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Autore: Nykyo    06/11/2014    3 recensioni
Talia e il piccolo Derek si godono il fresco sotto l’ombra di un ancora foltissimo Nemeton, in un placido pomeriggio primaverile, quando uno Stiles adulto, zuppo come un pulcino e parecchio spaesato, sbuca all’improvviso dal nulla. Derek gli gattona incontro, evitandogli di finire immediatamente sbranato, ma Talia, una volta rinfoderati zanne e artigli, ha comunque da porgli parecchie domande. La prima delle quali è senz’altro: perché Stiles odora come se un Derek ormai adulto passasse il tempo a rotolarglisi addosso?
Genere: Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Derek Hale, Stiles Stilinski, Talia Hale
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'odore della luna.'
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They'll never see
I'll never be
I'll struggle on and on to feed this hunger
Burning deep inside of me
 
But through my tears breaks a blinding light
Birthing a dawn to this endless night
Arms outstretched, awaiting me
An open embrace upon a bleeding tree
 
Rest in me and I'll comfort you
I have lived and I died for you
Abide in me and I vow to you
I will never forsake you
(Lies – Evanescence)
 
«Bugiardo.» Derek colpì il volante con il palmo di una mano. La plastica vibrò e poi scricchiolò in maniera sinistra quando le sue dita la strinsero con troppa forza.
«Derek…» Perfino la voce di Stiles aveva un che di malato. Se la nausea avesse posseduto corde vocali, di sicuro, avrebbe usato quel tono.
Derek ricacciò in gola un ringhio ben poco animalesco. In quel momento si sentiva molto più umano che licantropo. Un umano esasperato e furibondo, prima di tutto contro se stesso, anche se in apparenza se la stava prendendo solo con Stiles.
Non sapeva nemmeno cosa rispondergli. Stiles era un tale incosciente. Riempiva sempre tutti, lui compreso, di una marea di balle assurde e a volte Derek aveva ancora una voglia immensa di ammazzarlo. Era un miracolo che, nel picchiare contro il volante, con l’altra mano non avesse afferrato Stiles per la nuca per poi spaccare quella sua maledetta testa dura contro il cruscotto. Se Stiles non fosse stato così pallido, e se l’odore del suo malessere non fosse stato così forte, forse Derek l’avrebbe fatto davvero.
Sul serio non sapeva dire con chi era più incazzato, se con se stesso per non essersi accorto di nulla fino a quella mattina, o con Stiles per avergli nascosto di essere ammalato e per chissà quanto tempo.
Derek non capiva. Non riusciva proprio a comprendere come mai non si era accorto subito di cosa stava capitando. I suoi sensi, specialmente l’olfatto, avrebbero dovuto percepire il malessere di Stiles. Lui era sempre stato particolarmente sensibile all’odore di Stiles, e a tutte le sue variazioni, perché non si era reso conto di niente? Perché il suo fiuto non lo aveva avvisato?
Si voltò per fissare Stiles negli occhi, senza far nulla per nascondere tutto l’astio che gli stava ribollendo dentro, e lo vide provare a sorridere. Fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso. Derek dovette mollare la presa sul volante, altrimenti avrebbe finito per sbriciolarlo.
«Tecnicamente non ho detto una bugia. Ho solo omesso un paio di dettagli delle mie giornate nelle ultime, beh, tre settimane.»
La sensazione di essere stato appena colpito si fece sentire anche più forte di prima e, questa volta, Derek ringhiò eccome. «Tre… Stiles, tre settimane? Sono tre settimane che ti riduci in quel modo e che fai finta di nulla? Stamattina riuscivi a malapena a respirare. Non riesco a credere…»
Stiles tentò un altro accenno di sorriso, anche se aveva la fronte imperlata di sudore ed era bianco come un blocco di gesso. «Quello era il panico.»
Per quanto si stesse ostinando a cercare di rassicurarlo a Derek veniva solo più voglia di spaccare qualcosa, compresi i suoi stessi pugni sul naso o sul mento di Stiles. Eppure rimase inebetito ad ascoltarlo tirare fuori le sue stronzate e a guardarlo impuntarsi in una spiegazione che arrivava tardi e che non serviva a nulla.
