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Autore: afrogueinabottle    26/10/2014    0 recensioni
"Sventurato è l'uomo che per tutta la vita vorrebbe essere immortale, e infine si trova a non poter fare a meno di morire... a non desiderare altro se non una tomba"
Un ciclo di morte interminabile e un guerriero senza nome che desidera solo porvi fine.
Genere: Azione, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Jean era in catene, circondato da un gruppo di soldati che proseguivano dietro al Re nella marcia verso l’ignota città di Raisengale.
Quando si era imbattuto nel possente sovrano dalla folta barba rossa, quest’ultimo aveva subito chiamato la sua truppa e l’aveva fatto incatenare.
 
“Si deciderà prima chi di noi è nemico, poi potremo parlare dei nostri nemici in comune”
 
Logica decisione, in effetti. Jean era uno sconosciuto apparso quasi dal nulla errando in quello che era stato il campo di una violenta battaglia, aggirandosi nella notte fra le luminose colonne di fuoco delle pire che bruciavano i cadaveri.
La lancia e lo scudo gli erano stati presi ed erano stati accatastati su un carro volto a trasportare gli effetti personali dei caduti.
 
Alla testa del manipolo di soldati marciava il Re; non era a cavallo né aveva un aspetto solenne, ma proseguiva al passo dei suoi uomini come una guida più che un sovrano. Con la mano sinistra impugnava la sua ascia bipenne e con la destra lo scudo: la sua armatura e le armi erano sporche di sangue, logore e consumate dai colpi.
La possente figura dell’uomo dalla rossa chioma, alto il doppio di un uomo normale dominava su tutti.
 
Immaginò di trovarsi di fronte a un nemico del genere in battaglia. Subito pensò che sarebbe stato meglio che qualcosa del genere non accadesse: Jean era molto veloce, ma non era dotato di una grande resistenza.
 
Il gruppo di combattenti era ben equipaggiato: di quella truppa di quattrocento uomini una buona parte era provvista di un’armatura di peso medio composta da un elmo completo, corazza, schinieri e gambali di ferro. Portavano alla cintola una spada lunga e alla mano uno scudo grande; ai margini del gruppo molti avevano gli archi tesi, pronti a scoccare le frecce in caso di pericolo.
Gli altri soldati facevano parte della fanteria pesante: la loro armatura era leggera e permissiva nei movimenti, ma i combattenti impugnavano grandi scudi a torre e lunghissime  picche.
 
“Certo che se i mercenari fossero così organizzati” pensò “Queste persone non dovrebbero nemmeno porsi il problema della guerra”
Poi ragionò e concluse “Ma i mercenari esistono proprio perché qualcuno si pone questo problema, immagino”
 
Girandosi indietro e facendosi largo tra i fanti mediante la vista, diede un’occhiata alle sue armi adagiate rozzamente su un carretto traballante.
Non aveva la minima intenzione di perderle: quelle armi, insieme alle poche cose di cui era in possesso, erano la sua unica speranza di non perdere definitivamente la memoria e, di conseguenza, il senno.
 
La maledizione funzionava così: si perde prima la memoria del proprio passato, e la si continua a perdere insieme alla consapevolezza di se mano a mano. L’ultima cosa che si perdeva era la ragione, e da quel momento non vi era più speranza di salvezza.
 
Superata la piana di massi, il manipolo si inoltrò in una gola nel fianco della montagna che a ovest contornava il paesaggio. Era un rilievo alto e liscio, di color grigio pietra, e sembrava spaccato a metà dove prendeva forma la gola rocciosa; Jean sentì che i soldati la chiamavano Il Cancello.
 
Le fila si strinsero per consentire il passaggio.
Man mano che si avanzava, lo spazio diventava sempre più stretto e la strada sempre più tortuosa: anche solo pensare di condurre all’attacco un esercito in uno spazio così stretto sarebbe stato un tentato suicidio.
Il carretto per le armi riusciva a passare a malapena, ma spesso si bloccava ed era necessario l’intervento di alcuni uomini per riuscire a farlo passare. A un certo punto anche il Re diede il suo aiuto, e da quel momento non marciò più alla testa della fila, ma dietro il mezzo di trasporto.
Jean fu molto colpito da questo comportamento: non aveva mai visto un re da vicino, ma pensava che una persona del genere non si prestasse a simili fatiche.
 
Giunsero infine in uno spazio aperto. La gola si era arrestata, aprendosi in un enorme spiazzo in mezzo a un immenso cratere che sorgeva nel mezzo della catena montuosa. Proprio in questo enorme spazio si ergevano delle mura granitiche, che si estendevano quasi a perdita d’occhio fino ai margini del cerchio montuoso, dove divenivano tutt’uno con la roccia stessa.
Queste mura erano molto antiche, ricoperte di muschio e piante rampicanti, ma davano l’impressione di essere ben lungi dal crollare.
 
