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Autore: Soe Mame    24/10/2014    2 recensioni
Sì, ci sarebbe riuscito.
Avrebbe svolto il suo ruolo in modo impeccabile, avrebbe onorato la parola data da Gakupo ai signori e non avrebbe mai più fatto alcun pensiero sulla signorina Len.
Sì, ci sarebbe riuscito, per tutti e sei i mesi.
Era spacciato.
Genere: Angst, Demenziale, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gakupo Kamui, Kaito Shion, Len Kagamine
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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Un brivido ghiacciato.
Quella pelle bianca non spiccava sulla stoffa nera, era la stoffa nera ad essere un fastidioso ostacolo a quella pelle bianca.
Bianco tra le ciocche bionde, sul viso, scivolando sulle curve del collo, sulle spalle, lungo il petto, fino ad interrompersi su quella linea nera, troppo dritta: non c'era più il corsetto, non c'erano più le imbottiture, forse non c'erano più le sottogonne; quel vestito sembrava esserci solo per cadere a terra, forse sarebbe bastato anche un unico movimento.
Len non si stava offrendo. Era un dovere alzarsi, spingerlo contro la parete e prenderlo.
Ma il brivido che l'aveva scosso gli aveva gelato il sangue. Le vene si erano congelate, avevano ghiacciato ogni parte del corpo, tanto freddo da non riuscire a non tremare. Respirare era difficile. Il blocco di ghiaccio sul petto era davvero pesante.
Quegli occhi azzurri sembravano due pietre preziose: brillanti, innaturali, vuoti, inumani. Solo due pietre azzurre.
Sorrideva. C'era qualcosa di disturbante in quel sorriso.
- Seguitemi. -
La voce era troppo bassa. C'era una nota sinistra in quel tono. Sembrava volesse ridere, ma che si trattenesse dal farlo.
Kyte si alzò. Non pensò neppure di non farlo. Fu un gesto naturale.
Seguì quella cosa fuori dalla saletta in cui aveva condotto lui e Gakupo.
Voleva voltarsi verso Gakupo. Lo sentiva pochi passi dietro di lui. Da quando erano rientrati nella magione, non aveva mai incontrato il suo sguardo. Ma non riusciva a voltarsi. Non capiva se fossero gli occhi o tutta la testa ad essere inchiodati contro ciò che aveva davanti.
Salirono le scale. Riconobbe quella strada - non che potesse essere diversamente.
Si portò una mano alla ferita sul braccio, pulita e fasciata, ma ancora pulsante.
Sentiva un singhiozzo, in lontananza, nella sua mente. Era una voce che conosceva bene. Gli sembrava fossero passati anni da quando aveva sentito quel pianto.
- Mi ha costretta! -
E invece dovevano essere passate solo poche ore. O forse neppure un'ora.
Il blocco di ghiaccio sul suo petto si spaccò. Un pezzo particolarmente grande cadde a terra.
Kyte inspirò. Si era portato dietro una grossa porzione di cuore. Però non sentiva la camicia bagnata, sul petto. Sentiva lo squarcio pulsare, o forse era il cuore che ancora stranamente funzionava. Bizzarro ce ne fosse ancora. Era sicuro si fosse frammentato molto prima. Forse il sangue si era rappreso e aveva incollato tutti i pezzetti fino a ricreare qualcosa di somigliante ad un cuore. E ora si era spaccato di nuovo. Avrebbe davvero dovuto smetterla di rompersi.
Il cigolio di una porta che si apriva.
Conosceva quella stanza. Ma non ci era mai entrato.
La cosa si fece da parte, aprì un braccio verso l'interno. Continuava a sorridere.
Kyte entrò.
La camera di...
Fece qualche passo avanti.
Era almeno il doppio della sua camera. Davanti ai suoi occhi, sulla parete opposta, c'era una finestra più alta di lui, incorniciata da dalle lunghissime tende chiare. Era tutto chiaro, in quella stanza: non sembrava esistere altro che bianco e gradazioni di giallo.
Commode contro le pareti a sinistra della porta, due comodini ai lati del letto. Un letto almeno tre volte il suo, davvero grande, per una sola persona, tanto piccola.
Un armadio enorme sulla destra. E due sgabelli, e una sedia, e una panca. In fondo, nell'angolo, un baule. Tra l'armadio e il baule, uno specchio alto due spanne più di lui.
A terra, a ricoprire la metà sinistra della stanza, un tappeto.
Era una stanza assolutamente normale.
Non c'era nulla di strano, fuori posto o da dover nascondere.
Uno scatto.
Riuscì a voltarsi, finalmente.
Quella persona era davanti alla porta. E li guardava, l'espressione immutata. Aveva le mani dietro la schiena. All'altezza della serratura.
Quella stanza chiara ed enorme divenne improvvisamente cupa e soffocante.
Gli sembrava avessero appena chiuso a chiave la porta della sua cella.
- Adesso potete entrare! - quel sorriso si accentuò, la voce salì appena.
Kyte rabbrividì. Somigliava troppo a-
- Non rimanete lì in piedi! Accomodatevi! - lo vide prendere Gakupo per un polso, camminare verso la panca. Si fermarono, quella persona lo fece sedere.
Sedersi, sì.
Non sapeva se le gambe sarebbero riuscite a reggerlo ancora per molto.
Fece due passi, si lasciò cadere sulla sedia.
Sentiva quello sguardo su di sé. Non voleva incontrarlo.
Spostò l'attenzione su Gakupo, finalmente un'occasione per poterlo guardare.
Anche lui guardava. Davanti a sé. Fisso. L'espressione era rilassata, talmente tanto da non mostrare alcuna emozione.
Le mani erano posate sulle gambe.
Qualcosa tremò, all'altezza del petto. Gli parve che ciò che rimaneva del blocco di ghiaccio iniziasse a sciogliersi, agli angoli.
"... perché?".
Si fece forza e scostò lo sguardo da Gakupo. Quella cosa spostava i suoi occhi non umani da uno all'altro. Fu inevitabile incontrarli, pochi secondi dopo.
- Vi state ancora chiedendo cosa stia succedendo? - una risata leggera. Avrebbe preferito non sentirla. Gli dava la stessa sensazione delle unghie sulla lavagna.
"Sì. " avrebbe voluto rispondere. Ma non capiva se fosse la gola ad essere bloccata o se fossero le labbra ad essersi paralizzate.
Quella persona, però, parve comprendere: - Credevo fosse ovvio, ormai. - si avvicinò. Non voleva che si avvicinasse. Più si faceva vicina, più vedeva quanto il suo aspetto fosse uguale a quello di-
Un sospiro spezzato infranse le sue labbra. Gli occhi bruciavano.
Era inutile continuare ad ingannarsi.
Quella cosa non somigliava a Len. Era Len.
- Vi capisco. - una mano sulla guancia. Era troppo calda. E quegli occhi spaventosi troppo vicini: - Anch'io ho pianto molto. Ma andrà tutto bene. - sorrise. L'ombra di un volto conosciuto, per un istante: - Andrà tutto bene. Il nostro desiderio si è avverato. - o forse aveva sperato di vederlo: - Ora saremo insieme per sempre. -.
Gelo.
Se prima il ghiaccio si stava sciogliendo, ora era tornato fin troppo duro.
- ... insieme? - aveva la voce roca, soffocata.
- Sì. - si era chinato verso di lui.
Aveva davvero tolto le imbottiture. Il bianco del collo andava al di sotto della scollatura nera troppo tesa sulle braccia, su tutto il petto, fino allo stomaco.
Avrebbe dovuto sentire caldo. Ma voleva solo che l'altro si allontanasse.
- Insieme. Noi tre. Come avete desiderato. - un sussurro.
Non riuscì a formulare un pensiero coerente.
Voleva che si allontanasse. Non voleva che lo toccasse.
La figura nera scomparve dalla sua visuale.
Kyte si rilassò - non si era neppure accorto di aver stretto i pugni e i denti -, osò seguire quel profilo fino a che non si fermò. Davanti a Gakupo.
Un altro brivido.
Gakupo non mostrò di averlo visto. Non mostrò niente.
Avrebbe voluto urlargli di dire qualcosa, di scansare-
Il pensiero che quella persona fosse davvero Len gli fece stringere i denti di nuovo.
"Non era questo quello che volevo." si sarebbe dovuto alzare, avrebbe dovuto fare qualcosa: "Volevo rimanere con voi per sempre. Ma non così. Non così." non riusciva neppure a parlare. Provò ad aprire la bocca, ma la voce non uscì. O forse non aveva neppure schiuso le labbra.
- Ora siamo felici. Vero? -
"No."
Le gambe di Gakupo scomparvero sotto la stoffa nera della gonna. Len gli si era seduto sopra, gli aveva preso il viso tra le mani.
"No..."
L'aveva baciato.
Gli aveva aperto le labbra con le sue e aveva catturato la lingua con la propria.
Lo stava divorando vivo.
Quella cosa non aveva nulla di umano.
Aveva assunto l'aspetto di Len per far loro ancora più male. Quello non era Len. Len era da qualche parte in quella casa, non nella sua stanza.
Len non era...
Gakupo non si oppose.
Non reagì.
Non si era minimamente mosso, continuava a non muoversi, lasciava che Len lo mangiasse, che gli strappasse l'anima dal corpo a morsi.
"..."
Voleva intervenire. Correre da loro e dividerli, portare Gakupo via da quella stanza, lontano da Len.
