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Autore: ValentinaRenji    21/10/2014    1 recensioni
Italia, Seconda Guerra Mondiale.
Dal testo:
È tremula come me in questo momento, pensa Rukia, lasciandosi sfuggire un' amara risata fra le labbra appena accennate , maggiormente simile ad un singhiozzo che a un tentativo di autocommiserazione. Ed in effetti il suo desiderio è realmente quello di sciogliersi in un pianto accorato, uno di quelli scomposti, scandito da singulti e parole confuse, un pianto che ti fa accasciare sfinito sul materasso vecchio facendoti scivolare in un sonno vuoto e tetro. Ma la parola dormire , per lei, è ormai un vocabolo lontano e sconosciuto.
(TEMPORANEAMENTE SOSPESA PER MOTIVI DI STUDIO)
Genere: Azione, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Espada, Kuchiki Rukia, Kurosaki Ichigo, Sosuke Aizen, Un po' tutti
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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CAPITOLO 3


Mia cara Rukia,
le foglie dei castagni hanno iniziato a cadere da qualche giorno simili ai coriandoli di Carnevale lanciati dai bambini lungo le strade, puntellando i prati delle valli di macchioline colorate e calde come questi ultimi raggi di tramonto che illuminano le pagine giallastre su cui sto scrivendo. Sai, mi piacerebbe averti qui, accanto a me, con il capo posato sul petto e sulla spalla, le mie braccia attorno alla tua esile figura per scaldarla dalle prime note del freddo serale via via più aspro; le notti qui sono fredde, Rukia, perchè la paglia dove dormiamo è secca e ci punge i fianchi, si infiltra fra le vesti già logore arrossandoci la pelle e al mattino ci svegliamo morsi dagli aghi del gelo e dalla pruriginosa sensazione di avere addosso quelle odiose schegge di legno del pavimento malandato e i filamenti del fieno sfibrato. Lo stanzone è abbastanza stretto e noi, nonostante non siamo troppi, ci ritroviamo costretti ad ammassarci gli uni sugli altri se vogliamo evitare i fori del tetto da cui cola l'acqua delle ultime piogge , alzandoci ugualmente interamente madidi d'umidità appiccicata al ventre ed alla schiena. A volte mi capita di sbarrare gli occhi nel bel mezzo della notte, quando il buio ancora divora il cielo ed i pendii densi di alberi frondosi, tastando accanto a me il corpo addormentato dei miei compagni domandandomi ancora dove mi trovo, per poi precipitare nella scura consapevolezza di essere lontano da te, diviso da strapiombi e da abeti invalicabili ai miei occhi. Vorrei stringerti, Rukia, vorrei abbracciarti e sussurrarti nell'orecchio che va tutto bene e presto tornerò da te, che potremo finalmente sposarci ed avere dei figli, tanti figli ricordi? Il nostro sogno di creare una famiglia numerosa, la nostra famiglia, e di trascorrere le domeniche autunnali sotto i placidi raggi del sole pomeridiano fra le foglie rosse degli aceri e le ghiande che cadono dalle querce guardando i piccoli giocare con le bambole o a nascondino mentre noi rimaniamo seduti fra gli steli d'erba ancora smeraldina, scossa dai soffi della brezza profumata di terra e muschio.
Mi piacerebbe dirti un'infinità di cose, ma come sai non sono mai stato bravo con le parole; mi sono sempre gettato nelle cose, privilegiando i gesti e penalizzando tutto il resto, convinto che in ogni caso a noi sarebbe bastato uno sguardo, anche fugace, per capirci e risponderci senza bisogno di dar sfogo alla voce. Ma ora siamo lontani, non posso guardarti, non posso scrutare il tuo viso dolce e latteo, non posso carezzarti le guance nè posare su di loro i palmi tiepidi carezzandole piano. Perdonami perciò se troverai confuse queste poche righe, ma le mani tremano dall'emozione ed il cuore mi batte talmente forte da riempire la mente, spazzando i pensieri, sfollandoli da una parte all'altra in una matassa aggrovigliata ed indistricabile.
