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Autore: Benio Hanamura    19/10/2014    1 recensioni
[Mademoiselle Anne/Haikara-san ga toru]
“Il mio nome è Kichiji Hananoya… o meglio, questo è il mio nome dall’età di 15 anni. Fino ad allora ero Tsukiko, la sesta figlia della famiglia Yamada...”
Nel manga originale della Yamato è detto ben poco del passato della geisha Kichiji, che fa la sua prima comparsa come causa inconsapevole di gelosia della protagonista Benio nei confronti del fidanzato Shinobu, ma che poi si rivelerà essere solo una sua ottima amica e stringerà una sincera amicizia con Benio stessa, per poi segnare anche l’esistenza del padre di lei, vedovo inconsolabile da tanti anni.
Per chiarire l’equivoco e per spiegarle quale rapporto c’è davvero fra lei e Shinobu, Kichiji racconta la sua storia del suo passato a Benio, dei motivi per cui è diventata geisha, abbandonando suo malgrado il suo villaggio quando era ancora una bambina, ma soprattutto del suo unico vero amore, un amore sofferto e tormentato messo a dura prova da uno spietato destino…
Dato che questa storia è solo accennata nel manga, ma mi è piaciuta e mi ha commossa molto, ho deciso di provare ad approfondirla e di proporvela come fanfiction!
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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   Era molto strano un cielo improvvisamente così cupo, e nulla lo aveva lasciato prevedere nei giorni precedenti così pieni di sole. Ma non avevo tempo per rimurginare su questo: mi aspettava una giornata molto impegnativa, fra le lezioni da impartire a Shitaji ed ad altre apprendiste più giovani e l’ozashiki previsto per quella sera; così subito dopo colazione mi premurai di far recapitare i miei più sentiti auguri agli sposi e mi avviai verso la scuola.
   La mattinata trascorse velocemente senza particolari problemi: ero molto soddisfatta delle mie piccole allieve, con le quali avevo stabilito un ottimo rapporto, ed occuparmi di loro per quanto faticoso era sempre un toccasana per me.
   Dopo averle congedate mi ritirai al piano di sopra a riposare prima di iniziare gli impegni del pomeriggio. Guardando l’orologio mi resi conto che ormai la cerimonia doveva essere iniziata. Inevitabilmente il mio pensiero tornò a Koji-san, come ormai era per me inevitabile ogni volta che venivo a conoscenza di una giovane coppia che si apprestava ad iniziare una vita insieme, come non abbiamo mai potuto fare noi due. Mi sentivo un po’ stanca, e consapevole di avere ancora un po’ di tempo prima del pranzo mi assopii nella tranquillità della mia stanza: fu così che lo rividi. Inizialmente Koji mi sorrise come sempre, ma poi aprì le braccia, mostrando una vistosa ferita sanguinante al petto, e mi guardò con immensa tristezza: “Tsukiko, cosa fai qui? Non devi raggiungermi così presto, vattene!!!” mi disse. Quindi si portò una mano al petto come per arrestare (anche se invano!) l’emorragia, mi voltò le spalle e prese lentamente ad allontanarsi, lasciando dietro di sé vistose tracce di sangue.
   “NO, KOJI, NON ANDARTENE, NON VOGLIO CHE MI LASCI DI NUOVO SOLA!” lo implorai io, e prima che potessi corrergli dietro per raggiungerlo mi svegliai di soprassalto, rendendomi conto di aver urlato davvero quelle parole.
   Mi rialzai a stento, perché tutto attorno a me tremava, ed anche solo stare in piedi era difficile. Da sotto sentii le urla delle altre abitanti dell’okiya e le sentii che scappavano all’esterno, così mi affrettai a raggiungerle. Fu allora che realizzai quella che si rivelò essere una delle peggiori catastrofi naturali che avessero colpito il mio paese, quella che passò alla storia come “il grande terremoto del Kanto”.  Arrivai sulla soglia, ma un altro impulso irrefrenabile mi spinse dentro: non avevo portato con me la tavoletta mortuaria di Koji, dovevo assolutamente recuperarla!
   Invano la okasan, che mi aveva visto solo per un attimo apparire sulla soglia, mi gridò di fermarmi: non la sentii, come non sentivo più i pianti delle mie compagne e nemmeno le urla di terrore e di disperazione crescente provenire dall’esterno. Un incendio stava divampando dalla cucina, da cui le domestiche erano fuggite abbandonando all’improvviso la preparazione del pranzo, ma incoscientemente non me ne curai  e cercai  la via per tornare in camera mia. Recuperai immediatamente la tavoletta e così mi sentii sicura di essere riuscita senza problemi  nel mio intento; invece appena ebbi imboccato di nuovo le scale un’immensa ventata di fumo mi soffocò e mi fece venir meno. Ciò nonostante barcollando raggiunsi il piano terra, ma poi tutto girò attorno a me e non capii più nulla.