Trovare il vero Len. Perché quello non era Len. Non poteva-
Len si staccò, il respiro troppo veloce, un sorriso sulle labbra arrossate.
- Eien ni... - sussurrava. Ma sentiva benissimo ciò che diceva. Avrebbe voluto non sentire niente. Non vedere niente.
Avrebbe voluto non aver mai cercato nelle tasche della giacca di Gakupo. Non sarebbe successo tutto quello. Sarebbe stato tutto ancora come prima.
- Shiawase desu ka? -
Gakupo non rispose. Guardava Len negli occhi soltanto perché lui gli aveva alzato la testa.
- Watashi wa shiawase desu. -
La voce era più morbida. Il sorriso si fece per un attimo sincero.
Kyte avrebbe voluto non vederlo.
Per un istante, quella cosa era stata davvero Len.
Quella cosa era Len.
Ormai non poteva più negare l'evidenza.
Gli occhi avevano smesso di bruciare. Ma le guance si erano bagnate.
Un fruscìo. Len apparve di nuovo davanti a lui. Con quel suo sguardo disumano.
- Andrà tutto bene. - lo ripetè, ancora una volta: - Presto non piangerete più. Né voi né Gakupo. - sentì il suo peso addosso: - E saremo davvero una cosa sola. Per sempre. -
Le mani sul viso. La bocca sulla sua.
Le sue mani scattarono sulle spalle nude. Voleva spingerlo via.
Non poteva. Non doveva. Doveva fermarlo. Non voleva che lo baciasse così. Non voleva che lo baciasse.
Gli ricordava troppo quella mattina di tempesta, mesi prima.
Len riuscì a soffocarlo. Non aveva più aria. Serrò la presa sulle spalle, una scarica violenta lungo il braccio ferito. Non gli importava. Voleva allontanarlo. Le mani non risposero. Rimasero immobili.
Cercò di chiudere la bocca, di spingere via Len. Non ci riuscì. Non aveva più forze. Neppure per muovere la lingua o le labbra.
Riuscì a riprendere un po' d'aria, a fatica.
Voleva che fosse tutto uno scherzo. Che Len si scostasse e ridesse come aveva sempre riso, dicendo che era tutto un grande scherzo. E forse Gakupo si sarebbe alzato, avrebbe sgridato Len per lo scherzo - lo scherzo che forse avevano architettato insieme - sfuggito di mano.
Il braccio faceva male.
Gakupo non si muoveva, lo sguardo era fisso.
Len non aveva più niente di umano.
"Svegliatemi..." chiuse gli occhi: "... svegliatemi..." li riaprì. Era ancora lì.
Finalmente, Len lo liberò.
- Sono qui. - gli accarezzò il viso. La pelle parve ustionarsi: - E voi rimarrete qui. Con me. Con noi. Ho rimediato a tutto. Ora non dovete più preoccuparvi di niente. Potremo essere felici, senza nessuno che ci dica il contrario. -
"..."
Len spostò lo sguardo alla sua sinistra.
Kyte non riuscì a non guardare in quella direzione.
Nello specchio vicino all'angolo era riflessa almeno metà della stanza.
Ed erano riflessi lui, Len e Gakupo.
- Siamo tutti qui. - un sussurro: - Insieme. -.
Len si alzò.
Ma non andò da Gakupo.
Raggiunse il letto, con pochi passi, per poi lasciarvisi cadere seduto.
Kyte sentì un briciolo di forza nelle gambe. Si alzò, piano. Barcollava. Il braccio intero faceva male, la ferita bruciava sotto la fasciatura.
"No..."
Si avvicinò a Gakupo. Voleva che parlasse. Voleva che mostrasse un qualsiasi segno di vita.
Len era impazzito. Gakupo sembrava incapace di reagire. Doveva impedire a Len di fargli qualsiasi cosa intendesse fargli.
Guardò quegli occhi azzurri folli: - Perché tutto questo? - la voce uscì, più decisa di quanto avesse pensato. Spezzata, ma non nel tono.
- Ve l'ho detto. - sorrise. Sembrava posseduto. Lo sembrava nella voce, nello sguardo, nei gesti, nel suo stesso aspetto. Se fosse stato posseduto da qualche strano spirito sarebbe stato molto più facile. E meno doloroso. Molto meno doloroso.
- Perché? - ripetè, afferrò Gakupo per un polso, senza distogliere lo sguardo: - Perché avete ingannato entrambi? Perché avete detto di amarmi, se- - - Amarvi? - aveva scandito le sillabe, in un sussurro. La sua espressione era venuta meno. Ma tornò un istante dopo, con una risata troppo acuta: - Io non ho mai detto di amarvi, Kyte. - piegò appena la testa di lato, socchiuse gli occhi: - Siete stati voi a dirmelo. -.
Vide quello sguardo posarsi anche su Gakupo.
Sentì il cuore - quel che era rimasto - venire stretto in una morsa.
- Ma ho capito lo stesso. - Len tornò dritto, lo sguardo nel suo: - Voi provate per me ciò che io provo per voi. Non so se esista una parola per definirlo ma, per dirlo, usiamo la parola "amore". Ma non è amore. - il sorriso si addolcì, divenendo orribilmente simile a quello di Len: - Non è una scusa. Non è un sentimento passeggero. Io voglio rimanere con voi per sempre. E voi volete rimanere con me per sempre. Ciò che desideriamo davvero è essere felici, insieme. - aprì le braccia: - E ora potremo esserlo! -
- Cosa state dicendo...? -
Continuava a non capire.
Non voleva capire.
Non poteva accettare una cosa simile.
- Voi mi "amate". E io vi "amo". Completamente. -
"No..."
- Non è così! -
- No? - quel sorriso tornò agghiacciante: - Entrambi avete detto di amarmi. Voi, Kyte, avete detto di voler rimanere con me per sempre. Voi, Gakupo- - lo guardò: - -avete cercato di scappare in Giappone e negare la verità a voi stesso. Ma siete tornato da me. Potete provare a scappare quanto volete, ma tornerete sempre qui. -
Kyte scosse la testa: "Non è così... non è questo quello che..."
- Tornerete da me. Ad amarmi e a farvi amare. Senza che vi basti mai. - le dita accarezzarono la pelle scoperta del petto, l'altra mano sfiorò la coperta del letto: - Per quante volte abbiate preso questo corpo, non ne siete mai stati sazi. Dunque, perché negare l'evidenza? - il suo sorriso si accentuò: - Perché ritardare la nostra felicità? E' ciò che desideriamo, tutti e tre. Quindi... -
Si lasciò cadere indietro, piegò le ginocchia, l'orlo della gonna scivolò fino alla vita. Le gambe coperte dal nero della calza. Il reggicalze nero teso sulla pelle bianca della coscia.
- Prendetevelo. Entrambi. -.
"..."
Era davvero trascorso così tanto tempo?
Gli sembravano anni dall'ultima volta che aveva abbracciato Len, che l'aveva baciato, che aveva dormito insieme a lui.
Era felice.
In quel tempo.
Forse anche il giorno prima.
Aveva baciato Len, quel mattino, nel corridoio.
Amava Len, sì.
L'aveva confessato a lui, l'aveva confessato anche a se stesso.
Fece appena forza sul braccio sano, quello che teneva stretto il polso di Gakupo, spingendolo ad alzarsi. Non sentì alcuna resistenza, Gakupo fu in piedi al suo fianco.
Guardò Len.
Lo amava. E lo desiderava. Voleva tutto di lui.
- ... siamo due persone davvero miserabili. - mormorò Kyte, rivolse un'occhiata a Gakupo. Fissava qualcosa, o forse niente.
Tornò a guardare Len.
Sforzò le labbra. Sorrise: - ... ma voglio credere di avere ancora un briciolo di dignità. -
Avanzò verso la porta.
Non lasciò Gakupo, lo sentì camminare dietro di lui.
Afferrò la chiave e la girò.
Abbassò la maniglia, uscì, insieme all'altro.
Richiuse la porta alle loro spalle.

I passi risuonavano nel corridoio vuoto.
"Dove sono tutti?" lasciò vagare lo sguardo, ma non trovò niente che non fosse inanimato.
Non sentiva nessun altro rumore di passi, nessuna porta che si apriva o chiudeva, nessun chiacchiericcio.
Non aveva idea di che ore fossero. Il cielo si era annuvolato talmente tanto da far scendere la notte troppo presto.
Gli sembrava di essere in una magione abbandonata. Perfettamente pulita, ben tenuta, irrealmente vuota, in apparenza.
Si voltò appena. Gakupo guardava davanti a sé, ma era probabile non stesse guardando lui. Il polso nella sua mano era molle. Camminava alla sua stessa velocità, forse solo perché lo stava appena tirando.
Tornò a guardare davanti. Si passò la mano libera sulle guance - strinse i denti alle fitte che gli lanciò il braccio.
"Non mi fido a lasciarlo solo." trasse un profondo respiro: "Però non sarei credibile, se piangessi. Non ora.".
Aumentò la velocità, diretto verso la propria camera.
Ci mise poco a raggiungerla - e non incontrarono nessuno neppure in quei minuti.
Quando la aprì, sentì un brivido.
Scacciò quel pensiero dalla testa, prima che potesse realizzarlo appieno.
Sì, quella stanza era piena di ricordi.
Ma doveva esserlo anche quella di Gakupo. Non poteva riportarlo lì.
Una volta entrati, si richiuse la porta alle spalle e fece accomodare l'altro sulla sedia. Andò alla finestra, aprì le tende. Non che così fosse cambiato qualcosa.
