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Autore: fuoritema    27/10/2014    3 recensioni
Esiste una spessa linea di demarcazione tra una ribelle e un pacificatore, come ripassata più e più volte con una penna. E quelle poche volte che qualcuno la oltrepassa, non faranno mai parte della “storia”, ma continueranno a vagare finché qualcuno non le raccoglierà, strappandole al vento.
***
«Non sai nulla della paura, peekeeper.»
Rimasero zitti fino a che il silenzio non fu insopportabile e le parole furono abbastanza per colmarlo.
«So quanto basta per capire che sei terrorizzata» rispose Noah, abbassandosi al suo livello. Quell’aria altezzosa che aveva assunto le faceva venire voglia di prenderlo a pugni. Così, forse, gli avrebbe tolto quel sorriso sardonico dalle labbra.
«Non lo sono. Che cazzo sei venuto a fare qui?» gli chiese Rebekah, sputandogli quella domanda in faccia come aveva fatto tante volte Ford con lei.
«Ehi… calma… Volevo solo vedere come stava una Volpe in cattività.» L’occhiata che gli lanciò la rossa fu più eloquente di qualsiasi maledizione. Non avrebbe dovuto. Non poteva. Provò a scagliarsi contro di lui, i pugni serrati in un vano tentativo di colpirlo, ma le catene la fermarono e un gemito di dolore uscì dalle sue labbra.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Canti di Rivolta'
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Note iniziali:
 
Comincio con lo spiegare che questa storia è direttamente collegata a “No one can catch the motherfucking Fox” ed è un po’ difficile che ci capiate qualcosa non avendola letta. Però, se volete proseguire la lettura nonostante tutto, vi metto una piccola sintesi della storia di Rebekah Martin, personaggio principale della long.
Anche conosciuta come "Volpe del distretto nove", è il capo di una banda di ribelli del distretto nove, che distruggono spesso e volentieri i granai dei grandi proprietari terrieri. Il problema sorge quando viene catturata mentre cerca di recuperare un accendino lasciato sulla scena del crimine(?). A questo punto viene condannata a partecipare ai 67esimi Hunger Games (perché Snow è un simpaticone e la vuole ammazzare a tutti i costi). Prima della Mietitura, però, si ritrova a passare due/tre settimane in cella, e la storia parla proprio di questo.
 

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(II)
Stars are only visible in darkness.
 
 
 


