I
carcerieri si
spostarono a vederlo passare. Tutti si spostavano. Il nome di Frollo
non doveva
neppure essere detto a voce alta. Lo sussurravano, e ne avevano paura.
La
lanterna del disgraziato davanti a lui, un carceriere enorme e guercio
di cui
vedeva la schiena macchiata in una giubba di tela grezza, ballonzolava
nelle
tenebre. E rivelava di volta in volta come in un mirifico caleidoscopio
celle
di poveri infelici, miserabili, avanti fetidi di carne umana. Oh, come
sarebbe
stato meglio per tutti se ogni cosa, ogni cosa all’istante
avesse cessato di
esistere. L’arcidiacono rimuginava tra sé quando
qualcosa attrasse la sua
attenzione. Era un topo che usciva da una delle celle con un pezzetto
di stoffa
in bocca. Il carceriere imprecò a trovarselo sgusciare tra i
piedi calzati in
vecchi sandali umidi, e sì che doveva esserci abituato.
- Queste bestiacce
sono dappertutto, ce ne sono sempre di più.
- Come gli zingari –
mormorò l’arcidiacono, senza che l’altro
osasse fiatare. Neanche lui, il
carceriere orribile con l’occhio guercio e la mano alla
frustra, nei suoi
pensieri confusi, aveva del tutto simpatico quel vecchio prete che
aveva
dietro. E camminando, ecco quasi ne aveva paura. Si diceva che sapesse
bene
dove infilare la daga dentro le scapole di un uomo. Ne aveva ammazzati,
si
diceva, avvelenati nelle sue molte ambascerie. Ma questo era niente
rispetto ai
roghi che negli anni scorsi, negli ultimi due anni aveva alzato. Pieni
di
zingari, la sua ossessione. Si mormorava che ne avesse messi a morte
oltre trecento.
E questi con mezzi, diciamo, leciti. Quanti donne, quanti bambini in
culla,
questo non era dato saperlo.
- Manca molto? –
chiese l’arcidiacono.
- No, signor mio.
Svoltarono un angolo
e il carceriere fu ben felice, come sollevato, di lasciarsi sorpassare
da lui,
dal vecchio prete la cui sottana strusciava contro ogni pietra come la
morte.
Si diceva che il volto suo fosse quello di lei, che lui e la morte
fossero
consanguinei, che avessero stretto un patto.
- Potete andare,
adesso.
Il carceriere chinò
la testa, e gli porse un mazzo di chiavi.
- E’ la prima chiave
grande, monsignore. E lei… - e qui ebbe come un attimo di
esitazione, deglutì –
non l’abbiamo toccata.
Da qualche parte
nella sua testa un pensiero frullava come dentro le tenebre.
- Ma perché volete
vederla?
Si pentì subito
della domanda. Ma l’arcidiacono sorrise piano.
- Questa signora è
una mia vecchia conoscenza. Volevo tenerle un’ultima volta la
mano prima che
vada sottoterra.
Era tutto,
naturalmente, buio. Il carceriere fissò la lampada al muro,
dietro di lui, e
poi scomparve. La luce rossa illuminò una stanza di forse
due metri per due.
L’arcidiacono socchiuse gli occhi. C’era troppo
calore dentro la stanza, e poi
quel puzzo intollerabile. Per qualche istante fece come se non ci fosse
niente,
come se non avesse visto quel sacco buttato proprio in mezzo alla
cella.
Ricopriva qualcosa, e quel qualcosa era il corpo di lei.
- Non devo pensare –
si disse – Non devo pensare. Lei è morta ed io non
sono qui.
Gli vennero alla
mente certi spasmi, certe contrazioni dell’animo che in molti
anni aveva
provato. Prima, le prime volte, quando la vedeva danzare a Notre-Dame.
Com’era
stata bella, avvolta di sole. E dire che non era passato che un soffio,
un
soffio unico di tempo che aveva unito i respiri nella morte di una
zingara e di
un arcidiacono. E adesso invece era tutto finito, e lei era morta.
Si avvicinò di
qualche passo.