Cosa posso raccontarti per farmi perdonare? Ti ho abbandonata, ho gettato fra le macerie delle case e dei palazzi le nostre speranze, le promesse, le giornate trascorse insieme a fantasticare su un futuro che ti sto costringendo a consumare nella solitudine di quelle mura bianche. Vorrei giurarti che tornerò, perciò di attendermi alla finestra aspettando di intravedere quella zazzera arancione che mi ritrovo al posto dei capelli, quella che tu stessa prendevi in giro ridendo cristallina mentre le dita sottili ne stringevano le ciocche ramate e ribelli. Non voglio illuderti, ma so che sei e rimarrai forte.
Sai, questa mattina quando mi sono destato avevo il sorriso fra le labbra: avevo sognato di passeggiare mano nella mano lungo la via centrare del paese facendo sapere al mondo intero quanto è forte l'amore che ci lega. Ed allora camminavamo per ore, sostando di tanto in tanto sulle panchine sotto i lampioni dal fascio aureo, sovrastati dalle chiome dei meli gravidi di frutti non ancora maturi, scambiandoci qualche bacio furtivo al sapore di cioccolato. i Ci divertivamo tanto, ricordi? Tutti gli occhi erano puntati su di noi e ci crogiolavamo nell'orgoglio. Se tornerò ti porterò al cinematografo e guarderemo di nuovo quelle pellicole dalle immagini veloci e sbiadite, ci immergeremo in quelle storie che ti facevano venire i lucciconi agli occhi ed annacquavano le tue perle blu come il crepuscolo. Potrò stringerti ancora fra le mie braccia per consolarti? Anche ora, a ripensarti, il mio cuore ha fatto un balzo. Mi pare quasi di annusare di nuovo il tuo profumo dal retrogusto di miele, di sentire il solletico dei tuoi capelli neri sulla pelle nuda del collo quando tuffavi la fronte nell'incavo della mia spalla per non farmi vedere le guance arrossate dall'emozione: non ammetterai mai di commuoverti anche tu, vero? Un giorno te lo farò dire, vedrai. E quando quel giorno arriverà tu sarai stretta nel tuo cappotto della domenica, quello liscio come la seta e morbido al tatto, ed il tuo corpo da esile bambina sarà agghindato dal più bel vestito del tuo armadio; allora tui passerai le dita affusolate fra i ciuffi che mi ricadono sulle fronte, sistemandoli con malcelato affetto, ostentando l'orgoglio ed il pudore che ti contraddistinguono da sempre e che mi rendono felice di urlare alla città intera che tu sei la mia donna, la mia compagna, la mia futura moglie.
Mi riaccoglierai mai, Rukia? Mi sento un gatto spaurito disperso nei vicoli bui di un borgo sconosciuto, bagnato dalla pioggia e ghermito dalla fame; ciò che mi rimane sei solamente tu, tu con quel sorriso sincero e i modi un pò bruschi e freddi  propri della famiglia Kuchiki. 
Devo proprio riporre il pennino ora, la foschia sta calando ed i compagni mi aspettano alla base, forse sono preoccupati perchè non mi vedono da ore ma non temere, non cancellerò il tuo ricordo dal mio cuore nemmeno per un istante. Ti amo, Rukia, te l'ho mai detto? Quando ti coricherai pensami, anche per un solo istante, e sappi che io sto facendo lo stesso.
Prenditi cura di te, di Byakuya, della nostra casa.  Spero ti giunga questa lettera, spero tu possa cogliere la malinconia che mi affligge il petto e la speranza che lo scalda combattendo la nostalgia. 
Ti penso, ti penso ogni istante, sei la mia forza. 
Quando ci rincontreremo ti parlerò dei Compagni, sono così strambi: uno peggio dell'altro! Ma in fondo sono tutti bravi uomini.
A presto, 
Tuo Ichigo.