   Quanto rimasi incosciente? Qualche secondo, qualche minuto? Avrebbe potuto essere anche per ore, non potevo certo saperlo, ma una cosa fu subito certa: in quel momento provai un assurdo senso di sicurezza, che divenne più intenso quando sentii attorno a me un calore che non proveniva dal fuoco ed un contatto che mai avrei potuto confondere, quello con la stoffa di un’uniforme. Credo ormai di essere capace anche di averne individuato un odore caratteristico, inconfondibile fra mille! Nella confusione di quegli istanti lunghi quanto ore e con la vista annebbiata dal fumo che si diffondeva sempre più non distinguevo il viso del mio misterioso salvatore, colui che mi aveva sostenuta nella mia caduta e con sicurezza mi guidava verso l’uscita, ma per il mio cuore non poteva essere che lui: il mio Koji, che in quel mio insolito assopimento di quella mattina mi era apparso soltanto per mettermi in guardia dal mortale pericolo che stavo correndo e che con la forza del suo amore aveva addirittura superato le barriere del sogno pur di salvarmi! Come tanti anni prima aveva fatto nella tormenta di neve adesso, stavolta fra le fiamme…
   “Koji-san…” mormorai, chiamandolo nuovamente in maniera formale proprio come allora, quando ero ancora una bimba ingenua che mai avrebbe osato sperare tanto, che quel meraviglioso giovane non solo mi avrebbe considerata come un’amica ma avrebbe finito con l’amarmi più di chiunque altro, al punto da poter sognare una vita insieme. Per un attimo mi era parso di essere tornata a quella gelida notte al nostro villaggio.
   “Fatevi forza, signorina Kichiji, ci siamo quasi!”
   Quella voce mi riportò del tutto alla realtà. Ovviamente non si trattava di Koji, che per quanto il suo amore per me potesse essere stato forte ed intenso non avrebbe mai potuto proteggermi fino a quel punto, in una maniera simile a quella che avevo letto in un romantico quanto fantasioso romanzo; e nemmeno Shinobu, del quale non sarei certo stata il primo pensiero in quella situazione, anche se quel giorno fosse stato di riposo o se avesse potuto per qualche motivo venir meno ai suoi doveri militari!
   “Maggiore Hanamura, siete voi, ma come… Sì, ce la faccio!” gli risposi, ritrovando di colpo le forze.
   Mai avrei pensato che potesse trattarsi di lui, quell’uomo che pur essendo sempre stato gentile nei miei confronti, non era più nel fiore degli anni e quindi non era più portato per certe imprese; eppure ciò nonostante in qualche modo era giunto all’okiya per salvarmi, dimostrando non solo quel coraggio che deve contraddistinguere ogni buon militare, ma anche una notevole forza nel reggere un pannello in fiamme che rischiava per crollarci addosso. Ed infatti appena lo lasciò andare il pannello crollò, e poco dopo, miracolosamente appena fummo usciti, crollò l’okiya.
   Riuscendo finalmente a respirare avevo le lacrime agli occhi, e non solo per il fumo, infatti mi sciolsi in un pianto liberatorio fra le braccia del mio salvatore, mentre la okasan, Kikyoko, Miyuki e tutte le altre si fecero attorno a noi. Grazie al cielo eravamo tutte salve, anche se non potemmo fare altro che guardare il nostro okiya ridursi ad un mucchio di macerie. Quanti ricordi vi erano racchiusi, praticamente quelli di metà della mia vita! Lì era del tutto terminata la mia infanzia, ero diventata una donna, avevo condiviso tutto con tante altre giovani nella mia stessa situazione confortandoci a vicenda nei momenti difficili ed avevo scoperto il vero amore! Sicuramente quei sentimenti che mi invasero il cuore erano condivisi dalle mie compagne, ancora di più dalla okasan, che vi era stata apprendista lei stessa prima di arrivare all’apice della carriera e prima di formare tutte noi ed altre prima di noi, alcune di loro andate lontano perché riscattate, altre trasferite per vari motivi altrove, altre ancora strappate prematuramente alla vita come la mia cara Aiko… Prima di allora non avevo mai visto quell’espressione di sconforto negli occhi della mia okasan, che si era sempre mostrata forte e decisa anche nei momenti più tristi, ed aveva sempre trovato una buona parola per tutte noi, dolce quasi come una vera madre.