Sembrava sera, con una luce fioca diversa da quella della luna.
Un spiffero. Rabbrividì.
Quando l'avevano medicato, gli avevano tolto la giacca e l'aveva vista sparire insieme ad una cameriera. Probabilmente l'avevano portata a lavare. Del resto, aveva una manica zuppa di sangue. Anche la manica della camicia era sporca. Ma quella gliel'avevano fatta tenere, con la raccomandazione di cambiarsi al più presto. Avrebbe dovuto, in effetti. Ma non ne aveva voglia. Ormai si era asciugata, non dava più fastidio.
Scosse la testa, scacciò qualsiasi pensiero dalla mente.
Recuperò un'altra giacca dall'armadio e se la gettò sulle spalle.
- Hai freddo? - fece per chiudere l'anta, guardò Gakupo. Lui non rispose. Cercò di mantenere il tono normale: - Come vuoi. - chiuse l'armadio, andò a sedersi sul bordo del letto, davanti a lui.
"Non devo farlo pensare." forse non era stata una buona idea quella di scacciare tutti i pensieri: "... cosa dico...?"
- Sembra davvero che pioverà. - il tempo era sempre un ottimo argomento infrangisilenzio: - Non riesco neppure a capire che ore siano! Secondo te che ore sono? -
Nessuna risposta. Neppure un accenno di cambio d'espressione.
Kyte sbuffò, si chinò fino a posare sulla gamba il braccio piegato - quello sano: - Basta dire di no, eh! Non riesco a credere tu sia talmente orgoglioso da fare queste scene solo perché non sai l'orario! - non aveva idea di cosa stesse dicendo, sapeva solo che non doveva far cadere il silenzio: - Almeno hai una vaga idea se sia primo pomeriggio o pomeriggio inoltrato? O forse è ancora mattina? -
Nessuna risposta.
- Io non riesco a capire neppure questo! - sospirò: - Secondo me, potrebbe anche essere davvero sera. Non ho guardato l'orologio. Dovrei proprio farlo. Ma non ne ho qui in stanza, forse dovrei scendere di sotto? Ah, finirò per perdermi di nuovo, è assurdo come- -
- Stavo per ucciderti. -
Kyte tacque.
Lo sguardo di Gakupo era ancora fisso.
Ma le sue labbra si erano mosse. Un sussurro quasi impercettibile. In giapponese.
Decise di parlare anche lui in quella lingua: - Beh... - alzò le spalle - altra fitta: - Sì, ci sei andato vicino. - negarlo era piuttosto inutile.
- Stavo per ucciderti. - non credeva possibile potesse parlare a voce ancora più bassa: - Stavo per ucciderti. -
Un tremito.
Tutto quello era sbagliato.
- Sì, mi hai quasi ucciso. - sorrise: - Però sono qui. - allungò la mano, gli sfiorò il ginocchio: - Non mi hai ucciso. Sono vivo. Sono qui. -.
Un groppo alla gola. Deglutì, cercò di calmarsi: - Ho avuto paura, sì. - tanta: - Però, è passato. Ora siamo qui. Anch'io. -
- Stavo per ucciderti. -
Lo sentì chiaramente. Anche se la voce era soffocata.
Incontrò il suo sguardo. Lo stava guardando.
- Non puoi perdonarmi. -
L'aveva sentito.
- Non posso perché non è stata colpa tua. - strinse il pugno. Non voleva pensarci. Non voleva davvero pensare una cosa simile. Sapeva che era vero, ormai sapeva qual era la verità dei fatti, ma non voleva dire quella frase nella sua mente. Non poteva.
- Non ha importanza come tutto questo sia iniziato. - la voce si abbassò appena, di nuovo: - Ero io ad avere in mano la spada. Se Ren non mi avesse fermato, ti avrei ucciso. -.
Kyte rabbrividì. Non capì se per quel continuo rimarcare o per quel nome.
Non voleva pensare una cosa simile. Gakupo lo stava costringendo a farlo. Non poteva più opporsi: - Len ha anche mentito. - gli parve di vedere una scintilla, in quegli occhi. Ma non era una luce positiva: - Con una bugia orribile. -
- Sì. - gli parve avesse serrato i pugni: - Ma io stavo per ucciderti. L'avrei fatto davvero. Se Ren non mi avesse fermato, a quest'ora tu non saresti qui. -
Quel pensiero lo scosse. Sentirlo in modo così esplicito era più disturbante che pensarlo. Forse se n'era semplicemente reso del tutto conto.
L'urlo di Len che fermava Gakupo. Quel suo sorriso spaventoso. Quei baci freddi. La medicazione, quell'apparizione sinistra, la camera di Len. Se Gakupo non si fosse fermato, lui non avrebbe visto niente di tutto quello. Non sarebbe stato seduto sul letto, non gli avrebbe toccato il ginocchio.
Deglutì. Sospirò, udì il proprio respiro. C'era di nuovo silenzio. Non poteva permettere durasse troppo.
- Però sono qui. - la propria voce. Sapeva di star dicendo tante cose stupide ma, ora più che mai, voleva continuare a parlare: - Ti sei fermato. Non importa come. - lo anticipò, vedendo le labbra schiudersi per ribattere: - Non mi hai ucciso. Non è morto nessuno. Siamo tutti vivi. Anch'io. -.
Alzò la mano, raggiunse il suo viso.
E gli diede uno schiaffo, non troppo forte: - Quindi smettila di dire cose macabre. - sbuffò, lasciò che quella tensione improvvisa scivolasse fuori.
Un istante dopo, si sentì svuotato di qualsiasi energia. Forse la tensione se n'era andata troppo in fretta, tutta insieme.
Gakupo lo guardò, apertamente. Sembrava essersi svegliato. Non del tutto, i suoi occhi non erano del tutto svegli. Però sul suo viso c'era un'espressione.
Sembrava stupito, in qualche modo. E preoccupato. Era impossibile non vedere quell'ombra di apprensione. Ma almeno era un viso vivo.
Kyte tirò su le gambe, andò indietro sulle coperte. Iniziava a sentire la testa pesante.
- Mi aiuti a tirare su i cuscini? - chiese, arrivato alla testiera. Aveva il vago sospetto che sistemare i due cuscini del letto dietro la schiena non fosse un'operazione facile, con una sola mano disposta a fare torsioni. Non ci teneva a verificarlo di persona.
- Sì. - Gakupo si alzò - con una certa fatica, notò - e lo raggiunse, per poi recuperare i cuscini. Si muoveva piano. Ma si muoveva da solo.
Quando furono sistemati, Kyte vi si adagiò, sospirando un ringraziamento. Sentire la superficie morbida dietro la schiena, non capì come, gli alleggerì la testa.
- Stai bene? -
- Sì. Tu? -
Nessuna risposta.
I suoi occhi si erano incupiti.
"Direi che non possiamo più evitare il discorso.".
Avrebbe voluto tacere, anche solo per quel giorno. Avrebbe voluto non parlarne mai, in effetti. Ma ormai era inutile pensare di poter scappare.
- Quindi Len non era vergine. -
Vide quegli occhi chiari spalancarsi. Tornarono normali, la voce troppo bassa: - No. - un sospiro: - Affatto. -.
"..."
Era ovvio. Ma aveva sentito comunque qualcosa graffiargli il cuore - quel che rimaneva. Len non era soltanto suo. Non lo era mai stato. E non era stato lui il primo a cui si era concesso. Anche quel particolare tanto piccolo - quel legame tanto forte - era una bugia.
- Da quanto tempo? -
- ... non ricordo. - Gakupo chiuse gli occhi, piano. Quando li riaprì, il suo sguardo scivolò in basso - non per evitare di guardarlo, forse stava ripensando a qualcosa: - Mesi. Forse quattro. O cinque. - abbassò le palpebre, la voce divenne un sussurro: - Ero tranquillo. Sapevo che tu non gli avresti fatto niente.
Credevo che Len non ti avrebbe incoraggiato. O che... - si sedette sul bordo del letto. Sembrava spossato: - ... se l'avesse fatto, sarebbe stato solo per ripicca nei miei confronti. Credevo sarebbe stato capace di usarti per vendicarsi di me. -
"..."
- Pensavo che, nel caso, per te sarebbe stato solo uno svago. Come tante altre. E lui sarebbe stato soddisfatto della sua vendetta. -.
"... in effetti, perché Len non è stato uno svago come tutte le altre?" non ricordava di averci mai pensato davvero: "Non è stata la vicinanza. Sono stato a stretto contatto con qualcuna per ancora più tempo. Ma..."
- Gli ho chiesto di sposarmi. -
Gakupo tornò a guardarlo. Gli occhi erano spalancati. Stavolta sul suo volto c'era soprattutto incredulità.
Kyte accennò ad un sorriso - quando curvò le labbra, sentì una pugnalata al petto: - Non ha potuto accettare, perché non ho niente. Mi chiedo cosa sarebbe successo se fossi stato ricco... -
Gakupo fece per dire qualcosa. Ma richiuse la bocca. Strinse i denti.

- Così... è questa la risposta giusta per noi? -
Baciò la punta della lama.



Len aveva tanti difetti. Ma, se non li avesse avuti, non sarebbe stato lui.
Avrebbe davvero voluto sorbirsi tutti i suoi difetti per tutti gli anni a venire.
