Ed ecco qui l'ultimo capitolo. Sì, lo so, ci ho messo un altro paio di secoli a scriverlo, ma sono state settimane di scrittura altalenante in cui, da una parte c'erano i miei impegni quotidiani, dall'altra altre due fanfic che hanno disperatamente richiamato la mia attenzione. E questa povera creatura è stata un pochettino relegata in disparte. Scusatemi, scusatemi, scusatemi! Spero tanto che il finale di questa storia folle valga come scusa calorosa.
Ringrazio tutte le persone che hanno seguito i mobili attraverso i loro ricordi al 221B Baker Street, tutte quelle che hanno lasciato un commento, che hanno apprezzato questa follia! Grazie a voi e alla vostra pazienza!
E grazie ad Ida (ovviamente) perché, nel frattempo, si è subita altrettante follie su altrettante trame di fanfic, Ida che mi ha incitato e sostenuto in questo percorso, Ida che, principalmente, è stata l'ispiratrice di tutto cio!
Tra i
mobili presenti al 221B di Baker
Street, tra il divano, le sedie, i tavoli e le poltrone, c’è un oggetto
che non
ci si aspetta. Qualcosa che, al primo impatto, disturba il possibile
visitatore,
lasciandolo o a bocca aperta o sconvolto. Ma quell’oggetto, forse, è il
più
caratteristico di Baker Street, quello che rende quell’appartamento
diverso da
ogni altro appartamento.
È un
teschio.
Certo,
lui non si era mai considerato al
pari di tutte le altre cianfrusaglie che occupavano ogni centimetro
quadrato
dell’abitazione, perché lui, a differenza degli altri, un tempo era
stato
importante: era stato un uomo. Sì, proprio di quelli che camminano su
due gambe
e sono in grado di pensare. Questa sua caratteristica intrinseca lo
aveva reso
soggetto della malcelata invidia di molti pezzi dell’arredamento e lui
ne aveva
sempre tratto vantaggio, comportandosi un po’ da snob, raccontando le
sue
avventure passate, di quando girava per le vie di Londra. Peccato che,
in
realtà, della sua vita da umano non ricordasse proprio niente e che
tutte le
sue storielle che generavano tanta invidia fossero solo pure
invenzioni. Perlomeno
era un bravo narratore: nessuno lo aveva mai sospettato.
Invece,
come tutti gli altri mobili,
aveva chiari ricordi della sua permanenza al 221B Baker Street.
Ricordava,
innanzitutto, come ci era
arrivato. Un giorno era stato estratto da un luogo buio ed era stato
riposto in
uno strano liquido per un tempo che gli era parso eterno, in cui in
molti, di
tanto in tanto, lo avevano maneggiato con un certo disgusto. Poi,
improvvisamente, un uomo con dei guanti di lattice azzurrognoli lo
aveva
estratto da quel contenitore e lo aveva guardato dritto nelle sue
orbite vuote.
“Sarà
una bella aggiunta nel mio nuovo
appartamento.”, aveva esclamato.
“Non è
un po’ macabro?”, aveva replicato
un’altra voce dall’angolo della stanza.
“Al
contrario. Darà un tocco di calore.
Lo metterò sul caminetto.”
Lui,
il teschio, che non era abituato ad
un simile interesse nei suoi confronti, si sentì arrossire a quelle
parole
tanto gentili. Se avesse potuto, lo avrebbe fatto sul serio. Ma gli
mancavano
quei due o tremila vasi sanguigni per poterlo fare appropriatamente.
L’uomo
– capelli neri ricci, occhi
azzurri – gli accennò persino un sorriso mentre, con delicatezza
estrema, lo riponeva
infine sulla mensola del caminetto.
Era
stato un evento talmente inaspettato,
talmente piacevole che anni dopo era ancora il suo ricordo preferito.
A quel
primo ricordo ne erano seguiti
altri che custodiva gelosamente nel suo animo (se avesse o meno un
animo, in
realtà, non lo sapeva, ma a lui piaceva pensarla così).
