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Autore: Sheep01    03/11/2014    7 recensioni
E dire che gli mancavano meno di tre mesi alla pensione. Meno di tre fottutissimi mesi. Aveva programmato tante di quelle cose da fare per soffocare l’angoscia di finire come tanti ex colleghi che andavano a smaltire gli ultimi, pigri anni di vita in qualche bettola, a sfondarsi lo stomaco di whisky a giocare a carte, a raccontare le storie dei bei tempi andati, a lamentarsi del tempo e del degrado della gioventù odierna. E invece guarda un po’ che cosa gli doveva capitare.
Una di quelle robe che era sicuro di non aver visto nemmeno in Vietnam quando non era che un ragazzino irascibile, strafatto di canne. Morti ne aveva visti tanti, certo. Morti che ritornavano in vita e sembravano guardarti come fossi un cheeseburger, proprio mai.
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Atlanta: un misterioso esperimento scientifico si conclude bruscamente con un incidente dalle conseguenze inaspettate.
Nel giro di pochi giorni, un'epidemia mondiale prende a serpeggiare per il paese, cominciando a decimare la popolazione...
Genere: Avventura, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 3

 

“Dobbiamo agire insieme. Ci vuole uno che mi aiuti a ricaricare e uno che guardi fuori. Io sparerò. Come ha detto Bertrand Russell: L’unica cosa che riscatta l’essere umano è la collaborazione! E adesso so che faremo nostre queste parole!”

“Non erano su un sotto-bicchiere?”

“Sì, della Guiness doppio malto”

(Shaun of the Dead)

 

*

 

Poco fuori Dallas,

Quaranta giorni dopo il contagio

 

Non andava, non andava proprio. Gli mancavano le attrezzature adatte, un buon laboratorio, tutti i suoi gingilli.

Cercava di ripercorrere mentalmente la lista dei materiali da reperire, nonostante fosse più che consapevole del fatto che quello, fra tutti i problemi che avevano riscontrato in quell’ultimo mese, doveva proprio essere l’ultimo.

Eppure la sua intuizione si era rivelata buona, per quel poco tempo in cui era riuscito a metterla in atto e…

Il fruscio delle lenzuola alle sue spalle a ridestarlo da tutta una serie di macchinazioni mentali.

“Tony… che stai facendo?” Pepper si era appena svegliata.

“Mi intrattengo con… delle stupidaggini.” Le rispose, cercando di non mostrare quella sorta di afflizione costante che tornava stringergli lo stomaco troppo spesso. Abbandonò il suo pseudo tavolo da lavoro, una scrivania mal messa di una camera di motel di fortuna, altrettanto in cattivo stato.

“Vieni qui…” Un ordine a soffocare quella patina di imbarazzo e persistente incertezza. Protendeva le mani verso di lui, il viso pallido, gli occhi cerchiati di nero.

Cercò di dimenticare momentaneamente ciò che lo stava tormentando per lasciarsi trascinare in un abbraccio stanco, ma mai privo di calore.

“Come ti senti?” ormai una domanda di rito, che probabilmente avrebbe ricevuto la stessa, identica risposta di rito.

“Meglio…”

Sapevano entrambi che non era vero. Se dopo la fuga da Malibù le condizioni di Pepper sembravano essersi avviate sulla via del miglioramento (scarica di adrenalina o sa il cavolo), adesso che la situazione si era stabilizzata in quello squallido motel del Texas, parevano essere tornate quelle di un mese prima. Stabilito che non si trattava di quel pericoloso contagio (che di regola dopo una settimana di tribolazioni fisiche non lasciava scampo, o così almeno avevano detto al telegiornale), la situazione non si presentava comunque granché positiva.

Pepper stava male. Una bronchite trascurata o qualcosa di simile. Tony non era un dottore, Tony era solo uno stupido ingegnere. Un inventore. Uno scienziato. Non un segaossa. Le macchine per lui non avevano segreti. Gli esseri umani... pure troppi.

Se la situazione fosse peggiorata, Pepper avrebbe potuto rimetterci le penne e peggio, magari, ridestarsi trasformata in quelle cose orride a cui non era ancora riuscito a dare un nome. Lui che per carattere affibbiava nomignoli a chiunque pur di minimizzare i rapporti interpersonali, a quelle cose non era stato in grado di associare niente che fosse capace di sminuirne la terribile natura.

