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Autore: minimelania    06/09/2014    2 recensioni
Rigor Mortis, come il freddo ghiaccio della morte. Ad un Claude Frollo ormai disilluso viene annunciato che La Esmeralda, a due anni dal loro ultimo incontro, è morta in cella. E allora vecchi e nuovi fantasmi tornano a danzare a passo di quadriglia dentro al suo cuore, e una danza infernale accende vecchi e nuovi roghi. Tornare sulle ceneri di un amore ormai sopito per darle l’ultimo bacio della morte? Oppure tacere e fare finta che niente sia più di quel niente informe che ormai sono le sue giornate? Claude Frollo piange le sue amare lacrime, fredde come i ghiacci della morte. Solo un bacio di carne può sciogliere il suo segreto. Quell’ultimo bacio di carne che le sue labbra non hanno mai assaggiato, quell’ultimo fuoco che adesso sembra impossibile.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Claude Frollo, La Esmeralda
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- La zingara è morta, gli disse qualcuno. Non ricordava neppure la voce, né il luogo in cui si trovava nel momento in cui vennero a dirglielo. Solo, sentiva tremare le gambe. Di un tremito così incontrollabile che fece di marmo ogni suo muscolo per resistere.
- Che cosa dobbiamo farne, arcidiacono? Ha diritto a una sepoltura cristiana?
Povera bimba. Il laido frate gli stava davanti, mandato a sua volta dal carceriere. E sapevano che i condannati morti nell’eresia, quelli condannati alla forca dopo qualche infame processo non avevano diritto a nient’altro che a una fossa comune.
Ma perché allora adesso, quello stupido frate, quell’individuo untuoso davanti a lui ancora sorrideva a mezza bocca, e se ne stava sulla soglia come se non decidesse né di andare e neppure di fare un passo dentro la stanza? E fulmineamente lo capì. L’aveva vista, e non poteva dimenticarla, anche lui. Quell’altro chinò il capo, come se avesse inteso la sua domanda mentale.
- E’ molto bella – disse, fissando in terra. E adesso un poco strusciava il piede sul freddo pavimento di marmo – E’ molto bella, signore. Dispiace che debba andare sotto terra. Sapete che cosa gli capita, a quelli come lei.
Lo sapeva. Claude Frollo lo sapeva molto bene, per aver accompagnato decine di sacchi di eretici, corpi di carne in decomposizione, alla fossa che aspettava loro come una bocca spalancata. Sapeva della calce viva che manda un puzzo di fetido sfrigolio d’ossa, sapeva delle putredini subito intaccate, del fumare di tutti quei vestiti marci. E tutto perché non si sviluppino pestilenze. Cento e più corpi. Forse duecento in una delle tantissime fosse anonime. E poi calce sopra, narici ingombre della peggiore acredine del mondo, quella roba che sale alle narici dai corpi, quel misto di putridume e necessaria, bruciante igiene. No, non voleva che finisse in quel modo, anche se adesso era un sacco d’ossa, un sacco forse, anche di carne… quella carne che tante volte aveva sognata, fantasticata nelle lunghe notti spagnole. Quando era stato via, lontano lontanissimo da tutto, mentre lei in carcere invecchiava. Che poi, erano passati solo due anni. Pochi anni, invero. Ma era lui ad essere ora quasi morto, e di un male comune. Il povero vecchio Claude Frollo era morto di consunzione di sé, quella piaga che attacca i vivi quando cessano a un punto completamente di sognare. E lui adesso no, non sognava più. Niente affatto, aveva solo vaghi ricordi di che cosa fosse stato sognare.
E ancora adesso, in qualche notte afosa si ricordava di quel velo di carne, di quel filamento di sogno che era stato il suo amore per lei. Povera bimba, quanto l’aveva amata di quell’amore egoistico che non è niente affatto amore. Che è brama, e brama sciocca ed insensata.
- Allora, dico ai fratelli di far venire il becchino?
No. Non voleva, non poteva. Eppure voleva vederla l’ultima volta. Per l’ultimo giorno in cui ancora il suo corpo smagrito (oh! Come doveva essere ridotto ormai dopo due lunghi anni di carcere), voleva vedere ancora una volta il suo lungo collo ormai certo piagato. La bella schiena spezzata dalla frusta, le dolci mani che forse ormai certo avevano perso le unghie. Perché qualsiasi detenuto in quel buio comincia prima per rosicchiarsele, poi se le mangia per i morsi di fame. Infine, quando in quel buio impazziscono, spesso grattano per ore e ore il muro soltanto per poterne scappare. E i topi, dalle loro tane negli angoli, miseramente commemorano tutta quella miseria umana.
- Voglio che la mettiate sotto terra senza toccarle un capello. E solo dopo che sarò andato a vederla.
Gli venne in mente qualche anno prima, mentre una grande pestilenza – oh, non immensa come quelle che si ebbero poi, ma comunque abbastanza da falciare migliaia di vittime – oh, ricordava mentre a casa sua morivano tutti come mosche che lui, lui stesso là era tornato, nel suo quartiere per portar via almeno il piccolo Jean. E in quel caso, da una porta ad un tratto aveva scorto una signora bruna, una donna di una bellezza molle che solo pochi sanno ricordare dietro il fumoso sipario del tempo. Ma lui la ricordava perché aveva tra le braccia qualcosa di irredimibile. Era questa una bambina morta, addobbata come se fosse per andare a un ballo. E nel consegnarla a un becchino la madre, perché doveva essere la madre, gli disse solo “fate che vada sotto terra così com’è. Mi promettete di non toccarle un capello?”. E in quella al rude becchino porse una piccola borsa di monete. E quello inginocchiandosi quasi prese la bimba come poteva e la dispose delicatamente sopra al suo carro.
Bene. Adesso lui ricordava la donna, e ricordava anche il becchino.
- Dio vuole essere misericordioso con noi, e vuole che lo siamo con i suoi figli, tutti i suoi figli. Andate pure a dire ai becchini che si preparino, ma prima verrò e voglio essere lasciato solo.
Il frate se ne andò, evidentemente sollevato da tutto quel dire di Claude Frollo. Perché quando Claude Frollo parlava si rischiaravano gli animi. E questioni che fino a un attimo prima erano apparse insolubili all’improvviso diventavano invece trasparentissime. Andandosene, forse il frate pensò che tutta quella santa bellezza non sarebbe andata sprecata. Se la Esmeralda avesse avuto prima una preghiera di Claude Frollo sarebbe andata in Paradiso in carrozza. Chiunque stringa una preghiera di Claude Frollo ha tra le dita un sicuro lasciapassare per la beatitudine.


