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Autore: Leoithne    03/11/2014    5 recensioni
Esistono storie che non avete mai sentito raccontare, perché mai uscite da labbra umane. Gli oggetti, i mobili, persino le pareti hanno tantissime cose da narrare. Dietro al loro apparente e freddo silenzio nascondono pensieri e ricordi, un muto libro di memorie, stralci di una meravigliosa vita vissuta. Soprattutto quelli del 221B di Baker Street.
Genere: Comico, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Ed ecco qui l'ultimo capitolo. Sì, lo so, ci ho messo un altro paio di secoli a scriverlo, ma sono state settimane di scrittura altalenante in cui, da una parte c'erano i miei impegni quotidiani, dall'altra altre due fanfic che hanno disperatamente richiamato la mia attenzione. E questa povera creatura è stata un pochettino relegata in disparte. Scusatemi, scusatemi, scusatemi! Spero tanto che il finale di questa storia folle valga come scusa calorosa.

Ringrazio tutte le persone che hanno seguito i mobili attraverso i loro ricordi al 221B Baker Street, tutte quelle che hanno lasciato un commento, che hanno apprezzato questa follia! Grazie a voi e alla vostra pazienza!

E grazie ad Ida (ovviamente) perché, nel frattempo, si è subita altrettante follie su altrettante trame di fanfic, Ida che mi ha incitato e sostenuto in questo percorso, Ida che, principalmente, è stata l'ispiratrice di tutto cio!

Tra i mobili presenti al 221B di Baker Street, tra il divano, le sedie, i tavoli e le poltrone, c’è un oggetto che non ci si aspetta. Qualcosa che, al primo impatto, disturba il possibile visitatore, lasciandolo o a bocca aperta o sconvolto. Ma quell’oggetto, forse, è il più caratteristico di Baker Street, quello che rende quell’appartamento diverso da ogni altro appartamento.

È un teschio.

Certo, lui non si era mai considerato al pari di tutte le altre cianfrusaglie che occupavano ogni centimetro quadrato dell’abitazione, perché lui, a differenza degli altri, un tempo era stato importante: era stato un uomo. Sì, proprio di quelli che camminano su due gambe e sono in grado di pensare. Questa sua caratteristica intrinseca lo aveva reso soggetto della malcelata invidia di molti pezzi dell’arredamento e lui ne aveva sempre tratto vantaggio, comportandosi un po’ da snob, raccontando le sue avventure passate, di quando girava per le vie di Londra. Peccato che, in realtà, della sua vita da umano non ricordasse proprio niente e che tutte le sue storielle che generavano tanta invidia fossero solo pure invenzioni. Perlomeno era un bravo narratore: nessuno lo aveva mai sospettato.

Invece, come tutti gli altri mobili, aveva chiari ricordi della sua permanenza al 221B Baker Street.

Ricordava, innanzitutto, come ci era arrivato. Un giorno era stato estratto da un luogo buio ed era stato riposto in uno strano liquido per un tempo che gli era parso eterno, in cui in molti, di tanto in tanto, lo avevano maneggiato con un certo disgusto. Poi, improvvisamente, un uomo con dei guanti di lattice azzurrognoli lo aveva estratto da quel contenitore e lo aveva guardato dritto nelle sue orbite vuote.

“Sarà una bella aggiunta nel mio nuovo appartamento.”, aveva esclamato.

“Non è un po’ macabro?”, aveva replicato un’altra voce dall’angolo della stanza.

“Al contrario. Darà un tocco di calore. Lo metterò sul caminetto.”

Lui, il teschio, che non era abituato ad un simile interesse nei suoi confronti, si sentì arrossire a quelle parole tanto gentili. Se avesse potuto, lo avrebbe fatto sul serio. Ma gli mancavano quei due o tremila vasi sanguigni per poterlo fare appropriatamente.

