Erranti
nella pioggia
La pioggia avvolgeva il tardo pomeriggio in un
crepuscolo plumbeo, il suono
deciso e costante con cui percuoteva il selciato la sola presenza
fredda nelle
strade fangose e deserte di Redna.
Abigal preferiva i temporali a quello scroscio
denso e dritto: il roboante
fragore del tuono e la violenza della folgore parevano parlare della
collera
inarrestabile dell’Onnipotente e nei loro venti impetuosi il
vessillo della
Mano di Dio garriva minaccioso, monito per gli eretici schiavi del
Dormiente;
in quella battente pioggia autunnale, invece, lo stendardo ricadeva
flaccido su
se stesso, imbevuto dell’acqua gelida che le nuvole grigie da
giorni
riversavano sul Latenlan. Tutto era avvolto in uno squallore umido e la
pioggia
pareva abbracciare in un unico rassegnato sconforto gli usci sprangati,
il
pozzo rotondo del villaggio, il castello sulla collina, la bandiera
afflosciata
alle sue spalle e il cadavere appeso dinnanzi a lui.
Un gruppo di corvi spiccò il volo
all’improvviso, fendendo il cielo con il
proprio lamento stridente, e Abigal sospettò
che, anche inchiodato a braccia spalancate al posto
dell’insegna della
locanda, il Piangente lapidato avrebbe interpretato quello spettacolo
desolato come
un pianto celeste, manifestazione terrena delle eterne lacrime di Dio;
i suoi
occhi mangiati dai corvi, tuttavia, non potevano vedere e la sua
lingua,
strappata da una tenaglia ardente, non poteva proferire parola,
così Abigal
sorrise soddisfatto del trionfo della verità sulla menzogna.
Il tintinnio ovattato dei sonagli della sua
maschera lo rese consapevole di
avere abbassato leggermente il capo spingendolo a raddrizzarsi con
stizza,
tollerando che un rivolo d’acqua gli scendesse lungo la nuca
e si insinuasse
sotto il mantello. Elerad amava la pioggia, Abigal non aveva mai capito
perché,
e pensare a suo fratello, al caldo e all’asciutto dietro le
grandi finestre del
palazzo di Besali non fece che acuire l’umida percezione del
gelo che insidiava
le sue membra da ore. Spostò lentamente il peso da un piede
all’altro, cercando
di fornire una qualche forma di sollievo alle proprie membra stanche,
rifiutandosi rabbiosamente di piegare la propria schiena dolorante e
ammettere
a se stesso e a un mondo bagnato e vuoto che il figlio
dell’imperatore era
troppo debole per essere la Sentinella Ammonitrice di
quell’esecuzione.
Una folata improvvisa scosse le catene del
Piangente, cullando il suo
cadavere e portando con sé una voce roca e gracchiante, un
canto stonato che
sferzò il volto di Abigal insieme al vento.
«Oh Sofrien, re
delle genti, / che
triste sorte; / si sono spenti i lamenti / per la tua morte.»
In mezzo alla strada, emersa forse da un portone,
forse dall’aria umida,
una figura minuta, avvolta in un mantello scuro, vagava nella pioggia
posandosi
sgraziatamente a un bastone nodoso. Reggeva nella mano sinistra una
lampada
spenta, sollevandola dinnanzi a sé quasi potesse in qualche
modo rischiarare i
piccoli passi con cui avanzava malferma in quel pomeriggio scialbo.
«Oh Sofrien,
elmo d’argento, / che
triste fine; / non ti rammenta che il vento / sulle colline.»
Abigal odiava le nenie tristi, non erano che
stupidaggini con cui i deboli
indulgevano la propria predisposizione malinconica, quasi che
l’ingiustizia
andasse pianta invece che combattuta, e udire quella cantilena
singhiozzante diffondersi
disarmonica nella pioggia battente andò ad amplificare la
sua frustrata
irritazione.
Un colpo d’aria fece sbattere due
battenti, quasi a ritmo con quel tempo lento
e grave, e la voce femminile parve farsi più lontana, mentre
la donna si
avvicinava lentamente senza degnare il cipiglio di spregio di Abigal
della
minima attenzione.