- Avevi ragione. - sorrise. Sentiva gli occhi bruciare, di nuovo: - Sono stupido. E anche egoista. - il bruciore venne meno: - Ero talmente preso da me da non essere capace di vedere la realtà. - abbassò lo sguardo: - Mi chiedo se avessi potuto fare qualcosa. -.
Quella cosa era Len. Il vero Len. Quello che si era sempre rifiutato di vedere.
Voleva andare da lui e abbracciarlo, sentirlo. Voleva dimenticarlo per sempre, come se non fosse mai esistito, come se tutto quello non fosse mai successo.
Voleva ricordare. Voleva dimenticare.
Il respiro si mozzò. Qualcosa di pesante addosso, attorno alle spalle. Lo sentiva tremare. E-
"..." riuscì a respirare di nuovo. Era stato lui a smettere di respirare per un attimo, di sua volontà, come se un minimo movimento avesse potuto portare chissà quale conseguenza.
Tutto quello era sbagliato.
Gakupo era quello che sapeva sempre cosa fare. Gakupo era sempre tranquillo, affrontava le situazioni con calma e lucidità. Tutto quello era sbagliato.
Portò la mano sinistra sulla sua testa. Non disse niente. Continuò a guardare davanti a sè, verso la parete opposta della camera.
Sentiva tanti blocchi all'altezza del petto. Quando piangeva, i singhiozzi riuscivano a spezzarli. Dopo aver pianto, di solito, stava meglio. Avrebbe davvero voluto piangere sul serio, nel modo più impietoso che potesse esistere, con singhiozzi, gemiti, anche urla, forse si sarebbe inventato qualcosa appositamente.
Però, se avesse pianto, sarebbe crollato.
Avrebbe pianto dopo.
Le orecchie iniziavano a fare male. Quel nome, ripetuto in quel modo, con quella voce soffocata, gli pugnalava i timpani.
Non poteva svegliarsi. Poteva solo addormentarsi. Era quella la realtà.
Voleva addormentarsi abbracciando Len, come tutte le notti. E svegliarsi, e non trovarlo più al suo fianco, notare la candela spenta, reincontrarlo poche ore dopo. Voleva di nuovo sospirare esasperato per i suoi ennesimi compiti non fatti, sorridere ai suoi capricci, rimettere a posto i libri devastati che lasciava in giro. Voleva di nuovo passeggiare con lui, andare in paese, sentirlo protestare per chissà cosa, con la voce troppo alta.
Voleva addormentarsi, e svegliarsi, e scoprire di aver dimenticato tutto, che Len era solo un ricordo lontano.
Voleva ricordarlo. Voleva dimenticarlo.
Lo cercava, lo cancellava.
C'era una traccia di Len in quelle labbra, in quelle mani. Non erano di Len né quelle labbra né quelle mani.
Voleva che gli prendessero il ricordo che Len gli aveva lasciato, voleva che lo illudessero con l'imitazione di un ricordo.

Pioveva.
Il cielo era di carbone, le gocce contro il vetro risuonavano per i corridoi. Non c'era quasi più luce; era decisamente notte. Doveva aver dormito parecchio.
Finì di abbottonare la camicia bianca. Iniziava a fare freddo. Forse avrebbe dovuto mettere qualcosa di più pesante del gilet nero. Ma non aveva voglia di vestirsi di bianco. Neppure Gakupo.
Quando l'accompagnò nella sua stanza per cambiarsi, l'unica cosa chiara che indossò fu la camicia, come lui. L'aveva visto dirigersi spedito verso l'armadio, senza guardare nient'altro. Non prestò attenzione a nulla neppure quando uscirono.
Kyte lasciò che fosse lui a parlare con i signori. In quel caso, sapeva cosa fare, cosa dire.
Qualcosa di simile al dispiacere adombrò il volto della duchessa di Mirror.
"Lo sapeva?" difficile che sapesse tutto nei particolari: "Forse sospettava che Len stesse con entrambi.". Si era anche chiesto se non l'avesse detto loro per paura, per tatto, per curiosità di vedere cosa sarebbe successo o per disinteresse. Era piuttosto sicuro fosse l'ultima ipotesi.
- Immagino non abbiate altri sostituti. - lo sguardo della signora andò a lui, per un istante.
- Immaginate bene. -
Un sospiro. Poi la donna parlò di nuovo: - Siete proprio certi di non riuscire a tornare entro l'anno? -
- Sicuri, mia signora. Non ve l'avrei comunicato in questo modo, altrimenti. -
- E' stata una cosa davvero improvvisa. -
- Purtroppo sì. - gli parve che la voce di Gakupo si fosse abbassata. O forse era lui che iniziava a sentirsi di nuovo troppo stanco. Assurdo, visto quanto aveva dormito.
Un altro sospiro. Il duca di Mirror si decise a prendere la parola: - Se le cose stanno così, non possiamo che accettare le vostre dimissioni. Mi dispiace molto. - confessò, forse era sincero: - Len mi sembrava star bene, con voi. -.
S'impedì di pensare.
- Comunque, è fuori discussione che partiate ora. - intervenne la signora: - Posso concedervi di partire domani mattina, se stanotte smetterà di piovere. Altrimenti, dovrete attendere anche un giorno. -
- Naturalmente, mia signora. -
Kyte si limitò ad annuire.
Superfluo pensare che nessuno di loro due avesse intenzione di rimanere ancora in quella magione. Ma la pioggia li aveva bloccati lì.
Quando si diressero in cucina, alla ricerca di qualcosa da mangiare - solo quando vide la mole di piatti da lavare Kyte realizzò di aver saltato sia il pranzo che la cena -, furono attorniati dalle aiutanti della cuoca, gli sguardi preoccupati.
- E' vero? Ve ne andate? -
- State male? Perché non siete scesi, oggi? -
- Potremmo avere qualcosa da mangiare, se possibile? - la voce bassa di Gakupo zittì tutte.
Qualche istante dopo, si ritrovarono entrambi seduti, davanti a formaggio, pane e frutta. Qualche ragazza si era offerta di cucinare qualcosa, o di riscaldare i piatti del giorno, ma avevano rifiutato entrambi.
Kyte aveva fame, ma non aveva davvero fame. Forse il mal di testa era dovuto anche al digiuno. Però ciascun boccone gli dava la nausea.
Cercò di distrarsi dal sapore del cibo guardandosi intorno: c'erano cinque assistenti, la signora Smith chissà dov'era; i banconi si alternavano tra perfettamente puliti e con macchie e pezzi di cibo sparsi; una pila di piatti sporchi alta mezzo braccio era sul lavello; accanto, un coltellaccio sporco di-
Sbattè le palpebre, confuso: - Fango...? -
- Ah, mi dispiace vediate tutto questo disordine! - parve ricordarsi una ragazza, mettendosi davanti ai piatti, come a volerli coprire: - Stavamo sistemando, quando voi- -
- Sì, pare sia fango. - rispose un'altra ragazza, più vicina: - Il signor Anderson l'ha trovato proprio fuori all'entrata, per terra. La signora Smith era molto arrabbiata. - abbassò lo sguardo, quasi fosse colpa sua: - E' andata a protestare dal maggiordomo. E' già successo che qualcuno prendesse qualcosa dalla cucina per riparare gli esterni, riportandolo in condizioni pietose... -
- Non c'è bisogno di dire tutto. - la interruppe una terza ragazza, infastidita.
Tornò il silenzio, spezzato solo dal rumore della pioggia.
Se non altro, Kyte era riuscito a mandare giù qualche altro boccone.
Gakupo lo riaccompagnò in stanza.
Quando arrivarono alla porta, Kyte notò qualcosa appoggiato al muro accanto all'entrata: lungo, avvolto in un panno bianco. Lo prese e guardò cosa contenesse. Trasalì.
Si affrettò ad entrare in camera, gettò lo sguardo a terra: una striscia bianca spiccava sul pavimento. Doveva essere caduta dal letto qualche ora prima.
Si chinò, prese il fodero e andò alla finestra, continuando a dare le spalle a Gakupo. Tolse il panno bianco. Non voleva che vedesse la spada. Rimise la lama nel fodero.
- Sta cominciando a fare davvero freddo, eh? - andò all'armadio, vi buttò dentro la spada: - Dovrei mettermi qualcos'altro. Ma non mi va di vestirmi di bianco. -
Gakupo taceva. Brutto segno. Doveva averla vista.
Ricordò di colpo.
Si voltò. Lo sguardo di Gakupo era dove prima c'era il fodero.
Con poche falcate, Kyte lo raggiunse, mise una gamba nel suo campo visivo. Gakupo parve tornare alla realtà. Aveva di nuovo avuto quello sguardo spento.
Quando lo guardò, Kyte sorrise, come se nulla fosse. Anche se sentiva le braccia tremare: - Il vestito rosso è troppo elegante, vero? -
Silenzio.
La risposta giunse pochi secondi dopo: - Sì. Direi di sì. -
- Magari posso metterlo domani. - portò le gambe vicine, bloccandogli la visuale: - Anche se questo mi ricorda che dovrei farmi altri vestiti rossi. Del resto, il rosso mi dona. -
- No, non ti dona. -
- Come no? - mise le braccia conserte, finse un tono offeso: - Il rosso dona sempre! E' il colore dell'amore! Il rosso è amore! -
- E sangue. -
S'irrigidì. Serrò i pugni.
Diede un colpo leggero a Gakupo, sul viso. Lo costrinse a guardarlo negli occhi.