"Non puoi spedirgliela, lo sai?"

Il giovane alza gli occhi verso la voce gentile, leggermente roca, incrociando due perle d'ebano puntate su di lui, i fogli scribacchiati ancora stretti fra la mani tanto da sgualcirne i bordi ocra. Sospira mestamente, corrugando le sopracciglia rossicce in un'espressione corrucciata, seria, pensierosa.

"Capitano Ukitake, devo farlo. Non posso ... io non .."

"Lo so ragazzo ..."

Gli appoggia una mano sulla spalla, fraterno, lasciando trasparire note di tristezza da quegli occhi perennemente affidabili e placidi, pacati, un punto di riferimento quando ogni speranza pare smarrita, vana.

"So cosa provi, Ichigo. Conosco quel nodo stretto nel petto, il peso che ci portiamo dietro ogni giorno sapendo di aver lasciato lontano la persona che amiamo. Dì un pò, hai scritto alla tua lei, vero?"

Il ragazzo annuisce, deglutendo il nodo aggrappato alle pareti arse della gola, cercando di inghiottirlo per intero prima che si arrampichi fino agli occhi e poi si riversi sulle guance in piccoli rivoli tiepidi e salati. Deve essere forte, se non per sè almeno per Rukia, per Juushiro, per i Compagni. Non c'è posto per la debolezza, nè per il dolore: bisogna guardare in avanti, superare gli ostacoli celando la fiducia nell'animo, rialzandosi ad ogni caduta.
Scruta sottecchi l'uomo sedutosi accanto a lui, la schiena adagiata alla corteccia ruvida del castagno, le iridi ossidiana perse nel volto scarno della nebbia gravosa e densa, velo statico e pesante sospeso fra cielo e terra.

"Come si chiama la tua bella?"

"Rukia ... Rukia Kuchiki."

Ukiteke sussulta, facendo ondeggiare la chioma biancastra umida di foschia.

"Perbacco! La sorella di Byakuya? Che colpo ragazzo! Hai scelto una donna in gamba! La conosco da quand'era bambina lo sai? E'  come una figlia per me. Non hai idea di quanto sia felice a saperla fra le braccia di un ragazzo come te."

Ichigo arrossisce, lusingato da tanta stima immotivata nei suoi riguardi. Rimane in silenzio, ascoltando la risata mesta del suo superiore, delineando i contorni del suo viso adulto, maturo, uno di quelli che sembrano aver capito come gioca la vita quando ci si trova alla resa dei conti.
Ormai convive con quel gruppo sgangherato da ben due settimane ed ha iniziato a conoscere, seppur ancora sottilmente, le diverse personalità presenti nonostante il crescente nervosismo provocato dall'inspiegabile calma piatta scesa improvvisamente: dei tedeschi nemmeno l'ombra.
Le mine sono ancora intatte lungo la via, non un passante, non un veicolo, nemmeno un soldato: niente di niente.
E questo indistricabile nulla pare alterare gli animi e soggiogare la quiete trasformando la comitiva di compagni un un assemblato di fiere chiuse in una gabbia, che camminano avanti ed indietro scavando solchi sul pavimento tanta è l'inquietudine.
Ad ogni fruscio del vento saltano in piedi come cavallette, braccando fucili e bombe a mano o qualsiasi arma a disposizione, lanciando occhiate stanche per accertarsi che quel picchiettare sul tetto erano solamente le ghiande cadute dalle querce, che quel suono cupo e lontano non era altro che il canto di un gufo affamato.

"Vedrai ragazzo, se la caverà. E' una giovane forte e suo fratello la proteggerà sempre."

"Dovrei essere io a proteggerla. Ed invece l'ho abbandonata."

Una smorfia dispiaciuta attraversa il volto del Capitano, o almeno così lo nominano, facendogli inclinare le labbra sottili.

"Non ti crucciare, Ichigo. Nessuno di noi ha abbandonato chi ama, se ne è solo separato per un pò, continuandolo a proteggerlo da qui. Ogni nemico che abbatteremo sarà un passo in meno verso la nostra casa, una distanza via via più corta capisci? Non siamo codardi stipati in questo rifugio per scappare agli orrori della guerra. Noi siamo qui per combatterla, per debellarla, per liberare i cuori della gente ed il Paese. Non siamo noi i nemici, ragazzo. Quelli sono là fuori, fra le vie delle città, alcuni addirittura sotto i tetti delle case dove qualche sciocco li ospita."

"Non dovremmo combattere l'odio con altro odio."

"Hai ragione ragazzo, hai ragione ... Ecco perchè siamo qui. Ecco perchè Stark è da due settimane accovacciato fra le felci per controllare che nessuno inciampi in quelle mine, ecco perchè non bombardiamo le città come invece fanno i nemici. Noi stiamo solo difendendo ciò che ci appartiene, niente di più. Vogliono la terra? Vogliono i soldi? Potevano benissimo presentarsi e chiederceli, glieli avremmo dati. Ma non possono irrompere nelle vite delle persone e rubargli tutto: l'orgoglio, la dignità, l'amore, la vita. Non possiamo permettere loro di sottrarci la nostra stessa anima. Ci sacrificheremo se necessario, ma almeno saremo uomini liberi."

Il ramato abbozza un sorriso, stringendosi nelle spalle, titubante, osservando una figura massiccia risalire la salita dello spiazzo erboso, stagliandosi fra la nebbia mentre gli si avvicina.

"Cosa hai da fissare pivello?"

