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Autore: Rubysage    16/10/2008    3 recensioni
Uno strano incontro tra Taro e un misterioso personaggio che gli farà vedere la vita in modo un po' diverso. Una storia che sento molto mia, un piccolo omaggio ad un luogo meraviglioso.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sorpresa, Taro Misaki/Tom
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'UOMO DEL SUD



Fu durante l'ennesimo trasloco che scoprii il mulino.

Mio padre aveva deciso che i suoi quadri necessitavano di nuovi colori, forti e caldi ma non violenti, e aveva stabilito che il violetto della lavanda, il giallo della colza e il verde degli ulivi e delle viti della Provenza facevano decisamente al caso suo.

Come al solito non mossi obiezioni, ma, sia chiaro, non ero felice di quell'ennesimo spostamento. Da un paio di mesi ci eravamo lasciati alle spalle l'andirivieni del porto di Cherbourg per adattarci al caos internazionale di Parigi, e l'idea di abbandonare per l'ennesima volta gli amici che ero riuscito a trovare con tanta fatica mi aveva lasciato addosso un profondo senso di abbandono. Questa volta, probabilmente, non glie l'avrei perdonato.

Ma ora sto divagando.

Il mulino, dicevo, era apparso all'improvviso mentre percorrevamo la strada che conduceva a Fontvieille, il paese in cui mio padre era riuscito a trovare una casetta in affitto ad un prezzo decente. Me lo trovai sulla destra, piccolo e tondo, come un fungo appena spuntato in cima alla collinetta arida che sovrastava la pineta dalla quale era seminascosto, e mi incuriosì subito, facendomi sbollire un po' di quella rabbia che covavo da qualche giorno a quella parte.

Papà aveva letto qualcosa al riguardo da una guida turistica, ma ricordava solo che era appartenuto ad un famoso scrittore dell'ottocento. Sinceramente, non me ne importava nulla, ma quella strana costruzione mi affascinava, e decisi che prima o poi ci avrei fatto un salto.

Chissà che bel panorama si gustava da quel punto; sicuramente anche papà l'avrebbe apprezzato.

Sorrisi pensando questo, per il solo motivo che stavo di nuovo raggiungendo la pace dei sensi con me stesso, con il mondo e, soprattutto, con mio padre.

Ma non durò a lungo.

Poco dopo il nostro arrivo nella nuova casa, litigammo di nuovo.


Fu per una stupidaggine, come al solito, la classica goccia che fa traboccare il vaso e che mi aveva fatto passare per l'ennesima volta da isterico.

Intendiamoci, Fontvieille mi piaceva; un paese tranquillo e solitario ma non deprimente, al contrario di altri posti in cui avevo avuto la disgrazia di abitare. Le case erano tutte molto vecchie, ma così ben tenute che parevano costruite da poco, e le imposte dai colori vivaci e le piante fiorite che adornavano i muri davano loro un aspetto allegro e vivo, attenuando il senso di desolazione che mi aveva avvolto appena sceso dall'auto.

La nostra casa faceva eccezione; era una piccola villetta a due piani, circondata da un minuscolo giardino pieno di erbacce, anche se sotto la finestra cresceva un profumatissimo cespuglio di lavanda. Il muro era vecchio e scrostato, e la sporcizia degli infissi lasciava intravedere brandelli di vernice verde. Il minuscolo interno, due stanze per piano (le superiori mansardate), più un piccolo ripostiglio, non avrebbe mai smesso di puzzare di chiuso, ma la mia stanza era luminosissima, e ricordo che appena vi misi piede mi venne immediatamente voglia di sdraiarmi sul letto lasciando che la luce del sole che attraversava l'abbaino mi scaldasse la faccia, e stare così per ore.

Invece mi arrabbiai per via del telefono.


Sapete, tutti mi dipingono come un tipo tranquillo, ma non perchè lo sia davvero; semplicemente mi sono costretto a cercare sempre il lato buono delle cose perchè non avevo altra scelta.

Always look on the bright side of life. Che altro potevo fare, quando le crisi creative di mio padre, ormai sempre più frequenti, mi costringevano a continue fughe non solo da una città all'altra, ma anche da una nazione all'altra, dalla parte opposta del mondo?

Una cosa potevo farla, e sapevo che prima o poi sarebbe accaduta.

Scoppiai, come un pallone.