- Ti ho detto di smetterla di dire cose macabre. - sibilò: "Pensavo fosse tutto a posto, ora...".
L'altro non rispose. Sembrava triste. Almeno c'era una qualche emozione.
- Stai bene? - un sussurro, preoccupato.
Kyte ci mise un istante a capire cosa intendesse. Annuì, accennò ad un sorriso: - Va tutto bene. -.
Forse avrebbe dovuto sentire qualche sensazione particolare, qualche timore, qualche rimorso. Ma si sentiva solo come se tutto quello - come se quella mattina - fosse un ricordo lontano, talmente distante da iniziare a sfumare nella memoria, quel momento in cui ci si iniziava a chiedere quanto di quel ricordo fosse vero e quanto ricostruito dalla fantasia.
- Vado a fare le valigie. -
Kyte annuì: - Vengo con te. -
- No. -
"Eh?" lo guardò, confuso.
Le labbra di Gakupo si curvarono appena verso l'alto. Sembrava un sorriso amaro: - Riposati. - disse, soltanto.
"..."
C'era qualcosa in quegli occhi. Una richiesta che non osava fare.
Kyte sorrise: - Puoi tornare qui. Lo sai. -.
Gakupo parve calmarsi, almeno un po'.
Tornò nella sua camera.
Kyte richiuse la porta della propria. Guardò a terra.
Il nastrino della giarrettiera.
Con la punta del piede, lo spinse sotto il letto.
Non era rimasto più niente, in quel punto. Gakupo non era più lì.
Espirò.
Gli parve che qualcosa di troppo pesante gli venisse tolto dalle spalle, gli parve di aver trattenuto il respiro per ore, tendendo i polmoni fino al limite.
Freddo.
Ora lo sentiva come se fosse un velo di ghiaccio cadutogli addosso, attraversando la pelle e avvolgendo le ossa.
Tremò. Tornò all'armadio, lo riaprì. Notò una sciarpa nera, quasi subito. La prese, richiuse l'armadio e se l'avvolse attorno al collo. Un'improvvisa ondata di caldo sciolse il ghiaccio sulle spalle e fece per scendere lungo il petto e la schiena, ma lì il gelo doveva essere troppo intenso. Rabbrividì per un istante, portò una mano alla stoffa. Vi affondò la bocca. Sentiva le labbra gelide.
Le gambe, però, non sapeva come scaldarle. Non aveva voglia di mettersi sotto le coperte. Si sentiva stanco, ma non voleva dormire ancora. Il motivo per cui si sentiva in quel modo non aveva a che vedere con la stanchezza fisica.
Camminò per la stanza. Andò alla porta, andò piano alla finestra, tornò alla porta, riandò alla finestra. Almeno non si sarebbe congelato sul posto.
La maniglia della porta cigolò.
Kyte si voltò.
La porta era chiusa. La maniglia era su.
Kyte sospirò, il battito contro le orecchie. Rivolse lo sguardo alla finestra, i vetri ricoperti di minuscole gocce di pioggia, alcune troppo pesanti che cadevano nelle altre al di sotto, lasciando una scia bagnata dietro di loro.
Un fruscìo, dietro di lui, distante, poi vicino.
Si voltò.
Ogni cosa era ferma. La porta era chiusa, la finestra era chiusa. Nessuna stoffa si muoveva.
Lasciò andare il respiro. Non si era accorto di averlo trattenuto. Tornò a guardare la finestra, vi si avvicinò. Alzò lo sguardo. Il cielo era una distesa d'inchiostro. Persino le gocce sembravano avere un colore, come se qualcuno avesse intinto la punta di un pennello in ciascuna di loro per sporcarle appena.
Forse avrebbero macchiato tutto ciò su cui sarebbero cadute. Forse l'avevano già fatto. Forse, per rimediare, sarebbe servita una pioggia colorata.
Un tonfo. E un fruscìo, un altro, un altro.
Non si voltò. Strinse la stoffa della sciarpa tra le dita.
- Cosa state guardando, Kyte? -
Sorrise. Chiuse gli occhi.
- Mi lasciate qui da sola? -
Se si fosse voltato, avrebbe visto quegli occhi azzurri fingersi offesi. Avrebbe detto la prima stupidaggine che gli sarebbe venuta in mente, e sarebbe andato da loro. Non avrebbe avuto più freddo. Le ore sarebbero passate troppo veloci. Aveva dormito tanto, forse sarebbe stato in grado di svegliarsi prima.
L'avrebbe visto dormire. Magari al suo fianco, tra le sue bracc- no, era più probabile l'avrebbe ritrovato spalmato su di sé nel modo meno elegante possibile e in posizioni per lui altamente pericolose. O forse lui si sarebbe comunque svegliato prima, se ne sarebbe andato e l'avrebbe rivisto solo alla colazione, in un bell'abito dai colori pastello. E, una volta svegliatisi per bene entrambi - cosa che non necessariamente avveniva nel giro di un'ora -, avrebbero fatto lezione.
Gli argomenti iniziavano a scarseggiare e avrebbe dovuto iniziare a scavare nella sua memoria per trovare una cosa anche piccola da cui tirare fuori qualcosa in grado di occupare due ore di studio.
Chissà cosa avrebbero preparato per pranzo. Chissà se avrebbero avuto del tempo per passeggiare. Forse sarebbero andati al lago, dietro gli alberi. Forse si sarebbero chiusi in qualche stanza. Forse sarebbero semplicemente stati nel giardino interno, seduti l'uno accanto all'altro, con la servitù che passava a pochi metri da loro.
Chissà se sarebbero andati in paese. Chissà se sarebbe arrivato un invito ad un ballo. Chissà cosa avrebbe indossato per il ballo.
La sua mano era più piccola della propria. A volte le punte delle dita erano fredde, a volte erano davvero calde. Palmo contro palmo, dita intrecciate alle sue.
Sapeva di banane. Anche se non ne aveva appena mangiate. Se gli mordeva la pelle, però, non sentiva sapore di banana. A volte gli sfiorava le labbra, a volte gli accarezzava la lingua con la propria.
- Presto non piangerete più. -
Spalancò gli occhi.
Tra le gocce sul vetro, azzurri, fissi.
Tremò.
Erano più scuri, meno rotondi.
Espirò, di nuovo.
Erano i suoi, di occhi. Non erano solo gocce di pioggia, quelle nel riflesso.
Se si fosse messo a dormire, si sarebbe risvegliato da solo, nel letto. Perché avrebbe dormito da solo, per tutta la notte. Se fosse sceso per fare colazione, avrebbe incontrato i signori, e Gakupo, forse.
Non ci sarebbe stata nessuna lezione. Non gli importava granché di cosa avrebbero preparato per pranzo. Il laghetto, la casa e il giardino non avevano alcuna attrattiva. Non ci sarebbe stato nessun ballo. Non ci sarebbe stato niente. Perché Len non era più-
Qualcosa lo colpì in pieno petto.
La figura di Len era stata strappata dai suoi pensieri.
Ma Len era ancora in quella casa.
Da qualche parte.
In quel momento.
Allentò la sciarpa. Si sentiva soffocare. Aveva l'impressione che l'intera magione si sarebbe ristretta da un momento all'altro, schiacciandolo.
Inspirò. Espirò.
Sbattè le palpebre, gli occhi non bruciavano più, la gola sembrava graffiata.
"...?"
Si avvicinò al vetro.
Nell'erba sporca d'inchiostro c'era una macchia bianca.
"..."
Non l'aveva vista apparire. Forse era lì da prima. Forse l'aveva fissata per tutto il tempo.
Bianca. Nera. Gialla.
C'erano altri colori, oltre al bianco. Riusciva a vederli in modo straordinariamente nitido.
Non vedeva altrettanto bene quella figura.
Ma aveva capito.
Si ritrovò nel corridoio, la porta sbattuta alle spalle, la falcata più ampia del dovuto.
"Cosa sto facendo?"
Voleva dimenticare. Voleva ricordare. Voleva andare lontano da quella casa. Voleva raggiungere quella figura bianca.
Forse le gambe stavano andando da sole, seguendo un percorso che avevano imparato a memoria. Ma lui non oppose alcuna resistenza.
Forse avrebbe dovuto sentirsi disorientato dal fatto che le sue gambe avessero più memoria della sua testa. Fino al giorno prima, qualcuno gliel'avrebbe fatto notare con quelle stesse parole.
Voleva ricordare. Voleva dimenticare. Voleva conservare quel ricordo lontano. Voleva cancellare quel ricordo vicino.
Aprì la porta d'ingresso.
La pioggia era fitta, eppure leggera. Sembrava nebbia. Forse era davvero solo nebbia.
Pochi istanti dopo, dovette arrendersi all'evidenza che fosse effettivamente pioggia. Non era fastidiosa, però. Non c'era neppure vento. L'unico rumore era quello della pioggia, distante, come se stesse piovendo altrove.
Avanzò. Gli stivali contro l'erba bagnata erano il suono più forte che si sentisse. Ritmico, lento.
Liberò la bocca dalla sciarpa appesantita dall'acqua.
La camicia si era attaccata alla pelle. La fasciatura sembrava più spessa, appena più pesante.
Avanzò, fin dove gli era parsa essere quella figura.
Una macchia bianca.
Si avvicinò, senza cambiare il passo. Voleva tornare indietro. Voleva andare avanti.
Strisce nere sul bianco.
Avrebbe fatto più male. Poteva ancora andarsene. Poteva ancora andare via e pensare che quelle ore non fossero mai successe, o che quei mesi fossero stati un lungo sogno.