Le prime luci dell’alba stavano iniziando ad illuminare la vasta conca e tutto ciò che era al suo interno, ma nonostante ciò le torce e le lanterne illuminavano ancora l’imponente ingresso.
 
Dopo aver aiutato a trasportare il carro e controllato che la truppa fosse al completo, il Re si spostò alla testa del gruppo in modo da essere visto dalle sentinelle che si trovavano al di sopra del grande cancello.
Accertatesi della presenza del loro signore, le guardie gridarono l’ordine di aprire le porte di Raisengale.
 
“E’ tornato! Il Re è tornato!” urlarono con grande gioia “Accorrete: il Re è tornato a Raisengale!”
 
“Quest’uomo è davvero ben voluto dal suo popolo” si fece sfuggire Jean mentre si avviava insieme ai soldati verso l’interno delle mura.
“Il nostro re è un amico dei suoi sudditi” lo informò con un tono d’orgoglio un soldato di fianco a lui “Probabilmente non hai mai visto nessun sovrano del genere dalle tue parti, ma qui siamo fortunati”
“Amico dei sudditi?” ripeté dubbioso Jean.
“Vedrai, viaggiatore” rispose quell’altro senza parlare ulteriormente, per poi voltarsi e continuare a guardare avanti.
Jean poté vedere l’ombra di un sorriso sul volto dell’uomo. Si girò allora a guardare il Re: camminava a testa alta e aveva un’andatura decisa, ma non superava di un passo nessuno dei suoi uomini e a volte scambiava qualche parola con uno o con un altro.
Non gli sembrava affatto di vedere un capo.
 
Attraversarono il cancello ed entrarono nella città. Una strada principale la percorreva centralmente fino al grande castello di pietra che si ergeva alla base della parete montuosa dominando le piccole case e le costruzioni della città-fortezza.
Al passaggio della centuria tutti i passanti si inchinarono, ma non abbassarono lo sguardo e scrutando i soldati alla ricerca di volti familiari.
Jean ebbe occasioni di vedere volti felici di donne giovani e anziane e bambini che avevano riconosciuto i loro cari; molti erano però anche i volti contratti in una cupa e turpe espressione di dolore che gocciolava di lacrime amare. Le prime erano le persone le quali credevano nel Re e nel suo esercito, le altre erano le persone che avevano creduto in essi e che ora non avevano più nulla in cui credere.
 
Man mano che avanzavano verso il castello, i militari si allontanavano dal gruppo per raggiungere le loro case.
Volta dopo volta il numero diminuì sempre di più finché, a pochi piedi di distanza dalle gradinate che portavano all’ingresso principale della reggia, non rimasero solo Jean e il Re.
 
Due cavalieri si trovavano ai lati del portone: a destra un cavaliere con in mano una mazza da guerra vestiva una pesante armatura a piastre cimiere nera munita di spalliere ed elmo borchiate; il secondo cavaliere era a sinistra e vestiva un’armatura a piastre cesellate bianca come il marmo, e teneva entrambe le braccia appoggiate a un lungo spadone posto perpendicolarmente a terra.
Quando i due guardiani videro il Re arrivare, uno posò la mazza e l’altro rinfoderò la spada, e tutti e due aprirono il portone, che si spalancò con un forte rumore metallico.
 
I due si inchinarono al passaggio del loro Signore, che si fermò e li salutò “Ser Agdayne Alvar” il cavaliere nero si alzò “E ser Erick Dahr” il cavaliere bianco fece un secondo inchino.
Il Re continuò, mentre questi si affiancavano a scortare Jean e continuavano a camminare attraversando la grande sala, diretti verso il trono: “Informatemi, miei ser. Tutti i cavalieri sono giunti con le loro truppe o si sono fermati a sostare per la notte?”
 
Prese parola l’uomo con l’armatura nera: aveva una voce graffiata e di una tonalità tipica della vecchiaia. “I primi a tornare sono state le legioni sotto il comando di ser Ramman e ser Loyce, mio Signore. Ser Dahr  è giunto poco dopo”.
“Per quale motivo siete arrivato per ultimo, ser Alvar?” chiese il Lord.
“Siamo stati attaccati da un gruppo di soldati non morti e dagli abitanti di un villaggio poco distante, i quali erano caduti anch’essi sotto la maledizione”
Il Re strinse i pugni con rabbia e uno sguardo sconsolato mutò il suo volto, poi si rivolse al cavaliere bianco e comunicò: “Ordino che siano convocati tutti i cavalieri, il mio corpo di Guardia personale e la Corte Decisionale” indicò Jean, che già aveva catturato l’attenzione dei cavalieri “Quest’uomo, che ha valicato senza permesso e senza bandiera il confine del Nord, ha chiesto udienza di me per parlare di certi ‘nemici’” rivolse uno sguardo di intesa prima a un cavaliere e poi ad un altro “Voglio che sia sottoposto al giudizio”
I due si allontanarono, percorsero l’enorme sala ed oltrepassarono un’arcata laterale che conduceva all’ala orientale del castello.
 