Durante il viaggio una stupida canzone gracchiata dall'autoradio mi aveva fatto venire improvvisamente nostalgia per i miei amici lontani; non solo quelli rimasti in Giappone, ma anche Genzo, in Germania, e soprattutto Tsubasa, che, a quanto ricordavo, doveva essersi da poco trasferito in Brasile. Non sapevo dove abitasse, ma avevo il suo indirizzo di posta elettronica, e pensai che, appena arrivato nella nuova casa, gli avrei scritto immediatamente per chiedergli come stavano andando le cose.

L'idea che un semplice computer portatile mi permettesse di raggiungere i miei amici ovunque fossi mi tranquillizzava; e invece questa volta avrei dovuto farne a meno, perchè in casa non esisteva una connessione telefonica, e figuriamoci se in quel buco dimenticato da Dio e dagli uomini esisteva un internet cafè.

Il che avrebbe potuto essere semplicemente una seccatura temporanea, se mio padre non avesse deciso che, prevedendo che ci saremmo trattenuti solo qualche mese, del telefono avremmo potuto fare anche a meno.

Niente telefono, niente internet, niente posta elettronica. Mesi per ricevere una lettera. Pochi e costosissimi secondi per le mie telefonate intercontinentali da una cabina.

Isolamento completo.

Andai fuori di testa.


Se i miei amici più cari mi avessero visto e sentito inveire come feci quella volta contro mio padre non mi avrebbero mai riconosciuto, e perfino io stentai a riconoscermi. Dov'era finito il pacifico Taro Misaki, che affrontava sempre le avversità con determinazione e un bel sorriso stampato sulla faccia?

Se n'era andato di casa sbattendo la porta e senza sentirsi minimamente in colpa.

Il mio unico pensiero, in quel momento, era fare una lunga camminata il più lontano possibile da quell'uomo che stavo tanto odiando per il più stupido dei motivi.

Imboccai la strada principale che portava fuori da Fontvieille e mi diressi a piedi verso il mulino.


In un'altra situazione mi sarei pentito amaramente di aver fatto quello che feci nel primo pomeriggio. Ovviamente avevo agito d'istinto, altrimenti avrei portato con me una bottiglia d'acqua o, quanto meno, un berretto.

Arrivato a metà della salita verso la pineta mi fermai, ansimando, e alzai lo sguardo verso il sole, riparandomi il viso con il dorso della mano. Non potevo nemmeno vederlo, il sole; era come una palla di luce i cui contorni si perdevano nel cielo azzurro, e giuro che un cielo così azzurro non l'avevo mai visto prima di allora. Per un brevissimo istante mi chiesi se mio padre sarebbe mai riuscito a dipingerlo, ma quel pensiero se ne andò non appena mi rimisi in movimento, sbuffando. Cominciai ad arrancare; a guardarla da lontano, quella dannata salita non sembrava così ripida! Sudavo come un cavallo; le cicale frinivano a più non posso, incoraggiandomi a tenere duro.

La mia cocciutaggine e il mio (per fortuna buono) allenamento fecero il resto; in una decina di minuti arrivai al polveroso parcheggio che si apriva come una radura nella pineta ai piedi del mulino.

Già, il mulino...

Era in cima ad una collinetta alta più o meno cinquanta metri, ma, nello stato in cui ero ridotto, mi sembrava una montagna. Mi guardai intorno, nel silenzio rotto solo dalle cicale e dal rombo di qualche rara automobile; se non fossi stato così nervoso avrei rinunciato all'impresa, ma, dato che l'attività fisica per me è sempre stata una valvola di sfogo, mi misi di nuovo in marcia.

Non so quale forza divina mi fece risalire il colle, ma quando raggiunsi il mulino rimasi in piedi, immobile, con gli occhi chiusi, lasciando che un refolo di vento mi desse un po' di sollievo, asciugando il sudore che mi colava dalla faccia.

Aprii gli occhi e mi guardai intorno. Non ero l'unico sotto quella calura; qualche turista si aggirava nei dintorni, scattando foto da lontano. Non capii bene perchè, ma mi sentii più tranquillo sapendo di non essere solo in quel luogo deserto.

Il paesaggio, in effetti, era davvero affascinante; da quella posizione vedevo bene i campi regolari dalle tinte pastello, circondati, qua e là, da sparuti cespugli di tamerici. Alcuni erano attraversati da strade nere che serpeggiavano a perdita d'occhio sotto il sole che ne faceva quasi brillare l'asfalto. In quella cornice non stonavano nemmeno.