Qualunque cosa Stiles potesse dire non cambiava il fatto che più o meno un’ora prima Derek si era svegliato con la sensazione di avere mal di testa. Non come se fosse stato appena colpito o ferito, semmai un tipo di sofferenza molto ordinaria ma costante che nessun licantropo poteva sperimentare. Derek ci aveva messo un lunghissimo istante prima di capire che dipendeva dall’odore di Stiles. Il letto, no, l’intero loft, ne era stato impregnato e si era trattato di un odore diverso dal solito, come se a sporcarlo ci fosse stata una vena di dolore tanto pressante da renderlo irrespirabile.
Oltre al dolore Derek aveva avvertito qualcos’altro. Come un sentore di buio e di marcio, di terra contaminata da radici che stavano morendo. Anche ora che si era un po’ attenuato, Derek lo sentiva comunque. Era l’odore di Stiles e nello stesso tempo non lo era affatto. Su Derek aveva uno strano effetto che non poteva non dipendere dal suo essere un lupo mannaro. Lo faceva sentire come sul punto di stare male a sua volta, proprio come stava male Stiles, che continuasse a fingere o meno.
«Eri svenuto!» Derek finì con il ruggirlo. La collera non voleva saperne di lasciarlo andare. Gli artigliava lo stomaco e gli arrochiva la voce. «Non riuscivo a svegliarti. E dopo… Cazzo, Stiles, non respiravi, stavi tremando come una foglia. Tre settimane! Cristo. Tu sei un bugiardo e io sono un idiota, come ho fatto a non fiutarlo? Avrei dovuto capirlo dalle occhiaie. Se non mi fossi svegliato in tempo, tu…»
Di colpo la sua veemenza si spense del tutto, infranta contro il muro scabro e invalicabile della paura per quello che avrebbe potuto succedere. Derek poteva immaginarselo fin troppo bene e il solo pensiero gli scavava un enorme buco nel petto.
Non si era mai arreso, si era sempre sforzato di rialzarsi ogni volta in cui gli era stato strappato qualcuno a cui teneva, ma nessuno dei suoi sforzi, alla lunga, sembrava mai sufficiente. Era sul serio vittima di una specie di maledizione? Quello era il modo in cui l’universo gli faceva scontare una qualche condanna per tutti i suoi errori? Siccome Stiles gli apparteneva era destinato a soffrire o peggio ancora?
Derek diede un altro pugno al volante. Era avvelenato dalla collera e, nello stesso tempo, iniziava ad avvertire dentro di sé il dilagare di un orribile senso di fatalità. Odiava quel tipo di emozione. Lo rendeva inerme e disperato, era da vigliacchi, significava arrendersi e lui non poteva permetterselo perché in gioco c’era la salute di Stiles. Solo che non riusciva a parlare. Tutte le invettive e le recriminazioni che gli si erano formate nella mente gli si erano bloccate in gola e rischiavano di soffocarlo. Era quello il fottuto panico di cui Stiles stava blaterando, no? Perfetto, così potevano farsi venire una crisi insieme.
Tutta colpa dell’odore. Se non fosse stato così sbagliato, perfino in quel momento, Derek avrebbe potuto affrontare la faccenda con calma, rivelazioni improvvise e bugie comprese. Invece il suo olfatto gli stava gridando di preoccuparsi, che non c’era nulla di normale in quella situazione, che Stiles odorava come una pianta lasciata a morire al buio, senza più né luce, né acqua, né nutrimento. E Stiles non era un dannato fiore dimenticato ad appassire in un vaso, era una persona, un essere umano, quello a cui Derek, anche se non l’avrebbe mai detto a voce alta, pensava come al suo umano, la sua persona, il suo compagno. E viceversa. Soprattutto viceversa.
Stiles poteva non essere il primo amore della sua vita, ma non solo si era rivelato il più giusto, era il solo a cui lui  avrebbe potuto concedere tutto e sacrificare tutto, anche se Stiles non gli avrebbe mai chiesto di farlo.
