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Autore: Ge5g    24/10/2014    0 recensioni
“Le sue lamentele furono presto interrotte dal passaggio di un Angelo: era la creatura più bella che avesse mai visto.”
Un amore nato da un sogno ed uno scontro casuale in un corridoio: sembrava impossibile, eppure non lo è stato.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«La lezione oggi è stata pesante...» sbuffò Sophia alla sua migliore amica Lauren, la quale la guardava allacciando la fibbia delle scarpe coordinate all’uniforme verde bottiglia; una volta che entrambe avevano finito la doccia dopo quella estenuante ora di educazione fisica, le due amiche uscirono dallo spogliatoio per raggiungere i compagni ed entrare in classe, chiacchierando tra loro.
Entrarono in classe appena in tempo dopo il richiamo e si sedettero ai rispettivi posti. 
«Buongiorno ragazzi». 
All'entrata dell'insegnante gli alunni si alzarono: «sedetevi. Allora, iniziate a prendere il libro e cercate ‟i promessi sposi”, vediamo cosa ci riserva oggi il nostro caro Manzoni!» - e così, senza neanche guardare i visi stanchi e sconsolati degli studenti che aveva davanti, iniziò a compilare il registro: quale ‟a di Assente” veniva segnata di tanto in tanto dalla penna nera della docente accanto ai nomi dei ragazzi che avevano pensato bene di saltare la presunta interrogazione del giorno, fingendo un mal di pancia.
Tra i ragazzi si sollevò un respiro di sollievo per l'interrogazione scampata e si sentì un rumore di libri, tutti destinati alla stessa pagina. 
«Sophia, vieni qui per favore». 
La ragazza, presa alla sprovvista, alzò prima il viso allegro ma perplesso verso l'insegnante, poi si alzò e raggiunse la cattedra. 
L'uniforme le stava bene, cadeva perfettamente sui fianchi e, seppur la portava più corta rispetto a come doveva effettivamente essere portata, sapeva farlo senza volgarità; inoltre lei era di una bellezza rara, infatti molti dei ragazzi della classe, vedendola alzarsi,  si girarono  verso di lei e la guardarono stupiti, ogni volta come se fosse la prima; gli sguardi dei maschi erano mescolati con quelli delle ragazze, alcuni di invidia, altri di ammirazione… Infondo Sophia sapeva di essere guardata ma faceva fatica a rendersene conto.
Aveva il viso dolce accentuato da un piccolo nasino in centro e gli occhi azzurri risaltavano nel contrasto dei capelli neri e lisci fino alle spalle, che incorniciavano la forma perfetta del suo volto come a sottolineare che fosse un quadro perfetto.
Sophia, sin da piccola, era sempre stata una persona solare che cercava di evitare le discordie ed aiutare chi ne avesse bisogno.
Una volta avvicinatasi alla cattedra, restò in piedi con la schiena perfettamente dritta e naturale, posizione acquisita con molti anni di danza, e si rivolse all’insegnante per sapere di cosa avesse bisogno: «Si?»
«Ho dimenticato il libro in aula insegnanti, potresti cortesemente andare a prenderlo?». 
«Certo» la ragazza sorrise e uscì dalla classe. 
Non sapeva che quella richiesta le avrebbe cambiato la vita.
Scese le grandi scale di marmo e il tacchetto delle scarpette riecheggiava nel grande spazio vuoto circostante, conferendo all’azione una sfumatura leggermente macabra e classica di film horror, come se dovesse spuntare fuori dal nulla un mostro spaventoso.
La scuola era molto vecchia, apparteneva al periodo rinascimentale, però fu necessaria una ‟ristrutturazione d’urgenza” perché ormai stava cadendo a pezzi; a Sophia faceva sempre sorridere pensare a quella definizione che era apparsa su tutti i giornali a caratteri cubitali, le ricordava sempre il gioco del ‟Piccolo Chirurgo” che le avevano regalato i suoi genitori tanti anni fa, stretti stretti il loro grande albero di Natale.
