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Autore: minimelania    20/10/2014    2 recensioni
Rigor Mortis, come il freddo ghiaccio della morte. Ad un Claude Frollo ormai disilluso viene annunciato che La Esmeralda, a due anni dal loro ultimo incontro, è morta in cella. E allora vecchi e nuovi fantasmi tornano a danzare a passo di quadriglia dentro al suo cuore, e una danza infernale accende vecchi e nuovi roghi. Tornare sulle ceneri di un amore ormai sopito per darle l’ultimo bacio della morte? Oppure tacere e fare finta che niente sia più di quel niente informe che ormai sono le sue giornate? Claude Frollo piange le sue amare lacrime, fredde come i ghiacci della morte. Solo un bacio di carne può sciogliere il suo segreto. Quell’ultimo bacio di carne che le sue labbra non hanno mai assaggiato, quell’ultimo fuoco che adesso sembra impossibile.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Claude Frollo, La Esmeralda
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I carcerieri si spostarono a vederlo passare. Tutti si spostavano. Il nome di Frollo non doveva neppure essere detto a voce alta. Lo sussurravano, e ne avevano paura. La lanterna del disgraziato davanti a lui, un carceriere enorme e guercio di cui vedeva la schiena macchiata in una giubba di tela grezza, ballonzolava nelle tenebre. E rivelava di volta in volta come in un mirifico caleidoscopio celle di poveri infelici, miserabili, avanti fetidi di carne umana. Oh, come sarebbe stato meglio per tutti se ogni cosa, ogni cosa all’istante avesse cessato di esistere. L’arcidiacono rimuginava tra sé quando qualcosa attrasse la sua attenzione. Era un topo che usciva da una delle celle con un pezzetto di stoffa in bocca. Il carceriere imprecò a trovarselo sgusciare tra i piedi calzati in vecchi sandali umidi, e sì che doveva esserci abituato.
- Queste bestiacce sono dappertutto, ce ne sono sempre di più.
- Come gli zingari – mormorò l’arcidiacono, senza che l’altro osasse fiatare. Neanche lui, il carceriere orribile con l’occhio guercio e la mano alla frustra, nei suoi pensieri confusi, aveva del tutto simpatico quel vecchio prete che aveva dietro. E camminando, ecco quasi ne aveva paura. Si diceva che sapesse bene dove infilare la daga dentro le scapole di un uomo. Ne aveva ammazzati, si diceva, avvelenati nelle sue molte ambascerie. Ma questo era niente rispetto ai roghi che negli anni scorsi, negli ultimi due anni aveva alzato. Pieni di zingari, la sua ossessione. Si mormorava che ne avesse messi a morte oltre trecento. E questi con mezzi, diciamo, leciti. Quanti donne, quanti bambini in culla, questo non era dato saperlo.
- Manca molto? – chiese l’arcidiacono.
- No, signor mio.
Svoltarono un angolo e il carceriere fu ben felice, come sollevato, di lasciarsi sorpassare da lui, dal vecchio prete la cui sottana strusciava contro ogni pietra come la morte. Si diceva che il volto suo fosse quello di lei, che lui e la morte fossero consanguinei, che avessero stretto un patto.
- Potete andare, adesso.
Il carceriere chinò la testa, e gli porse un mazzo di chiavi.
- E’ la prima chiave grande, monsignore. E lei… - e qui ebbe come un attimo di esitazione, deglutì – non l’abbiamo toccata.
Da qualche parte nella sua testa un pensiero frullava come dentro le tenebre.
- Ma perché volete vederla?
Si pentì subito della domanda. Ma l’arcidiacono sorrise piano.
- Questa signora è una mia vecchia conoscenza. Volevo tenerle un’ultima volta la mano prima che vada sottoterra.