Il ragazzo assottiglia le iridi cerulee, puntandole rabbiosamente verso il giovane rannicchiato contro l'albero, sul volto dai lineamenti duri è dipinta la solita aria feroce, irosa, perennemente stizzita. Lo vede ciondolare le braccia lungo i fianchi, stanche e pesanti, entrambe suggellate dalla massa delle armi cariche fino a scoppiare tanto da riempirgli le dita di calli brucianti e vesciche dolorose. 
Ukitake gli fa cenno di riposarsi accanto a loro, invitandolo a sedere:

"Vieni Pantera, raccontaci come è andata."

"Come volete che sia andata? Non ho visto nemmeno uno di quei brutti musi. Poi è calata questa merda di nebbia !"

"Già non ci voleva ... senti Pantera ce lo faresti un favore?"

Il ragazzo dalla chioma turchese sbatte le palpebre, ancora in piedi nonostante gli arti terribilmente doloranti e lo stomaco trafitto dai morsi della fame. Scuote appena il capo come a dirgli di proseguire, inarcando un sopracciglio azzurro nell'attesa della domanda.

"So che non si potrebbe data la pericolosità dell'azzardo però mi fido ciecamente di te e di Renji quindi ... vorrei che alla prossima spedizione notturna infilaste questa lettera sotto la porta di Kuchiki."

Sfila dalle mani di un assorto Ichigo la lettera da lui scritta, porgendola gentilmente verso il compagno che, prontamente, l'afferra iniziando a leggerne il contenuto, con la conseguenza di far arrossire visibilmente il ramato, le guance paonazze di imbarazzo.

"Spero sia una lettera in codice."

"E' una semplice lettera di Ichigo per la sua fidanzata. E' molto importante per  lui. Potete farlo?"

"Scordatevelo! Io non ci rimetto la pelle per certe cazzate!"

Lancia a terra i fogli, sbraitando quelle parole con la voce incrinata dalla rabbia e gli occhi lucidi, vitrei; trafigge le perle nocciola del compagno più giovane con le sue schegge turchesi, furenti, biascicando sporchi insulti prima di allontanarsi verso l'alloggio a grandi falcate. 
Kurosaki deglutisce la vergogna, cercando di scordare le smorfie disgustate di Grimmjow e la cattiveria vomitatagli addosso. Perchè lo odia così tanto?
Quasi a leggergli nel pensieri, Ukitake lo anticipa rivolgendoglisi tranquillamente, con quel tono affabile che ti mette a tuo agio in qualsiasi evenienza:

"Non ti preoccupare, è stata colpa mia. Avrei dovuto chiederlo direttamente a Renji, vedrai lui non dirà di noi. Se riguarda i Kuchiki è disposto a tutto."

"Capitano Ukitake ... perchè Pantera ha reagito in quel modo? Certo lui risponde sempre male a chiunque ma questa volta ... sembrava diverso."

L'uomo annuisce serio, scostando una ciocca chiara dietro la spalla esile, morsa da brividi di freddo.

"Avevo scordato che è meglio evitare certi argomenti con lui ... Vedi, non sappiamo molto del suo passato. Ma quelle poche informazioni che abbiamo sono terribili."

Ichigo sbatte le palpebre simile ad un bimbo che ascolta attento i genitori, bevendo assetato ogni goccia delle loro parole lontane e difficili.

"Anche lui aveva una ragazza prima di venire qui, un giorno ho visto la sua foto, gli era scivolata dalla tasca. Era veramente bellissima sai? Aveva degli occhioni grandissimi e lunghi capelli raccolti in boccoli. Si chiamava Neliel."

"Era? Perchè era?"

"E' stata assassinata da due tedeschi."

Scuote il capo, il volto inscurito dalla rabbia e dalla frustrazione. Si morde il labbro inferiore mentre il vento scuote le chiome rossastre degli alberi, avvolti dalle grinfie della foschia e dai brandelli di quel cielo cupo, perlaceo, di quella cappa che pare incatenarti e rubarti il respiro.

"E non erano due tedeschi qualsiasi.. Erano due fra i più alti gradi di Aizen."

Improvvisamente la vergogna scivola via, lasciando posto ad una sensazione gelida e sgomenta che pian piano si espande nel petto: d'un tratto l'immagine di quel ragazzone selvatico e violento gli provoca una profonda pena. Rivede i pantaloni sdruciti in più punti, rattoppati sulle ginocchia ma ugualmente smembrati in altre zone tanto da lasciar intravedere la pelle nuda; rievoca il suo sguardo triste, mascherato dietro una coltre d'odio scricchiolante al primo effimero ricordo. 
Non sa perchè, ma in questo istante, sente di poterlo capire almeno un pò: forse Grimmjow non era per davvero la belva che ostentava ogni giorno.