L’uomo – capelli neri ricci, occhi azzurri – gli accennò persino un sorriso mentre, con delicatezza estrema, lo riponeva infine sulla mensola del caminetto.

Era stato un evento talmente inaspettato, talmente piacevole che anni dopo era ancora il suo ricordo preferito.

A quel primo ricordo ne erano seguiti altri che custodiva gelosamente nel suo animo (se avesse o meno un animo, in realtà, non lo sapeva, ma a lui piaceva pensarla così).

Si rammentava con estrema chiarezza, per esempio, della prima volta che Sherlock lo aveva reso partecipe delle sue deduzioni. Delle sue meravigliose deduzioni.

Era successo una mattina di inizio ottobre ed era cominciato con il detective che camminava nervosamente avanti e indietro per la stanza, mormorando frasi sconnesse.

“Se la stanza aveva i muri rossi…no, sbagliato. Concentrati, Sherlock. Se la stanza non aveva i muri rossi…ma poi perché avrebbe dovuto ridipingerli? Tutto ciò non ha senso!”, aveva sbraitato.

Allora, con una certa violenza lo aveva afferrato e lo aveva fissato intensamente. Lui si era un po’ risentito di quel contatto così indelicato, ma si era subito dovuto ricredere quando, con suo immenso stupore, Sherlock aveva cominciato a sciorinare tutto quello che sapeva su un certo ‘caso’.

“L’omicidio è avvenuto tra le ventitré e le ventitré e trenta di sabato notte. La stanza era chiusa dall’esterno, ma solo il proprietario possedeva la chiave e la aveva con sé nella tasca superiore della giacca che ancora indossava. Si potrebbe sospettare una qualche relazione con una persona a cui, la vittima, avrebbe potuto dare una copia delle chiavi. I muri sono stati ridipinti il giorno prima dell’omicidio. Ma perché? Perché è importante?”

Poi gli occhi del detective si erano illuminati all’improvvisa realizzazione.

“Ma certo!”, aveva esclamato “È stato lo zio!”

Il teschio, onestamente, non aveva capito nulla di cosa fosse successo. L’unica cosa che aveva reso memorabile quell’incontro era stato il bacio – sì, proprio il bacio – che Sherlock aveva schioccato sulla sua fronte in segno di riconoscenza. Come se lui avesse davvero svolto un lavoro importantissimo, come se, improvvisamente, fosse diventato la risposta a tutte le domande del cosmo. Si era sentito lusingato come non mai. Gli altri mobili lo avevano invidiato per un mese intero.

E ricordava bene anche quanta invidia avesse suscitato quando, il giorno seguente, Sherlock lo aveva portato fuori a cena. No, non stava scherzando. Il detective lo aveva sollevato dalla mensola e se lo era portato dietro al ristorante. A dir la verità era stata una situazione a dir poco imbarazzante: l’intera clientela del ristorante non gli aveva tolto gli occhi di dosso neanche per un secondo, ma Sherlock sembrava non badarci più di tanto.

Insomma, sta di fatto che deduzione dopo deduzione, cena al ristorante dopo cena al ristorante, il teschio si ritrovò con la strana sensazione che lui provasse qualcosa per quell’uomo. Se avesse avuto un cuore come quello che, forse, aveva posseduto un tempo, probabilmente avrebbe potuto dedurre che si trattava di amore. Il punto era che quel cuore non lo aveva più e, perciò, si contentava di quella leggera sensazione di vertigine che lo stare con Sherlock gli dava.

Poi era avvenuta la tragedia.

Se lo ricordava talmente nel dettaglio che, se qualcuno gli avesse mai chiesto di ripetere esattamente cosa fosse successo quel giorno, lui avrebbe potuto farlo senza problemi.

La tragedia era iniziata con un uomo che arrancava su un bastone metallico e che aveva zoppicato i suoi primi passi nell’appartamento, seguendo uno stranamente eccitato Sherlock. Non che vedere Sherlock eccitato fosse di per sé strano, questo lo sapeva bene. Gli omicidi, i misteri, gli indovinelli: tutto questo lo esaltava. Ma allegro per l’arrivo di una persona in casa sua? Quella era una sorpresa inaspettata.