 
Era tutto, naturalmente, buio. Il carceriere fissò la lampada al muro, dietro di lui, e poi scomparve. La luce rossa illuminò una stanza di forse due metri per due. L’arcidiacono socchiuse gli occhi. C’era troppo calore dentro la stanza, e poi quel puzzo intollerabile. Per qualche istante fece come se non ci fosse niente, come se non avesse visto quel sacco buttato proprio in mezzo alla cella. Ricopriva qualcosa, e quel qualcosa era il corpo di lei.
- Non devo pensare – si disse – Non devo pensare. Lei è morta ed io non sono qui.
Gli vennero alla mente certi spasmi, certe contrazioni dell’animo che in molti anni aveva provato. Prima, le prime volte, quando la vedeva danzare a Notre-Dame. Com’era stata bella, avvolta di sole. E dire che non era passato che un soffio, un soffio unico di tempo che aveva unito i respiri nella morte di una zingara e di un arcidiacono. E adesso invece era tutto finito, e lei era morta.
Si avvicinò di qualche passo.
- Troverai sotto una vecchia magra e sdentata – si disse. Due anni e mezzo di carcere fanno questo ed altro a gente ben più in carne e più in salute di lei - Era un pulcino quando è entrata, adesso sarà uno scarafaggio. Sicuro che vuoi vederla?
Emise un sospiro. Il puzzo era davvero osceno. Escrementi, orina. L’orina di lei. E nel più fondo del suo cuore di mostro, per un istante, oh, ma quanto breve!, sognò di essere chiuso con lei dentro a una stanza. E averla davanti in tutta la sua gloria oscena e dirle, sì, dirle pisciami addosso. Fai che io sia la tua latrina, tutto.
Si scosse. Andiamo, andiamo via di qui.
Ma poi qualcosa attirò la sua attenzione. Era un piedino, che spuntava dal sacco. Il suo piedino, era proprio lei. Si accucciò piano, nel liquame. Il suo piedino, com’era pallido, com’era rovinato, ma ancora in tutto degno di lei.
- Fermati, cane. Non toccarla – si disse.
Ed era già con la mano protesa. La chiuse in aria, la riaprì. Era lei. Adesso stava sfiorando il suo piede, che era freddo come il marmo e bellissimo. Oh, quante volte aveva voluto che quel piedino gli schiacciasse la testa, oh quante volte avrebbe voluto essere lui a implorare lei di non ucciderlo, di fargli tanto male e di distruggerlo, così, con quel piede. E adesso che era tutto suo lei era morta.
Scostò appena, febbrilmente, la tela del sacco. Eccolo, il polpaccio. Oh, davvero, era dimagrita. Ma bella, conservava ancora la linea purissima, quella di quando lei danzava con le trecce d’oro e a lui aveva rubato il cuore. Eccola qui, la mia amata, si disse. Il suo polpaccio lungo e disteso, e le ginocchia, oh, le sue ginocchia!
Si accucciò meglio, e poi si ritrasse. Stava profanando un cadavere. Ma era bellissima. Non poté proprio, non poté fermare la sua stessa mano. L’avrebbe fatto, se avesse potuto, ma quella dal ginocchio timidamente stava risalendo la coscia.
E’ morta, è morta!
Eppure no. Quella coscia ancora di marmo, tutta incrostata di sudiciume, come pareva viva!
E pianse lacrime amarissime mentre gemeva piano, già eccitato. Lei. Morta e così desiderabile. Chinò la testa, voleva morire. Ma ormai era troppo tardi anche per quello.
Fu in quel momento che lo udì. Lontanissimo. Era un sospiro.
- C’è qualcuno! – gridò, fuori di sé. Si era voltato. Fissava la porta dove nient’altro che la lanterna tremolava per uno sbuffo di vento. – Chi c’è?
Nessuno, solo lui e la sua morta. O forse magari uno spettro che veniva al mondo per perseguitarlo dopo che le mascelle di pietra del suo sepolcro si erano schiuse.
- Se sei un fantasma fatti avanti, non ho paura della morte!
Ma niente si mosse fuor della fiamma vicino alla porta. Lui allora cadde in un silenzio attonito.
- Sto impazzendo – disse pianissimo. E poi, e poi oh sì che impazzì davvero.
Fu nell’esatto momento in cui si voltava di nuovo verso il suo adorato cadavere che sentì bene, chiaro e distinto, un altro respiro, e poi un colpo di tosse. Agghiacciò. Il telo si muoveva.
- Esmeralda?
La bocca gli si era fatta di pietra, il cuore batteva all’impazzata. Sentiva le mani come tizzoni ardenti, le gambe gli erano diventate di marmo.
Accostò appena la testa a quel sacco. Lì sotto c’era qualcosa.
Chiuse gli occhi.
- Esmeralda – disse pianissimo.
Lei fece una piccola mossa col piede.
- Dove sono? – mormorò appena.
A Frollo il cuore si era fermato. Pensò che fosse un sogno, sperava che fosse un sogno. Fissò il sacco e poi lentamente tirò giù la parte che le copriva il volto.

 

  
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