La struttura, prima di essere adibita prima a museo e, successivamente, incorporata con una scuola superiore, apparteneva a dei nobili vissuti circa nel 1490. 
Era grande, gli spazi ampi e fatta di pietra, mentre la facciata era molto decorata: si presentava estremamente rigorosa, segnando le superfici di leggere gradazioni di grigio. 
Anche gli interni si accordavano al principio di razionalità e semplicità delle persone che vivevano li e che, nonostante la loro ricchezza, non hanno mai negato l'aiuto agli altri e rinunciato all'umiltà. 
In particolare appariva curata la loro funzionalità: i corridoi, ad esempio, erano tagliati in modo da servire indipendentemente varie sale adibite ad usi diversi. 
Ad Agnese Angolotti, la figlia degli antichi proprietari, piaceva particolarmente la stanza dei giochi. 
Aveva molte racchette da volano e un numero indefinito di palle e bambole di pezza, il suo gioco preferito perché le piaceva molto trattarle come figlie sue. 
All'età di 7 anni era una bambina responsabile, attenta agli altri e, chi la circondava, forse scherzando, diceva che sarebbe stata un’ottima madre o allevatrice e ciò divenne realtà; all’età di 20 anni mise a disposizione la sua amata stanza dei giochi per dar rifugio ai bambini senza genitori.
La ragazza diede loro anche un’istruzione base perché, tra le tante qualità, possedeva un’infinita pazienza, oltre che essere molto colta; li crebbe come suoi, uno ad uno, proprio come aveva fatto per tutta la sua infanzia con le bambole. 
Quasi da copione, i bei tempi finirono: il padre, figura portante nella vita di Agnese, si ammalò ed ormai era prossimo alla morte; le chiese solo di realizzare il suo ultimo desiderio, ovvero vederla sposata e madre di figli suoi, così le presentò un giovane molto bello quanto cordiale che si invaghì di lei, della sua bellezza semplice e pulita, del suo altruismo e della sua saggezza. 
Anche Agnese sembrava attratta da lui, infatti passarono mesi felici, come compagni, a crescere i bambini del suo centro. 
Il ragazzo aveva progettato la domanda di matrimonio da tempo e decise di farsi avanti. 
Qualche settimana prima della richiesta ufficiale, però, molti bambini si ammalarono di peste e qualcuno morì; la malattia si diffuse rapidamente tra i fanciulli ed Agnese era distrutta nel vedere bambini a cui teneva così tanto morirle davanti senza poter fare nulla ma il ragazzo decise di provarci comunque, pensando di poter sostenere meglio la ragazza amata. Così la prese da parte, deciso a parlarle:
«È da molto tempo che volevo chiedervelo ma sono successe tante cose che mi hanno allontanato da voi» si mise in ginocchio davanti a lei e le prese le mani «Agnese Angolotti, posso chiedere la vostra mano in cambio di tutto il mio amore ed il mio rispetto?»
La ragazza lo guardò con un triste sorriso e sospirò, ritirando le mani: «siete un bravo ragazzo e mi piacete, ma non posso permettermi di prendere un impegno così grande ora. Questi bambini hanno bisogno di me. Spero non ve la prendiate troppo…»
Il giovane si alzò e bruscamente se ne andò. 
Passarono alcune settimane ed Harriet continuò a badare con amore i bambini, stando fino alla morte vicino a quelli malati. 
La sua bontà non fu però ripagata, infatti il pretendente, ancora accecato dalla rabbia, raggiunse la dimora ed inflisse cinque colpi di coltello nel petto della sventurata, togliendosi poi la vita. 
Fu dichiarato lutto cittadino. 
Agnese era conosciuta da tutti ed amata perché era in grado di stare accanto ai più bisognosi a discapito degli altri borghesi che, invece, si giravano sempre dall’altra parte. 