Quando non fu che a cinque pertiche da lui, volse
lo sguardo verso il Piangente
e nel sollevare il capo scostò il cappuccio, disvelando
lunghi capelli bianchi intorno
a un volto appuntito e una rete di rughe profonde nelle quali la
pioggia battente
non tardò a insinuarsi.
«Oh Sofrien, re
insepolto, / che
triste fato; / sol Dio ti piange, con volto / amareggiato.»
Il suo timbro acuto e stridente vibrò
nell’aria gravido di una mestizia più
densa della pioggia e più solenne dell’espressione
triste delle statue; Abigal
avrebbe voluto percuoterla, ma per farlo avrebbe dovuto lasciare il
proprio
posto, dando al maestro dei novizi un motivo per punirlo;
così strinse i pugni
con forza rabbiosa, ripetendosi come un salmo che non è
compito del novizio né cercare,
né punire l’eresia, neppure quella delle lacrime.
Riuscì a trattenere il proprio corpo ma
non la propria voce.
«Dio non piange, vecchia.»
Le sue parole, scandite con chiara durezza sopra il
rumore incessante della
pioggia, gli ricordarono il severo tono di comando con cui suo padre
gli aveva
imposto di entrare nell'inquisizione, la rabbia fredda e spaesata che
aveva
provato allora nell'invocare in silenzio una giustizia divina che
stava ancora
aspettando.
Non
si voltò verso di lui, fissando
il cadavere che si frapponeva fra loro con immobile indifferenza.
«Tutti dovrebbero piangere Sofrien. Dio
in particolare. Dovrebbero
piangerlo con tutto il dolore e il senso di colpa dei suoi fratelli,
quando
scesero al suo fianco sulle piane di Islim, guardandolo guidare gli
Alerean
verso l’ultima battaglia: bello e biondo, pallido e triste;
tutti dovrebbero
piangerlo come quando è andato a morire; dovrebbero
piangerlo perché è morto
per loro, il suo elmo di fenice è caduto nel fango e tutta
la grandezza di Erea
è perita con lui. Eppure tu, che porti la maschera del suo
lutto, non sai
nemmeno chi sia.»
Abigal grugnì sprezzante,
perché gli Alerean erano sciocchezze da vecchie
balie e il solo cordoglio di cui la maschera nera fosse manifestazione
era
quello per la vita che aveva desiderato da bambino.
La vecchia abbassò
lentamente lo sguardo verso di lui e Abigal rimase interdetto nel
notare come i
suoi piccoli occhi
grigi lo scrutassero indecifrabili, privi di quella straziante
malinconia che
aveva abitato la sua voce.
Avanzò di un passo, sollevando la
lanterna con la cura accorta di chi non voglia
rovesciare la cera della propria candela, la pergamena, tuttavia, non
nascondeva nessuna fiammella che potesse illuminare lo spiazzo con una
luce più
intensa di quella grigia e rarefatta che filtrava attraverso le nubi.
«Ti vedo, Inquisitore.»
Gli sorrise nel dirlo, tendendo le labbra sottili
in una piega malevola, e
per un istante Abigal ebbe l'infantile timore che lei potesse scorgerlo
dietro
la maschera da falco dei novizi e le grandi vesti nere della Mano di
Dio, oltre
la pelle e le membra, fin dentro i recessi incolleriti della sua anima
immortale. Elerad le avrebbe chiesto cosa vedesse, il viso rotondo
illuminato
da un sorriso amabile, e suo padre avrebbe atteso con autorevole
pazienza che
le sue guardie la mandassero via, ma Abigal non era mai stato
né amabile né
paziente e la sfacciataggine con la quale la vecchia osava
rivolgerglisi
svegliò in lui un sarcasmo feroce che credeva le frustate
del Maestro dei
novizi avessero eradicato.
«Sospetto dipenda dal fatto che io sono
qui.»
La vecchia rise, cacofonica e sgraziata, mettendo
in mostra una fila di
denti sproporzionatamente piccoli e incredibilmente bianchi.