Erano rari i momenti in cui non c’era nessuno ad osservarla dalle grate, quasi fosse stata un animale pericoloso o una strega che li avrebbe inceneriti con lo sguardo. Erano rari, ma c’erano, fortunatamente. Senza, Rebekah sarebbe impazzita. Non le dava fastidio il fatto di essere scrutata, quanto che tutti la guardavano nello stesso modo: uno strano misto di interesse e pietà – quest’ultimo, sentimento strano per un Pacificatore. Aveva appena finito di modificare la frase pensata poco prima, cambiando l’ultima parola in gergo, che la porta si aprì.
Il solito cibo.
La scodella roteò fino ai suoi piedi, fermandosi proprio davanti a lei. Il cucchiaio era già all’interno, mentre della brocca dell’acqua non c’era neppure l’ombra. Sembrava che non avrebbe più potuto godersi la solitudine, perché qualcuno voleva giocare con lei a “ti do il cibo solo se parli”, passatempo che tra l’altro l’aveva già stufata. Le sue risposte, lei, le aveva usate tutte e il suo sarcasmo si era esaurito, ma non la voglia di lottare. O forse sì. Forse stava solo tentando di convincersi che quella ricaduta fosse solo un tentativo di celare i suoi veri pensieri agli sbirri, mentre era solo la fine della storia della sua vita.
«Mangi, ragazzo? O ti lascerai morire di fame?»
«Non me lo permetteresti comunque» sbuffò Rebekah, riconoscendo nella figura sulla porta, il suo carceriere più giovane. Il solito pivello.
Chissà come mai, la parola “solito” stava iniziando a spaventarla. Aveva persino iniziato a rivalutare le minacce di Ford e tutto quello che aveva detto a proposito dell’“abituarsi alla situazione in cui ci si trova” – ovviamente detto in maniera molto più semplice e rozza.
«Come sei veloce a capire le cose, Volpe!» esclamò divertito. I suoi occhi, con un guizzo, si andarono a posare sulla brocca che teneva nella mano destra, da cui cadevano alcune goccioline d’acqua.
«Passamela. O vorrai farmi morire di sete? Non credo che il tuo capo ne sarebbe contento.»
Noah roteò gli occhi con fare teatrale. «Stai perdendo colpi» constatò, ripensando a tutte le risposte che gli aveva dato in quei giorni e quel ”pivello”, pronunciato con scherno dalle labbra della prigioniera.
«Perché non reagisci. Ford già avrebbe tentato di menarmi-»
«E ci sarebbe riuscito.» Il giovane indicò con un cenno del capo le manette che le tenevano imprigionate le mani, poi le sue braccia magre. «Non avresti potuto difenderti» continuò, appoggiandosi al muro con le braccia conserte davanti al busto.
«Però avrei potuto urlare, e il tuo capo gli avrebbe fatto cambiare idea sul suo deplorevole comportamento» concluse Rebekah, proprio come aveva fatto lui poco tempo prima. Non le piaceva essere interrotta. Ricordava che la sorella di Axel lo faceva sempre troppo spesso e questo, unito al nome maschile che si portava dietro, era insopportabile. Volpe non si era mai fatta fermare dalle parole di qualcun altro, ciò nonostante, quando Noah la interrompeva, non le importava troppo. Sapevano entrambi dove sarebbe andata a parare.
«Un paio di nuovi lividi te li saresti beccati comunque.»
«Sai quanto cambia! Sono tutta lividi e cicatrici.» Per evidenziare l’ovvietà della cosa, inarcò un sopracciglio. Gli mostrò con noncuranza i due sul torace, che stavano diventando violacei, prima di esclamare stizzita: «non sono una marmocchia maltrattata, peekeaper.»
Noah scosse la testa. «Lo so, ma deve far male.»
«Basta non pensarci. E poi ci sono abituata. Non sono una privilegiata come te.» Loro se la sudavano, la vita: basti pensare quante volte Gabriel le aveva tirato un paio di schiaffi per aver detto la cosa sbagliata al momento sbagliato, o anche per delle innocue domande. Il suo carceriere era vissuto in una gabbia dorata – o meglio: un’Accademia bianca – lei no.
L’espressione che assunse il ragazzo la fece pentire all’istante delle sue parole, tuttavia continuò a stuzzicarlo su quell’argomento. Sembrava fragile, in quei momenti. Le sue labbra si serravano e i suoi occhi si spegnevano della luce giovanile che di solito emanavano.
«Non sono un privilegiato» sbottò, come un bambino appena rimproverato per una colpa non commessa. Staccò la schiena dal muro e, in un impeto di rabbia, calciò un sassolino contro la porta di fronte.
«Okay. Non lo sei. Hai soltanto vissuto in una bella casa, senza alzare nemmeno le tue chiappe dorate dal letto.»
«Mi sono allenato duramen-»
«Duramente per fare il Pacificatore – concluse, usando per la prima volta il vero termine – Cazzo, sei noioso! Non te l’ha mai detto nessuno?»
«Tu.»
«Ma chi sono io?» gli chiese, sorridendo ironica. Rebekah fece tintinnare le manette, lo fissò un’altra volta, poi, constatato che non le avrebbe risposto senza una spintarella, si alzò in piedi. Le sue mani cercarono un appoggio nel muro, anche se ormai ce la faceva da sola, nonostante il dolore che continuava ad espandersi per ogni suo nervo quando muoveva un solo muscolo. «Allora… Chiudi quella bocca da trota e degnami di una risposta.»
«Una Volpe»
«Sul serio» specificò la rossa, quasi felice che il suo soprannome non fosse cambiato.
«Il vecchio capo dei ribelli» disse Messer Pecora in un misero belato, che suonò strano persino per lui, che di belati era il re.
«Appunto. Nessuno.»
Il silenzio scese sulla loro conversazione come una coperta, senza che nessuno osasse interromperlo per dire anche una cosa stupida. Non c’era più niente da aggiungere e le pronte risposte di Noah si erano esaurite, proprio come la sua voglia di parlare con quella ragazzina dalla lingua tagliente. Così scosse la testa e uscì, silenzioso come solo lui poteva essere, lasciandosi dietro l’eco di una conversazione interrotta.
Patetico, ma non così tanto come sembrava.
 