Sì, forse mio padre avrebbe potuto trarne qualche buon quadro.

Mi voltai verso il mulino, trovandolo ancora più piccolo di quanto mi era sembrato. Mi colpì quanto il bianco delle pareti contrastasse con il rosso brillante delle tegole del tetto a punta, e mi avvicinai per toccare il muro; per essere del secolo scorso era perfettamente conservato, forse anche dipinto di fresco. Sogghignai, pensando che i francesi erano sempre stati i migliori a vendere la loro mercanzia ai turisti.

Ad un tratto sentii della musica provenire da qualche parte. Incuriosito, girai intorno alla minuscola costruzione, e vidi un uomo che suonava la chitarra e canticchiava sommessamente, seduto accanto ad una finestrella. Teneva la schiena appoggiata al muro, e, ai suoi piedi, aveva dei fogli sparsi su cui, ogni tanto, si chinava per scrivere qualcosa.

Mi fermai un attimo a guardarlo, incuriosito non tanto dalla musica che stava suonando, una melodia molto dolce che mi fece passare un po' di malumore, ma per l'espressione calma che aveva. Non sembrava affatto uno del posto, era biondo, aveva i tratti spigolosi e il naso pronunciato ed affilato, e doveva essere piuttosto alto.

Gli passai accanto in silenzio per non disturbarlo, ed entrai nel mulino. Lui mi ignorò, gli occhi fissi sulle corde del suo strumento.

L'interno dell'edificio, naturalmente, era ancora più piccolo, visto lo spazio che veniva occupato dalla mola e dagli altri ingombranti ingranaggi. Salii la stretta scala a chiocciola che portava al piano superiore, di sicuro ancora più stretto di quello inferiore. Una volta in cima, chinai la testa per evitare una bella zuccata contro le travi del soffitto, ma quando la rialzai presi un tremendo spavento.

Un grosso gufo, spuntato da chissà dove, si avventò contro di me sbattendo le ali a più non posso; gridando, alzai le braccia per ripararmi il viso e indietreggiai, rischiando di cadere dalle scale. La bestia non cedette: pur senza colpirmi con i suoi artigli affilati, mi costrinse ad una fuga precipitosa.

Mi scaraventai fuori dal mulino e cercai riparo in fianco all'ingresso, appena prima che il gufo ne uscisse a sua volta, andando a perdersi nella pineta, più in basso.

Mi guardai intorno con il fiato corto, ma del mio aggressore pennuto non c'era traccia; in compenso mi accorsi di essere praticamente di fianco all'uomo con la chitarra, il quale mi guardava con aria interrogativa.

C'era...c'era un gufo, là dentro!” balbettai, imbarazzato.

L'uomo continuò a fissarmi con i suoi occhi azzurri e franchi.

L'ha visto, vero...?” dissi, come se mi vergognassi di quella fuga ignobile.

Io non ho visto niente” rispose dopo un attimo di silenzio “Del resto è piuttosto strano che un gufo se ne vada in giro di giorno, non ti pare?”

Ma è uscito da lì!” esclamai, sbracciandomi verso la porta “Era grosso e marrone, e aveva due occhi gialli che...”

Mi interruppi. Onestamente, cominciavo a dubitare di quello che avevo visto. E quell'uomo aveva un'aria veramente perplessa.

Se non stai attento rischi di prenderti una brutta insolazione” disse infine, tornando a pizzicare le corde della sua chitarra “Il sole, a quest'ora del pomeriggio, picchia forte. Dicono che sia per questo che gli abitanti della Provenza sono pazzi...”

Sorrise. Istintivamente decisi che quel tizio mi piaceva.

Ad ogni modo, l'unico gufo che troverai qui è una vecchia statua di legno, al piano superiore. Pare che il precedente proprietario del mulino avesse fatto un'esperienza molto simile alla tua.”

Lasciò un momento la chitarra e scribacchiò di nuovo sui suoi fogli volanti.

Mi sedetti in fianco a lui, e sbirciai i fogli sparsi sul terreno. Normalmente non avrei curiosato negli affari altrui, ma con quell'uomo mi sentivo stranamente a mio agio.

E' un compositore?” domandai.