«Anch' io sono qui, mi vedi, Dito di
Dio?»
Fece un piccolo passo in avanti, battendo il
proprio bastone nodoso sul
ciottolato, il rumore arrogante del suo schiantarsi sulla pietra fu
ovattato
dal fango che le schizzò
il
mantello.
«Senza una lampada spenta?»
Le carrucole che sorreggevano il corpo del
piangente cigolarono lamentose a
riempire il silenzio bagnato con cui gli occhi traslucidi e gelati
della
vecchia accolsero la sua sprezzante allusione.
«Anche con tutte le lampade del mondo
resteresti cieco, Inquisitore.»
Come ogni azione preclusagli, lo schiaffo con cui
l'avrebbe percossa era un
sapore ferrigno sul palato, un bilioso risentimento all'attaccatura
della gola,
di cui la vecchia pareva essere provocatoriamente ignara. Se l'avesse
colpita
con tutta la forza della sua frustrazione trattenuta sarebbe caduta,
l'impatto
della sua guancia con il ciottolato le avrebbe riempito le rughe di
fango e,
forse, vedendola a terra simile a un mucchio di stracci sporchi e
bagnati, Abigal
sarebbe riuscito a ridere di lei, dispensando la sua follia di ogni
responsabilità come sapeva avrebbero fatto suo padre e suo
fratello. Digrignò
i denti in un risentimento basso e cupo
che non era sicuro fosse diretto alla vecchia, ma che certamente era
alimentato
dalla distaccata indifferenza con cui, poco dopo averlo insultato,
quella aveva
smesso di considerarlo, smarrendo il proprio sguardo pallido nella
pioggia,
quasi il cielo plumbeo di quel giorno squallido fosse popolato da
fantasmi
familiari a cui avesse sottratto per troppo tempo la propria attenzione
.
Ringhiò
il proclama della Sentinella
Ammonitrice con ferocia, come se rientrare nel proprio ruolo bastasse
per
rimettere la vecchia al suo posto nel grande schema delle cose.
«Sua Beatitudine Daenior IV, Voce di Dio,
Vincastro della Chiesa, Padre dei
Credenti, ha tuonato dall'alto della Grande Cattedrale contro coloro
che
sostengono, traviati schiavi del Dormiente, che Nostro Signore Eoen
l'Altissimo
pianga per le sorti del mondo. A coloro che professeranno questa
empietà non
sarà usata misericordia, e ogni fedele sarà
chiamato a scagliare contro di loro
la pietra del proprio disprezzo; ai corpi abitati da questa menzogna
non sarà
concesso l'onore di una pira e le anime corrotte da tanta
falsità diverranno
cibo per i vermi.»
Era uno stile pomposo e artificiale,
così diverso dalle parole che avrebbe
usato Abigal da suonare pastoso e falso sulle sue labbra anche pieno
del furore
fiammeggiante della sua indignazione.
«Uccideteli tutti.»
Sussultò, sorpreso dalla determinazione
sbrigativa di quell'ordine aspro,
come dal familiare gesto di congedo con cui le lunghe dita rachitiche
della
vecchia avevano allentato la presa intorno al bastone.
«Tu diresti così, non
è vero?»
Avanzò nel dirlo, senza curarsi del
rumore umido con cui il suo piede e
l'orlo del suo mantello affondarono nella pozzanghera, una scomposta
ciocca
bianca appiattita sul volto completamente bagnato, e la sua figura
ricordò per
un attimo ad Abigal le parole di una canzone che aveva imparato da
bambino: Minuta
e bianca, vaga mai stanca / ha pioggia sul viso, e stridulo riso /
piedi
bagnati, e occhi gelati / ha molto da dire, non starla a sentire.
Abigal,
tuttavia, aveva sempre disprezzato le cantilene quasi quanto i lai
deprimenti,
così la ragione di quell'ammonimento in rima si era persa da
qualche parte,
smarrita fra le mille identiche storie di cavalieri fantasma, donne
sole,
vecchie streghe isolane in attesa nelle loro capanne di giunchi.