Semplicemente non era normale. Non era razionale. Una prova tangibile di un mondo dominato dal caos. E lui, che di caos se ne intendeva abbastanza a causa di trascorsi non troppo gradevoli, non riusciva comunque a riconoscercisi, a empatizzare con quel tipo di caos.

“Harold che fine ha fatto?” invece di preoccuparsi per se stessa…

“E’ andato a cercare qualcosa da mangiare.”

“Siamo praticamente nel deserto… dove… ?”

“Non lo so. Happy è un tipo pieno di risorse, sembrava piuttosto animato quando ha annunciato che ci avrebbe pensato lui alla cena.”

“Cena? Che ore sono… Dio, per quanto ho dormito?”

“Qualcosa come dieci ore, ma è okay, Pepper, devi stare a riposo. O devi andare da qualche parte?” finse un'espressione stranita.

Era per quel motivo che avevano deciso di sostare in un posto tanto isolato, nel bel mezzo del niente.

Fosse stato per lui sarebbe corso spedito verso Atlanta, fatta eccezione per le uniche, doverose pause per evacuare. Ma Pepper era stanca e aveva bisogno di un letto vero, di cibo… vero. Soprattutto di medicinali veri.

Non era sicuro di sapere cosa avrebbero trovato ad Atlanta, ma parlavano di cure, e di qualsiasi cura stessero blaterando avrebbe comunque significato avere a disposizione scienziati, dottori, qualcuno che ci avrebbe capito qualcosa più di lui: avrebbe potuto significare la salvezza della donna.

Avevano provato a cercare un ospedale, nella speranza di qualche centro di raccolta, in qualsiasi città. Ma gli scenari, da qualche tempo a quella parte, erano quelli di un film apocalittico, da l’ultimo uomo sulla terra. Avesse deciso di correre in giro nudo non avrebbe fatto alcuna differenza: non un cane, letteralmente, ad assistere allo spettacolino, se non qualche mostruoso cannibale che in ogni caso si sarebbe preannunciato con un gran lavorio di mascelle.

Le ultime persone vive che avevano incontrato erano una coppia del New Mexico, fratello e sorella. Avevano condiviso provviste e dormitorio per una notte prima di essere attaccati da un gruppo di zombie. Si erano divisi in una fuga confusionaria e frenetica e non avevano la minima idea di dove fossero andati a cacciarsi. Probabilmente erano morti.

Il pensiero gli procurava solo un misero fastidio: l’importante era che non fossero morti loro. Egoistico? Forse. Ma brutalmente pratico.

Qualcuno bussò alla porta.

“Chi è?” la domanda gli sembrò imbecille nel momento stesso in cui l’aveva pronunciata.

“Il lupo mannaro. Chi cavolo vuoi che sia?”

“Che ne so, magari uno che non si è accorto che là fuori stanno girando un film horror.”

“Stark, apri! Si gela qui fuori… ed è buio…”

L’uomo si era già rimesso in piedi a scostare la libreria che avevano messo a protezione della porta, come ulteriore sicurezza. Non avevano trovato mostri in giro, ma potevano sempre arrivare dalle profondità più remote del deserto.

Si vide di fronte il faccione di Happy e si sentì rincuorato: per quanto in quegli ultimi giorni si fossero trovati a condividere anche la più minima, intima funzione vitale, faceva sempre un certo effetto non averlo fra i piedi. In tempi come quelli poi, allontanarsi troppo e troppo a lungo era un lusso che non potevano permettersi.

Lo vide rovesciare a terra lo zaino per aiutarlo a rimettere a posto la libreria davanti alla porta.

“Fatto.”

“Che cosa hai trovato?”

“Un sacco di cose, guarda… ah, Pepper, ti sei svegliata, come stai oggi?”

“Meglio…” di nuovo quella dolorosa bugia.

Tony aveva cominciato a frugare nel suo zaino: “Che diavolo è questa roba?”

“Cibo?” la domanda retorica.

Patatine al formaggio, Mars, Pringles, croccante al miele… Dr. Pepper.

“Un attentato alle coronarie. Praticamente, se non ci sbranano gli zombie…”

“Che cosa ti aspettavi che trovassi nella reception di uno stupido motel?” la voce di Happy non era per niente… happy.