Qualcosa del genere. A dire la verità mi occupo di letteratura e antropologia, ma ogni tanto scrivo qualche canzonetta...niente di particolare, ma sembra che piacciano. Però non riesco proprio a venir fuori da questa.”

Come si chiama?” chiesi, di onda. Temetti che la stupidità della domanda seccasse il mio interlocutore, ma non fu così.

Chi, io o la canzone?” disse, guardandomi con espressione quasi divertita.

Arrossii. “Ehm...intendevo la canzone, ma...”

Mi interruppe prima che aggiungessi qualche altra idiozia.

A dire la verità non lo so ancora. E' stupido, perchè sono venuto qui apposta per scriverla. Parla di luoghi come questo, nel sud della Francia. In termini piuttosto vaghi, ad essere sincero... Pensavo semplicemente Le Sud. Cos'è che fa rima con Italie?” Alzò gli occhi al cielo e si picchiettò le labbra con la matita. “Joli? Uhm...et c'est joli...Che dici, troppo banale?”

No, è giusta. E' bello, qui” risposi, guardando nel vuoto “Viverci, però, è tutta un'altra cosa.”

Già” disse lui, puntando la matita verso il mulino “E' un po' strettino là dentro, eh?”

Veramente parlavo del paese” precisai.

Dipende da quello che cerchi” disse lui, ricominciando a scrivere “Daudet, ad esempio, ha comprato il mulino per venirci a sistemare un libro di racconti senza che nessuno gli rompesse le scatole. Non che ci abbia veramente vissuto, però. In realtà alloggiava nel castello di Montauban, qualche chilometro più in là. Passi per l'ispirazione, ma al signore piaceva trattarsi bene...”

Mi guardò un istante e mi lesse in faccia che non avevo grande idea di cosa parlasse. “Daudet. Lo scrittore. Quello di Tartarino.”

Annuii piano. “Ho letto qualcosa sul cartello, nel parcheggio.”

Sorrise. “Parli molto bene il francese” disse “Sei qui in vacanza?”

Magari” risposi sospirando “Mi ci sono appena trasferito.”

Non sembri molto felice.”

Non lo sono” dissi. La rabbia che si era sopita fino a quel momento sembrò voler tornare fuori; decisi che era meglio cambiare discorso. “E lei è di qui?”

Scosse la testa. “Vengo da un paese che si chiama Montcuq, nei Midi-Pyrenèes. Non è molto diverso da qui, anche se non fa così caldo. Fondamentalmente è un paese del sud; e io, anche se non ci sono nato, mi sento un uomo del sud. Presto capirai cosa significa...”

Diventare matti?”

Rise. “Forse, chi lo sa?” disse “Posso solo garantirti che, quando te ne andrai da qui, te lo ricorderai per sempre. Sono posti che ti entrano un po' sotto la pelle, sai?”

Ne ho di posti, sotto la pelle” risposi sospirando “E anche di persone che ho lasciato in giro. Non credo che questo farà una gran differenza.”

Io credo che la farà” disse lui, senza smettere di guardarmi. “Sai cos'ha colpito Alphonse Daudet, quando è arrivato qui per la prima volta? I conigli.”

Aggrottai le sopracciglia.

Sì, i conigli. E tu non sai quanto vorrei vederli anch'io, guizzare tra i cespugli con le loro codine bianche... Dev'essere stato strano, per loro, trovarsi gente intorno dopo tanto tempo. Valli a cercare, adesso, dei conigli in mezzo a queste sterpaglie e ai turisti. Non credo ce ne siano più. Peccato, sarebbero stati una buona compagnia”

Ecco, non riuscii a capire perchè, ma quella frase mi fece salire un nodo alla gola. Provai ad immaginare come doveva essere quel posto un secolo fa, e come doveva essere viverci, ma non era questo il pensiero che mi dava la nostalgia. Proprio non capivo cos'era.

L'uomo sembrò accorgersi del mio strano stato d'animo. Posò la chitarra e appoggiò le braccia sulle ginocchia.

Comunque puoi chiamarmi Nino” mi disse, sorridendo.

Sorrisi a mia volta e, timidamente, gli tesi una mano. “E lei può chiamarmi Taro” dissi. Vedi come funzionano le cose?, pensai. Ho già trovato un nuovo amico.

Nino mi strinse energicamente la mano, poi tornò ad imbracciare il suo strumento.

E vieni da lontano” continuò “Posso chiederti come sei finito qui?”

