Serie TV > The 100
Segui la storia  |       
Autore: Helena Kanbara    24/10/2014    5 recensioni
Sono stata una bambina ubbidiente per ben sedici anni, poi ho smesso improvvisamente di eseguire gli ordini del “mondo” e mio padre ha cominciato a chiedersi dove avesse sbagliato con me. Ecco perché sono qui in isolamento, insieme ai delinquenti. Ecco perché passo le mie giornate sola in questa schifosissima cella ad aspettare il mio diciottesimo compleanno per essere giustiziata. Perché non ho voluto seguire gli ordini. Sapete cosa penso? La vita sull’Arca fa schifo. E preferirei di gran lunga la morte.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Murphy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'The heart wants what it wants'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



3.    HUMAN 


I can fake a smile, I can force a laugh, I can dance and play the part.
I can do it, I can do it, I’ll get through it.
But I’m only human and I bleed when I fall down. I’m only human and I crash and I break down.
You build me up and then I fall apart, ‘cause I’m only human. Just a little human.


 
“Consigliere Kane”.
“Comandante Shumway”. Il tipico saluto di circostanza, la solita aria inespressiva. “Ci sono novità?”.
“Sissignore. Abbiamo identificato chi ha sparato al Cancelliere”.
A Marcus Kane bastò semplicemente osservare l’uomo asiatico di fronte a sé annuire ripetutamente perché la sua attenzione si risvegliasse. Aveva ordinato al suo sottoposto di tenerlo informato di ogni nuova scoperta e lui, ovviamente, aveva ubbidito.
Senza fretta, gli pose tra le mani un tablet ultratecnologico e navigò fino a mostrargli la foto di un ragazzo sulla ventina, coi capelli neri scompigliati e la pelle scura. Marcus aggrottò immediatamente le sopracciglia. Non lo ricordava. Poi:
“Di chi si tratta?”, chiese, confuso.
“Bellamy Blake. È l’unica persona mancante sull’Arca. Oltre ai Cento, ovviamente”.
“Non mi ricordo di lui”.
“Chiaro, è un semplice custode”, lo appoggiò immediatamente Shumway, poi riprese a trafficare col tablet che ancora reggeva. “È andato sulla Terra per sua sorella”.
Octavia Blake. Non gli servì nemmeno osservare la sua foto segnaletica accostata a quella di Bellamy: Marcus capì subito si trattasse di lei. Quale altra persona sull’Arca aveva la fortuna di possedere un fratello? Nessuno, ovviamente. Lei era l’unica eccezione.
“Di lei mi ricordo”, mormorò dopo qualche tempo, distogliendo lo sguardo dalla sua fotografia e restituendo il tablet al Comandante. “Ha la stessa età di Brayden”.
“Affermativo, signore. Diciassette anni”.
Anche Marcus annuì, poi aspettò in silenzio che il suo sottoposto lo lasciasse solo. Inutilmente.
A quanto pareva, la loro conversazione era ancora lontana dal suo termine.
“Cos’altro c’è, Shumway?”, decise dunque di domandargli, curioso e innervosito al tempo stesso.
“Possiamo cominciare”, esalò lui semplicemente, abbassando la voce di almeno due ottave. “Come Cancelliere pro tempore, può dare l’ordine di iniziare a ridurre la popolazione”.
Oh no. No che non poteva. Assolutamente no.
“Non è ancora il momento”.
Ed era vero. Bisognava aspettare perché tutto andasse secondo i suoi piani. Nulla doveva essere affidato al caso.
“Signore, stiamo solo perdendo tempo”, lo rimbeccò immediatamente il Comandante Shumway, non riuscendo a nascondere nemmeno un po’ tutta la sua agitazione. “Eliminando i Cento dalla popolazione abbiamo guadagnato solo un mese in più di vita e non ci basta. Né a noi né agli ingegneri dell’Arca. Credevo volesse salvarla”.
“Lo voglio ancora. Ma non adesso”. Come osava quell’uomo mettere in dubbio ciò in cui credeva da sempre? “Se dobbiamo uccidere centinaia di persone innocenti, lo faremo da manuale. È chiaro?”.
“Sissignore”.
Bastava alzare la voce con tipi come Shumway, Marcus Kane lo sapeva bene. Era stato nella sua stessa situazione per anni e aveva avuto persone ad urlargli in faccia per così tanto tempo da imparare a memoria la lezione. Il cammino verso il potere è lungo e pieno di ostacoli.