Tony non trattenne una smorfia, non certo destinata a quel pover’uomo del suo autista: da quando era diventato così stronzo? Il problema, forse, era che lo era sempre stato. Dunque riformulando: da quando si preoccupava di quanto fosse stronzo?

La soluzione stava fondamentalmente nel fatto che le due persone presenti in quella stanza erano, al momento, gli esseri umani… più importanti della sua vita. Patetico? No, anche questo realistico.

“A me andrebbero delle patatine al formaggio.” Pepper si era messa seduta sul letto, il cuscino a sostenerla in modo un po’ instabile.

“Ecco qua. Vedi? Qualcuno che apprezza i miei sforzi.”

“Meno male. Allora io posso continuare a insultare te e i fornitori di macchinette degli Stati Obesi d’America.

“Fa' pure, se non vuoi mangiare non sei per niente obbligato.”

“... chessò delle tartine al formaggio, un po’ di caviale…”

“Champagne.” Aveva sottolineato sarcasticamente Pepper mentre apriva la sua bustina di patatine che scricchiolò gioiosa fra le sue mani.

“Finalmente qualcuno sulla mia lunghezza d’onda.”

“Invece di dire stupidaggini perché non guardi meglio nello zaino?” stronfiò Happy, scartando il suo Mars.

Tony parve perplesso. Happy era davvero riuscito a trovare del caviale?

Andò a fondo con il braccio finché le sue dita non si serrarono attorno a qualcosa di piccolo e metallico.

Sgranò gli occhi quando si trovò fra le mani uno dei componenti elettronici che gli servivano per proseguire con la sua… specialissima arma.

“E questo dove diavolo lo hai trovato?”

Happy, finalmente, sfoggiò un sorriso tronfio: “… nelle macchinette, no?”

Tony sentì qualcosa di molto simile alla gratitudine agitarsi nel suo stomaco.

“Pepper, bacialo.”

“Che cosa?”

“Hai sentito benissimo.”

“Guarda che se lo faccio ci metto lo stesso impegno con cui ti mando al diavolo.”

Happy li guardò confuso.

“Okay, lascia stare. Lo bacio io.”

 

*

Qualche miglia al confine del Maine

Quarantuno giorni dopo il contagio

 

Aveva camminato tutta la notte. Forse di più. Le gambe si muovevano come spinte da vita propria.

Non era in grado di dire quante miglia avesse percorso o quante ore fossero trascorse.

Nemmeno di valutare lo stato di degrado fisico e psicologico in cui era precipitato da qualche giorno a quella parte.

La suola delle scarpe consumata al punto di rendere la sua andatura ulteriormente instabile. I vestiti troppo leggeri per far fronte alla pioggerellina insistente che lo tormentava da quella mattina.

Eppure continuava a proseguire, imperterrito, le gocce a scivolargli giù dalle ciocche di capelli, a imbrattargli il viso, le evidenti lacerazioni. Le croste di sangue che faticava a sciogliersi, le mani scorticate in più punti, le unghie saltate via da almeno un paio di dita.

La testa bassa, continuava a fissare la strada sotto di sé. Come se non gli importasse proprio dove fosse diretto o chi… o cosa… avrebbe potuto incrociare sul suo cammino.

 

Ci aveva messo un po’ per comprendere che il grido che aveva sentito arrivava direttamente dalla sua gola.

Realizzarlo lo mise immediatamente nelle condizioni di recuperare almeno un briciolo della lucidità che gli era rimasta.

Aveva di fronte niente di meno che il suo incubo, che invece di proseguire su percorsi prettamente onirici aveva deciso di venirgli a far visita nel mondo reale.

Appurato questo bè, le soluzioni non potevano che essere due: o farsi prendere dal panico, non accettarlo e continuare a gridare fino a farsi partire un embolo… oppure decidere di prenderne atto e… agire di conseguenza.

Optò per la seconda. Del tutto inconsciamente, istintivamente. Fu grato al suo buon senso, per una volta tanto.

Si prese del tempo per valutare la situazione.

Era in una cella... e fin lì, al momento, tanto di guadagnato. Lui non poteva uscire ma, fino a prova contraria, nemmeno quel coso poteva entrare.