Si
rammentava con estrema chiarezza, per
esempio, della prima volta che Sherlock lo aveva reso partecipe delle
sue
deduzioni. Delle sue meravigliose deduzioni.
Era
successo una mattina di inizio
ottobre ed era cominciato con il detective che camminava nervosamente
avanti e
indietro per la stanza, mormorando frasi sconnesse.
“Se la
stanza aveva i muri rossi…no,
sbagliato. Concentrati, Sherlock. Se la stanza non aveva i muri
rossi…ma poi
perché avrebbe dovuto ridipingerli? Tutto ciò non ha senso!”, aveva
sbraitato.
Allora,
con una certa violenza lo aveva
afferrato e lo aveva fissato intensamente. Lui si era un po’ risentito
di quel
contatto così indelicato, ma si era subito dovuto ricredere quando, con
suo
immenso stupore, Sherlock aveva cominciato a sciorinare tutto quello
che sapeva
su un certo ‘caso’.
“L’omicidio
è avvenuto tra le ventitré e
le ventitré e trenta di sabato notte. La stanza era chiusa
dall’esterno, ma
solo il proprietario possedeva la chiave e la aveva con sé nella tasca
superiore
della giacca che ancora indossava. Si potrebbe sospettare una qualche
relazione
con una persona a cui, la vittima, avrebbe potuto dare una copia delle
chiavi.
I muri sono stati ridipinti il giorno prima dell’omicidio. Ma perché?
Perché è
importante?”
Poi
gli occhi del detective si erano
illuminati all’improvvisa realizzazione.
“Ma
certo!”, aveva esclamato “È stato lo
zio!”
Il
teschio, onestamente, non aveva capito
nulla di cosa fosse successo. L’unica cosa che aveva reso memorabile
quell’incontro
era stato il bacio – sì, proprio il bacio – che Sherlock aveva
schioccato sulla
sua fronte in segno di riconoscenza. Come se lui avesse davvero svolto
un lavoro
importantissimo, come se, improvvisamente, fosse diventato la risposta
a tutte
le domande del cosmo. Si era sentito lusingato come non mai. Gli altri
mobili
lo avevano invidiato per un mese intero.
E
ricordava bene anche quanta invidia
avesse suscitato quando, il giorno seguente, Sherlock lo aveva portato
fuori a
cena. No, non stava scherzando. Il detective lo aveva sollevato dalla
mensola e
se lo era portato dietro al ristorante. A dir la verità era stata una
situazione a dir poco imbarazzante: l’intera clientela del ristorante
non gli aveva
tolto gli occhi di dosso neanche per un secondo, ma Sherlock sembrava
non
badarci più di tanto.
Insomma,
sta di fatto che deduzione dopo
deduzione, cena al ristorante dopo cena al ristorante, il teschio si
ritrovò
con la strana sensazione che lui provasse qualcosa per quell’uomo. Se
avesse
avuto un cuore come quello che, forse, aveva posseduto un tempo,
probabilmente
avrebbe potuto dedurre che si trattava di amore. Il punto era che quel
cuore
non lo aveva più e, perciò, si contentava di quella leggera sensazione
di
vertigine che lo stare con Sherlock gli dava.
Poi
era avvenuta la tragedia.
Se lo
ricordava talmente nel dettaglio
che, se qualcuno gli avesse mai chiesto di ripetere esattamente cosa
fosse
successo quel giorno, lui avrebbe potuto farlo senza problemi.
La
tragedia era iniziata con un uomo che
arrancava su un bastone metallico e che aveva zoppicato i suoi primi
passi nell’appartamento,
seguendo uno stranamente eccitato Sherlock. Non che vedere Sherlock
eccitato
fosse di per sé strano, questo lo sapeva bene. Gli omicidi, i misteri,
gli
indovinelli: tutto questo lo esaltava. Ma allegro per l’arrivo di una
persona
in casa sua? Quella era una sorpresa inaspettata.