 
***
 
 
Non c’era più nessuno, e il russare del carceriere sulla porta era l’unico sottofondo dei suoi tentativi di liberare le mani dalle manette. Dormiva ubriaco, forse reduce di una qualche nottata infuocata passata in compagnia di una povera popolana scelta a caso. Lui, Rebekah non si doveva sforzare per odiarlo: era dannatamente facile, proprio come lo era per tutti gli altri Pacificatori che le ridevano in faccia o discutevano su quanto sarebbe stato bello stuprarla. Solo Noah non si univa ai loro discorsi, facendosi da parte per lanciarle delle fugaci occhiate da dietro alle sbarre della porta. Poi lei faceva il verso ai suoi colleghi con gesti e entrambi dovevano trattenersi per scoppiare a ridere. Era l’unica cosa che le era rimasta della sua normalità, perché le altre le erano state brutalmente strappate via senza che potesse farci nulla.
Sbuffò. Aveva cominciato a tentare di liberarsi delle manette dal giorno prima, quando aveva iniziato ad usare l’estremità appuntita di una per liberare l’altra. Il dolore era insopportabile e quelle ferite che si erano rimarginate avevano iniziato a perdere di nuovo sangue. Ora era coagulato, e le imbrattava le mani, ma l’operazione era quasi compiuta. Rebekah strinse i denti per non urlare e fece scivolare i polsi via dalle manette, tenendole ben ferme sotto i piedi. Delle lacrime le scesero lungo le gote, insieme al sangue che ricominciò a scorrere con la liberazione della sinistra – più grossa di poco, visto che era mancina. Le chiavi erano nascoste sotto la brandina.
Cercò di figurarsi la faccia che avrebbe fatto Ford a vedere la cella spoglia, le manette lasciate in bella vista per prenderlo in giro, e con quel pensiero in testa Rebekah aprì la porta e la richiuse con leggerezza. I suoi passi coincidevano con i plic dell’acqua che cadeva dal soffitto in fondo al corridoio.
“Silenziosa come un fantasma.”
Si ripeté mentre i suoi piedi avanzavano quasi da soli verso la libertà. Era ora di pranzo: tutti i Pacificatori stavano consumando il loro cibo o vegliando davanti ad altre celle. I loro discorsi rimbombavano sulle pareti e l’eco li sdoppiava, li ripeteva milioni di volte fino a che le parole non si esaurivano. Rebekah scivolò verso la porta che dava sull’esterno – o almeno così si erano detti Ford e Quinn, parlando – e dovette chiudere gli occhi per abituarsi alla luce del sole, che nella sua cella filtrava dalla finestra a stento. Li strizzò più volte, incapace di figurarsi fuori dalla prigione. Guardò il cielo e inspirò profondamente: era il sapore della libertà, a lungo cercata e finalmente conquistata. Si scostò una ciocca di capelli da davanti agli occhi, prendendola tra pollice ed indice, non più impedita dalle manette. I suoi polsi continuavano a sanguinare.
“Che fai ancora qui? Va’ via!”
Si comandò, scuotendo appena la testa. Non voleva mica farsi riacchiappare! Era fuori alla cella per restarci, e fare il palo davanti alla porta di uscita sarebbe stata un’idea totalmente stupida. Così si mise a camminare. Non sapeva neppure dove, ma sapeva che ne aveva bisogno e che avrebbe trovato Raika e gli altri. Forse tutto sarebbe tornato come prima, anche se avrebbe dovuto nascondersi per non diventare una senza-voce. Forse nel distretto avrebbero cominciato a vederla come il fantasma di un Tributo scomparso prima di andare agli Hunger Games. E avrebbe ricominciato a fare il capo, come le si addiceva. Sorrise inconsciamente e si sistemò il berretto sulla testa, quello che aveva raccattato all’ultimo, nella polvere dell’angolo, e si spolverò la camicia alla bell’e meglio.
Se doveva farsi vedere da quella squinternata banda di canagliume vario[1], almeno lo facesse in modo presentabile.