“Nel frattempo voglio sapere chi ha aiutato questo custode a salire sulla navicella. Non può aver fatto tutto da solo”.
Shumway si accigliò nuovamente.
“Pensate ci sia un traditore, signore?”, domandò poi, evidentemente sorpreso.
“Se anche fosse non è questo l’importante. Mia figlia è sulla Terra insieme ad un assassino. Questo mi preoccupa”.
 
 
Non mi bastava il polso destro martoriato e dolorante, no. Assolutamente no. Dovevo – come al solito – metterci il carico da novanta e rovinarmi anche la caviglia destra. Agilità VS Brayden: 1 – 0. Lo vedi, papà, cosa significa rinchiudermi in una cella d’isolamento per trecentosessantacinque giorni? I risultati degli allenamenti di sedici anni vanno a farsi fottere.
La caviglia mi fa un male cane e mi sento più inutile che mai. Non riesco a camminare, ragion per cui ho dovuto lasciare gli altri alle prese con la missione “recupero cibo” indietro per ritornare qui al campo. Ti starai chiedendo come ci sia arrivata, be’, non credo ti farebbe molto piacere saperlo dal momento che la cosa include John Murphy.
Come se non bastasse continuo ad essere nient’altro che un intralcio perché non riuscendo a reggermi in piedi, non posso nemmeno aiutare Wells ad accatastare tutta la legna raccolta in queste ultime ore. Posso solo starmene seduta qui a terra vicina a lui mentre consumo il preziosissimo inchiostro della penna di Callie e riempio ulteriori pagine di questa agenda
“Hai trovato dell’acqua?”.
Arrestai all’improvviso ogni movimento della mano sinistra e sollevai gli occhi dal foglio, senza preoccuparmi di lasciare la mia frase a metà. John Murphy era lì, ancora, ed io proprio non potei evitare di sentirmi in imbarazzo nel realizzare che fosse spuntato fuori giusto pochi secondi dopo aver scritto il suo nome sulla mia agenda. Karma, no?
“Non ancora. Ma vado a cercare di nuovo, siete i benvenuti”.
Spostai gli occhi su Wells poco dopo aver fatto scattare la penna e nascosto l’agenda in una delle tasche interne della mia giacca. Fu solo allora che realizzai cosa stesse per succedere e, lo ammetto, mi sentii un po’ stupida. Murphy non era lì per me, affatto, era tornato per Wells. Voleva pareggiare i conti: potevo leggerlo sul suo viso, su quello di Mbege e sulla frase sgrammaticata che uno dei due aveva inciso su una delle pareti della navicella.
“Sai, mio padre ha implorato pietà prima che il tuo lo uccidesse”.
Oh, e potevo leggerlo anche benissimo sul coltello dalla lama affilata col quale Murphy prese a giocare distrattamente. Avrei seriamente dovuto mettermi in piedi ma il solo pensiero faceva sì che nuove scariche di dolore partissero dal punto in cui mi ero ferita nella foresta. Avevo preso davvero una bella botta e sapevo che senza Clarke o qualcuno che se ne intendesse almeno un po’ di pronto soccorso, non avrei mai risolto nulla.
“Avete sbagliato a scrivere morire, geni”.
Wells si dileguò velocemente e fu solo allora che qualcosa – non ricordo esattamente cosa – mi spinse a fregarmene altamente del dolore e mettermi in piedi per anche solo provare a raggiungerlo. Murphy e Mbege si voltarono a seguirlo con lo sguardo ma non mi curai più di loro, pensai solo a nascondere la penna nella tasca dei miei skinny jeans e poi impegnarmi per alzarmi, facendo affidamento su alcuni massi appuntiti nelle vicinanze. Mi sarebbe bastato scivolare per infortunarmi ancora ma decisi bene di non pensarci e dopo evidenti sforzi, mi ritrovai in piedi. Fu tutto magnifico finché la mia caviglia destra non toccò il terreno e pensai di camminare col peso del corpo tutto poggiato sulla gamba sana, ma quando questa cominciò a cedere mi resi conto davvero dell’impossibilità della cosa e piano piano – a poco a poco – feci aderire la pianta del mio piede al suolo e bilanciai il peso del mio corpo su entrambe le gambe.
Inutile dire che un forte gemito mi abbandonò immediatamente le labbra e chiusi gli occhi per il dolore lancinante che, ancora una volta, mi ero procurata da sola. Feci per sollevare il piede destro da terra ma prima ancora che riuscissi a muovere un solo muscolo il dolore cessò e per un attimo fui tentata di tirare un sospiro di sollievo che però mi restò bloccato in gola nel momento in cui mi sentii sollevare da un paio di braccia ormai fin troppo familiari. Déjà vu.