Mio padre è un pittore” sospirai “Aveva bisogno d'ispirazione. A dire la verità è tutta la vita che la cerca, non so se la troverà mai.”

Non essere arrabbiato con tuo padre” disse Nino, che, probabilmente, si era accorto del rancore nella mia voce “Molti sbagliano senza accorgersene. Basta farglielo notare.”

Crede che non l'abbia mai fatto?” ribattei.

Intendevo dire che spesso gli adulti ragionano come se quello che fanno vada bene per forza, ma spesso non ne sono convinti nemmeno loro.”

Mi strinsi le ginocchia contro il petto. “Non mi interessa quello che pensa mio padre, né quello che cerca. Sono stanco di voler bene alle persone, se so che dovrò lasciarle indietro.”

Probabilmente l'avrà dovuto fare anche lui, anche se magari non te ne sei mai accorto.”

Tacqui un momento, mentre un vecchio ricordo mi attraversava la mente come un fulmine; in fin dei conti avevo scelto io di seguire mio padre, quando lui, proprio per evitare di sballottarmi in giro per il mondo, avrebbe voluto che andassi a vivere con mia madre e la sua nuova famiglia. Buffo, ero tanto arrabbiato che non avevo mai pensato di essermela cercata un po' anch'io.

Ma non mi bastava, come consolazione.

Non ho più una casa, Nino” piagnucolai “E' una sensazione orrenda. Perfino quando mi è capitato una volta, in Giappone, di tornare nella stessa casa in cui avevo vissuto tempo prima, e non mi sembrava più mia, era tutto diverso. E ogni volta è la stessa storia, non faccio in tempo ad ambientarmi da qualche parte che mi tocca ripartire. Ormai non disfo nemmeno le valigie... Ma la cosa che mi fa più male è non avere più con me i miei amici, doverli sentire con il contagocce, giusto per non farmi dimenticare. E alla fine resto solo. Sempre solo... E adesso sono veramente stanco.”

Nino mi guardò con un'espressione strana, dura e triste allo stesso tempo.

Tutti abbiamo una casa” mi disse “Ma non parlo di quattro mura, due mobili e un pezzetto di giardino. La tua casa è il posto in cui sai che puoi tornare quando vuoi e sei sicuro di trovarci le persone che ami. Le distanze non cambiano le persone, né i loro sentimenti; tu puoi seguire tuo padre in capo al mondo, ma il giorno i cui deciderai di tornare dai tuoi amici, i tuoi veri amici, li troverai esattamente come li hai lasciati, pronti ad accoglierti. E poi sei un cittadino del mondo, Taro: ovunque tu vada lasci un po' di te a quelli che incontri e raccogli anche un po' di loro. Un giorno metterai insieme tutto quello che hai, e ti renderai conto di non essere mai stato solo.”

Lasciò andare la chitarra e mi pose una mano sulla spalla, guardandomi negli occhi.

Non fare il mio stesso errore” disse “Tu non sei solo. Nessuno è solo, mai. Ricordatelo.”

Avrei voluto chiedergli che errore aveva potuto commettere, ma in quel momento mi venne spontanea un'altra domanda.

Lei...lei, invece, cosa cerca?”

Nino lasciò andare la mia spalla e guardò davanti a sé, senza perdere la tristezza nei suoi occhi azzurri.

I conigli” rispose.


Quelle sono le ultime parole che ricordo. Forse fu colpa del caldo, fatto sta che mi ritrovai, non chiedetemi come, seduto in una vecchia osteria di Fontvieille, puzzolente di tabacco, circondato da persone molto preoccupate per la mia salute. Qualcuno mi stava tamponando la testa con un panno bagnato e molto freddo. Rabbrividii.

Ho detto fresco, pezzo d'asino, non gelido! Vuoi provocargli uno shock termico?!”

Senti, Louis, sarai anche il farmacista, ma hai la metà dei miei anni e non hai visto nemmeno un quarto dei colpi di sole che io ho visto. Quindi lasciami fare, accidenti.”

Oh, finalmente si è svegliato! Come ti senti, ragazzo?” chiese una donna dal viso tondo e gentile che mi stava tenendo la mano.

Ma cosa vuoi che capisca, Danielle! Non vedi che è giapponese?”

Un uomo con gli occhiali si chinò verso di me e, muovendo le labbra in un modo buffissimo, come per articolare meglio le parole, mi domandò: “Tu...parli...francese?”