Sospettava che
il piangente penzolante dinnanzi a lui avrebbe saputo dirglielo, tanto
sicura e
avvezza alle filastrocche era sembrata la sua voce quando erano entrati
in casa
sua mentre cantava la buona notte ai propri figli; ora le sue labbra,
cucite da
un filo di ferro, non avrebbero più raccontato nulla e le
sue mani, inchiodate
all'asse di legno della taverna, non avrebbero cullato nessuno e Abigal
sorrise
per l'ironico equilibrio di quella punizione.
«Uccideteli nelle loro case, uccideteli
nei loro letti, trascinateli nelle
piazze e lapidateli di fronte ai loro figli e poi lapidate i loro
figli,
bruciate le loro case e bruciate i loro villaggi, disselciate le strade
dove
hanno camminato e drenate i fiumi dove si sono bagnati, non
è così? E tutto per
aver creduto in qualcosa che il tuo patriarca condanna.»
Avanzò ancora, un piccolo passo
insinuante, motteggio della camminata
solenne di un sacerdote, sul volto un sogghigno rugoso che pareva
dileggiare
ogni sacra condanna, in particolar modo quella della Sentinella
Ammonitrice che
Abigal aveva ripreso a scandire duramente.
«Essi invero non adorano Eoen, Signore
del Libro, ma pervertono il suo nome
con blasfemi attributi isolani. E contro questi piangenti, le cui grida
non
fanno che turbare il rancoroso sonno del Dormiente, professiamo che non
vi è
altro Dio che Eoen l'Altissimo, Re dei Giorni, Legge di Giustizia e
Salmo di
Misericordia; crediamo che verrà nella gloria per prestare
il proprio scudo al
giusto e spezzare la spada dell'empio e di fronte al suo volto giudice
si
prostreranno tutte le genti, i probi con cuore colmo di letizia, gli
iniqui
schiacciati dal terrore.»
La vecchia mosse un altro passo, turbando i cerchi
concentrici che la
pioggia formava nella polla ai suoi piedi, i pallidi occhi grigi fissi
nei
suoi, freddi e imperiosi come lo sguardo di un uccello da preda,
maliziosi e
irridenti come
quelli di una
strega
«Per non aver voluto un Dio che venisse a
giudicare i vivi e i morti.»
Abigal distolse lo sguardo e le sputò
addosso la fine del proclama di
Naska: «La sua voce sarà sentenza severa e nessun
recesso della terra
nasconderà dalla sua collera. Quando verrà l'Ora
non vi sarà pianto che quello
del reprobo, né letizia oltre quella del retto.»
«Per aver desiderato un Dio
gentile.»
«Un Dio debole!»
Il grido aveva lasciato i suoi polmoni prima che
lui potesse pensare, caldo
e disperato di odio ribollente, e per la prima volta Abigal si rese
conto che
la vecchia lo conosceva, perché come altro avrebbe potuto
sapere che per lui,
che pregava ogni sera per il soccorso e per la rivalsa, il Dio
impotente e
lacrimoso in cui i piangenti trovavano conforto non era che sterco
gettato
sulla sua più disperata speranza? Abigal avrebbe accettato
la più terribile
delle punizioni per i propri peccati, purché quelli di
coloro che lo avevano
offeso non venissero rimessi.
La risata della vecchia riempì l'aria,
più densa delle tenebre e più fredda
della pioggia e, mentre in lontananza un eroico barlume di luce aveva
sconfitto
le nubi per illuminare la rocca dei Teran, Abigal si accorse che il
crepuscolo
incombeva su di loro.
Desiderò stringere le labbra e
rifugiarsi in un chiuso silenzio, ma la
vecchia lo scrutava predatoria e fredda, e Abigal si trovò a
temere che
l'avvertimento di non parlare con le streghe e non ascoltare le vaganti
nella
pioggia avesse solide ragioni, sebbene lui non riuscisse a ricordarle.
Solo
quando si rammentò di non credere a simili sciocchezze
allentò leggermente la
presa sull'impugnatura della propria spada.