Di fronte a lui c’era George, una delle guardie; probabilmente l’ultima rimasta perché… nessuno sembrava intenzionato o nelle condizioni di venire a vedere che diavolo stava succedendo. Presumibilmente, aveva fatto fuori tutti gli altri e nessuno ancora aveva dato l’allarme, o mai lo avrebbe fatto.

George non gli era mai stato particolarmente simpatico, però era uno di quelli che lo trattava con maggior… rispetto. Quando aveva scoperto delle sue origini nordeuropee aveva preso a chiamarlo Loki. Non che fosse davvero il suo nome, ma a lungo andare aveva cominciato a farci l’orecchio: spesso nemmeno si voltava, se cercavano di affibbiargli il suo vero nome.

Al momento, George sembrava del tutto intenzionato a mangiarselo. O così intuì dal modo in cui continuava a protendere verso di lui quelle sue mani grassocce, in cui la bocca continuava ad aprirsi e richiudersi a schiocco, come fanno quegli uccellini appena nati in attesa della madre con il cibo.

Però dal cinturone ciondolava un mazzo di chiavi.

E quel mazzo di chiavi poteva rappresentare l’unica via di fuga per la sopravvivenza o per andare incontro a una rapida morte.

Avrebbe dovuto giocarsela. Giocarsela... molto bene.

Il problema era come fare a procurarsi quel dannato cinturone senza rischiare di lasciarsi strappare una mano nel tentativo.

La soluzione fu così chiara e nitida che si chiese come avesse fatto a non pensarci immediatamente.

Doveva ucciderlo. Insomma, non lo aveva già fatto comunque in passato? E in ogni caso gli avrebbe fatto un favore, doveva… essere andato fuori di cervello, quel George.

Forse un altro punto a proprio vantaggio: non sembrava granché sveglio. O cosciente.

Cercò nella cella qualcosa che potesse fare al caso suo. Non gli permettevano di tenere oggetti contundenti per cui la ricerca non fu semplice.

Un libro.

Ma usare un libro, oltre ad essere poco efficace, sarebbe stato sacrilego.

Quel poster? E che ci avrebbe dovuto fare con un poster? Stordirlo con un paio di tette fuori misura?

Un paio di matite troppo corte per un sano utilizzo. Un taccuino per gli appunti. Qualche articolo di giornale, fazzolettini di carta… la sua branda.

Un pensieri irrazionale gli passò per il cervello: avrebbe potuto usare la branda.

Certo… con l'aiuto della forza bruta di cui si trovava provvisto.

Se non scoppiò a ridere fu solo perché la situazione richiedeva tutta la sua concentrazione e i mugolii di quei cosi, di per sé, non aiutavano granché.

Certo che però… se fosse riuscito a smontarla… quella sua branda…

 

Il rumore di una miriade di motori ebbe il potere di risvegliarlo se non del tutto, almeno in parte da quel torpore esausto che lo aveva sospinto fino ad allora.

Non doveva fermarsi. Era tutto quello che sapeva. Non doveva. Non poteva. O non sarebbe mai più stato in grado di mettere un piede di fronte all’altro e proseguire.
Nel momento stesso in cui si fosse fermato, probabilmente sarebbe crollato al suolo… e sarebbe morto.

No, non poteva morire. Non dopo tutto quello che aveva fatto. Non nel modo… in cui lo aveva fatto.

Era convinto di dover ripagare, in un certo senso, la sua tenacia.

Era riuscito a scappare da una prigione, perdio! Una prigione in cui si supponeva avrebbe dovuto marcire fino alla fine dei suoi patetici giorni e invece…

L’orrore… l’orrore.

 

Non era sicuro di aver capito come ci fosse riuscito ma la gamba di quella stupida branda aveva finalmente ceduto. Ci era saltato su fino a piegarla e poi si era scorticato le mani a furia di far pressione. Era passata una quantità spropositata di tempo, tanto che le luci del mattino che inizialmente venivano proiettate da fuori, adesso si erano tramutate nell'arancio rosato tipico dei tramonti di primavera.

Un'intera giornata. Ah… un’intera giornata per sganciare la stupidissima gamba di una stupidissima branda. Ah. Ma ce l’aveva fatta. Ce l’aveva fatta e… non sentiva più le mani. Non più le unghie.