“Quanto cavolo hai corso?”, non potei far altro che domandare a Murphy, passandogli le braccia attorno al collo per stare più comoda.
Lui fece spallucce e poi si voltò nuovamente verso Mbege, stringendomi le braccia dietro le schiena e nella piega delle ginocchia. Sospirai. Se solo fosse stata un’altra persona non mi sarei fatta problemi a farmi trasportare in lungo e in largo per tutto il campo. Ma era John Murphy il ragazzo che mi teneva tra le sue braccia, e bastava pronunciarne il nome perché brutte sensazioni mi salissero alla bocca dello stomaco.
Fece per rispondermi, comunque, ma prima che potesse anche solo provare ad aprir bocca, Bellamy Blake entrò nella nostra visuale e attirò – come al solito – l’attenzione di tutti su di sé. Lo vidi squadrarci a lungo e lessi sul suo volto l’indecisione: chiederci qualcosa o no? Fu solo quando mi sembrò aver fatto una scelta che volse il capo verso la navicella e lesse la frase intimidatoria scritta da Murphy e Mbege.
“Se volete uccidere qualcuno è meglio non annunciarlo”, si sentì dunque in dovere di dire, utilizzando un tono di voce grave che mi fece solo venir voglia di dirgli qualcosa di molto simile a: “Scendi dal tuo piedistallo, Bellamy Blake”.
Fortuna che evitai.
“Le guardie arriveranno presto, a meno che non le fermiamo. E quando saranno qui, torneremo a fare la vita di merda che avevamo sull’Arca. Non perdoneranno mai i vostri crimini. Ammesso e non concesso che ripuliscano la vostra fedina penale, sarete sempre guardati con un occhio diverso e sarete isolati. Mai più cittadini modello. Nemmeno tu, Kane. Nonostante tuo padre”.
Deglutii, assottigliando gli occhi e alzando il mento. Aveva ragione. Dannatamente ragione. Ma non gli dissi nulla: non volevo dargli soddisfazione e soprattutto, non ci tenevo ad esprimere giudizi senza prima aver capito dove diavolo volesse andare a parare.
“Dunque qual è il tuo piano?”, domandai, decisa ad arrivare subito al fulcro della questione.
“Voglio che vi sbarazziate di quei braccialetti che portate. L’Arca vi crederà morti e stabilirà che non è sicuro seguirci quaggiù. Problema risolto”.
Mi illuminai, letteralmente. La mia lista nera non aveva più motivo di esistere, anche e soprattutto perché il suo primo classificato aveva appena perso il suo posto. Bellamy Blake aveva, improvvisamente, tutte le carte in regola per diventare il mio alleato migliore. Neanche a farlo a posta, volevamo le stesse cose.
Forzai Murphy affinché mi lasciasse a terra e lui, seppur controvoglia, mi mise giù e mi lasciò libera di avanzare in direzione di Bellamy. Inutile dire che non mi mossi se non facendo affidamento sempre su John, che mi aiutò a non poggiare il piede destro a terra tenendomi contro il suo corpo. Un vero principe azzurro.
Con le sue mani attorno alla vita, cercai nuovamente gli occhi scuri di Bellamy e gli sorrisi appena prima di sollevare la manica destra della mia giacca quel tanto che bastava a scoprire il polso arrossato e il braccialetto mezzo distrutto. Gli occhi dei ragazzi attorno a me si sgranarono per la sorpresa e di conseguenza, il mio sorriso si allargò un po’ di più. Allungai il braccio nella direzione di Bellamy.
“Toglimelo”, ordinai, alludendo ovviamente al braccialetto. “Voglio essere la prima a morire”.
“Sai che non è possibile. Ne abbiamo già persi due”.
Giusto. Annuii, rendendomi conto di non essermi spiegata bene.
“Voglio essere la prima dei privilegiati a morire”, ritrattai, avanzando ancora un po’.
Solo a quel punto Bellamy ricambiò il mio sorriso, incurvando le labbra all’insù per un breve attimo, poco prima di piegarsi su di me, circa dieci centimetri più in basso di lui.
“Attenta a quello che dici. Qualcuno potrebbe anche decidere di accontentarti”.
Ma aveva capito benissimo cosa intendevo e me ne resi conto dall’ultimo sguardo che mi donò poco prima di andar via. Fino a quel momento, ogni cosa stava procedendo al meglio e sperai solo che una volta libera da quell’opprimente braccialetto, mio padre sarebbe stato il primo a sapere della mia dipartita. Che darei per godermi l’espressione sulla tua faccia di cazzo, Consigliere Kane.