Quando il Re ed il suo “ospite” giunsero alla fine del salone, il primo fece fermare il secondo alla base dell’alta gradinata che portava a un piano semicircolare sorretto da archetti dell’altezza di circa quattro piedi. Vi erano un grande trono centrale, affiancato da altri quattro seggi più piccoli.
Il sovrano si sedette sul trono, solenne e fiero nella sua postura.
 
Jean lo vedeva da lontano, dal basso di chi non ha potere: si ripromise in quel momento di non perdere mai la sua libertà in futuro.
Furono attimi lunghi e ricolmi di silenzio. Jean era di fronte alla persona che aveva “cercato”: perché lo aveva cercato? Si,  era desideroso di sapere a chi appartenesse il simbolo del falco rosso con la spada e la rosa, ma a cosa gli sarebbe potuto servire? A trovare un alleato forse, o qualcuno che ne sapesse più di lui sulla Maledizione?”
Jean era un mercenario e non aveva idea di cos’era stato prima di morire per la prima volta.
Ciò che lo aveva spinto a cercare qualcuno che combattesse come lui contro i negromanti era forse nient’altro che una forte curiosità; a quanto pare era un’emozione innata in chi non sapeva nulla del proprio passato.
 
Fecero allora ingresso nella sala i due cavalieri di prima insieme ad altri due mai visti: il primo aveva un’armatura verde a scaglie e con un mantello fissato alle spalline, il quale non portava l’elmo e aveva i capelli castani raccolti in una coda. L’ultimo cavaliere indossava un’armatura a piastre molto leggera che proteggeva il torace, l’inguine e le spalle fino a metà del braccio, mentre le gambe e gli avambracci erano protetti da placche metalliche fissate direttamente agli arti; dall’ermo “a barbuta”, privo di celata, si poteva intravedere un volto femminile e dei penetranti occhi azzurri.
I quattro cavalieri si posizionarono dietro Jean, disposti ai suoi lati.
 
Fecero poi il loro ingresso tre uomini che vestivano raffinati abiti di pesante tessuto, seguiti da una giovane donna.
Jean fu affascinato dalla bellezza della dama, bianca di pelle e dai capelli rosso scuro come quelli del Re: i suoi lineamenti erano delicati ed esprimevano gentilezza di carattere e grande nobiltà, e lo sguardo degli occhi verde chiaro era fiero ma non altezzoso. La ragazza si sedette alla destra del Re.
 
Gli altri tre uomini, che presero posto sugli altri seggi, erano molto diversi fra di loro. Il più anziano, i cui capelli erano di un bianco luminoso e vivo, aveva le sopracciglia folte e rughe profonde che incorniciavano uno sguardo acuto e severe, e nel complesso delineavano un volto dai lineamenti duri. Vestiva di una tunica di color giallo ocra chiusa da un cinturone nero.
Il secondo, poco più giovane, aveva una fronte ampia a causa della calvizie e un viso tondo che incorniciava occhi piccoli e curiosi, il mento prominente e scavato. Vestiva una camicia rossa, pantaloni del medesimo colore e un soprabito grigio; attorno al collo aveva una sciarpa molto spessa.
L’ultimo del gruppo era più giovane, ma più vecchio della dama. I capelli erano biondi e di taglio corto, le orecchie piccole e gli occhi sottili, mentre il volto era affilato lungo; vestiva una tunica grigia.
 
Ultimi ad entrare furono due cavalieri in armatura pesante d’acciaio, completa di un grande elmo e un’enorme corazza. Indossavano cappe rosse e impugnavano con la destra uno spadone infoderato, ma pronto ad essere estratto con fatale rapidità. Si posizionarono sulla gradinata.
 
Jean era circondato, e morire lì non gli sarebbe stato di alcun aiuto. Tutti gli occhi erano puntati su di lui, che lo squadravano ed esaminavano in cerca di una minaccia.
 
Re Lyonard si mosse, lo guardò ancora una volta e disse: “Non essere intimorito, mio caro ospite, da ciò che le mie tradizioni e le mie leggi mi impongono di fare nel circondarti. Orsù, prendi parola e noi valuteremo se considerarti nostro amico o nostro nemico”
 
Jean avrebbe dunque parlato, ma il giudizio finale sarebbe spettato ad altri. Questa cosa non gli piaceva per niente.
   
 
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