Non ricordava nemmeno il momento in cui aveva perso quella dell’indice e poi quella del medio.

Le mani erano un ammasso di sangue e ferite. Gli pulsavano tanto da scandire, in modo evidente, il battito del suo cuore, a ricordargli che non era ancora morto, no, ma che presto lo sarebbe stato George. George la guardia.

 

Si trovò circondato ancor prima di realizzare che cosa fossero quelle cose che gli puntavano addosso fasci di luce. Non era sicuro gli importasse più di tanto, anche se quel rumore non poteva che appartenere a delle motociclette. Motociclette piuttosto grosse.

Il problema fu realizzare, con orrore, che lo avevano costretto a fermarsi.

“Chi se lo fa questo?” una voce alla sua destra, profonda, roca.

“Stavolta tocca a te Hogun.” Ora a sinistra.

“Non diciamo stronzate, tocca a me!”

“Ne hai accoppati due questa mattina, Volstagg, non fare l’esoso!”

“Non avevano le gambe, non c’è stato gusto, porco cazzo!”

“Non inventarti scuse!”

“La vogliamo smettere? Che qualcuno tiri fuori una cazzo di pistola e lo faccia fuori!” la voce di una donna.

Si stavano… contendendo le sue sorti? Lo credevano uno di quei così? Non si rendevano conto che… non stava facendo assolutamente niente per attaccarli? Che si stava trattenendo per non battere i denti per il freddo che gli era entrato nelle ossa?

Forse era colpa dei capelli troppo lunghi, a coprirgli il viso.

Forse… avrebbe solo dovuto parlare.

“Ho capito, ci penso io.” Di nuovo la voce profonda, roca di prima.

No. Non sono uno di loro, questo avrebbe voluto dire. L’oscurità non aiutava. La stanchezza nemmeno.

Non sono uno di quei cosi. Io li uccido quei cosi. Ne ho uccisi. Ne ho uccisi diversi. Ne ho uccisi tantissimi. Ho ancora pezzi dei loro cervelli a imbrattarmi la camicia. Non sono uno di loro non sono uno di…

Il rumore del caricatore di una pistola o di un fucile. Non aveva mai imbracciato un'arma in vita sua, non lo sapeva. Non lo sapeva…

“Non… sono…” un sibilo così flebile da venir soffocato dal rombo dei motori.

E poi furono gli stivali del tizio a entrargli nel campo visivo.

“Ehi, questo nemmeno si muove.”

“Magari è una razza nuova. Dovremmo cominciare a catalogarli, ah?”

“Non… sono…”

“Allora che stai aspettando? Fa freddo porca puttana!”

“Sei proprio una femminuccia, Fandral.”

“E tu sei una lumaca. Muoviti cazzo!”

“Non… sono…”

La canna di un fucile che gli premeva alla fronte.

“Non… sono…”

E fu proprio in quel momento che trovò la forza di alzare la testa.

 

Aveva calato la gamba di quella stupida branda sulla testa di George con tutta la forza che ancora gli era rimasta. E gliel’aveva sfondata sì, lo aveva fatto. Di conseguenza, il riverbero delle sue azioni andò a depositarsi come polvere sulla sua coscienza, animandolo, straordinariamente, di una sorta di innata consapevolezza: adesso quello che doveva fare sembrava così chiaro.

Allungò una  mano sul corpo incastrato del povero George e recuperò le chiavi.

Come avesse assorbito i pensieri della guardia, dopo avergli fracassato il cervello, seppe immediatamente dove andare a cercare. Quella della sua cella, risplendeva di una luce più vivida, rispetto alle altre.

Il chiavistello scattò senza alcun problema, liscio come l’olio. Scansò con non poca fatica il corpo accartocciato dell'uomo e fu nel corridoio.

Ad attenderlo, migliaia di braccia che si agitavano nelle proprie celle, a tenderle come rami alla ricerca del lauto pasto della giornata.

 

Il colpo era partito e la canna del fucile aveva vibrato, bollente, a un centimetro dalla sua faccia.

“Che cazzo di mira, ce lo avevi di fronte!” una voce infastidita dalle retrovie.

“Vaffanculo, Volstagg, questo è vivo!”

“Vivo?”