Trassi un profondo respiro. Mi sentivo debole e la mia testa stava ribollendo.

Credo che dovrei chiamare mio padre” dissi, in francese. Era una frase stupida, lo so, ma in quel momento era tutto ciò che volevo.

La donna gentile mi sorrise, porgendomi un bicchiere d'acqua che bevvi avidamente. “Mireille è appena andata ad avvertirlo” disse “E' passato di qui a cercarti un'ora fa, era molto preoccupato.”

Mi sentii un po' in colpa per questo. Pensai che avremmo fatto una bella chiacchierata, quando saremmo tornati a casa.

Come sono finito qui?” domandai “Ero al mulino e...”

E ti sai fatto una bella passeggiata, direi” disse l'uomo che gli altri avevano chiamato Louis “Sauveur ti ha trovato mentre vagavi nel parcheggio del mulino in stato confusionale. E, da bravo malfidente, ha pensato bene di portarti qui anziché al pronto soccorso.”

Quest'ultima frase aveva un tono di affettuoso rimprovero, perchè l'anziano Sauveur sorrise bonariamente.

E dove avrei dovuto portarlo, a Montauban? Questo poveretto stava friggendo! E poi te l'ho detto, le insolazioni sono la specialità del posto...”

E Nino...?” dissi. All'improvviso avevo realizzato che il mio amico chitarrista non era lì con me.

I due uomini e la donna si guardarono tra loro.

Nino chi?” disse Louis “Non hai fatto altro che chiamare quel nome fino a quando ti sei svegliato...”

Era con me su al mulino” dissi “Stavamo parlando... Non l'ho nemmeno salutato...”

Sauveur inarcò un sopracciglio. “Bell'amico, se ti ha lasciato in questo stato” disse “Comunque al mulino non ho visto proprio nessuno.”

Ma doveva esserci. Era alto e biondo, con gli occhi azzurri. Stava scrivendo una canzone...”

Danielle ridacchiò. “Un bell'angelo custode, direi! Poco professionale, forse, ma se dovessi ritrovarlo promettimi che me lo presenterai, ragazzo!”

Sospirai. Non so perchè, ma mi sentivo strano. Mi domandai se non mi fossi sognato tutto, ma non era possibile. Le sensazioni che avevo provato mentre parlavo con Nino guardando il paesaggio erano troppo forti per essere inesistenti. E lui non avrebbe mai potuto abbandonarmi in quel modo.

Ad un tratto, guardandomi intorno, vidi, appesa ad una parete, una vecchia fotografia in bianco e nero, in una cornice scrostata, con qualcosa scarabocchiato sotto. Spalancando gli occhi, mi alzai di scatto dalla sedia, che cadde sul pavimento facendo un gran fracasso.

Nino!” gridai, indicando la fotografia “Eccolo, è lui! Sono sicuro che è lui!”

Guardando meglio la foto, vidi che era addirittura autografata. Avevo ritrovato il mio amico, e avevo scoperto che era davvero famoso! Un tipo eccentrico, probabilmente.

Piacevolmente sorpreso, mi voltai verso i tre, ma le loro espressioni non mi piacquero per nulla. Danielle emise un sospiro, guardando il pavimento; Louis e Sauveur si erano notevolmente irrigiditi, e Sauveur mi fissava, gli occhi ridotti a due fessure.

Tu non puoi aver visto quell'uomo” disse Louis.

Io rimasi perplesso. “Ma era lui, come ve lo devo dire?” sbottai “Se non mi credete, beh, mi ha detto che è un antropologo, o qualcosa del genere, e che vive in un altro paese, come si chiama, Mont...Mont...”

Montcuq” disse Sauveur avvicinandosi a me “Quel signore si chiamava Nino Ferrer, ed era un cantante piuttosto famoso. Per la nostra generazione, almeno. Alla nostra Danielle piaceva molto, e anche a me, se devo dirla tutta.” Staccò la cornice dal muro e la guardò con malinconia.

Nino sembrava parecchio più giovane, ma aveva la stessa espressione attenta e sincera che ricordavo. O credevo di ricordare.

Mi bloccai un istante, pensando alle parole di Sauveur.

Perchè ha detto che era...?” domandai, temendo la risposta.

Perchè lo era” rispose Louis “E' morto due giorni fa. Si è sparato con un fucile da caccia.”