 
***
 
 
«Lasciami!»
Le mani del ragazzo si strinsero ancora di più sulle sue, facendole scappare un urlo di dolore – e rabbia. Continuò a scuotere tutto il corpo, a impuntare i piedi per terra per non farsi trascinare via. «Lascia quelle cazzo di mani» precisò. I suoi occhi vagarono sulla presa ferrea che le teneva ferme le braccia, mentre valutava se morderlo sarebbe stata una buona idea.
«Davvero pensavi di poter scappare senza che se ne accorgesse nessuno?» le chiese il ragazzo con un mezzo sorriso sulle labbra. Noah non era vestito da Pacificatore: pantaloni, maglietta e scarpe erano da popolano. Solo il distintivo che teneva appuntato sulla tasca destra simboleggiava il suo lavoro. Sembrava che avesse voluto nasconderlo con un lembo della maglietta, tirandolo più che poteva, ma neppure questo era bastato per eliminarlo. Era sempre lì, lucido come uno scarabeo, e il rumore che faceva mentre il suo proprietario tentava di tenerla ferma era snervante.
«Levati quel coso… O vuoi farti menare in mezzo alla strada?» gli sputò in faccia, continuando a scorrere lo sguardo su di lui. Inizialmente, quando le sue mani si erano mosse per tenerla ferma, aveva temuto che fossero state di qualcun atro, ma la delicatezza di quel giovane era inconfondibile.
«Cosa credevi di fare? Ricongiungerti con i tuoi amichetti?» le chiese di risposta, senza dare peso alla domanda che lei gli aveva fatto poco prima. Smise di stringere così forte la presa, quasi preoccupato dai lamenti che emetteva la ragazza tra i denti.
«Ti sei distrutta i polsi, e per cosa, poi? Per farmi alzare da tavola e venirti a recuperare? Ne avremmo fatto tutti e due benissimo a meno.»
«L’idea era quella – Volpe ridacchiò, puntando i suoi occhi verdi in quelli di Noah – Ma sei arrivato troppo presto. Io proporrei di rifare la scena.»
«Avrei dovuto fregarmene.»
«Di cosa?»
«Di te. Mi crei solo problemi.»
«Ma guarda che genio. Non sapevi che la gente come me crea sempre casini a tutti. Per questo nel distretto mi odiano» gli spiegò con un ghigno. Non esistevano persone che la detestavano di più dei suoi concittadini – escludendo forse il signor Roth – o che non avessero considerato la sua cattura come una benedizione. Quelli però erano gli adulti, convinti che una ribellione come quella avrebbe compromesso la fragile economia del nove. Topi, li definiva spesso Rebekah, storcendo il naso di fronte a tanta paura. Lei lo era stato, un topo, ma poi Gabriel l’aveva presa con sé ed era diventata una Volpe.
Il suo sguardo vagò nuovamente verso la radura, osservando le figure che si muovevano furtive ai limitari del bosco. La recinzione era vicina – testimone il vuoto ronzio che si sentiva nell’aria. Un paio di teste bionde si potevano scorgere tra le fronde, seguite a distanza da un’altra, con i capelli scuri.
La ragazza sorrise, mentre Noah continuava a parlare a vuoto, convinto di essere ascoltato. Ormai non le stringeva più neppure i polsi, perché tanto non sarebbe fuggita via da lui. Lo sapevano entrambi, che non sarebbe più accaduto.
«Li conosci, eh?»
Rebekah distolse lo sguardo, aggiustandosi il berretto caduto un po’ troppo sulle ventitré durante la lotta che aveva fatto per liberarsi. «Conosco tutti, io» rispose sardonica.
«Beh… Loro li conosci meglio. Sono dei tuoi amici.»
Astuto, Messer Pecora.
«Forse sì, forse no. Saresti disposto a scommetterlo?»
«Per come mi stai rispondendo, sì.» Noah le puntò le mani sui fianchi e le girò il busto verso il punto che aveva fissato fino a poco prima. «Ma non mi interessa. Dobbiamo tornare dentro: io a fare il pivello che ha appena finito un pisolino e tu la Volpe che è stata tutto il pomeriggio in cella.»
«’Fanculo» fu la pronta risposta della giovane, che lo guardava con rabbia negli occhi. Che si aspettava? Un ringraziamento, forse, da una ragazza che odiava la sua razza da prima che nascesse. Voleva troppo. Un sorriso gli sarebbe bastato, si disse, facendola avanzare con delle spintarelle sulla schiena. Non avrebbe detto nulla a Ford: sarebbe stato il loro segreto e magari quella ribelle gliene sarebbe stata grata, un giorno. Abbastanza grata da rivolgergli un sorriso.
Intanto, da dietro agli alberi, l’odore di bruciato arrivava fino alle loro narici, forte e libero come un tempo era stata lei. 
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Angolino dell’Autrice:
 