Vivo. Finalmente se ne era reso conto.

Il gigante biondo che gli stava di fronte imbracciava ancora l'arma con un’espressione di puro, statico stupore.

“P-perché te ne sei rimasto lì impalato e zitto?”

Adesso sarebbe pure saltato fuori che era colpa sua, se non aveva parlato. Solo che non ne aveva granché la forza: continuò semplicemente a guardarlo. Gli occhi chiari e animati da un luce vivida, l’unica testimonianza che era ancora indiscutibilmente vivo.

“Sembra tu ne abbia passate parecchie, fratello.”

Fratello?

“Sai parlare? Mi capisci? Tu hablas español? Da dove vieni?” la voce adesso era vagamente incerta. Riuscì a leggerci una sorta di improvvisa impazienza e misurabile dubbio, come se si stesse chiedendo se forse non avrebbe fatto meglio a farlo fuori e tanti saluti. Forse aveva notato il non trascurabile dettaglio del suo abbigliamento (da carcerato), oppure era stato il suo sguardo, puro e semplice.

Improvvisamente ebbe paura di lasciarsi sfuggire l’occasione, di non riuscire a spiegarsi abbastanza. Non sarebbe riuscito a fare tanta più strada di così, nelle sue condizioni.

Non si era trascinato fra corpi marcescenti a sfondar crani di secondini e poi fuori per giorni da solo, a curarsi le ferite e ad evitare i posti troppo affollati, a prevedere le mosse di quei cosi, per morire da solo su una fottutissima strada del Maine.

Aprì e chiuse le labbra, emettendo un flebile suono.

Il biondo tutto tatuaggi e barba incolta aveva aggrottato la fronte come se non avesse inteso.

“Spegnete i motori!” aveva gridato e improvvisamente tutt’intorno fu di nuovo il buio.

Il biondo si era indicato con la mano che non teneva ancora stretto il fucile: “Mi chiamo Donald. Donald Blake. Ma nella squadra mi chiamano Thor…” lo incitò come per spronarlo a parlare con una semplice presentazione.

Thor. Come il… dio del tuono, quel… dio del tuono? Se questa non era una coincidenza…

“E tu chi sei, fratello?”

Di nuovo… fratello.

Deglutì piano e, di colpo rianimato da un bieco sorriso, si lasciò guidare dall’ispirazione di quell’assurdo momento.

“Io sono… Loki.”

 

*

Paris, Kentucky

Quarantuno giorni dopo il contagio

 

“A-ah!” l’urlo di esultanza e la sgasata improvvisa del motore gli fece perdere la concentrazione.

Le lattine di birra che aveva impilato una sopra l’altra a creare una torre etilica sull’asfalto, crollarono miseramente al suolo, trascinandosi dietro il rumore acuto del metallo.

A quanto pareva Barney era uscito vittorioso dalla sua battaglia con il motore del pick-up di Natasha (se fosse suo, ancora era tutto da stabilire).

Le mani annerite dall’olio, era saltato giù dal mezzo che adesso borbottava felice. Una sorta di novello mostro di Frankenstein fatto di lamiere.

“Te lo avevo detto che ci saresti riuscito.”

“Già. E tu…” Barney lo aveva indicato, “non mi hai aiutato per un cazzo.”

“Io ho supervisionato le operazioni.”

“Tu hai cazzeggiato. Cos’è questo schifo? Dove è andato a finire il tuo senso civico?” indicava le lattine sparse tutt’intorno.

“Mai saputo di averne uno.”

“Con tutto quello che ho pagato per farti studiare…” la voce rammaricata, quasi convincente.

Clint si rimise in piedi, spolverandosi il retro dei pantaloni.

“Vado a prendere la roba e ce ne andiamo?” domandò scalciando una lattina che andò ad infilarsi nel buco sotto al marciapiede.

“Che ne facciamo di Testarossa?”

Una domanda a cui Clint non aveva ancora saputo dare una risposta.

Barney, che per tutta la sera precedente si era detto assolutamente contrario a volerla con loro (forse l'umiliazione e il dolore per essere stato atterrato come un pivello), sembrava essersi ridimensionato quella stessa mattina, quando le aveva fatto trovare delle merendine per colazione.