Giallo, come il piumaggio dei canarini.
Doveva averlo sentito, ormai.
Poteva tornare indietro. Non voleva tornare indietro.
Non sapeva neanche lui perché si fosse fermato a poco più di un metro da lui, perché fosse andato lì, perché non volesse andarsene.
Non aveva pensato, quando si era buttato fuori dalla camera. Non aveva voglia di farlo, non riguardo quello. Sapeva solo di non voler tornare indietro.
Una delle lunghe strisce nere si mosse appena.
Kyte trasalì.
Solo in quel momento realizzò.
I capelli biondi erano legati in una crocchia alta, con un nastro nero lungo fino alle ginocchia, il fiocco che spuntava dalla nuca come un paio di orecchie da gatto. Attorno al collo bianco, un collarino nero.
Attorno al petto, una fascia nera, legata alla bell'e meglio sulla schiena. Una striscia nera sul bianco della pelle.
Le scarpette nere, con un accenno di tacco.
Le gambe coperte dalle calze nere fino a metà coscia. I reggicalze, tesi fino alla fascia nera sottile sui fianchi, risaltavano sotto la stoffa bagnata delle due sottogonne prima bianche, strappate all'inizio della gamba.
E strappate erano le gambe della biancheria, i bordi lacerati spiccavano sotto il tessuto fradicio.
La pioggia ricadeva sulle braccia, sulle spalle, sulla schiena, sulla pancia, sulle anche.
"Ma che...?"
I nastri neri si spostarono, una ciocca bionda lungo la guancia si scostò.
Un occhio azzurro.
Somigliava davvero tanto al suo. Non per il colore.
Le labbra rosate, ora pallide, si schiusero appena: - Io... - quella voce, bassa, esitante: - ... mi sento come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. -.
"..."
Non aveva idea di che espressione ci fosse sulla sua faccia. Era piuttosto sicuro non fosse arrabbiata. Forse era sorpresa. Forse non c'era nessuna espressione.
- Beh... - non erano state tanto le parole quanto la sincerità con cui erano state pronunciate a colpirlo: - ... avete tradito una persona, ingannato un'altra, giocato con i sentimenti di entrambe, avete mentito loro, le avete spinte l'una contro l'altra portandone una vicina all'essere uccisa... - sospirò: - ... quindi, direi che sì, avete fatto qualcosa di sbagliato. -
- Io non volevo che voi moriste! - l'occhio azzurro si spalancò, la voce si alzò all'improvviso: - Non ho mai voluto la vostra morte! Né quella di Gakupo! -
"Almeno questo..."
Per qualche strano motivo, la cosa non lo rincuorò minimamente.
- Vi ho fermati! - gli ricordò l'altro, una mano si alzò, ma rimase ferma a mezz'aria. La riportò giù un istante dopo.
Kyte rimase a guardare Len.
Era davvero Len, quello. Non aveva più quello sguardo, non parlava più con quel tono.
Il fatto che stesse parlando di ciò che era successo, però, gli dava la definitiva certezza che Len e quella cosa fossero davvero la stessa persona, che Len non fosse posseduto, che avesse pensato a tutto quello con lucidità.
- Perché? -
Non gli aveva ancora risposto in modo chiaro. Aveva un vago sospetto del significato di quelle parole inquietanti dette ore prima, ma voleva sentire una spiegazione da lui.
- Ve l'ho detto. - la voce si era riabbassata: - Non ho mai desiderato la vostra morte. - la palpebra coprì appena l'occhio: - Anche se ero certo che per voi non ci sarebbe stata più alcuna speranza. -
- Eh? -
- Non era così che doveva andare. Avevate bisogno di me. Ero rimasta solo io. Eppure voi non avete affatto bisogno di me. -
Altre frasi sconnesse. Forse sarebbe dovuto essere più chiaro lui, per primo.
Fece un passo avanti: - Intendevo, perché avete fatto tutto questo? Perché ci avete ingannato e spinti l'uno contro l'altro? -
- Perché volevo entrambi! - il tono si alzò di nuovo: - Volevo stare con voi per sempre! Ed era ciò che desideravate anche voi! E allora perché mi avete rifiutata? - la voce s'incrinò: - Dov'è che ho sbagliato? -
"... secondo lui, questa è davvero una risposta?" non gli sembrava che Len avesse evitato la domanda. La cosa lo inquietò.
- Non... - doveva essere diretto: - ... vedo il nesso tra ciò che dite e l'averci quasi fatti uccidere a vicenda. -
Lui non aveva mai avuto alcuna intenzione di fare del male a Gakupo. Gakupo, invece, era stato sul punto di-
Rabbrividì al pensiero.
Lo sguardo di Len sembrava sofferente. Ma non era sicuro fosse rimorso: - Io non posso essere come voi. - un sussurro: - Quindi dovevo rendervi come me. -
Kyte sbattè le palpebre: - ... continuo a non capire. -
- Volevo vedere fin dove sareste stati in grado di arrivare per me. - se la pioggia fosse stata più forte, non l'avrebbe sentito: - Volevo vedere quanto fossi importante per voi. -
Kyte tremò.
- Le cose per voi più importanti erano me e il vostro legame. Per me, siete stati disposti a distruggerlo. Avete distrutto il vostro mondo, lasciando in piedi solo me. Avreste dovuto ricostruire il vostro mondo attorno a me. Ma... - sembrava quasi stesse per piangere: - ... ve ne siete andati. Mi avete rifiutata. Perché? -
"... si chiede perché ce ne siamo andati dopo che lui ci ha quasi fatto uccidere a vicenda?" rimase impietrito. Soprattutto perché Len era serio.
- Direi che... - la voce uscì a fatica: - ... fare tutto ciò che avete fatto non è un'idea geniale per legare a sé due persone. -
- COS'ALTRO POTEVO FARE? - un urlo. Len si voltò del tutto verso di lui.
Un brivido lo scosse.
Quegli occhi azzurri erano sgranati. Le ciocche bionde ricadevano sul viso. La parte sinistra era rossa. Rosso scuro, tra i capelli sulla fronte, tra i capelli che puntellavano le guance. Cinque linee dai contorni incerti, un sopracciglio spezzato in cinque punti, una palpebra graffiata, la pelle lacerata.
"Cosa...?"
Sembravano unghiate. Di colpo, ricordò del tutto le mani di Len, le sue dita.
"... si è...?"
- IO NON SONO COME VOI! - Len fece un passo avanti, i pugni serrati, le nocche sbiancate: - Io sono costretta a rimanere qui per sempre! - aveva gli occhi lucidi: - Non posso sposarmi! Non posso legarmi a nessuno! Non posso neppure vivere da sola! Devo essere sempre controllata! L'unico modo che ho per rimanere in vita è rimanere qui! - riprese fiato. Abbassò lo sguardo, i capelli gli coprirono gli occhi: - E' così sbagliato volere qualcuno con me? E' così sbagliato illudersi che non ci sia nulla di sbagliato? E' così sbagliato desiderare di comportarsi del tutto come si vuole? -.
Kyte non rispose. Gli sembrava di non ricordare più come si facesse a parlare. Il gelo era tornato.
Len rialzò lo sguardo. Quelle sul viso non erano più solo gocce di pioggia. Le labbra si curvarono appena in un sorriso: - Una volta ho fatto un incubo. Ho sognato di essere scoperta. Che delle persone mi afferravano e mi strappavano i vestiti di dosso, e mi trascinavano nella piazza del paese. Che mi buttavano a terra, che mi aprivano le gambe e mi chiamavano "Milady" ridendo. Ricordo che mi tiravano i capelli. E che io ero talmente spaventata da non riuscire neppure ad urlare. - le dita andarono alla gola: - Ci provavo, ma non usciva nessun suono. Nessuno poteva sentirmi, neppure quelle persone. Mi dimenavo, ma loro presa era troppo forte. Più cercavo di liberarmi, più loro stringevano. Alla fine, non ho più cercato di liberarmi. Ricordo che piangevo. In silenzio. Non riuscivo neppure a singhiozzare. - abbassò la mano: - Poi mi sono svegliata. E mi sono resa conto che era stato solo un incubo. - sorrise: - Ero talmente felice che sono scoppiata a piangere sul serio. - giunse le mani: - Quello era solo un incubo. - il suo sorriso si fece amaro: - E qualcosa che potrebbe succedere, se facessi un errore. -.
"..."
- Quando ero con voi, non avevo nessuna paura. - riportò le braccia lungo i fianchi: - Potevo illudermi di poter essere me stessa. Voi sapevate la verità, ma mi siete rimasti vicino comunque. Mi amavate, sia che fossi "milady" sia che fossi un... - la voce si spense sull'ultima parola. Sospirò: - A me non è concesso essere me stessa. Posso solo illudermi di esserlo. Mi chiedo se sia sbagliato desiderare di volerlo essere. -.
Kyte non rispose.
Sentiva due forze opposte all'altezza del petto, che si scontravano con violenza, nel tentativo di sopraffarsi l'un l'altra. Erano talmente definite che poteva quasi sentire nitidamente il punto d'incontro.
Sarebbe voluto andare da lui, avrebbe voluto azzerare la distanza tra loro e abbracciarlo. Doveva avere la pelle gelida. Voleva passargli le dita tra i capelli bagnati, sciogliere il nastro nero e baciare quelle labbra pallide. Voleva accarezzare quella pelle fredda, fino a sentire la stoffa bagnata delle sottogonne contro il dorso della mano. Voleva slacciare i reggicalze, scoprirgli le gambe. Voleva scaldarlo anche lì, sotto la pioggia, facendogli dimenticare tutto.