 
 
Un leggero beep bastò affinché Abby sollevasse gli occhi stanchi dai suoi appunti per guardarsi intorno, curiosa. Non era solita lavorare nella sala di controllo dell’Arca ma da quando i Cento erano stati mandati sulla Terra, aveva passato più tempo lì a preoccuparsi di controllare i loro badge uno per uno che in qualsiasi altro luogo. Trasportare il lavoro della clinica in quella stanza le sembrava il minimo. Di tutto pur di sentirsi almeno un po’ più vicina a Clarke.
Lo strano beep si ripeté pochi istanti dopo ed Abby si mise in piedi, prendendo a muoversi verso il maxi-schermo nella stanza con un’espressione di sgomento specchio di quella di alcuni addetti al lavoro proprio in quel momento. Solo allora capì perché quel rumore le sembrasse così familiare: l’aveva già sentito quando i due ragazzi di colore erano deceduti e la telemetria dei loro bracciali era divenuta nulla. Chi altro li aveva lasciati quella volta?
“Non è possibile”.
Quelle furono le uniche parole che riuscì a pronunciare quando i valori azzerati di Brayden Kane e il badge che assumeva un colore grigio smorto le saltarono finalmente agli occhi. Sentì il cuore aumentare i suoi battiti mentre l’avviso COLLEGAMENTO PERSO riempiva a caratteri cubitali la zona badge di Brayden, e gli occhi le si inumidirono automaticamente. Non poteva crederci. Com’era potuto succedere?
“Oh, no. Il Consigliere mi ucciderà”, fu invece tutto ciò a cui riuscì a pensare un giovane tecnico, prendendo a digitare di qua e di là alla ricerca di qualsiasi possibile errore. Solo quando Abby si mosse per fronteggiarlo si rese conto davvero della gravità della situazione, e spaurito come un piccolo gattino bagnato si ritrovò a dire: “Giuro che non ho fatto niente, Dottoressa Griffin. Non è colpa mia. Brayden stava benissimo e l’attimo dopo… boom”.
“Lo so che non c’entri nulla”, lo rassicurò Abby immediatamente, cercando di essere quantomeno convincente. “Ma devi fare di tutto per scoprire cos’è successo. Non può essere morta”.
Quando ebbe finito di parlare, si accorse di essere intenta a sussurrare e capì subito perché. Le paure del nuovo arrivato in sala controllo non erano affatto infondate: se solo la sua unica figlia fosse sul serio morta, Marcus avrebbe ucciso lui e qualunque persona si fosse trovata sul suo cammino. Ecco perché preferiva mantenere la più completa discrezione, almeno finché non sarebbe stata sicura della dipartita di Brayden.
Tuttavia, Abby scoprì subito che il Destino avesse in serbo per lei piani ben differenti. Tutte le persone nella stanza si attivarono immediatamente nelle indagini da lei richieste e si entrò nel più attivo fermento: quando Callie tornò e fu informata della situazione, non le restò altro da fare che riprendere a pregare ancora una volta. Ma fino a quel punto non si presentarono gravi problemi. La situazione precipitò quando fu Marcus Kane a fare il suo ingresso.
“Cosa sta succedendo qui dentro?”, domandò, non appena ebbe notato come il silenzio fosse sceso, imbarazzante e strano, subito dopo la sua entrata in scena.
Tutto era diventato statico e prima ancora che una qualsiasi delle persone all’interno della sala di controllo potesse dirgli qualcosa per distrarlo – qualunque cosa – i suoi occhi scuri sfrecciarono in direzione del maxi-schermo illuminato e la piccola macchia grigia in mezzo a tutti quei colori vivi attirò subito la sua attenzione.
“No…”, mormorò, sperando che non fosse affatto come pensava e che quel badge ingrigito e morto non fosse proprio quello di sua figlia.
Magari semplicemente si ricordava male della sua posizione: okay, un altro dei Cento poteva essere deceduto ma non Brayden. Sfortunatamente, Marcus capì subito quanto le sue preghiere fossero inutili e un altro: “No” abbandonò le sue labbra nel momento in cui scoprì di non essersi sbagliato fin dall’inizio.
“COME PUÒ ESSERE SUCCESSO?”, non gli restò che chiedere, voltandosi di scatto a fronteggiare tutti i presenti nella sala di controllo con un tono di voce così elevato da non passare inosservato a nessuno.