“È un teschio.”, aveva detto l’uomo, indicandolo col bastone metallico.

“È un mio amico.”, aveva ribattuto Sherlock.

Il teschio, ovviamente, si era sentito al settimo cielo per quell’affermazione, ma il detective aveva aggiunto:

“E con un amico intendo…”

La cosa lo aveva ferito. Aveva sentito chiaramente i suoi occipiti e l’osso parietale scricchiolare per la rabbia, la mandibola contrarsi leggermente. Perché aveva dovuto sottolineare quell’informazione? Poi aveva capito.

La colpa era dell’uomo – un certo antipatico John Watson – che, improvvisamente, aveva occupato tutta la sfera di attenzione del detective.

Non era un mistero che considerasse l’opinione di quell’uomo fosse diventata subito più importante della sua. Non era neanche un mistero che Sherlock, per la prima volta dal giorno in cui l’aveva incontrato, tentasse di fare di tutto per rendergli la permanenza a Baker Street piacevole.

Per esempio – e anche in questo caso il ricordo era vivido – aveva cominciato a dormire e a mangiare con regolarità, chiedeva scusa quando faceva qualcosa di sbagliato, si metteva a suonare il violino non per aiutare il suo cervello a lavorare meglio, ma perché John Watson lo trovava rilassante.

E questo lui, il precedente centro di tutto l’interesse di Sherlock Holmes, non poteva sopportarlo. Aveva cominciato ad odiare John con tutte le sue forze. Anche perché, onestamente parlando, aveva notato che l’interesse non era a senso unico: John Watson era certamente tanto interessato a Sherlock quanto il detective era interessato a lui.

In poche parole: era geloso.

La gelosia era aumentata man mano che il tempo trascorreva, man mano che quei due, sebbene piuttosto ottusi riguardo i sentimenti che provavano l’uno per l’altro, si avvicinavano sempre di più. Un tocco involontario qui, una pacca sulla spalla là; un indugiare di dita su dita quando si passavano le tazze per il tè qui, un sorriso aperto e sincero là. Una tortura per il teschio che, purtroppo, non aveva mezzi per combattere contro John Watson.

Si ricordava bene anche quando la sua gelosia aveva raggiunto il picco massimo perché Sherlock aveva deciso di confessare i suoi sentimenti per John. L’aveva fatto a suo modo, quando John in casa non c’era per poterlo sentire.

Si era seduto sulla poltrona e aveva rivolto lo sguardo verso di lui. Poi aveva detto, tentando di mantenere ferma e decisa la voce tremolante che gli era uscita dalle labbra:

“John, io ti amo. È semplice da dire, no?”, aveva tentato di convincersi “Domani glielo dirò di certo.”

Il povero teschio era quasi esploso dalla rabbia. Sherlock non poteva abbandonarlo così, non dopo tutto il tempo che avevano passato assieme. Aveva aspettato il giorno della confessione con ansia, ma non era mai arrivato. Probabilmente non perché Sherlock se ne fosse scordato o avesse cambiato idea, semplicemente il tempo era mancato.

C’era un ricordo che aveva soppiantato quello dell’arrivo di John Watson e della sua presa di posizione all’interno del cuore del detective. Era il ricordo del giorno in cui, per la prima volta, aveva provato pietà per John.

Era arrivato a casa trascinando un piede dietro l’altro, John. Nella mano destra una bottiglia semivuota di birra e negli occhi un vuoto senza fine. Erano pozzi di dolore quegli occhi, un dolore muto e inesplicabile che consumava tanto l’animo dell’uomo quanto quello di coloro che lo osservavano strisciare. Si era accasciato sulla poltrona e aveva levato le scarpe, gettando lo sguardo sulla poltrona vuota di fronte a lui.

