualcosa in cui credere, e una volta trovato vi si sarebbe aggrappato per sempre. “E da essere libero voglio trascorrere ogni momento al tuo fianco. Il mio cuore è sempre stato una tomba, ma tu, tu sei riuscita a risvegliarlo.”
Clarke non gli lasciò il tempo necessario ad aggiungere altro, che si ritrovò di nuovo a baciarlo, questa volta se possibile con maggiore trasporto.
Lacrime di gioia, di speranza si mescolarono alla polvere della terra che le ricopriva le gote, immediatamente scacciate dalle abili dita di Bellamy che esigevano di conoscere ogni singola parte del suo corpo.
Erano dovuti sopravvivere senza l’Arca, vincere i terresti e anche i pericoli della natura per trovare un appiglio di felicità.
Ma dopo infiniti dubbi e smarrimenti erano insieme, pronti ad accogliere gli ostacoli che si sarebbero frapposti sul loro cammino.
 
 





 
 
Angolo Autrice:

da giorni rimugino su come strutturare una piccola storia sui miei Bellarke, e una volta trovato il tempo ho deciso di gettare tutte le parole che mi frullavano in testa. Sì, un macello in pratica.
E’ semplice questa os e non ha grandi pretese se non soddisfare la sottoscritta e magari –dico, magari- soddisfare pure chi legge.
Ho letto varie fan fiction su questo fandom, e devo dire che ne ho trovate tantissime di interessanti. Non so se è per il fatto che siete tutti bravissimi a scrivere o se è il telefilm che tira fuori il meglio di ognuno di noi –probabile lol- ma ci sono dei piccoli gioiellini. E proprio trovare tante storie di livello alto mi ha dato il giusto impulso necessario per mettermi in gioco, con una Bellarke spero diversa. Non volevo scrivere la solita storia sentita e risentita, allora ho cambiato qualche elemento della trama originale, unendo una Clarke spero IC a un Bellamy un po’ filosofo. Ma solo io dai primi episodi ho visto un crescendo del suo carattere? E’ partito come il solito sbruffone figo, per finire con una personalità davvero affascinante. E poi è buono dentro, dai, ormai non inganna più nessuno.
Non saprei che aggiungere, spero che quanto ho scritto sia stato abbastanza chiaro. Sono volutamente rimasta un po’ sul vago per quanto riguarda il villaggio che ospita Clarke e cosa abbia fatto durante i mesi di assenza di Bellamy. Così la fantasia può scorrere libera quanto vuole.
Spero vi sia piaciuta, magari fatemi sapere come l’avete trovata e se era una cagata pazzesca ahahaha.
Ah, c’è una citazione riferita all’apostolo Giovanni. Clarke racconta il suo vangelo come se fosse una fiaba, ed è reso apposta per far avvertire come con il passare del tempo cambi anche la visione del mondo: una religione che diventa una favola, proprio come noi adesso raccontiamo i miti che riguardano Zeus.
Bacioni!



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