E poi: perché non era stato avvisato? Cosa aspettavano? Prima che potesse continuare ad inveire inutilmente contro tutti e nessuno, Abigail Griffin gli si avvicinò con due grandi falcate e solo quando gli fu di fronte, pose gli occhi nei suoi e gli parlò.
“Adesso calmati”, ordinò, tranquilla così tanto da innervosirlo ancor di più. “Può darsi che il braccialetto di Brayden abbia semplicemente smesso di funzionare. Sono tutti al lavoro per scoprirlo”.
“Sarà meglio così! O lo giuro, ve la farò pag…”.
Marcus”. Riportò immediatamente gli occhi in quelli di lei, ubbidiente. “Se davvero Brayden è andata via, comportarti così non la riporterà indietro. Lei non vorrebbe mai vederti in certe condizioni”.
“Non importa quello che vorrebbe mia figlia. Non più”, soffiò, avanzando in direzione di Abby con aria minacciosa. “Conta ciò che voglio io. Ed è vendetta. Se davvero è morta e l’ha uccisa chi penso, niente e nessuno m’impedirà di agire secondo la legge di «Occhio per occhio, dente per dente»”.
“Appunto. Se. Non è detto che sia morta”.
“E se invece lo fosse?”, si ritrovò a chiedere, con la voce tremante. “Non posso perderla, Abby. Non di nuovo”.
“Non la perderai”, mormorò lei in risposta, sorridendogli mentre gli posava una mano sul braccio e stringeva lievemente le dita sulla stoffa della sua giacca scura. “Brayden sarà sempre con te, in un modo o nell’altro”.
Marcus realizzò solo allora di averla persa sul serio, e le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento scesero insolenti a rigargli le guance. Imbarazzato, distolse velocemente lo sguardo da Abby e lo puntò in una direzione indefinita. Ovunque pur di non guardare la donna di fronte a sé in viso e farsi vedere così da lei. C’erano molte altre persone insieme a lui in quella stanza ma non si curava di loro.
“È tutta colpa mia”, trovò la forza di dire dopo qualche attimo, facendosi lontano da Abby senza più guardarla, portandosi una mano sul viso. “Io stesso ho denunciato i suoi crimini un anno fa. Ho lasciato che mi portassero via la persona che più amavo al mondo e l’ho mandata sulla Terra a morire. Non posso prendermela con nessuno se non con me stesso”.
“Mi dispiace, Marcus”, si limitò a fargli presente Abby, poco prima di raggiungerlo nuovamente e stringere le braccia attorno al suo corpo.
Inizialmente il Consigliere rimase stupito da quel suo gesto ma poi il dolore cancellò tutto e poté sentirsi consolato dal calore che gli stava trasmettendo Abby. Gli era vicina sul serio, come mai prima d’allora. E sentì un po’ della sua tristezza e del suo rimorso scivolare via insieme a lei.
 
 
“Ehi, Murphy…”.
Nemmeno tutto il rumore del mondo sarebbe riuscito a coprire quel richiamo nient’affatto privo di malizia. Sollevai gli occhi lentamente, mettendo a fuoco mano a mano che il mio sguardo saliva la figura slanciata di una ragazza dai lunghi capelli neri e la pelle d’alabastro. La osservai agitare il polso destro in direzione di Murphy, facendogli capire che volesse liberarsi anche lei dal braccialetto che indossava. Poi gli sorrise mentre io, stanca, spostavo lo sguardo su di lui.
Si stava divertendo a sufficienza, il signorino. Bellamy aveva davvero fatto sì che potesse guadagnare qualcosa dalla loro collaborazione e gli aveva proposto di aiutarlo a dirigere il campo, come una sorta di re e principe del posto. Perciò mentre proprio Blake era intento ad incitare la massa affinché più persone possibili decidessero di imitarci, Murphy faceva il lavoro sporco. Avevo ormai perso il conto di quanti braccialetti fossero finiti nella morsa del fuoco scoppiettante di fronte ai miei occhi.
Quando la ragazzetta senza nome fu finalmente libera dal suo bracciale, un altro insieme di urli si levò dalla folla euforica e fu in quel momento di stallo, mentre Bellamy si chiedeva chi sarebbe stato il prossimo e Wells si ritrovava a contatto con quell’ambiente totalmente nuovo e diverso, che decisi di mettermi in piedi per raggiungerli entrambi.
“Dove credi di andare?”, sentii Murphy domandarmi, e bloccata dalla sua mano sul mio polso mi fu impossibile proseguire, perciò l’unica cosa che riuscii a fare fu voltarmi a guardarlo.