Chi conosceva un minimo Barney sapeva che dietro quell'aria un po' spaventosa e piuttosto grezza si nascondeva un cuore alquanto compassionevole.

I suoi trascorsi non c'entravano assolutamente un cazzo. Le questioni morali di Barney riguardavano esclusivamente i pessimi elementi con cui avevano da sempre avuto a che fare. Ed aveva sempre agito di conseguenza.

Appurato il fatto che Natasha non lo aveva attaccato per sadismo intrinseco o aggressività instabile, doveva aver deciso che andava trattata un po' per quello che era, o che quantomeno sembrava: niente di più che una ragazzina spaventata e malconcia.

Clint però non riusciva a bersela, non del tutto almeno. Non era sicuro di capire cosa non lo convincesse, ma c'era qualcosa di strano nel suo sguardo. Se non avesse avuto paura di azzardare una stronzata, lo avrebbe quasi valutato come... pericoloso.

Ma forse stava diventando troppo paranoico: il fatto che da più di un mese non si fosse accompagnato a nessuno oltre a Barney, lo aveva reso un tantino geloso della situazione, del fatto che avrebbe dovuto condividere la fiducia assoluta che scambiava con il fratello con un terzo elemento del gruppo. E non era certo, in tempi come quelli, di voler consegnare la sua sicurezza a un... perfetto sconosciuto.

Nel caso avesse deciso di seguirli, si ripromise di tenere gli occhi aperti, più di quanto non fosse già abituato a fare.

Natasha, come richiamata da un impalpabile fischio alle orecchie, era appena comparsa sulla soglia della villetta che avevano usato come rifugio notturno.

L'aria un po' stropicciata e pallida di chi sembra aver appena superato una crisi, cosa fin troppo fedele alla realtà, nel suo caso specifico.

“Parli del diavolo...”

Clint si limitò a raccogliere da terra il borsone con tutte le cose che avevano recuperato e a lanciarle sul retro del pick-up.

“Noi ce ne andiamo.” le aveva annunciato come a specificare che, nel caso avesse esitato, loro non avrebbero fatto altrettanto: sarebbero anzi partiti a tavoletta. Dovevano averne avuto abbastanza un po' tutti di quel... come lo aveva chiamato Barney? Posto di merda.

Natasha si limitò a fissarli per un lungo attimo coma a valutare le situazione.

“Avrò bisogno della mia pistola.” la sentì dire con aria asciutta.

Le premesse non sembravano per niente buone e, se da un lato si sentì liberato dall'onere di dover prendere una decisione e dalle sue elucubrazioni sulla sicurezza del gruppo, dall'altro non poté fare a meno di avvertire ancora quella fastidiosa stretta allo stomaco legata a un ridicolo senso di colpa.

Credeva che un mondo come quello, a lungo andare, lo avrebbe reso arido: non una mammoletta al solo pensiero di aver fatto del male, involontario, a un altro essere umano... vivo.

La raggiunse a passo lento, sfilando la pistola infilata nei jeans. La sollevò per fargliela vedere, prima di porgergliela.

“È scarica”, le disse solamente, “lo sapevi?”

Natasha scrollò le spalle. Stando al modo in cui lo aveva guardato doveva saperlo eccome.

“Le scorte di proiettili sono sotto al sedile del furgone.” lo istruì.

“D'accordo. Mi pare di capire che hai deciso di proseguire sola.”

“A me è parso di capire che mi avete appena liquidato.”

Clint le lanciò uno sguardo perplesso.

“No. Io ho solo detto che ce ne saremmo andati.”

“E non l'abbiamo invitata!” Barney si era di nuovo intromesso, stava armeggiando con l'autoradio, a giudicare dai rumori gracchianti che gli arrivavano dal furgone.

“Non credevo ci fosse bisogno di un invito scritto!” rilanciò con uno scatto vagamente innervosito.

“Cos'è, allora vuoi venire con noi?” di nuovo su Natasha. Quella manfrina stava diventando stupidamente lunga.

“Non vado dove non sono gradita.”

“Ho detto per caso che non sei gradita?” adesso aveva allargato le braccia, frustrato. Di che diavolo stavano discutendo?

“Il tuo tono lo ha detto.”

“Il mio tono non dice un cazzo. Vuoi venire con noi oppure no?”