“È morto.”, aveva sussurrato, come per convincersi che fosse un brutto sogno.

Il teschio non aveva avuto bisogno di chiedersi a chi si riferisse. L’assenza era palese: lo stesso appartamento sembrava aver perso quel qualcosa che lo manteneva in vita.

Si sentì triste come non lo era mai stato in tutta la sua esistenza: Sherlock Holmes era morto e lui aveva perso il suo unico amico. Ma quello che lo sconvolse maggiormente fu vedere il suo tanto odiato rivale cadere in uno stato catatonico: non sembrava neanche che vivesse.

E allora capì che lui aveva sbagliato tutto, che non poteva odiare quell’uomo. Quel John Watson, se avesse potuto, avrebbe dato la sua stessa vita per riportare nel mondo dei vivi il detective. Era un amore troppo profondo e troppo complicato perché lui vi si fosse potuto opporre.

Giorno dopo giorno, lo ricordava bene, lo aveva visto cadere sempre più in basso, finché in quell’uomo non era quasi più riuscito a riconoscere il John Watson degli inizi, quello coraggioso e leale che aveva fatto innamorare Sherlock Holmes.

Un giorno – ed era un altro di quei ricordi che considerava cari – Sherlock era riapparso nella vita del 221B Baker Street. Come John, inizialmente, non lo aveva accettato.

Poi il tempo era passato e John e Sherlock si erano riavvicinati. E la gelosia che era scomparsa negli anni precedenti era tornata a farsi sentire con violente prepotenza. Perché, si chiedeva, Sherlock non si era dimenticato di John? Perché, invece, si era dimenticato di lui? Non c’era stato neanche un saluto, un sorriso, un tocco. Dopo tutto quel tempo lui, il teschio, ormai aveva perso la sua importanza. Era diventato quello che era destino che diventasse: un oggetto inanimato. Come la poltrona. O come la tazzina. O come il frigorifero. O come il comodino. O come la doccia.

E, infine, si rese conto che anche essere geloso non aveva più senso. Come poteva averlo? Bastava guardarli, un paio di mesi dopo il ritorno di Sherlock, muoversi all’unisono, ridere, scherzare. Persino abbracciarsi. E baciarsi. Guardandoli così dalle sue orbite vuote, capì infine che non poteva competere. Non avrebbe mai potuto competere con John.

E così arrivò il suo ultimo ricordo, quello definitivo.

Dopo un’intera notte passata a pensare, aveva preso la sua decisione: non si poteva essere gelosi quando l’unico amico che si avesse mai avuto era talmente felice che si era addirittura messo a fischiettare nei momenti morti della giornata. Una felicità così grande non poteva essere rovinata. E Sherlock, quella felicità, la meritava tutta. Così decise di fargli il suo personale augurio per una vita felice e si lasciò cadere a terra. Tanto di lui non c’era più bisogno. John Watson – e lo aveva ormai compreso appieno – era la persona di cui Sherlock aveva bisogno, non un polveroso vecchio, inutile teschio.

Fu il momento giusto per cadere. Da quell'angolazione poté godersi la scena alla perfezione. Sherlock era di fronte a lui che giocherellava con una strana scatoletta vellutata. Appena John varcò la porta e mosse i primi passi nell’appartamento, il detective gli s’inginocchio davanti.

“John?”

“Sì?”

“John Hamish Watson,  vuoi farmi l'onore di diventare mio marito?”

“Oh, Dio, si!”

E il teschio, frantumandosi in mille pezzetti, seppe di aver preso la decisione migliore della sua breve, ma intensa, esistenza.

John, mesi dopo, giurò di aver visto un sorriso su quel teschio un secondo prima che cadesse al suolo. Sherlock lo prese in giro, dicendo che era scientificamente impossibile. Quella fu la prima volta che Sherlock si sbagliò.   

  
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