Ma mi limitai solo a quello, non pronunciando parola e liberandomi dalla sua presa con uno strattone nient’affatto gentile. Cos’avrei dovuto dirgli? Non gli dovevo spiegazioni e non stavo andando da nessuna parte, fine della questione. Zoppicando, raggiunsi Bellamy e Wells mentre cercavo di ignorare lo sguardo di Murphy puntato su di me.
“Vuoi per caso che moriamo tutti?”, fu la prima cosa che sentii dire al figlio del Cancelliere, quando fui vicina a loro abbastanza da ascoltare ciò che dicevano.
Avrei potuto raggiungerlo ma non lo feci. Al contrario me ne rimasi vicina a Bellamy, apparentemente annoiato dal sermone che mise su Wells poco dopo.
“Il sistema di comunicazione non funziona. Questi bracciali sono tutto ciò che abbiamo. Se li togliete, l’Arca penserà che stiamo morendo e non ci raggiungeranno mai quaggiù”.
“È proprio questo il piano, Cancelliere”.
“Non devi essere d’accordo, Wells. Non ti stiamo chiedendo di togliere il braccialetto”, spiegai, avanzando lentamente nella sua direzione. Ero sincera. “Puoi fare tutto quello che vuoi ma remarci contro non ti conviene. È una guerra inutile”.
“Sappiamo badare a noi stessi anche senza l’aiuto dei grandi, Jaha”, sottolineò ancora Bellamy, con una leggera nota di scherno nella voce.
“Ah sì? E come pensi che sopravvivremo senza agricoltori, dottori o ingegneri?”.
Deglutii.
“Ci inventeremo qualcosa. Bellamy ha ragione: possiamo cavarcela”.
Wells si limitò a scuotere la testa, stupito. Poi lo vidi indietreggiare appena e sollevare gli occhi al cielo poco prima di riprendere a parlare. Nel frattempo, tutto intorno a noi si era fermato: la cerimonia di liberazione dai braccialetti e il baccano ad essa collegato. Se ne stavano tutti in silenzio, concentrati sul nostro dibattito.
“Non ci credo. Come puoi non volere tuo padre qui? Tua nonna? Callie? Non ti manca la tua famiglia?”, sentii che Wells mi domandava, e nel momento in cui ebbe riportato tutte quelle persone alla mia mente potei sentire distintamente qualcosa dentro me incrinarsi.
Ma: “La mia famiglia sono i Cento” puntualizzai, facendo finta di nulla.
“Già. Non la gente lassù, capace di tenervi in isolamento per anni. Non è così che si comporta una famiglia”, mi appoggiò subito Bellamy. “Mia madre è stata uccisa perché ha avuto un’altra figlia. Tuo padre ne è responsabile”.
“Mio padre non ha scritto le leggi”.
“Le ha sempre fatte rispettare. Ma ora è finita. Qui non ci sono leggi”. Anarchia assoluta? Tutti apprezzarono subito il solo suono di quell’idea. “Qui facciamo quello che diavolo vogliamo, quando diavolo vogliamo”.
E lo schiamazzare della folla riprese, mentre i Cento ritornavano ad essere avvolti dalla solita patina di euforia positiva che Bellamy Blake si era rivelato in grado d’instillare dentro tutti. Io stessa sorrisi – seppur non molto convinta – mentre gocce d’acqua cominciavano a scendere dal cielo, bagnandomi completamente. Era pioggia – pioggia vera – ed era quanto di più bello avessi provato fino a quel momento.  
 
 
Il rumore di un ramoscello che si spezzava interrompendo il silenzio benefico nel quale mi ero immersa fece sì che sobbalzassi vistosamente, distogliendo lo sguardo dalla pagina d’agenda piena per metà della mia calligrafia. Stavo scrivendo ancora, bisognosa di sfogarmi nuovamente.
Con assoluta calma, partii con l’inquadrare un paio di anfibi neri e risalii con lo sguardo fino a ritrovare i miei occhi verdi riflessi in quelli di John Murphy. Non ci pensai su due volte e riposi lo sguardo sulla carta dell’agenda, stringendo un po’ di più la penna tra le dita.
“Hai intenzione di tenermi il broncio ancora a lungo?”, furono le prime parole che mi rivolse, non osando nemmeno lontanamente avanzare nella mia direzione ma limitandosi al contrario a poggiarsi di peso contro il tronco di un albero.
Anche se in silenzio, mi ritrovai a ringraziarlo.