"Vado a parlargli."

"Aspetta, non so è il caso, lui ..."

Un boato, seguito da un altro, ed un altro ancora. Un susseguirsi di frastuoni cavernosi, di esplosioni talmente forti e pericolosamente vicine da fargli accapponare la pelle, inducendolo istintivamente a balzare in piedi stringendosi al Capitano, immobile come una statua.

"Sono loro. Hanno abboccato."
 
* * * 

"Levamela! Toglimi questa maledetta benda cazzo! Brucia!"

L'uomo sbraita come un animale intrappolato in una tagliola, contorcendosi dal dolore sulla barella improvvisata, le mani strette al volto magro ed affilato mentre dalla gola risalgono grugniti sofferenti e rancorosi, inumani, dettati dal corrosivo bruciore che lentamente gli sta divorando l'occhio sinistro, morso dopo morso.

"Sta fermo."

"Toglimela stronzo! Toglila o ti sparo dritto nel cu..."

Un rumore metallico gli smorza quelle ultime parole, accompagnato dal freddo contatto della sacra boccuccia della pistola spinta sulla pelle escoriata della sua fronte imperlata di sudore.
Due iridi dorate lo scrutano gelidamente indifferenti, leggermente celate da un paio d'occhiali da vista riposti sul naso dritto di quel viso niveo e serio. L'uomo inclina le labbra in un ghigno beffardo, l'indice pronto a far scattare il grilletto, la voce incrinata dal disprezzo verso quello sfinente sottoposto dalle urla terribilmente snervanti.

"O stai zitto o ti ritrovi una pallottola nella testa, hai capito Nnoitra Jilga?"

Il ferito si morde la lingua per non ribattere, limitandosi a lanciare un'occhiata fulminea all'uomo di fronte a lui, la pistola ancora puntata minacciosamente su di lui. L'iride violacea delinea la snella figura del superiore, avvolto nel cappotto scuro dai bottoni perfettamente appaiati, la chioma rosea calcata dal berretto nazista, le ciocche pastello libere sulle spalle, lisce, soffici. Tutto, di quell'uomo, lo nausea.
Da sempre, dal primo istante in cui l'ha visto: la sua voce melliflua, la spietatezza nello sguardo dorato, la svastica applicata sul braccio, cucita nella stoffa del cappotto aderente. Ogni cosa di lui lo fa vomitare, tanto da costringerlo a trattenere i contati nell'esofago ogni qualvolta vi ha a che fare.
Ed ora, propria ora che una scheggia di quelle dannatissime mine lo ha centrato nell'occhio destro, si ritrova ad agonizzare sotto le sue grinfie, costretto ad appellarvisi mentre altri compagni sono letteralmente saltati in aria ed altri non sono riusciti a raggiungere l'accampamento in tempo.

"Dovresti ritenerti fortunato, sei ancora vivo purtroppo."

Glielo sussurra tranquillamente, con quell'odioso accento tedesco strascicato in ogni sillaba, con quella smorfia compiaciuta costantemente dipinta fra le labbra sottilissime e candide. Un viso d'angelo, non c'è che dire. Ma chi lo conosce bene come lui, sa che l'apparenza è un mero specchio sfalsante costruito da fumo e foschia.
Gli strappa la benda con un gesto secco, facendolo ululare dal male atroce, simile ad un pugno di aghi dritto nella ferita. 

"Scordati di poter vedere ancora da quell'occhio, storpio."

Ride gutturalmente, sfilando una sigaretta dalla tasca del cappotto, stringendola fra le dita magre e sottili. La porta placidamente alla bocca, accendendola con un fiammifero sfregato proprio contro il braccio di Jilga , inspirandone una manciata di fumo grigiastro con estremo piacere. Lo scruta in silenzio, un'espressione compiaciuta dipinta sul viso latteo.
Rilascia un rivolo di quel veleno, sibilandolo fra le labbra appena schiuse, pronto a canzonare nuovamente il  Brigadeführer, quando qualcosa di caldo e vischioso lo colpisce esattamente sulla guancia, inducendolo a tastarlo con i polpastrelli, lo stupore ben presto sostituito da una smorfia di puro disgusto.

"Ti sembra il caso di sputare addosso al tuo Reichsführer-SS?"