“È un
teschio.”, aveva detto l’uomo,
indicandolo col bastone metallico.
“È un
mio amico.”, aveva ribattuto
Sherlock.
Il
teschio, ovviamente, si era sentito al
settimo cielo per quell’affermazione, ma il detective aveva aggiunto:
“E con
un amico intendo…”
La
cosa lo aveva ferito. Aveva sentito
chiaramente i suoi occipiti e l’osso parietale scricchiolare per la
rabbia, la
mandibola contrarsi leggermente. Perché aveva dovuto sottolineare
quell’informazione?
Poi aveva capito.
La
colpa era dell’uomo – un certo
antipatico John Watson – che, improvvisamente, aveva occupato tutta la
sfera di
attenzione del detective.
Non
era un mistero che considerasse l’opinione
di quell’uomo fosse diventata subito più importante della sua. Non era
neanche
un mistero che Sherlock, per la prima volta dal giorno in cui l’aveva
incontrato, tentasse di fare di tutto per rendergli la permanenza a
Baker
Street piacevole.
Per
esempio – e anche in questo caso il
ricordo era vivido – aveva cominciato a dormire e a mangiare con
regolarità,
chiedeva scusa quando faceva qualcosa di sbagliato, si metteva a
suonare il
violino non per aiutare il suo cervello a lavorare meglio, ma perché
John
Watson lo trovava rilassante.
E
questo lui, il precedente centro di
tutto l’interesse di Sherlock Holmes, non poteva sopportarlo. Aveva
cominciato
ad odiare John con tutte le sue forze. Anche perché, onestamente
parlando,
aveva notato che l’interesse non era a senso unico: John Watson era
certamente
tanto interessato a Sherlock quanto il detective era interessato a lui.
In
poche parole: era geloso.
La
gelosia era aumentata man mano che il
tempo trascorreva, man mano che quei due, sebbene piuttosto ottusi
riguardo i
sentimenti che provavano l’uno per l’altro, si avvicinavano sempre di
più. Un
tocco involontario qui, una pacca sulla spalla là; un indugiare di dita
su dita
quando si passavano le tazze per il tè qui, un sorriso aperto e sincero
là. Una
tortura per il teschio che, purtroppo, non aveva mezzi per combattere
contro
John Watson.
Si
ricordava bene anche quando la sua gelosia
aveva raggiunto il picco massimo perché Sherlock aveva deciso di
confessare i
suoi sentimenti per John. L’aveva fatto a suo modo, quando John in casa
non c’era
per poterlo sentire.
Si era
seduto sulla poltrona e aveva
rivolto lo sguardo verso di lui. Poi aveva detto, tentando di mantenere
ferma e
decisa la voce tremolante che gli era uscita dalle labbra:
“John,
io ti amo. È semplice da dire, no?”,
aveva tentato di convincersi “Domani glielo dirò di certo.”
Il
povero teschio era quasi esploso dalla
rabbia. Sherlock non poteva abbandonarlo così, non dopo tutto il tempo
che
avevano passato assieme. Aveva aspettato il giorno della confessione
con ansia,
ma non era mai arrivato. Probabilmente non perché Sherlock se ne fosse
scordato
o avesse cambiato idea, semplicemente il tempo era mancato.
C’era
un ricordo che aveva soppiantato
quello dell’arrivo di John Watson e della sua presa di posizione
all’interno
del cuore del detective. Era il ricordo del giorno in cui, per la prima
volta,
aveva provato pietà per John.
Era
arrivato a casa trascinando un piede
dietro l’altro, John. Nella mano destra una bottiglia semivuota di
birra e
negli occhi un vuoto senza fine. Erano pozzi di dolore quegli occhi, un
dolore
muto e inesplicabile che consumava tanto l’animo dell’uomo quanto
quello di
coloro che lo osservavano strisciare. Si era accasciato sulla poltrona
e aveva
levato le scarpe, gettando lo sguardo sulla poltrona vuota di fronte a
lui.
“È
morto.”, aveva sussurrato, come per
convincersi che fosse un brutto sogno.
