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Autore: AuraNera_    22/10/2014    1 recensioni
Non serve superare degli esperimenti genetici per essere speciali. Si può scampare alla morte... o essere posseduti.... non saperlo è pericoloso.... ma se ne sei a conoscenza, come va a finire? Qual è il tuo futuro? Perché combattere? Per chi?
Ma soprattutto..... contro chi?
Genere: Drammatico, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Egypt


Era tutto buio. Non vedevo nulla. Anzi, probabilmente non avrei visto più.
Forse ero morta.
Non sentivo, le mie orecchie non mi trasmettevano alcun suono.
La lingua aveva perso sensibilità, come il resto del corpo, tra l’altro.
L’unica cosa di cui ero sicura era il grande buio davanti a me.
Quanto avrei dovuto aspettare prima che mi venissero a prendere? Non volevo stare a lungo lì.
Non successe nulla per un lungo periodo. Poi riuscii ad aprire le palpebre.
Ero nuovamente in quel prato azzurro, l’erba fresca che mi lanciava piccoli brividi attraverso i palmi dei piedi, mentre la luce mi scaldava.
“Lucky!” chiamai. Ma in quel prato ero da sola.
Mi guardai attorno. Muoversi era difficile. Mossi un passo. Poi un altro. Mi guardavo attorno, confusa; ma lì non c’era nulla. Solo un mare d’erba azzurra.
‘L’erba non è azzurra. L’erba non è azzurra. L’erba. Non. E’. Azzurra!’ pensai, tentando di far valere la razionalità, in contrasto con quello che vedevo.
Chiusi gli occhi, frustrata per l’inesistente cambiamento.
Le mie orecchie iniziarono a sentire nuovamente. Era un suono gradevole e costante. La sensazione di fresco si era trasferita fino alle mie caviglie, e si muoveva dolcemente.
Rialzai le palpebre. Il prato azzurro era sparito. Al suo posto, un immenso mare bianco si agitava con leggerezza sotto le mie iridi.
L’acqua cresceva sempre di più di livello. Il piacevole fresco si stava intensificando, diventando eccessivo. Era freddo, faceva molto freddo.
Il freddo della morte.
‘Forse... forse sono morta sul serio... o morirò tra pochi minuti’ pensai, mentre il gelo mi intorpidiva le gambe.
Poi mi ricordai. Era solo una voce, e risaliva ad alcuni mesi prima.
“Il tuo è un caso particolare, Egypt. Il sangue resta caldo, mail cuore non batte. Il diaframma si muove, ma non è un processo di respirazione. Tu non sei viva, ma nemmeno morta. Ecco cosa sei... un mezzo spirito. Un fantasma che non si è arreso, e si aggrappa a qualcosa. O che è stato trascinato via dal mondo dei morti, imprigionato nel corpo terreno.”
Non morta. Non viva. Un fantasma per metà. Uno spirito chiuso in una bambola di carne, ossa e sangue.
Una vita falsa. Una morte inesistente.
Cos’era successo? Io non ricordavo. Perché sono morta? Quando è successo?
E come...?
Domande poste di continuo, risposte uguali l’una all’altra.
Il freddo penetrava nelle costole ormai, mi mozzava il respiro. Già, ma quale respiro? Io non respiravo. Ero un cadavere caldo. Ero morta.
Morta.
Mi inabissai del tutto il freddo pungente che mi attanagliava ovunque. Volevo piangere, ma sarebbe stato inutile.
Sentii un piccolo abbaiare. Aprii gli occhi.
“Lucky...?” chiamai esitante e l’acqua non si oppose. Lei abbaiò di nuovo.
Ma era un cucciolo. E non stava rispondendo al mio richiamo, ma a quello di una ragazzina di dieci, forse undici anni.
“Lucky!” urlava felice, mentre correva verso l’animale, i capelli biondi poco più lunghi del caschetto che svolazzavano seguendo i suoi passi. Attorno a lei si stava delineando una strada, un giardino, una villetta. La bambina accarezzava il cucciolo, gli occhi grigi che ridevano.
“I-io? Come... quando...?” mi chiesi, spiazzata.
Ma dopotutto, era logico che io fossi spiazzata.