   “Ricominceremo tutto daccapo, okasan, non dobbiamo scoraggiarci, potrete contare sempre su di noi!” la consolò Kiyoko abbracciandola, e lei annuì commossa.
   Era lo spirito giusto, rafforzato del resto dal fatto che tante, troppe persone in città ed anche in altri luoghi della regione condividevano la nostra sorte. Anzi, noi eravamo state fortunate, eravamo tutte salve. Quanti invece avevano perso i loro cari, per non parlare delle intere famiglie sterminate! Inutile dire che quando affacciandomi in strada assistetti a tutte quelle scene di terrore e disperazione mi venne in mente la mia famiglia: chissà se anche loro erano salvi, ma come avrei potuto in quella situazione raggiungerli?
   Ripensai a quando solo poche ore prima, com’era mia abitudine al mio risveglio, mi ero affacciata alla finestra di quella che da diversi anni era diventata la mia camera, ed avevo notato un enorme sciame di libellule rosse, grande come non ne avevo mai visti nemmeno al villaggio. E mi ricordai all’improvviso anche di un altro episodio, avvenuto tanti anni prima: si riferiva al signor Yamamoto, il nostro vicino… Sì, proprio quell’anziano capofamiglia che quando avevo sette anni mi aveva impressionata tanto a causa dei suoi piedi mutilati mentre se ne stava seduto nel suo giardino. Quella volta i miei occhi di bimba erano stati colpiti dalla sua orribile menomazione fisica; dopo di che, per paura di poterlo vedere di nuovo a piedi nudi, avevo sempre cercato di evitare di stare in giardino quando lui era nel suo e se per caso lo vedevo apparire scappavo via, per nascondermi in casa. Fra l’altro non avevo avuto spesso a che fare con lui nemmeno prima: non mi aveva mai trattata male quando mi aveva vista, anzi, mi aveva sempre salutata gentilmente, eppure mi aveva sempre fatto soggezione per via della severità che dimostrava con i suoi figli nonostante fossero ormai adulti ed a loro volta padri di famiglia. Dopo quel famoso episodio, la mia tendenza ad evitarlo era aumentata anche perché avevo sentito i miei genitori dire che con l’età stava andando anche un po’ fuori di testa. Ma un giorno della primavera successiva ero così intenta a giocare in giardino con Yuriko che non mi accorsi che anche lui era uscito di casa. Finché un serpente non ci strisciò velocemente accanto. Yuriko aveva paura folle dei serpenti, così vedendolo aveva urlato. Al che sentii improvvisamente vicina la voce del signor Yamada, che si era accostato alla recinzione di confine fra le nostre due case e parlò con tono solenne, come se stesse predicando: “Se avvengono grandi migrazioni di libellule rosse, pesci, serpenti, formiche o tartarughe di mare, allora è  la fine! Non può essere che il presagio di una calamità naturale.
Gli animali percepiscono queste cose e stanno cominciando a scappare! Anche gli umani lo percepiscono. Solo… non possono scappare! Questo è il lato tragico degli esseri umani.
Prima di tutto la gente si vergogna di fuggire per paura di una catastrofe naturale che potrebbe non verificarsi. Inoltre gli animali non hanno il problema della casa. Quasi nessuno ha la possibilità di traslocare, pur avendo il sentore di un terremoto…”  
   Si era avvicinato a noi, ma il suo sguardo era vacuo, non si capiva se si stesse rivolgendo a noi o a chiunque altro egli credeva di avere davanti. Mi ero stretta forte a Yuriko, nascondendo il viso fra le sue braccia, e lei ritrovata subito la lucidità mi aveva tranquillizzata e mi aveva riportata in casa, senza badargli; intanto lui, noncurante di noi, si infervorava ancora nella sua solenne predica rivolta ad una platea invisibile.
   Ovviamente i miei al mio racconto avevano riso divertiti, avevano subito sdrammatizzato la cosa e mi avevano convinta che si era trattato soltanto del delirio di un anziano signore un po’ matto; così io non ci avevo più ripensato, il signor Yamamoto era tornato ad essere per me semplicemente il vecchietto della casa accanto con i piedi che facevano impressione.