Peccato che Claude Frollo stesse male, fosse assai in ansia. Praticamente non mangiò, a pranzo, come del resto non mangiava mai. Eppure stavolta aveva paura. Paura di vederla ancora una volta ma morta, fredda, dimagrita, ossuta, male in arnese, senza capelli e ormai l’ombra di quella che era stata. Non che con lui il tempo si fosse mostrato clemente. Pareva ormai quasi un vecchio aveva ancora solo trentotto anni. Nei due anni precedenti era stato coinvolto in più di un affare di Stato. Ambascerie prima a Granada, poi in qualche altra terra da mori. Povero Claude, era sì invecchiato, ma soprattutto era come se ormai niente potesse più scalfirgli il petto. In una notte di luna nuova aveva amato una, una sola donna sopra a un pagliericcio per strada. E mormorando il nome di lei, il nome dell’altra, della sua tigre segreta aveva finto di morire. Era giunto a quella specie di secco piacere, di cupo fremito di cuore a cui spesso – non tanto – si abbandonava anche quando era da solo. Esmeralda, aveva sussurrato. Ma lei non era Esmeralda. Era una stupida qualunque con solo forse un poco di capelli nerissimi. Nessuna era Esmeralda perché lei era la sola. La Esmeralda. Smeraldo mio, perdona il tuo amore che è in questi vicolo, qui, adesso, e geme addosso a un’altra donna soltanto per esser tuo.
Il suo potere, già in quei mesi e poi una volta tornato in Francia, si era enormemente accresciuto. Adesso solo da lui passavano gli ordini per quel paese straniero. Il Re si consultava solo con lui. Era in breve l’uomo più potente di Francia dopo il sovrano e tuttavia non c’era pace. Sapeva solo che lei era là, esattamente dove l’aveva lasciata. Col pagliericcio umido ai piedi e il fetido bugliolo del cibo e degli escrementi. Povero amore mio, cosa ti ho fatto? Se lo era quasi tatuato nel cuore, come quegli strani negri che a volte vedeva ancora comparire per strada quando era in Spagna. Anche loro, nel biancore dei denti sembravano aver tatuato un sorriso in cui non credevano. Ed erano quasi tutti schiavi, tutti mori con lunghe braccia e anelli al naso. Mori, prendetemi e portate via anche me su quelle vostre scope con cui a notte vi recate dal vostro signore, il demonio. Portate via anche me, fetidi mostri, e non fate che assista mai alla sua morte, alla morte di lei che in vita si chiamava Esmeralda.

Ma ora era morta, lo sapeva, sì. E adesso in bocca gli tremava qualcosa che forse erano lacrime, forse una supplica. Forse invece una preghiera all’Altissimo, o un bacio. Il bacio vivo che non avrebbe mai più incontrato le sue labbra di carne.

 

  
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