I bambini del centro furono accuditi dalle sorelle di Harriet per cercare in qualche modo di tenere viva la sua presenza. 
 
Ogni viltà che Sophia passava per il corridoio principale, le veniva in mente la triste storia della nobildonna e il suo umore cambiava rapidamente. 
Diventava nervosa ed irrequieta, quasi fosse lei parente degli Angolotti e di sentire ancora il peso di quella grande perdita. 
Allontanò i cattivi pensieri e spinse la grande porta chiara dell'aula professori. 
«Buongiorno» con un sorriso salutò i docenti presenti, che le risposero distrattamente come sono soliti gli adulti fare.
Esaminò con cura tutti i nomi sui cassetti, fino a trovare quello della sua insegnante di letteratura. 
Lo aprì con cautela ed estrasse il libro, richiudendolo accuratamente. 
Dopo un altro saluto, uscì dalla stanza, salì di nuovo le scale ed, intenta a curiosare tra il programma del giorno o di possibili verifiche da poter passare ai suoi compagni, si scontrò con una ragazza molto magra che portava in mano tanti libri.
Le cadettero e Sophia si chinò ad aiutarla: «Scusami, non ti avevo vista!»
La ragazza mormorò un flebile ‟non preoccuparti” e le labbra si aprirono in uno di quei suoi piccoli sorrisi che  lasciavano intendere i propri pensieri senza neanche parlare: nessuno la notava.
La ragazza osservò Sophia e ne rimase stupita; gli occhi neri come le piume di un corvo e spenti, le brillarono sotto la luce e le labbra, fino a poco prona impegnate in quella specie di smorfia, le si schiusero.
«Tutto bene? Ti sei fatta male? Come ti chiami? E di che classe sei?» Sophia, premurosa, aiutò la ragazza a mettersi in sesto e le restituì poco alla volta i libri che aveva raccolto.
«Si, tranquilla… Grazie. Mi chiamo-… » la giovane, non fece in tempo a finire la frase che Sophia la interruppe.
«Devo scappare. Scusami ancora!» le rivolse un sorriso veloce, si voltò e e salì di corsa le scale.
Una volta arrivata in classe, la professoressa di letteratura la guardò, ammonendola:
«Perché ci hai messo tanto?»
Sophia fece per raccontare, ma l’insegnante la liquidò con un gesto della mano; la ragazza appoggiò il libro sulla cattedra e si andò a sedere.
«Bene, oggi faremo il capitolo in cui Lucia incontra la Monaca di Monza. Alex, vuoi leggere tu?»
Il malcapitato, sbuffando, iniziò a leggere:
«L'urtar che fece la barca contro la proda, scosse Lucia, la quale, dopo aver asciugate in segreto le lacrime, alzò la testa, come se si svegliasse. Renzo uscì il primo, e diede la mano ad Agnese, la quale, uscita pure, la diede alla figlia; e tutt'e tre resero tristamente grazie al barcaiolo. - Di che cosa? - rispose quello: - siam quaggiù per aiutarci l'uno con l'altro, - e ritirò la mano, quasi con ribrezzo, come se gli fosse proposto di rubare, allorché Renzo cercò di farvi sdrucciolare una parte de' quattrinelli che si trovava indosso, e che aveva presi quella sera, con intenzione di regalar generosamente don Abbondio, quando questo l'avesse, suo malgrado, servito. Il baroccio era lì pronto; il conduttore salutò i tre aspettati, li fece salire, diede una voce alla bestia, una frustata, e via.
Il nostro autore non descrive quel viaggio notturno, tace il nome del paese dove fra Cristoforo aveva indirizzate le due donne; anzi protesta espressamente di non lo voler dire. Dal progresso della storia si rileva poi la cagione di queste reticenze. Le avventure di Lucia in quel soggiorno, si trovano-…»
Sophia iniziò a non seguire più, la testa le divenne pesante e gli occhi le si chiudevano da soli, così presa da un mal di testa incontrollabile, appoggiò la testa sul banco e si addormentò.