“Sai, Kathleen... io non ricordo nulla. Solo da poco più di un anno posseggo delle memorie. E non so neanche il perché! E’ assurdo, vero? Nessuno mi ha mai detto nulla. So solo che non so niente del mondo esterno, io... ricordo solo quelle quattro mura... e nulla più.
“So solo che un giorno mi svegliai in un letto d’ospedale, con un forte mal di testa, il dolore nel corpo e l’odio nel cuore. Già, odio. Un rancore improvviso, potente, inaspettato ed inspiegabile. Ed era indirizzato verso i miei genitori. Non ricordavo, ma riconoscevo.
“Piano piano imparai a ricordare le cose essenziali, come la via dove abitavo, il mio nome e cognome, quelli dei miei. Ma non sorrisi più loro, non sapevo il perché. Qualcosa non mi andava giù. E’ brutto da dire, ma non mi dispiace la loro morte. Forse, andando avanti cambierò idea.”

La piccola Lucy rispose al richiamo di mia madre, iniziando a correre preceduta dal cagnolino verso casa.
“Lucy... LUCY!” chiamò qualcuno.
Entrambe ci voltammo sorprese. Una bimba sui nove anni salutava freneticamente con la manina la me di alcuni anni fa.
Cinque anni probabilmente.
Perché la bambina la conoscevo. Mi erano familiari i suoi occhi verdi acqua, i suoi capelli viola, il classico codino laterale destro.
Louise.
Le due bambine corsero in strada, per abbracciarsi.
Fu un attimo.
Un clacson che strombazzava, il rumore trascinato degli pneumatici sull’asfalto, le urla e poi niente.
Riuscii a vedere il camion travolgere in pieno Louise e urtare malamente la sottoscritta. Poi venne il buio. Probabilmente ero collegata con la mia controparte passata.
Non ci fu nulla per un pezzo.
Sentivo un po’ di male, probabilmente attutito da un sonno troppo profondo. Poi, a poco a poco, anche quello scomparve, lasciandomi dolcemente distesa in una sensazione paradisiaca e confortante.
“Se n.. ... ..ndo” disse una voce distante.
Sempre più flebile, sempre più lontana.
Poi venne il dolore. Era un male acuto, pulsante, torturante. Avrei voluto urlare, ma non potevo muovere la bocca. Avevo gli occhi chiusi, ma non potevo aprirli.
‘Perché mi fate male? Stavo finalmente bene... Lasciatemi stare, vi prego. Per favore... andate via...’ pensavo, mentre il dolore mi attanagliava in tutte le direzioni.
E fu con dolore che risentii quella voce, la voce maschile sconosciuta.
“Il cuore ha smesso di battere. E’ perduta. Chiamate i suoi genitori.” Disse.
Già, perduta.
Aprii gli occhi, spinta da una forza che risaliva a parecchi anni fa.
Riconobbi il mio risveglio.
“Mio Dio... Lucy...” mormorò mia madre, con le lacrime agli occhi. Anche mio padre e il dottore erano il ritratto dello stupore.
I miei mi strinsero, dicendo che andava tutto bene, che era tutto passato.
Loro non sapevano, non sapevano nulla. Mi avevano portato indietro. Faceva male. Ero prigioniera in un corpo che non avrebbe dovuto muoversi.
Loro mi avevano riportato indietro. Le loro stupide preghiere mi avevano condannato a una presenza eterna e immortale.
Sapevo che erano stati loro. Lei, che poi ricordai essere mia madre, aveva la stessa voce della catena e del peso che mi avevano riportato nel mondo terreno. E’ strano da dire.