“Non ti sto tenendo il broncio”, osservai poi, senza più alzare lo sguardo dal foglio e continuando a scrivere imperterrita.
Tuttavia, potei sentire anche senza guardarlo in viso tutto il suo scherno. Non mi credeva affatto e mi sarei dovuta impegnare sul serio per dimostrarglielo. Cercai il suo viso, donandogli un’occhiata decisa.
“Dico sul serio”.
Lui di tutta risposta si limitò a fare spallucce, poi allontanò la schiena dal tronco dell’albero contro il quale era stato poggiato per tutto quel tempo e mosse un passo nella mia direzione. Automaticamente, le mie gambe scattarono a coprirmi il petto.
“Sei scappata da Bellamy e Wells, prima. E non appena il vostro dibattito si è concluso, sei letteralmente sparita”, mi fece notare subito, leggermente risentito. “Se non sei incazzata con me, allora con chi?”.
Sospirai, chiudendo penna e agenda prima di metterle da parte. Murphy mi raggiunse, sedendosi accanto a me sul terreno fresco e appoggiando la schiena contro il tronco dello stesso albero che stavo usando io come sostegno. Poi cercò di nuovo i miei occhi, in attesa di una risposta.
“Non sono incazzata”, mormorai allora, tirandomi indietro i capelli e stringendoli tra le dita. “Solo turbata”.
“Per qualcosa che ho fatto io?”.
Sorrisi lievemente.
“No”, lo rassicurai, donandogli uno sguardo veloce. “Per le persone che ha riportato Wells alla mia mente”.
Come al solito, capì subito.
“Tuo padre?”, domandò infatti, con un tono di voce improvvisamente più che serio.
Mi limitai ad annuire, puntando gli occhi verso un punto morto. Ovunque pur di nascondere come d’un tratto fossero stati capaci di riempirsi di lacrime. Mi morsi le labbra, sperando che la voce non venisse fuori tremolante come mi aspettavo.
Ma il mio: “Mi manca, Murphy…” tradì perfettamente qualsiasi emozione stessi provando in quel momento e il rendermi conto di tutta la vulnerabilità che stessi mostrando mi strappò un gemito di frustrazione.
Mi portai una mano alle labbra, sconfitta.
“Dopo come ti ha trattata?”.
“È patetico, vero?”, fu tutto ciò che riuscii a domandare, voltandomi a cercare il viso di Murphy per donargli un mezzo sguardo da dietro la chioma rossa che aveva deciso di farmi da scudo. “Faccio e dico come se non m’importasse, ma sto già cedendo”.
“Non è patetico. È umano”.       
Umano. Era ciò che ero, no? Una povera umana che continuava a mentire a se stessa e agli altri per non mostrarsi debole al resto del mondo, che continuava a ripetersi che ce l’avrebbe fatta pur mentre falliva. Una piccola umana dotata di un cervello ma anche e soprattutto di un cuore: che batteva, sanguinava e cedeva sotto il peso di tutti i dolori della vita.
“Non voglio sentirmi così…”, gli feci presente al contrario, per nulla rincuorata dalla mia condizione.
Numerose altre lacrime scesero giù a rigarmi le guance e non mi sforzai più di trattenerle, limitandomi a chinare il capo affinché i miei capelli potessero nuovamente coprirmi il viso e vanificando perciò il gesto compiuto da Murphy per posizionarli ordinatamente dietro le mie orecchie.
Solo per un attimo mi chiesi come avrebbe reagito lui di fronte a quella scena, come si sarebbe comportato. Non m’importò poi molto di rovinare la mia reputazione di Regina dei Ghiacci senza cuore, mi domandai solo cos’avrebbe fatto. Se sarebbe rimasto o se al contrario avrebbe deciso di scappare via a gambe levate, lontano da quella scomoda quanto imbarazzante situazione. Ebbi la mia risposta relativamente presto.
“Ehi”, lo sentii infatti richiamarmi, mentre provava ancora inutilmente a scostarmi i capelli dal viso.
Singhiozzai ancor più violentemente, non potendo né volendo evitarlo. Ma quando sentii le braccia di Murphy avvolgersi attorno al mio corpo e spingermi contro il suo petto, i miei gemiti incontrollati si bloccarono – anche se solo per un attimo – e un vago senso di calore e protezione riuscì inaspettatamente a donarmi pace.