 
Agnese tormentava i suoi sogni e li faceva diventare incubi; Sophia si era rivolta a diversi psicologi e psicoanalisti per comprendere il motivo di questi sogni ma il verdetto era sempre lo stesso: ‟la ragazza, piena di empatia, si lascia trascinare dalla storia e si immedesima nella protagonista di questa”; al terzo referto uguale, i genitori smisero di spendere soldi per qualcosa che consideravano il capriccio di una bambina.
La ragazza aveva il terrore che anche a lei potesse capitare una cosa simile ed iniziava ad agitarsi. 
Questa volta, però, Agnese non aveva lo stesso volto angelico e solare che si addiceva ad una fanciulla di sangue blu, bensì aveva un viso pallido, bianco e molto secco. 
Sophia sapeva di aver visto quella fisionomia da qualche parte, ma proprio non ricordava dove. 
Gli occhi spenti della ragazza le facevano paura, ma allo stesso tempo la attiravano in un baratro da cui era impossibile uscire. 
Infatti si avvicinava sempre più a quelle calamite mortali in modo involontario e aveva il terrore di caderci dentro. 
Quando fu ad un palmo di naso dalla morte, scrutò attentamente il viso della giovane e disse parole senza senso, quasi impronunziabili. 
Era attratta da quegli occhi e, come un tornado, fu risucchiata dentro ad essi e si svegliò con un sussulto, richiamando l’attenzione della sua amica seduta accanto a lei.
 
 
«Era strana, non era la solita Agnese…»
Sophia raccontò a Laura l'incubo avuto in classe poco prima. 
«Non aveva il viso dolce e buono, era freddo e... Disperso.»
Laura scosse la testa, si sciolse la coda rossa e si mise a testa in giù per rifarla e Sophia continuò:
«Nel sogno lo conoscevo ma realmente non lo so. Mi attirava a sé e non riuscivo ad allontanarmi.»
«Guardati intorno, magari lo trovi!» la prese in giro Laura, alzando un sopracciglio co un sorriso. 
Camminarono insieme fino alla mensa e nessuno nella grande sala aveva gli occhi come quelli del sogno. 
In modo nolente o volente, tutti avevano lo sguardo allegro ed espressivo. 
«Sicuramente, Laura…» rise Sophia e diede una lieve spallata amichevole all'amica, divertita dal fatto che cercasse davvero qualcosa di sognato. 
Però le erano rimasti impressi e in fondo sperava di trovarli. 
L'ora di pranzo passava sempre troppo in fretta e Sophia si ritrovò catapultata in classe per matematica. 
La odiava, non poteva capire perché molte persone si basavano su dei numeri, ma, nonostante questo, sembrava essere nata per quella materia. 
Forse era lei quella sbagliata, che non capiva e che aveva la testa fra le nuvole e per questo non si rendeva conto del ‟dono” che aveva, o per lo meno così le aveva detto l'insegnante. 
Non seguì, tanto sapeva che il prossimo compito sarebbe andato bene, quindi prese un foglio bianco e cominciò a scarabocchiare figure apparentemente senza senso. 
Da quei due ovali uscirono due occhi che si apprestò a colorare di un nero corvino, l'opposto dei suoi. 
Gli occhi erano solamente il punto iniziale, infatti continuò circondandoli da un viso e dagli altri tratti, disegnando i capelli come cornice del quadretto. 
L'ora passò in fretta e quando suonò la campanella osservò la sua opera: era la ragazza del sogno. 
Rimase senza fiato vedendolo ma capì che ormai c'era dentro. 
Sapeva di conoscerla e di averla vista, sapeva che ce l’avrebbe fatta ed ormai ciò che doveva fare era chiaro: doveva trovarla.
   
 
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