«E per aver turbato la tua
sensibilità li manderai a morire, non è vero,
Patriarca?»
Se le parole fossero state pietre quel "patriarca"
sarebbe stato
un enorme masso, capace di spezzare la sua maschera nera e le ossa del
suo viso
e, nonostante non fosse che un sibilo insinuante nella minaccia
dell'imbrunire,
udendolo, Abigal barcollò, colto dal desiderio di arretrare.
Si disse che la
vecchia era folle e che, avendolo sentito pronunciare il proclama di
Naska, ne
avesse confuso l'autore con il portavoce, ma nel profondo del suo
spirito
qualcosa vibrava di inquietudine e la vecchia sorrideva, saputa e
paziente,
quasi fosse al corrente che quel qualcosa l'aveva riconosciuta.
«Daenior è il
patriarca.»
Avrebbe dovuto tacere, se ne accorse quando la
frase rimase sospesa
nell'aria, sovrastata dal rumore indifferente della pioggia. Non
credeva che il
sorriso della vecchia potesse allargarsi ulteriormente, il suo volto
rugoso
squarciato da un ghigno affilato e rosso, il passo che fece verso di
lui simile
all'affondo finale dello schermidore.
«Lo è adesso. Quando
morirà toccherà a te, Inquisitore.»
Abigal si vide per un istante, solo in vesti nere e
oro, percorrere gli
ultimi nove scalini che separano il mondo dal Grande Altare,
più in alto di
tutti gli altri fedeli, più in alto di qualunque seggio in
tutta Naska fatta
eccezione per il trono dorato dell'imperatore. Si udì
rinnegare per nove volte
e accettare per nove volte e seppe che non era quello che voleva.
«Non sono un Inquisitore.»
«Ancora.»
Suonò definitivo e distaccato come la
condanna irrevocabile di un giudice
indifferente e Abigal desiderò potersi strappare la
maschera, gettandola a
terra nella pozzanghera, gridare il proprio diniego in quel momento e
in quello
di prendere i voti, giurarle che sarebbe tornato a casa a reclamare
ciò che gli
spettava di diritto. Suo padre avrebbe continuato a guardarlo come se i
suoi
grandi occhi azzurri non potessero vedere nel mondo niente di
più doloroso di
lui, l’avrebbe condannato e forse gli avrebbe tolto il
saluto, ma alla sua
morte Abigal sarebbe diventato Conte, forse persino Imperatore.
«Oppure morirai in un incidente di caccia
o in una rovinosa caduta lungo le
scale o ti ammalerai durante un inverno particolarmente freddo e
l’intera corte
sarà chiamata a vagare per i boschi e raccogliere legna per
la tua pira.»
Un corvo, nascosto in qualche sottotetto, scelse
quel momento per
gracchiare alle nubi il proprio crudele scherno e il pensiero che suo
padre
potesse ucciderlo perché Elerad prendesse il suo posto
pervase il suo spirito
di gelido sbigottimento.
«No.»
Un’affermazione debole, il rifiuto di un
bambino spaventato, solo sebbene
al centro di una folla festante nel giorno del secondo matrimonio del
proprio
padre. Abigal aveva giurato di non essere più quel bambino.
«Mio padre non mi farà
uccidere come un cane.»
«Tuo padre non ti ama abbastanza per
permettere che il figlio del suo
migliore amico rubi il posto del suo.»
L’allusione gli tolse il respiro,
strangolando tutte le obiezioni dietro
cui avrebbe voluto nascondersi, lasciandolo solo a boccheggiare
dinnanzi a una verità
terribile che aveva sempre finto di non sospettare. La
sussurrò in una
confessione spezzata e lacerante, il suo spirito smarrito nella pioggia.
«Non
è mio padre.»