Sarebbe voluto andare da lui, avrebbe voluto azzerare la distanza tra loro e colpirlo. Il sangue che aveva desiderato vedere ore prima voleva vederlo ora sulla sua pelle. Voleva colpirlo con tutta la forza che aveva, sapeva che lui non sarebbe stato in grado di difendersi o scappare. Visto che gli piaceva tanto dire di essere stato costretto, l'avrebbe costretto sul serio, facendogli più male che poteva, senza mai coprirgli la bocca solo per sentirlo urlare.
Fece un passo avanti.
Vide Len trasalire. Una luce di paura negli occhi, per un istante.
Forse il suo viso lasciava vedere entrambe le sue sensazioni. E Len non poteva essere sicuro di quale lui avrebbe scelto.
- Voi... - la voce uscì più bassa di quanto si sarebbe aspettato: - ... non fate mai i compiti. -
Len sgranò gli occhi. Sbattè le palpebre. Scosse la testa: - A volte sì. -
- E vi piacciono i vestiti. - sentì le labbra tirare appena: - E i balli. Voi amate i balli dai conti di Tibirsh. E danzare il valzer. E amate le banane, ovviamente, tanto da divorarle senza alcun decoro. E vi piace andare in paese. E fare passeggiate. E fare tanti capricci. E prendermi in giro. - lasciò che le sue labbra sorridessero: - Quello siete voi. - Len sbiancò: - Ogni volta, siete sempre stato voi. - lo vide spalancare gli occhi.
- Cosa...? -
- In quei momenti, voi eravate davvero voi. Voi stesso. Non stavate nascondendo niente. Era quello il vero Len. - ogni parola era una pugnalata al petto.
Ricordava quei momenti. Voleva tornare a quel tempo. Voleva che quelle ore precedenti non fossero mai successe.
Incontrò quello sguardo azzurro.
Gli occhi si erano arrossati.
Le mani si erano alzate, fino alla bocca. Tremavano.
Vi affondò il viso.
Un singhiozzo. Un altro, un altro ancora.
La seconda forza fu sbattuta via dalla prima. Non sarebbe mai stato in grado di fare una cosa del genere. Non ne avrebbe ottenuto alcun appagamento. Non senza impazzire. Non quando quei singhiozzi gli ferivano le orecchie e lo facevano star male più dei ricordi.
- Bugiardo. - la voce era spezzata: - Siete un bugiardo. -.
L'idea che Len stesse male gli aveva sempre fatto repulsione. Tutta quella situazione l'aveva sempre disgustato. Avrebbe voluto far sì che Len non piangesse mai più per quel motivo.
E, ogni volta...
- Perdonatemi. -
Sentiva di star sorridendo. Si era arreso all'evidenza. Poteva solo confessare.
Len alzò il viso. Lo guardò, incredulo: - ... cosa? -
- Perdonatemi. - ripetè. Non poteva più scappare. Non voleva più scappare: - E' vero, sono un bugiardo. Vi ho mentito su qualcosa di importante. E ho finto di non rendermene conto, solo per sentirmi meglio. Mi sono autoconvinto di star dicendo la verità, quando era ovvio che mi stessi solo illudendo. - inspirò: - Tutto perché avevo paura di affrontare la realtà. Ogni volta, sono fuggito. Proprio quando voi avevate più bisogno di me. -
- Cosa- -
- Vi ho detto di amarvi, ma non era vero. -
Len sgranò gli occhi.
- Nel senso... - Kyte alzò le mani davanti al petto, si affrettò a spiegare: - Amavo l'idea che avevo di voi. - abbassò le braccia: - Se vi avessi amato davvero, non sarei scappato ogni volta che avevate bisogno di aiuto. - era la seconda volta che lo diceva. Ma la vergogna e il dolore non si erano affatto attenuati.
- E poi... - sorrise, forse non era un sorriso sereno: - ... se vi avessi amato davvero, avrei capito che c'era qualcosa che non andava. Che, per voi, non ero l'unico. Che stavate pensando a cose simili. Quindi... - quello sguardo fisso: - ... perdonatemi. - il dolore aumentò: - Mi sono convinto di conoscervi. Anche se non era davvero così. - si sentì soffocare. Al tempo stesso, gli parve che qualcosa di pesante gli venisse strappato di dosso: - Però... - le gocce di pioggia parvero improvvisamente pesantissime. Visto come gli si schiantavano addosso, forse l'avrebbero buttato a terra. Sentì le labbra tirare appena: - ... mi sarebbe piaciuto conoscervi. -.
"Mi chiedo se avessi potuto evitare tutto questo. Se non fossi scappato, forse tutto questo non sarebbe successo. Forse Len sarebbe stato sincero. Forse non sarebbe arrivato fino a questo punto.".
Len lo guardava, immobile, gli occhi spalancati, la bocca schiusa. Non si era mosso neppure un attimo, forse non aveva neppure sbattuto le palpebre.
Sembrava bloccato.
Poi le sue guance sfumarono di rosso. Lo vide stringere i denti.
E la sua voce, roca, gli perforò le orecchie.
- STUPIDO! -
"E-eh?" fece un passo indietro, disorientato: "Ma che-"
- Siete uno stupido! - Len fece un passo avanti - parve conficcare un tallone nel terreno bagnato, quando posò il piede: - Stupido! Stupido! Non si può credere che possa esistere al mondo una persona tanto stupida! Se uno dovesse pensare alla stupidità, la prima cosa a cui penserebbe sareste voi! Se le parole dovessero incarnarsi, la stupidità avrebbe il vostro aspetto! Se dessero i titoli nobiliari in base alla stupidità, voi sareste l'imperatore supremo! Quando siete nato, la stupidità era in Acquario e stava andando verso i Pesci! Se si anagramma il vostro nome e il vostro cognome, esce la parola "Stupido"! Perché siete stupido! Stupido! STUPIDO! -
"Cosa..."
Len prese una boccata d'aria, il volto completamente rosso: - Perché vi state scusando? - serrò di nuovo i denti: - Perché vi state scusando...? - la voce si affievolì. Le palpebre si abbassarono appena sugli occhi bagnati.
Lo vide abbassare lo sguardo. I capelli coprirono il viso.
"... cos'è successo...?" non sapeva cosa fare: "... forse dovrei dire qualcosa...?" ma non aveva idea di cosa. Soprattutto, temeva che l'altro si sarebbe tolto una scarpa e gliel'avrebbe lanciata accertandosi che il tacco gli finisse in un occhio.
Non aveva capito perché gli avesse urlato contro fino a probabilmente spaccarsi la gola, ma non aveva l'urgenza di chiedergli il motivo.
- Sì. -
Kyte sbattè le palpebre. Gli era parso di sentire una parola.
- Sì. - Len alzò il viso. Sorrideva. Non c'era alcuna traccia di sentimenti negativi, in quel sorriso. Però stava piangendo: - Sì. - un passo avanti: - Sì. - un altro passo avanti: - Sì. -.
"... 'sì' cosa?"
Gli si era avvicinato. Con una falcata larga, sarebbe stato in grado di raggiungerlo.
Solo...
- Cosa- -
- Se potessi invertire il tempo... - un sussurro, quasi impecettibile: - ... le parole andrebbero al posto giusto. -.
"..."
- Ma non posso. - parlava piano, calmo: - Il tempo si è disperso. E non tornerà più. - si sfiorò la guancia ferita con le punte delle dita: - Kyte... - sembrava quasi una supplica: - ... allora perché continua a fare male? -.
Lo guardava negli occhi. Per la prima volta, quello che vi vide fu rimorso.
Non era sicuro fosse per ciò che aveva fatto loro. Ma c'era.
- Non lo so. - rispose, la voce uscì fin troppo pacata: - Non posso saperlo con certezza. Posso solo provare ad immaginarlo. -
- E cosa immaginate? - sembrava volesse giungere le mani. Sembrava improvvisamente smarrito in un luogo sconosciuto troppo grande e troppo buio. Lo stava pregando davvero.
Si sentì a disagio.
No, non era disagio.
Sentiva di volerlo prendere per mano e portarlo nella propria camera, e abbracciarlo, senza fare altro. Ma c'era qualcosa che lo inquietava. Sentiva che, se l'avesse fatto, avrebbe abbracciato soltanto un involucro freddo.
Non capì perché sentisse quella sensazione. Ma era ciò che gli faceva pensare Len in quel momento.
- Credo... - tuttavia, sentiva anche di non dover moderare le parole in alcun modo: - ... che, cercando di essere felice, siate finito con il ferirvi. -.
Len trasalì.
Rispose dopo qualche istante, la voce quasi soffocata: - Quindi è sbagliato desiderare di essere felici? -
- Credo sia sbag- - esitò. Non doveva moderare le parole. Ma non poteva atteggiarsi a detentore della verità. Neanche lui era più sicuro di quale fosse: - ... credo non sia questo il metodo per trovare la felicità. -
- Non lo è. - distolse lo sguardo.
- Len- - si fermò. Len stava guardando qualcosa alle sue spalle.
Si voltò.
"Cosa-?"
Gakupo era a pochi metri da loro, sotto la pioggia. Ricambiava lo sguardo di Len. Da quella distanza, Kyte non riuscì a capire se i suoi occhi avessero o meno vita. Il solo fatto che fosse lì, però, gli fece pensare di sì.