- Troverai sotto una
vecchia magra e sdentata – si disse. Due anni e mezzo di
carcere fanno questo
ed altro a gente ben più in carne e più in salute
di lei - Era un pulcino
quando è entrata, adesso sarà uno scarafaggio.
Sicuro che vuoi vederla?
Emise un sospiro. Il
puzzo era davvero osceno. Escrementi, orina. L’orina di lei.
E nel più fondo
del suo cuore di mostro, per un istante, oh, ma quanto breve!,
sognò di essere
chiuso con lei dentro a una stanza. E averla davanti in tutta la sua
gloria
oscena e dirle, sì, dirle pisciami addosso. Fai che io sia
la tua latrina,
tutto.
Si scosse. Andiamo,
andiamo via di qui.
Ma poi qualcosa
attirò la sua attenzione. Era un piedino, che spuntava dal
sacco. Il suo
piedino, era proprio lei. Si accucciò piano, nel liquame. Il
suo piedino,
com’era pallido, com’era rovinato, ma ancora in
tutto degno di lei.
- Fermati, cane. Non
toccarla – si disse.
Ed era già con la
mano protesa. La chiuse in aria, la riaprì. Era lei. Adesso
stava sfiorando il
suo piede, che era freddo come il marmo e bellissimo. Oh, quante volte
aveva
voluto che quel piedino gli schiacciasse la testa, oh quante volte
avrebbe
voluto essere lui a implorare lei di non ucciderlo, di fargli tanto
male e di
distruggerlo, così, con quel piede. E adesso che era tutto
suo lei era morta.
Scostò appena,
febbrilmente, la tela del sacco. Eccolo, il polpaccio. Oh, davvero, era
dimagrita. Ma bella, conservava ancora la linea purissima, quella di
quando lei
danzava con le trecce d’oro e a lui aveva rubato il cuore.
Eccola qui, la mia
amata, si disse. Il suo polpaccio lungo e disteso, e le ginocchia, oh,
le sue
ginocchia!
Si accucciò meglio,
e poi si ritrasse. Stava profanando un cadavere. Ma era bellissima. Non
poté
proprio, non poté fermare la sua stessa mano.
L’avrebbe fatto, se avesse
potuto, ma quella dal ginocchio timidamente stava risalendo la coscia.
E’ morta, è morta!
Eppure no. Quella
coscia ancora di marmo, tutta incrostata di sudiciume, come pareva viva!
E pianse lacrime
amarissime mentre gemeva piano, già eccitato. Lei. Morta e
così desiderabile.
Chinò la testa, voleva morire. Ma ormai era troppo tardi
anche per quello.
Fu in quel momento
che lo udì. Lontanissimo. Era un sospiro.
- C’è qualcuno! –
gridò, fuori di sé. Si era voltato. Fissava la
porta dove nient’altro che la
lanterna tremolava per uno sbuffo di vento. – Chi
c’è?
Nessuno, solo lui e
la sua morta. O forse magari uno spettro che veniva al mondo per
perseguitarlo
dopo che le mascelle di pietra del suo sepolcro si erano schiuse.
- Se sei un fantasma
fatti avanti, non ho paura della morte!
Ma niente si mosse
fuor della fiamma vicino alla porta. Lui allora cadde in un silenzio
attonito.
- Sto impazzendo –
disse pianissimo. E poi, e poi oh sì che impazzì
davvero.
Fu nell’esatto
momento in cui si voltava di nuovo verso il suo adorato cadavere che
sentì
bene, chiaro e distinto, un altro respiro, e poi un colpo di tosse.
Agghiacciò.
Il telo si muoveva.
- Esmeralda?
La bocca gli si era
fatta di pietra, il cuore batteva all’impazzata. Sentiva le
mani come tizzoni
ardenti, le gambe gli erano diventate di marmo.
Accostò appena la
testa a quel sacco. Lì sotto c’era qualcosa.
Chiuse gli occhi.
- Esmeralda – disse
pianissimo.
Lei fece una piccola
mossa col piede.
- Dove sono? –
mormorò appena.
A Frollo il cuore si
era fermato. Pensò che fosse un sogno, sperava che fosse un
sogno. Fissò il
sacco e poi lentamente tirò giù la parte che le
copriva il volto.