Così dicendo lo afferra per i lunghi capelli corvini, lucidi, mollandogli uno schiaffo talmente forte da far venire le vertigini. Il moro digrigna i denti, un rivolo porpora cola dal naso infilandosi nella bocca poi, giù, fino al mento glabro, al collo, alle clavicole.

"Non me ne frega del tuo grado finchè so come lo hai ottenuto, finocchio."

Un altro colpo, questa volta più doloroso, scagliato dalla guancetta della pistola con tanta rabbia da sfregiare la pelle già escoriata, inumidendola di sangue sgorgato da quello che diventerà un ematoma ben presto bluastro.

"Rimangia tutto quello che hai detto, feccia."

Alza il braccio in procinto di sferrargli un nuovo schiaffo quando qualcosa lo blocca: una stretta decisa, una mano forte e calda avvinghiata al suo polso come una catena. Si volta lentamente, un lungo brivido che gli percorre la schiena mordendola famelica.

"E' così che aiuti i tuoi subordinati, Szayel Aporro?"

"S... Sua eccellenza Aizen..."

"Allora? Come mi spieghi questo trattamento?"

Il capo SS impallidisce, deglutendo una manciata di saliva nel tentativo di salvarsi in estremo da quella situazione che mette in gioco la sua stessa vita. Sa bene che per il Capitano Aizen non esiste alcun problema nel fucilare qualcuno a sangue freddo da un istante all'altro.
Si sente spogliare completamente da quelle iridi color cioccolato, pozzi profondi, temibili, spettri talmente irti e bui da trascinare nell'abisso chiunque li fissi troppo a lungo.
La stretta sul polso si intensifica, facendolo sussultare di codardia e timore.

"Jilga ... mi ha mancato di rispetto. Mi ha sputato addosso."

Le dita abbandonano la presa, liberandolo da quella prigione algida e permettendogli di voltarsi completamente, dando le spalle al ferito per ritrovarsi di fronte la maestosa ed imponente figura del suo capitano, impettito, calmo come la placidità del bosco prima di una tormenta.
La sua voce risuona roca, talmente grave da stringere le viscere in una prigione così sgomenta da asciugare ogni goccia di saliva.
Fa paura, incute terrore con la sua mera presenza.

"Capisco. Va' allora, Grantz.. Manderò qualcun altro ad occuparsi di lui."

Grantz sobbalza, cercando di contenere un fremito del proprio corpo impercettibilmente tremante, pervaso da rivoli di sudore gelido. Schiude le labbra per chiedere spiegazioni, ma lo sguardo del comandante è abbastanza eloquente. 
China il capo, facendo scivolare la ciocche rosa in avanti con un leggero fruscio.

"La ringrazio Capitano Aizen."

"Sparisci."

Si dilegua in fretta, sparendo oltre l'uscio aperto dal quale si intravede lo spiazzo fangoso esterno alla piccola stanza costruita appositamente come centro di primo soccorso per i feriti del plotone. I suoi passi riecheggiano fra le pareti di mattoni grezzi, allontanandosi man mano fino a sparire sommersi dagli scrosci della pioggia appena iniziata.
L'uomo sorride affabile, anche se chi lo conosce sa bene che qualsiasi forma di gentilezza in lui non è altro che una mera sfumatura della bestia che alberga in quelle membra dalle sembianze umane. Un mostro, una fiera, una belva dalle fauci costantemente imbrattate di sangue.
Si avvicina al ragazzo dalla chioma ossidiana, osservandolo in silenzio: pare avere un'età intorno ai ventitrè anni, il volto deturpato dalla ferita lasciata scoperta, il fascio di bende appoggiato sul mobile di legno chiaro accanto alla barella bianca sporca di limo, appiccicato alle vesti e alla pelle.

"Hai perso solamente l'occhio?"

Il giovane annuisce, fissandolo sfacciatamente con l'iride sana, lo sguardo stravolto dalla rabbia, dalla vergogna, dall'umiliazione, dal dolore. Non se ne accorge, ma ben presto percepisce la vicinanza delle labbra di Aizen sul suo orecchio, udendone un sussurrio appena impercettibile.

"Tienilo d'occhio Jilga. Non mi fido di lui."

Alla stessa velocità si allontana, avviandosi verso la porta ancora spalancata.
Si scrutano a lungo, ammutoliti, nell'aria una palpabile tensione cullata dal canto delle lacrime del cielo plumbeo.

"Allora, lo farai?"

"Può scommetterci, Capitano Aizen."
   
 
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