Il sorriso della vecchia, disgustoso come una
ferita in suppurazione, si
fece mano a mano meno nitido mentre Abigal spalancava disperatamente
gli occhi,
cercando di trattenere le lacrime. In quella confusa accozzaglia di
colori che
il pianto parava dinnanzi ai suoi occhi, Abigal vide il fantasma di
Elerad, le
fossette che gli si formavano sulle guance quando sorrideva, vide le
movenze
aggraziate di sua sorella e la freddezza cortese
dell’imperatrice, vide la
tristezza con cui Sorot di Besali l’aveva sempre guardato e
per la prima volta
seppe darsene ragione. Infine, quando non poté
più fare a meno di chiudere gli
occhi, scorse sul retro delle proprie palpebre la sagoma scura del
Conte del
Sirenmat e la nozione che fosse stato il suo seme a generalo si
sedimentò
lentamente fra le altre offese che serbava gelosamente nel proprio
cuore: il
suo vero padre era il padrino di Elerad e Marel, un uomo che era stato,
nella
sua vita, una costante distaccata, ricco di canti allegri e doni per
suoi
fratelli, povero di ogni considerazione per Abigal. Lo ricordava ancora
vagare
per l’ala grande del palazzo, allegro e già mezzo
ubriaco, reggendo Elerad
sulle spalle e fingendosi il suo destriero sotto lo sguardo divertito
di suo
padre, solo per rabbuiarsi e decidere di tornare a faccende da adulto
quando
Abigal aveva cercato di unirsi al gioco.
Strinse il pomo della propria spada con rabbia: due
padri ed entrambi
avevano amato suo fratello più lui, entrambi non gli
avrebbero lasciato niente
se non una strada in salita verso nove gradini d’oro e un
freddo altare di marmo.
Lacrime calde gli rigarono il viso in un pianto che sapeva
più di frustrata
impotenza che di tristezza.
«Piangi, Inquisitore? Credevo non ti
piacessero le lacrime.»
Abigal spalancò gli occhi respirando a
pieni polmoni l'aria acre di pioggia
e legno bagnato, imprimendo quell'istante dentro di sé,
lasciando che ogni
piccolo dettaglio di quello scorcio di Redna si scolpisse nella sua
anima sotto
i colpi implacabili dell'odio più assoluto che avesse mai
provato: dalla pietra
grigia delle case alla motta lontana dove sorgeva la rocca dei Teran,
dalla
demoniaca vecchia che gli stava di fronte alla maledetta genia dei
piangenti,
per colpa dei quali l'aveva incontrata. Li avrebbe distrutti tutti,
cancellando
dalla terra causa e testimoni della sua umiliazione, lo avrebbe fatto
ad ogni
costo, anche quello di prendere i voti e diventare davvero la prossima
Voce di
Dio.
La vecchia sorrideva ancora.
«Ti vedo, Abigal né di Besali
né di Usen, un bambino poco amato che grida
al cielo per una giustizia che dovrà farsi da
solo.»
Avanzò un'ultima volta, percuotendogli
la spalla con la punta del proprio
bastone, le innumerevoli rughe tese in una gioia feroce, il volto
abbastanza
vicino da poter sussurrare appena, la sua voce fredda e decisa un
tutt'uno con
il rumore della pioggia.
«Se fossi Dio piangerei per te,
Inquisitore.»
Le affondò la spada nel ventre prima
ancora di accorgersi di averla
estratta, la resistenza opposta dal suo corpo allo sforzo di perforarla
da
parte a parte percorse il braccio di Abigal in un’esaltata
vibrazione mentre
liberava la lama. La lampada cadde a terra, il tonfo ovattato
dall'acqua nella
pozzanghera, e la vecchia cercò di reggersi al bastone con
ambo le mani, sussultando
mentre le ginocchia le cedevano per il dolore. Abigal la sorresse, solo
per
pugnarla di nuovo, per inciderle nelle gola un sorriso più
orribile e profondo
di quello con cui l'aveva schernito e, solo quando le sue sottili
labbra
pallide si dischiusero per emettere un gorgoglio sanguino, la
lasciò cadere
bocconi sulla strada bagnata, permettendo
che il
suo sangue disegnasse arabeschi rossastri nell'acqua stagnante ai suoi
piedi.