“G-Grazie”, fu dunque l’unica cosa che riuscii a dire, tirando su col naso ed asciugandomi le guance col dorso delle mani. Non ricevetti risposta, perciò mi limitai a godermi il calore di quell’inaspettato abbraccio finché la domanda che mi ballonzolava in testa da almeno un po’ non cominciò a pretendere di venir pronunciata. Allora mi arresi. “Chi sei veramente, John Murphy?”.
In risposta ricevetti solo silenzio. Improvvisamente tutto sembrava essersi fermato e anche dal campo non proveniva più alcun rumore, come se tutti nel raggio di metri fossero nell’attesa di quella risposta che – sapevo – non sarebbe arrivata. Non se non avessi insistito di più.
“Quando nessuno guarda ti trasformi, praticamente. Sei un’altra persona”, mormorai infatti, col viso schiacciato contro la calda giacca di Murphy. Ringraziavo che mi avesse stretta a sé non solo perché così sentivo meno il bisogno di piangere per tutto ciò che di sbagliato c’era nella mia vita, ma anche perché da quella posizione non ero costretta a guardargli il viso e il coraggio per continuare a parlargli non m’abbandonava. “Mi chiedo quale sia il tuo vero essere”.
“A te quale faccia della medaglia piace di più?”.
Sbuffai divertita, tirando nuovamente su col naso mentre i miei occhi chiari vagavano tutt’intorno a me.
“Che domanda stupida”, sussurrai, sorridendo debolmente.
“A me piaci di più quando fai venir fuori il tuo lato da ragazzaccia. Ti trovo piuttosto sexy”.
Roteai gli occhi.
“Tipico. Cerchiamo tutti qualcuno i cui demoni vadano d’accordo coi nostri”.
Sentii Murphy ridacchiare e per un solo attimo, qualcosa mi sussurrò di imitarlo. Nonostante tutto, per quanto sbagliato fosse, mi sentivo bene.
“I miei demoni sarebbero davvero felici di stringere amicizia coi tuoi, Ginger”, sentii che, dopo un po’, mi spiegava.
Fu solo quando smise di parlare che un’ultima lacrima rotolò giù lungo la mia guancia e subito la spazzai via con un gesto veloce della mano. Preferivo fingere che niente di tutto quello fosse successo e ripetermi che non avevo nessun valido motivo per piangere ancora: non in quel momento. Al contrario, tirai fuori un sorriso e sibilai divertita: “Scemo”.



 
_______________________________
 
Ringraziamenti
A Christina Perri per 
Human che è il titolo/canzone citata di questo terzo capitolo.
A
 bone4tuna, per la recensione che ho apprezzato moltissimo.
A chi ha messo questa storia tra le seguite.

Note
Nel fandom la mia storia viene evitata come la peste per un motivo a me ignoto e non vi nascondo che ciò mi aveva fatto prendere in seria considerazione l'idea di cancellarla. Tuttavia mi è bastato vedere la 2x01 per cambiare idea e rendermi conto che no, l'importante non è il seguito e assolutamente non cancellerò questa storia finché non sarò più in grado di scriverla (cosa che, grazie a Dio, non è ancora successa. Ho ancora troppe idee per la testa e non ci rinuncerò molto facilmente perché col tempo ho imparato a capire che devo scrivere per me e solo per me).
Dopo questo sfogo, per il quale vi chiedo scusa, passiamo al capitolo. Da come avrete visto, adesso sull'Arca credono che Brayden sia morta mentre la signorina sta benissimo (per ora... ç_ç) e comincia a vedere i suoi nuovi compagni sotto luci sempre diverse. Difatti ha riconsiderato la persona di Bellamy (solo perché i loro scopi sono affini, ci tengo a precisarlo) e vorrei dirvi dove andrà a finire il loro rapporto ma il problema è che NON LO SO. XD 
Inoltre Brayden e Murphy continuano a "legare" e in questo capitolo li vediamo ancora più vicini (cosa che, ve lo spoilero, credo degenererà nel prossimo). Mi piacerebbe sentire tutti i vostri pareri al riguardo perché non voglio che le cose vi sembrino affrettate, per me sarebbe una sconfitta. ç_ç Ci tengo inoltre a specificare che, dato che me l'hanno fatto notare, finora il rapporto tra i due (soprattutto il fatto che sia Murphy ad avvicinarsi a Brayden) è spinto solo e semplicemente dall'attrazione fisica in primis e dal fatto che per Murphy, Brayden è un soggetto interessante. Non c'è ancora assolutamente amore né niente del genere, è troppo presto per parlarne e lo so benissimo. :)



 
   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > The 100 / Vai alla pagina dell'autore: Helena Kanbara