Il
teschio non aveva avuto bisogno di
chiedersi a chi si riferisse. L’assenza era palese: lo stesso
appartamento
sembrava aver perso quel qualcosa che lo manteneva in vita.
Si
sentì triste come non lo era mai stato
in tutta la sua esistenza: Sherlock Holmes era morto e lui aveva perso
il suo
unico amico. Ma quello che lo sconvolse maggiormente fu vedere il suo
tanto
odiato rivale cadere in uno stato catatonico: non sembrava neanche che
vivesse.
E
allora capì che lui aveva sbagliato
tutto, che non poteva odiare quell’uomo. Quel John Watson, se avesse
potuto,
avrebbe dato la sua stessa vita per riportare nel mondo dei vivi il
detective.
Era un amore troppo profondo e troppo complicato perché lui vi si fosse
potuto
opporre.
Giorno
dopo giorno, lo ricordava bene, lo
aveva visto cadere sempre più in basso, finché in quell’uomo non era
quasi più
riuscito a riconoscere il John Watson degli inizi, quello coraggioso e
leale
che aveva fatto innamorare Sherlock Holmes.
Un
giorno – ed era un altro di quei
ricordi che considerava cari – Sherlock era riapparso nella vita del
221B Baker
Street. Come John, inizialmente, non lo aveva accettato.
Poi il
tempo era passato e John e
Sherlock si erano riavvicinati. E la gelosia che era scomparsa negli
anni
precedenti era tornata a farsi sentire con violente prepotenza. Perché,
si
chiedeva, Sherlock non si era dimenticato di John? Perché, invece, si
era
dimenticato di lui? Non c’era stato neanche un saluto, un sorriso, un
tocco.
Dopo tutto quel tempo lui, il teschio, ormai aveva perso la sua
importanza. Era
diventato quello che era destino che diventasse: un oggetto inanimato.
Come la
poltrona. O come la tazzina. O come il frigorifero. O come il comodino.
O come
la doccia.
E,
infine, si rese conto che anche essere
geloso non aveva più senso. Come poteva averlo? Bastava guardarli, un
paio di
mesi dopo il ritorno di Sherlock, muoversi all’unisono, ridere,
scherzare.
Persino abbracciarsi. E baciarsi. Guardandoli così dalle sue orbite
vuote, capì
infine che non poteva competere. Non avrebbe mai potuto competere con
John.
E così
arrivò il suo ultimo ricordo,
quello definitivo.
Dopo
un’intera notte passata a pensare,
aveva preso la sua decisione: non si poteva essere gelosi quando
l’unico amico
che si avesse mai avuto era talmente felice che si era addirittura
messo a
fischiettare nei momenti morti della giornata. Una felicità così grande
non
poteva essere rovinata. E Sherlock, quella felicità, la meritava tutta.
Così
decise di fargli il suo personale augurio per una vita felice e si
lasciò
cadere a terra. Tanto di lui non c’era più bisogno. John Watson – e lo
aveva
ormai compreso appieno – era la persona di cui Sherlock aveva bisogno,
non un
polveroso vecchio, inutile teschio.
Fu
il
momento giusto per cadere. Da quell'angolazione poté godersi la scena
alla
perfezione. Sherlock era di fronte a lui che giocherellava con una
strana
scatoletta vellutata. Appena John varcò la porta e mosse i primi passi
nell’appartamento,
il detective gli s’inginocchio davanti.
“John?”
“Sì?”
“John
Hamish
Watson, vuoi farmi
l'onore di diventare
mio marito?”
“Oh,
Dio,
si!”
E il
teschio, frantumandosi in mille
pezzetti, seppe di aver preso la decisione migliore della sua breve, ma
intensa, esistenza.
John,
mesi dopo, giurò di aver visto un
sorriso su quel teschio un secondo prima che cadesse al suolo. Sherlock
lo
prese in giro, dicendo che era scientificamente impossibile. Quella fu
la prima
volta che Sherlock si sbagliò.