Gettò la spada a terra con superiore
disgusto e diede le spalle all'intera
Redna per tornare nella locanda, lasciando che il piangente stesse di
guardia
al proprio cadavere penzolante e fosse, con la tumefatta rovina della
propria
figura, ammonimento sufficiente per chiunque lo guardasse.
Il piangente avrebbe potuto dirgli di non dare le
spalle ad una strega e di
non ascoltare le viandanti nella pioggia, perché le loro
parole sono sempre
vere e sempre amare, e le loro profezie, una volta ascoltate, si
avverano da
sole; la sua lingua strappata, tuttavia, non poteva proferire parola e
i suoi
occhi mangiati dai corvi non potevano vedere, così nessuno
scorse la vecchia
sollevarsi senza appoggiarsi al proprio bastone, né lo
squarcio sul suo collo
chiudersi velocemente mentre raccoglieva la propria lampada. Il suono
della sua
risata si perse nella pioggia e lei riprese a vagare, inosservata,
mentre un
canto malinconico aleggiava inascoltato per le strade.
«Oh Sofrien, re
senza torto / che
triste lai / per noi sei andato e morto / e non tornerai.»
Note
dell’autrice:
Questa storia è stata scritta per il
contest “Legendary Tales” che
richiedeva di prendere ispirazione da tre immagini: una è
quella che ho usato
per fare il banner, di cui mi sono innamorata a prima vista (rendendo
subito
chiara la mia predisposizione per gli scenari deprimenti e un
po’macabri) le
altre due sono quelle che il giudice ha fuso insieme nel banner che mi
ha fatto
lei e che riporto qui sotto. Ce ne sarebbe stata una quarta,
rappresentante
quel Sofrien di cui parla la canzone ma mi limito a linkarvela (http://s1283.photobucket.com/user/yuko_majo00/media/Personaggi%20Maschili/012_zps0d362966.jpg.html?sort=3&o=7).
In fase di progettazione ho iscritto la storia
anche al contest “La Peppa
in reverse” e dato che il gioco secondo cui non bisogna
rimanere a fine partita
con la donna di picche in mano dalle mie parti si chiama “La
Vecchia” eccoci
serviti.
Odio i titoli e vorrei avere un titolista che si
curi di battezzare i miei
scritti. Non sono certa che questo sia riuscito. L’ho scelto
giocando sul
doppio significato del termine errare che si riferisce sia alla vecchia
che ad
Abigal: la prima vaga nella pioggia, il secondo vi si smarrisce
moralmente e
nella propria percezione di sé, e in più commette
degli errori fondamentali
(parla alla vecchia e la ascolta).
Note di ambientazione:
Siamo circa nel 1089 d. N. e Abigal è il
bastardo che Galoth ha avuto dalla
moglie di Sorot di cui si parla in “Amare i propri demoni.
Rappacificarsi con sé
stessi. Per non impazzire”. Per
chi
invece volesse chiedere la vagante nella pioggia sia la donna sola di
“Ma i
figli dei suoi figli hanno il trono” o anche la vecchia che
attende nella
capanna di giunchi delle fiabe isolane, sappia che la domanda
è legittima ma che
io non risponderò. (Non trovate però che il mio
mondo sia popolato da vecchie
più o meno malevole?)
Per quanto riguarda Sofrien, forse
arriverà il momento in cui potrò
raccontare del tutto la sua storia, per ora basti dire quello che la
vecchia
canta di lui: che è stato un grande re di un tempo
infinitamente lontano (il figlio
del leggendario Grande Sire) che la sua morte è stata un
sacrificio e che è
stato dimenticato (anche se non dalla vecchia). In realtà
saprei cantare la sua
canzone e se non fossi stonata ve la farei sentire ma poiché
la mia voce è
cacofonica e debole credo che per questa volta passerò.
“Riconoscimenti” ottenuti da
questa storia:
Prima classificata al contest “Legendary Tales” indetto da Yuko Chan sul forum di EFP:
Nominata alla Oscar per la miglio fotografia
(descrizione) e sceneggiatura
originale nel Contest “Oscar EFPiani 2015”