Alla fine non ce l'avevi fatta. Tua madre, con cui avevi diviso tutta la tua vita, era morta e tu non avevi potuto sopportare di essere rimasto solo.

Avevi sessantaquattro anni.

Era questo l'errore che avevi commesso, Nino? L'errore che non volevi che io ripetessi?

Credevi di non aver più una casa in cui tornare, e forse era questo che stavi cercando sulla collina, quando invece hai trovato me; hai voluto tornare un'ultima volta in un posto che sentivi tuo.

Ma io ho capito la lezione, Nino.

Io tornerò a casa, ovunque sia.


Mio padre venne a prendermi poco dopo, ero talmente sbigottito che non riuscivo nemmeno a piangere.

Parlammo molto, quel pomeriggio.

Il giorno successivo, dopo aver sistemato un po' la casa, andammo a Montauban e, oltre a contattare una compagnia telefonica dal nome impronunciabile (a dire la verità in quel momento non sentivo più di tanto la necessità del telefono, ma colsi lo stesso l'occasione), cercammo una raccolta di successi di Nino Ferrer. Sembrava che andassero a ruba; io rimasi un po' disgustato da quelle lacrime di coccodrillo puramente commerciali, ma comprammo lo stesso il cd.

Lo ascoltammo tutto il pomeriggio, tenendo le finestre aperte; era bello lasciare entrare un po' di fresco, e pensare che il vento si portasse via quelle note leggere. Alcune canzoni erano piuttosto stupide, come “Donna Rosa”, che sembrava una canzonetta per bambini, ma altre erano davvero belle. A papà ne piaceva una che si chiamava “La pelle nera”; aveva un bel suono blues molto vivace, anche se non capivamo un accidente di quello che diceva, visto che cantava in italiano.

Poi arrivò “Le Sud”.

Era esattamente come ricordavo di averla sentita canticchiare da lui. Non avrei mai creduto che si potesse provare a cantare di cose così semplici come cani, gatti, bambini che giocano, panni stesi, e che potesse uscire qualcosa di così bello.

Non lasciai finire la canzone. Uscii di casa senza dire una parola, lasciando che le note mi seguissero; strappai qualche fiore di lavanda dal cespuglio sotto la finestra e dissi a papà che non sarei tornato tardi. Lui annuì senza dire nulla; credo che sapesse dove volevo andare.


La strada per il mulino non era così faticosa, la sera. Quando arrivai erano più o meno le sette, il sole stava cominciando a calare e il parcheggio era deserto.

Salii al mulino e mi fermai davanti al punto in cui stava seduto Nino, il giorno del nostro incontro. Quando vi deposi il mazzolino di lavanda mi sentii un idiota; come se da quelle parti non crescesse altro.

Rimasi un attimo così, a pensare a quella strana giornata.

Non so se sei venuto per me” dissi, dopo essermi accertato che nei dintorni non ci fosse veramente nessuno “Ma grazie lo stesso.”

Poi mi sedetti, appoggiando la schiena contro la parete calda del mulino, e restai a guardare il sole che calava mentre il cielo diventava sempre più scuro, annusando l'aria profumata di gelsomino e pensando a quello che avrei raccontato a Tsubasa e agli altri appena ne avessi avuto la possibilità.

Ad un tratto, il silenzio fu rotto da un fruscio che proveniva da un cespuglio, un paio di metri più in là. Rimasi immobile, trattenendo il respiro, ma pronto a levare le tende alla svelta.

Due leprotti marroni sbucarono fuori dal cespuglio e si guardarono intorno, saltellando di qua e di là e arricciando i piccoli nasi. Dopo qualche istante ne saltò fuori un terzo, un poco più audace degli altri due perchè mi si avvicinò lentamente, a piccoli balzi, pur mantenendo cautamente le distanze.

Sorrisi piano, come se temessi di far rumore allargando le labbra, e, senza muovermi di un millimetro, seguii con lo sguardo le bestioline che mangiucchiavano i pochi ciuffi d'erba che trovavano in giro.

Il mio cuore si mise a battere un po' più velocemente osservando quello spettacolo talmente semplice e banale ma che, a pensarci bene, non avrei mai immaginato potesse essere così bello. Mi vennero in mente Daudet, che se l'era goduto il giorno del suo arrivo, e Nino, che non aveva potuto farlo, ma a cui sarebbe sicuramente piaciuto moltissimo. Chi non avrebbe amato una compagnia come quella?