Niente, nello sguardo della ragazza, dava un qualche misero indizio sulle sue intenzioni. Stava per caso cercando di strappargli davvero un invito?

“Senti ragazzina...” I rumori nell'autoradio si erano stabilizzati su frequenze da ultrasuoni, “Barney, ma che cazzo stai facendo?”

“C'è un tizio che sta parlando alla radio!”

“Cosa... ?”

“Mi è parso di aver beccato un tizio. Alla radio! E vieni qui porca puttana!”

Clint aveva fatto cenno a Natasha di aspettarlo con quell'aria un po' impaziente che un padre adotta con un figlioletto particolarmente insistente e si era precipitato al pick-up.

“Sicuro hai le traveggole.” dichiarò arrampicandosi al finestrino per sentire meglio.

“Non ho le traveggole, cazzo, ascolta...”

Clint non avvertiva niente di più che una serie di fruscii piuttosto sgradevoli.

“Te lo sei immaginato.”

“Non l'ho fatto. Ascolta, ho detto.”

Aveva allungato il collo verso l'interno del veicolo e stava ascoltando adesso. Molto attentamente.

Di nuovo una serie di gracidii, uno schiocco, un altro gracidio e poi...

“Da Atlanta... bzzz, qualcuno... bzzz ascolto... ?”

Clint si trovò a tirare su la testa con una velocità tale da fargliela picchiare dolorosamente contro il finestrino.

“Porca merda...”

“Sentito?! Te lo avevo detto! Atlanta. Parlava di Atlanta. Allora è vero che c'è ancora gente laggiù.” il viso di Barney era tutto un sorriso ora.

Clint non era sicuro che fosse una scoperta così grandiosa da alimentare chissà quali speranze, però era anche vero che le trasmissioni si erano interrotte da giorni e quello era il primo vero segnale di vita proveniente da... altrove. La volontà di qualche sperduto utente di riattivare un qualsiasi canale di comunicazione.

Qualcuno ci stava lavorando. Qualcuno si stava attivando. Qualcuno aveva avuto il tempo e la tranquillità necessari per riprendere in mano una radio. Qualcuno stava cercando di raccogliere gente. Che fosse l'esercito o il circolo di polo dei signori di 'sto cazzo... era pur sempre qualcosa di più di tutta quella... desolazione.

Atlanta non gli era mai sembrata così lontana.

Saltò giù dal pick-up e si sporse in direzione di Natasha.

“Allora ti muovi? Prendi la tua roba e andiamo.”

Non dovette insistere ulteriormente: in fondo lo aveva capito che quella era l'unica cosa che la ragazzina aveva bisogno di sentirsi dire. La vide raccogliere la sua sacca appena dietro la porta e, senza nemmeno chiuderla, correre nella loro direzione.

Barney fece partire il furgone, lanciando a Natasha uno sguardo di chi la sapeva lunga.

“Se ti dicessi che cosa mi manca di più in tutto questo scenario apocalittico di morte, non ci crederesti.”

Il pick-up Ford Ranger color petrolio schizzò lungo la via principale di Paris, lasciandosi alla spalle fumo e una scia di lattine di birra vuote.

 

___

 

Note:

Sono ancora così ubriaca da Lucca Comics, che sarò breve: nuovi vendicatori all’orizzonte. Spero che Thor non abbia deluso le aspettative. E, se non ricordo male (rimbambita, la storia l’hai scritta te!), nel prossimo capitolo arriveranno un altro paio di noti personaggi a completare il quadretto Marvel.
Nel frattempo sono uscite clip folli di Age of Ultron (dove scopriamo che Clint ha una fattoria e le parodie si sprecano), spoiler folli su personaggi che non mi sarei attesa di vedere in sto film (due personaggi a caso!) e ho finalmente visto il tanto decantato Guardiani della Galassia. Se mi è piaciuto? Ci sono un procione con un mitra e un albero parlante, che cavolo volete di più dalla vita?!

Come sempre ringrazio i fedeli lettori, recensori, la socia beta Sere che la prossima volta, ti avviso, pretendo che le nostre nuove, luccicanti action figures Clintashose si incontrino per un rendez-vous alla Toy Story e infine… vi rimando al prossimo capitolo con un saluto devastato ed esaurito!

  
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