Io volevo morire. Avevo assaggiato la dolce carezza del sonno eterno e paradisiaco. Loro non me l’avevano permesso. E li odiavo. Li odiavo troppo.
Davvero inspiegabile. Ma in questo caso, l’anima andava al di là dell’odio superficiale dei vivi. Era l’odio dei morti, lo stesso che può far vedere cose come spettri di esso, inviati sulla terra per torturare a livello psichico.
Ma io ero ormai legata all’universo terreno. E potevo manifestare solo attraverso il mio corpo tutto l’odio che in esso era contenuto.
‘Così è per questo... è per la mia prigionia che li odiavo... possibile che avessi dimenticato pure questo?
Il mondo sfumò, e io ero su una carrozzella, davanti allo specchio.
Non riconoscevo quel corpo. Ero pelle e ossa, sembravo malata. Gli occhi erano incavati nel cranio, i capelli (troppo lunghi) erano sbiaditi e sembravano vecchi, gli occhi grigi erano vacui e lontani.
Senza forze, senza memoria. Senza vita. Senza gioia. Senza libertà.
La scena sfumò di nuovo.
Ero in piedi, mi ero rimessa un po’ in sesto. I miei genitori stavano in piedi di fronte a me, stavamo discutendo in soggiorno.
“No, Lucy. E questo discorso finisce qui.” Stava dicendo mio padre. L’altra me era furibonda.
“Perché? Cose volete che faccia chiusa in questa stupida villa a studiare? Mi avete scambiata per un archivio? Io voglio uscire e scoprire quello che ho dimenticato!”
Ricordavo quella litigata. Ricordavo la mia rabbia, la severa testardaggine di mio padre e le lacrime di mia madre.
Litigammo per giorni, prima che io riuscissi ad ottenere il permesso per frequentare il liceo pubblico del paese.
Anche quel ricordo svanì e io mi ritrovai nuovamente circondata dal buio e sommersa dal freddo. Non sapevo come descrivere ciò che stavo provando. Avevo un gusto amaro in bocca.
Sentii qualcosa di caldo e umido guizzarmi veloce sulla mano. Aprii gli occhi.
“Lucky...” sussurrai, mentre il freddo si dileguava, rapito dalla luce del prato azzurro.
La mia amica non era sola. Alzai gli occhi.
“Mamma... Papà...” sussurrai.
“Ci dispiace, Lucy. Ci dispiace così tanto. Ora sappiamo ciò che hai passato. Siamo stati così sciocchi...” esordì mia madre.
“Non potevate saperlo” risposi, sincera. Quel brutto blocco di rancore che attanagliava il mio cuore si era finalmente sciolto.
“Probabilmente no. Ma ora non puoi fuggire... siamo davvero...” disse di nuovo mio padre, ma io lo fermai con un gesto della mano.
“Non ha più importanza. Troverò il modo di uscire dal mondo terreno. Vi raggiungerò e saremo di nuovo una famiglia. Va bene?” chiesi io, felice, ma con le lacrime agli occhi.
Loro, nelle mie stesse condizioni, risposero affermativamente e mi abbracciarono.
La pace era tornata sulla nostra famiglia. Ora eravamo di nuovo insieme.
“Salutatemi Louise. Raccontatele tutto. E anche Pearl” dissi.
Poi loro scomparvero. E io continuai a piangere, sentendomi una stupida, un’ingrata.
Ma ora ricordavo. E sapevo che mi avrebbero sostenuta, che mi avevano perdonata.
Rincuorata, mi svegliai.