E si rese conto che quella era la prima volta, da quella mattina, in cui Gakupo reincontrava Len.
"... da quanto tempo è qui?"
Cercò il suo sguardo, ma l'altro continuava a guardare Len. Non sembrava ignorarlo. Con un moto d'inquietudine, si rese conto che forse Gakupo non riusciva a distogliere lo sguardo da lui. Si convinse che forse anche il modo in cui era conciato potesse essere un motivo.
- Sono stata brava? - Len aveva accennato ad un sorriso. Ma non era arrivato fino agli occhi: - Sono stata brava ad imitare una ragazza pura e innocente? -
- Iya. - la voce atona, inespressiva. Ancora non riusciva a vedere il suo sguardo: - Un tentativo davvero fallimentare. -
- Cattivo. - il sorriso si spense: - Ma avete ragione. Sono stata più brava ad imitare una ragazza sincera. - alzò lo sguardo, verso il cielo scuro. Abbassò appena le palpebre, la pioggia era leggera, ma c'era.
Gakupo non si mosse, né disse niente.
"Dovrei raggiungerlo...?" gli sembrava dal terreno bagnato fossero spuntate delle radici fin troppo resistenti, che si erano serrate attorno ai piedi e alle caviglie, per poi risalire fino alle ginocchia. Non era sicuro di avere abbastanza forza per provare a liberarsi. Non in quel momento, almeno.
- Kowarete iku sora. -
Kyte riportò lo sguardo su Len. Ancora guardava verso l'alto. La voce era tornata un sussurro.
- Mamorubeki mono o kowashite... - Len tornò a Gakupo. Poi da lui.
Le iridi sembravano di vetro.
- ... ne? -.
"..." voleva dire qualcosa. Qualsiasi cosa che potesse far tornare Len "Len". Non erano gli occhi freddi che l'avevano inquietato in quei mesi, quelli da cui era sempre fuggito. Era qualcosa di diverso. Quegli sguardi da bambola dagli occhi di vetro erano momentanei. Sarebbero finiti. Len sarebbe tornato il Len di sempre.
Quello-
- So che mi odiate. - la voce era tornata normale. Spaventosamente normale: - Che forse mi odiate tanto da volermi uccidere. O torturare. O torturare e poi uccidere. O uccidere e poi torturare. -
- Non ha senso... -
Un accenno di sorriso: - Potreste uccidermi e poi farmi a pezzi. -
"Lo dice così." non era calmo. Non era nervoso. Non stava scherzando. Era vuoto. Una bambola che cercava di imitare espressioni e intonazioni umane, senza riuscirci.
- Però... - portò una mano al petto, al centro della fascia nera: - ... c'è una cosa che voglio voi facciate. - "Eh?" - L'ultima cosa che vi chiedo. Anche se voi mi odiate e non avete nessuna intenzione di esaudire una mia richiesta. - la voce si abbassò appena: - Forse neanche posso osare farvi questa richiesta. Ma voglio che la esaudiate comunque. -.
Il rumore leggero della pioggia.
Gakupo non aveva risposto.
- Cosa? - era più la curiosità che spinse Kyte a parlare, anche per lui. Non lo stupiva che Len chiedesse loro qualcosa. Aveva sentito abbastanza frasi sconnesse. La cosa che più lo inquietava era che quelle frasi, nella mente di Len, avessero un senso.
Lo vide tornare a sorridere. Somigliava quasi a Len. Avrebbe voluto il contrario.
- Dimenticatemi. -.






Note:
* Parole/frasi in giapponese o, almeno, quello che intendevo far dire
- "Eien ni...": Per sempre...
- "Shiawase desu ka?": Siete felice?
- "Watashi wa shiawase desu.": Io sono felice.
* "Così... è questa la risposta giusta per noi?": Setsugetsuka.
[Così, era questa la risposta migliore per noi.]
* "Il rosso è amore" + "Sangue": Le rouge est amour e Blood, la prima cantata da Gakupo e la seconda da Kaito.
* "Pioggia colorata": Aya shigure. (In realtà, la traduzione più corretta dovrebbe essere "Acquerugiola Leggera pioggia colorata".)
* "Se potessi invertire il tempo...": Haitoku no Kioku - The Lost Memory.
* "Il tempo si è disperso." / "... allora perché continua a fare male?": Riferimento al ritornello di Haitoku no Kioku - The Lost Memory.
[Spiegami [...] / perché le lacrime stanno cadendo? / Il tempo si disperde [...] / Dov'è la ragione del dolore che non se ne va?]
* "Kowarete iku sora": Lovelessxxx. [Il cielo si sta distruggendo.]
* "Mamorubeki mono o kowashite...": Lovelessxxx. [Ho distrutto ciò che avrei dovuto proteggere...]
* Forse si può intuire il riferimento ai vestiti rossi. *Stavolta non di Len - anche se lui, il suo "vestito rosso", l'ha già indossato.*
* Gli abiti che indossano tutti e tre - ebbene sì, stavolta si sono cambiati pure gli altri due *ogni tanto capita.* *E Kaito ha la sciarpa!* - sono quelli di Haitoku no Kioku - The Lost Memory, con varie modifiche. U.U
* Nelle mie idee, questo capitolo (e il prossimo) vorrebbe essere un... ehm... uno pseudosong-chapter (...?) molto pseudo di Haitoku no Kioku - The Lost Memory. [Traduzione]
Oltre ai riferimenti espliciti già citati, ce ne sono altri più velati - e un altro vagamente esplicito, non lo segno perché gli ho dato una resa e un senso un po' diversi. U.U"




Salve.
Se stai leggendo queste note, allora avrai aperto questo capitolo - o possiedi poteri paranormali. Ma io so che, prima di aprire questo capitolo, hai guardato lo Stato della storia, giusto per vedere se l'Ultimo Capitolo fosse stato diviso o meno.
Lo Stato della storia deve averti già dato la risposta.

Comunque.
... questo è ufficialmente il penultimo capitolo! *A*/
Sì, l'Ultimo Capitolo è venuto lungo abbastanza da essere diviso in due piuttosto che in tre *temeva seriamente.*, dunque questo diventa ufficialmente il penultimo capitolo anche se sarebbe la prima parte dell'ultimo e anche se era il capitolo precedente ad essere teoricamente il penultimo che- *implode*

Dicevamo.
Si è tornati al POV di Kaito *dopo tipo mezza storia* e, come preannunciato per ogni luogo e per ogni mezzo, piove. *O* Il mirabolante trio non può resistere al richiamo dei vestiti fradici sotto la pioggia (?) e si premura di lanciarsi in mezzo ai prati, nella rain-haze (?) e rigorosamente senza ombrello, che sennò sciupava la scena. Del resto, quale miglior luogo per un regolamento di conti (...?) di un grosso rettangolo d'erba sotto litri di acqua e magari vestiti di nero e bianco - o poco vestiti di nero e bianco?
Ebbene sì, il capitolo si rifà pesantemente ad HnK-TLM *voleva provare l'ebbrezza di abbreviarlo (?)*, l'ultimo del "E' ispirato a Lovelessxxx e a qualche altra cosa" insieme ad Imitation Black. Nonché ciò da cui era partito tutto. U.U *Alla fine si torna sempre al principio. (...?)*
Non di meno, sono riuscita ad infilare una citazione pure per la nuova Aya shigure. *A*
So che ve lo state chiedendo: sì, nel prossimo capitolo saranno citate di sfuggita pure Increase e Blue salvia. Mi rendo conto che questo è uno spoilerone immenso che va a minare le fondamenta stesse della narrativa, ma ve l'ho fatto lo stesso. *...?*

Fermo restando che ogni cosa sarà spiegata - quindi, se anche col prossimo rimarranno dubbi, mi inginocchierò sui ceci -, vorrei chiarire un paio di cose in questo capitolo *che verranno riprese anche in seguito, ma sempre velatamente, quindi tanto vale lo dica ora*.
Durante la scena di Kyte e Gakupo c'è qualcuno - chissà chi - che fa robe strane con una lama citando quel tripudio di allegria che è il Fiore della Luna Effimera. Nelle fanart di Lovelessxxx - che ogni tanto mi ricordo di citarlo, così, tipo, se capita - fiocca la presenza di quell'affare laggiù.
Anche se, in quella scena, qui Len avrebbe il vestito di Imitation Black, acc-
Ora, io, guardando il PV, quell'affare non l'ho mai visto. Però è un tema ricorrente (molto ricorrente) nelle fanart, quindi ci sarà un fondo di verità (?), quindi... *C'era la svendita di Quindi e ne ho approfittato.*
Probabilissimo me lo sia perso io, o magari era prossimo al messaggio subliminale come il celebre inizio del suddetto PV.
Ho citato il celebre inizio del suddetto PV e non l'ho fatto a caso. Questa era la seconda cosa.

La cosa che più spicca di questo capitolo, però, è senz'altro il colpo di scena mozzafiato: il piano di Len è platealmente fallito.

Comunque sì, il prossimo è effettivamente l'ultimo capitolo di questa long sui VanaN'Ice, il che è tutto dire.
*sospira*
Come sempre, spero che questo miscuglio di deliri mistici, mentali e fisici - cercasi seriamente colla per il cuore di Kaito - ogni riga sempre più harmony vi sia stato gradito. ^^
Se ci sono critiche o consigli, dite pure. ^^
  
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