Comincio con il ringraziare Alaska__, che mi ha gentilmente concesso di usare il suo Signor Roth e l’idea che un ragazzo possa essere mandato ai Giochi per mostrare agli altri cosa succede a ribellarsi al regime. Lei ne ha vari, di OC che sono andati nell’Arena per questo motivo.
Avete notato che sto rincollando i pezzi dell'Angolino dell'autrice della scorsa volta? No, perché altrimenti ve lo facco notare io. Diciamo che questo è più un capitolo di passaggio, in cui si approfondiscono un po' i due personaggi e il loro rapporto che, anche secondo me, è parecchio strano. E poi c'è una citazione de “Il Pianeta del Tesoro” e, quando riesco ad accostare Volpe al Comandante Amelia, mi sento realizzata. Come già ho detto alla mia beta, quello è il mio personaggio preferito come quel film è il mio preferito tra i Disney. Stranamente, l'ho visto tardi rispetto agli altri. Ma non è di questo che devo parlare. Credo di aver già detto tutto l'ultima volta – o almeno spero – perché oggi non ho proprio nulla da aggiungere. Il capitolo si spiega da solo.
Ah, per la parte in cui Rebekah si libera dalle manette ho dovuto fare una bella ricerca, perché non ero sicura che fosse possibile liberarsi e mi sono ricreduta. L'ha aiutata il fatto che non le avessero legato le mani dietro la schiena ma davanti, quindi è stato leggermente più facile.
Avete notato che ho aggiunto il banner sotto? L'ultima volta mi ero dimenticata di metterlo e ho dovuto modificare l'altro ieri al volo. Ho solo un'altra cosa da dire, prima di lasciarvi che già vi sarete addormentati. Le tre teste che di vedono spuntare alla fine del capitolo sono tre personaggi che sono molto importanti per Rebekah. Chi conosce la mia long dovrebbe sapere chi è il moro (Raika), mentre i due biondi sono i sovracitati Axel e Nicola Stalier.
Ringrazio tutti quelli che hanno letto e li invito a fare una capatina sulla mia pagina Facebook WIP(work in progress). Ora vado a sbattere la testa contro il muro perché non so come continuare la mia long... ._.

Talking Cricket
PS: Ringrazio con tutto il cuore PrincessLeila, che mi sta facendo da beta per questa mini-long <3
  
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