Aprii gli occhi, sentendomi indolenzita. C’era troppo silenzio.
Come in un flashback, rividi le scene che avevano preceduto il mio sonno.
Nightmare che mi orlava qualcosa. Io cadevo. La porta alle mie spalle. Il guizzo di una lama. Buio.
Il guizzo di una lama?
Mi alzai di botto, venendo ricompensata dal mio corpo con una fitta, che mi fece ricadere schiena a terra.
La mia mano urtò qualcosa.
Qualcosa di freddo, liscio e leggermente molle.
Qualcosa che sembrava terribilmente pelle umana coperta da della stoffa.
Mi puntellai sui gomiti per sollevarmi lentamente. Era pelle umana coperta da stoffa. Era un braccio. Il braccio di un cadavere.
Il cadavere di Nightmare.
Era sdraiato accanto a me, caduto dalla sedia dopo che una lama gli aveva trapassato il cuore. Una delle mie lame del coltello da lancio, ancora conficcata nel petto del ragazzo.
Era caduto dalla sedia, rimanendo ancorato ad essa tramite delle catene fissate alle gambe del pezzo d’arredamento. Anche se “arredamento” era una parola grossa.
La camicia di forza gli teneva ancorate le braccia. Non poteva difendersi.
Mi avvicinai a gattoni, sperando in un impossibile miracolo. I suoi occhi grigi erano spenti, opachi, lontani.
Vitrei.
Era stato tutto inutile, avevo fallito. Un altro innocente era morto senza che io potessi farci nulla.
Mi misi a piangere come una bambina.
“Dai su, non fare così... si vede che era destino.”
Mi girai talmente in fretta che mi presi un’ulteriore una fitta che mi fece cadere per terra. Di nuovo.
“E - ehi, fai piano!” disse Nightmare.
“Co... co...?” boccheggiai io, incredula. C’erano due Nightmare. Ok, stavo delirando.
Oppure...
“Coccodè” mi canzonò lui sorridendo come un beato idiota. Per poco non gli tirai un ceffone. Era morto davanti a miei occhi e la prima cosa che mi diceva era... ‘Coccodè’?!
Lui sospirò.
“Sei caduta all’improvviso... mi hai fatto preoccupare. Ma sembra semplicemente che i tuoi nervi abbiano ceduto.” Mi indicò con un cenno un altro cadavere accanto alla sedia “E’ stato lui, poi è morto.” Spiegò con tono amaro.
“Avrei dovuto starci più attenta” sussurrai malinconica, ma lui scosse la testa.
“Devi accettare i tuoi limiti. Sei pur sempre un essere umano. Va bene così”  mi consolò.
Annuii, mesta, realizzando che aveva ragione. Ero solo una ragazzina.
Mi rimisi in piedi barcollando appena. E mi spostai appena in tempo per schivare la porta che di sicuro mi avrebbe abbattuta di nuovo.
Una testolina fucsia spuntò da essa, il sorrisone sul volto.
“Trovata!” strillò
“Wish?!” chiedemmo all’unisono io e il corvino. Ma non feci in tempo ad assimilare l’informazione che entrarono anche Hope che sorreggeva una malconcia Valkyria.
“Ehi! Ma che cavolo ti è successo?” esclamò con voce roca quest’ultima, notando i diversi tagli, tra l’altro superficiali, che segnavano la mia pelle.
“Senti da che pulpito. Non stai nemmeno in piedi” ribattei, per poi sorridere, sentendomi d’improvviso più leggera.
“Egypt...” la voce di Wish mi fece girare verso ciò che la piccola stava indicando. Rabbrividii nel vedere di nuovo il corpo del medium.
“E’... morto...?” chiese Valkirya, ammettendo l’ovvio. Girò lo sguardo scandalizzato verso di me, ma io le feci un cenno, indicando il fantasma dello stesso. Anche se lei, ovviamente non poteva vederlo. Però capi ugualmente e stirò le labbra in un mezzo sorriso.
“Cacchio.” Disse semplicemente.
“Va bene così” risposi, nonostante non ne fossi convinta appieno nemmeno io.
Ci incamminammo attraverso il corridoio che dava sulle varie celle, cercando una via d’uscita diversa da quella che avevamo adoperato per entrare. Nessuno era desideroso di vedere altro sangue.
Girai leggermente la testa per osservare Kathleen, stremata a livelli estremi, arrancare sorretta da Hope. Probabilmente Echo era morta.
Wish, che guidava il corteo, si fermò all’improvviso, con i grandi occhi vitrei ce fissavano il soffitto ugualmente grigio. Hope fece lo stesso, con la fronte corrugata.
“Che succede?” chiese Valkyria, in un sospiro di disapprovazione.
“C’è qualcuno... qui sopra” bisbigliò Wish, con lentezza immane, indicando la lamina metallica alla quale erano appesi i neon.
“Il conduttore dei giochi.” Guardai Nightmare.
“Cosa intendi con “il conduttore dei giochi?” domanda ad alta voce, lasciando intendere agli altri cosa il fantasma aveva appena detto.
“E’ lui che ha architettato tutto. E’ lui che dobbiamo eliminare” concluse lui, e io riferii.
Ci fu silenzio, un cenno d’intesa che conteneva il desiderio della libertà, e poi riprendemmo a camminare.
Verso, speravo, la fine.

Angolino nascosto nell’ombra:

Buonasera a tutti! Io sono AuraNera_ e sto per collassare sulla testiera! (ahah, rima)

No, sul serio. Ho un sonnissimo (?) Ma lo stesso ho deciso di postare il capitolo. Perché? Per quei (pochi) che ancora seguono la storia stessa, per poter tornare a scrivere cose più interessanti, perché non vedo l’ora di iniziare la storia che seguirà AA e perché non ne posso più.

Ma l’epilogo mi servirà per fare tutte le considerazioni di questo mondo e anche di altri mondi. Parliamo del capitolo, piuttosto.

Molti (tutti), nel primo capitolo (mente locale, gente!), si sono lamentati dicendo che l’odio di Egypt era esagerato, e che la mancanza di empatia nei confronti dei suoi genitori era del tutto innaturale. Ma questa è una soprannaturale e il tutto era pensato per questo capitolo qui. Però dubito che ne sarete convinti, così, se e quando riprenderò la storia, cambierò un po’ tutto.

Bene... siamo quasi alla fine. Aspettate e sperate, gente! Byeeee! *si diegua*

Aura_

  
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