Forse era quello che intendeva Nino, per dire cosa significava essere del Sud.

Le lacrime cominciarono a salirmi agli occhi e io mi sentivo leggero, ma non era commozione; era felicità. O, se non lo era, le assomigliava davvero molto.

Continuai a guardare i conigli che si muovevano nervosamente intorno a me; le loro code sembravano brillare nell'imbrunire, piccoli batuffoli bianchi che andavano su e giù ad ogni balzo. Ad un tratto, il rombo di un'auto li fece rizzare sulle zampe, immobili e attenti. Poi, quando il rumore si fu spento nella semioscurità, si rimisero a quattro zampe e, com'erano venuti, se ne andarono via.




FINE



Note di servizio:

Ero nel sud della Francia quando ho sentito per la prima volta “Le Sud”, tanti anni fa, ed ero sempre nel sud della Francia quando ho saputo della morte di Nino Ferrer. Ricordo che la notizia mi aveva colpito parecchio, soprattutto pensando alla dolcissima malinconia estiva della canzone e alle tragiche circostanze della morte di Nino. Ma questa storia non è nata per lui, anche se spero che mi perdonerà per questa boiata.

Era un bravo cantante, Nino Ferrer, anche se qui è davvero famoso per “Donna Rosa” e “La pelle nera”. I più giovani di voi chiedano ai genitori (era un cantante degli anni '60!), sicuramente se ne ricorderanno. Io ne ho sentito parlare da mio padre, collezionista di dischi incallito.

Ad ogni modo questa storia non nasce come una ff, ma come una specie di originale che avevo iniziato a scrivere almeno 7-8 anni fa, ma su tutt'altro tono. Ero stata davvero al mulino di Daudet e mi ero innamorata sia di Fontvieille che del posto, un pochino sperduto, in cui il mulino si trovava (e si trova tutt'ora, ovviamente!). Dopo aver letto “Lettere dal mio mulino” (che consiglio a tutti) avevo deciso che dovevo scriverci sopra qualcosa, e pensavo di immaginare un ragazzo, a Fontvieille per le vacanze, che prende un bel colpo di sole andando al mulino, e incontra Daudet in persona che gli fa rivivere i racconti delle “Lettere”.Il problema è che non sapevo come e dove andare a parare. Poi, un bel giorno, ho scoperto sul sito dedicato a CT “Endless Field” una challenge in cui bisognava scrivere una storia ambientata in una nazione qualsiasi, ma in cui la nazione in questione fosse parte integrante.

E' stato un attimo; Tom (anzi, Taro, anche se mi fa un po' impressione chiamarlo con il suo vero nome! Del resto Tom Baker non è proprio un nome giapponese, no?), Francia. Anzi, sud della Francia. Per di più avevo messo come introduzione a quella storia proprio “Le Sud”. Eliminai Daudet e ci misi Nino, facendo diventare la storia un guazzabuglio di mielosa malinconia.

Forse non vi piacerà, ma a me sì, primo perchè molti dei sentimenti incasinati di cui parlo sono miei personali, e poi perchè sono riuscita a scrivere la parola FINE ad una vecchia idea. E per me è un graaaaaande passo avanti!

Grazie quindi a Melanto, che ha avuto l'idea di quella splendida challenge (anche se quando ho finito questa ff era scaduta da un pezzo, ma non importa, io arrivo sempre in ritardo!) senza la quale questa storia non esisterebbe (e sarebbe stato meglio, direte voi).

Grazie a mio marito, a cui non faccio leggere assolutamente nulla di quello che scrivo, e che trattiene a stento la curiosità...ma la trattiene, spero!

Grazie ai miei genitori per avermi portato in quel posto meraviglioso che è la Provenza.

Grazie a Nino Ferrer, che doveva essere un tipo davvero in gamba. Peccato.

Grazie a quelli che, dopo aver letto questa roba, andranno a leggersi i libri e i racconti di Alphonse Daudet e, magari, ad ascoltarsi “Le Sud”...

...et toujours en etè!

Baciotti

Ruby

PS: le lepri non sono conigli, lo so. Concedetemela come licenza poetica...

PS2: Sauveur e Danielle sono due adorabili signori che spero di rivedere, un giorno o l'altro, a Frontignan. Au revoir!

  
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