   Invece a distanza di anni, dopo aver visto la mia città così devastata poche ore dopo aver visto quella che avevo riconosciuto come una migrazione di libellule rosse, mi chiesi se quel giorno quel vecchio pazzo non avesse invece detto una cosa giusta (anche se sproporzionata all’episodio), magari non in seguito ad un’esperienza vissuta personalmente ma per qualcosa tramandatagli dal padre o dal padre di suo padre… Ma anche se fosse stato così? Avremmo forse potuto fare qualcosa per evitarlo, per sfuggire al nostro triste destino o almeno renderlo meno crudele? Avremmo potuto salvare l’okiya? Invidiai quegli animali, che avevano potuto almeno tentare di allontanarsi per tempo, ma noi non avremmo potuto farci nulla, se non salvare noi stessi, stare a guardare e subito dopo rialzarci, per ricominciare tutto daccapo, innanzitutto ricostruire le nostre case distrutte. In ogni caso non era certo il momento di abbandonarsi alla disperazione, bisognava reagire, e subito.
   Quando ringraziai di nuovo il maggiore Hanamura  mi accertai del suo stato e fu per me un altro enorme sollievo il fatto che non fosse ferito gravemente.

 
 

Note:
Il primo settembre del dodicesimo anno del periodo Taisho, alle 11 e 58 minuti del mattino, scoppiò il grande terremoto del Kanto, una delle peggiori catastrofi naturali nella storia del Giappone, che risultò essere di 7,9 gradi circa della scala Richter. Morirono 141.637 persone ed oltre 39.000 risultarono disperse (notizie tratte dall’ultimo volumetto della serie regolare di Haikarasan ga tooru).
Una toccante pagina di Paul Claudel (poeta e ambasciatore della Francia in Giappone durante gli anni Venti del Novecento), frutto di un’esperienza in prima persona, in occasione del terremoto del 1 settembre 1923 che sconvolse Tokyo e Yokohama:
I mercanti di crespi e di broccati, la via dei mercanti di ninnoli, Nakadori, con i suoi ammassi di tesori, Nihonbashi, Shimbashi, il quartiere dei ristoranti e delle case eleganti da tè, Kanda, il quartiere delle Scuole, l’Università imperiale, Asakusa, il campo dei divertimenti popolari con il suo Yoshiwara e il suo tempio di Kwannon, poi, dall’altra parte della Sumida, Riyogoku, la grande arena dei lottatori, e quegli immensi quartieri senza fine dove viveva a fior d’acqua nella risaia appena riempita, nell’aria greve delle esalazioni chimiche, tutto un popolo miserabile e rassegnato, la capanna del paria, il negozio dell’incisore di sigilli, la roulotte del pulitore di pipe, e accanto i grandi teatri, il museo Okura stivato di lacche d’oro e stoffe reali, i ristoranti bellissimi che in fondo al loro tokonoma espongono ogni giorni una pittura differente di Koorin e di Sesshuu, tutto questo è stato spazzato dalle fiamme. E’ il vecchio Giappone che sparisce in un sol colpo per far posto all’avvenire in un olocausto paragonabile alla distruzione di Alarico. Dei tram, in mezzo alle strade, non resta che un ammasso di ferraglie e un groviglio di pali e di fili. Ha spirato un grande alito di fuoco. Anche l’acqua degli stagni si è messa a bollire [...]. Ma è a Honjoo, nel quartiere più miserabile della metropoli industriale, che si è trovata preparata la trappola più grande, una vasta piazza vuota in un’antica costruzione per equipaggiamento militare dove trentamila disgraziati avevano cercato riparo. Il fuoco li ha circondati da tutte le parti, sono morti. L’acqua nera e stagnante intorno a loro è coperta da uno strato di grasso umano. Sopra, in un piccolo commissariato di polizia in un edificio in cemento armato, si vedono cinque  cadaveri ripiegati su se stessi. Sono gli agenti che si sono lasciati bruciare sul posto piuttosto che abbandonare il proprio ufficio.
(Paul Claudel, L’uccello nero del Sol Levante, trad. a cura di M. A. Di Paco Triglia, ed. Il Cerchio, pp. 38-39)
Vari manga oltre ad Haikarasan ga toru citano questa tremenda catastrofe, ed alcuni esempi sono qui:
http://www.rai.it/dl/tg3/articoli/ContentItem-ad67d3d7-1c19-4fc3-a749-18930f3989c2.html
 
Ciò che dice il signor Yamamoto è una citazione di uno dei manga di cui parla l’articolo qui linkato, ovvero Violence Jack, di Go Nagai. Non l’ho letto, ma quel passaggio mi è piaciuto ed ho deciso di inserirlo.
Il dettaglio della fuga degli animali poche ore prima del terremoto è messa in evidenza anche in una scena di Haikarasan ga toru: mentre Benio sta cercando di spiegare a Ranmaru le motivazioni della sua decisione di sposare Tosei e di convincerlo (invano!) che lo fa per amore, i due sono sconvolti dall’improvvisa comparsa di un insolito gruppo di serpenti in fuga. 
  
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