Di norma ciò che il suo fiuto gli aveva sempre detto, che Derek fosse disposto ad ascoltare o che si rifiutasse di crederci, era che lui apparteneva a Stiles in un modo che non aveva nulla a che fare con il mero possesso o con il concetto di predestinazione. E ora i suoi sensi lo tradivano e lo confondevano. Stiles era ammalato, da quasi un mese, e lui non l’aveva percepito. Lo avvertiva solo adesso, in una maniera sconcertante, che Derek  non sapeva spiegarsi e che nella sua stranezza lo spaventava da morire.
Proprio come la sua voce aveva faticato a raggiungere Stiles durante la brutta crisi di un’ora prima, il tocco delle dita che gli stavano sfiorando una spalla ci mise parecchio prima di riuscire a stanarlo dal pozzo di brutti pensieri in cui Derek si era cacciato.
«Derek. Guardami. Il grosso di quello che hai visto era davvero panico, te lo giuro. Non stavo morendo. Ok?» Stiles era ancora troppo pallido per risultare convincente, però non sembrava intenzionato a perdersi d’animo. «Ho avuto paura. Era da tanto che non mi svegliavo così… ho avuto paura, era più che altro panico.»
«Bugiardo.» Nella mente di Derek quelle tre sillabe continuavano a ripetersi più o meno allo stesso ritmo dei battiti agitati del cuore. Forse si sbagliava, se non altro in parte, magari almeno i sintomi più allarmanti del malessere di Stiles erano sul serio dovuti a una crisi d’ansia. Era possibile, però era una magra consolazione. «E saperlo dovrebbe rassicurarmi?» Derek diede voce ai propri pensieri senza nemmeno accorgersene. «Sei stato male al punto di terrorizzarti tu per primo. Ottimo, ora sì che mi sento sollevato.»
Chiuse gli occhi, strizzò le palpebre fino a vedere tutto rosso e si massaggiò la fronte senza trarne il minimo giovamento. Sentiva su di sé lo sguardo di Stiles che lo stava sicuramente fissando con quell’espressione ridicola, come se fosse lui quello per cui c’era da preoccuparsi.
Le successive parole di Stiles confermarono quell’impressione. «Lo so a cosa stai pensando, Derek, sai? A parte che al fatto che se io fossi morto tu mi avresti resuscitato solo per potermi riuccidere, ovviamente. No, ok, ok, sul serio…» Derek non aveva avuto bisogno di ringhiare di nuovo per convincerlo a cambiare tono e a smetterla con l’ironia fuori luogo. «Ok, ho capito, non è il momento, è solo che so a cosa stai pensando e non mi piace. Non è colpa tua, in nessun modo tra i mille, uno più stupido e contorto dell’altro, che di sicuro ti sono venuti in mente. Lo so che pensi che avresti dovuto almeno accorgertene, ma non credo proprio che tu possa prenderti la responsabilità di una cosa del genere.»
Derek prese fiato, i pugni ancora una volta chiusi sul volante. Batté con la nuca contro il poggiatesta e scosse il capo. «È soprannaturale, Stiles. Avrei dovuto percepirlo fin dal primo giorno. Perché non me l’hai detto?»
Di punto in bianco Stiles sembrò aver deciso di passare dalle omissioni alla sincerità brutale.  «Perché prima volevo capire cosa mi stava succedendo e nel frattempo non volevo vederti così» rispose sollevando entrambe le mani in un gesto più che eloquente. «La prima volta che mi è successo, mi capita quasi sempre di notte, non era così forte. Tu non ti sei svegliato, l’indomani non avevi idea di cosa era successo, non hai detto nulla, e ho capito che non lo avvertivi, che non potevi leggermelo in faccia oppure fiutarlo, così ho deciso che non volevo dirtelo prima di poterti spiegare anche di cosa si trattava. Prima volevo poterti guardare in faccia e prometterti che sarebbe andato tutto bene. Così mi sono fatto visitare da un medico, ma non ho nulla che… beh, è come immagini, insomma, nulla che un dottore normale riesca a diagnosticare. Avrei tanto voluto pensare che era solo questione di fare esami più dettagliati e magari più costosi, ma me lo sentivo, fin dal primo momento, me lo sentivo nelle ossa e questo…» Stiles fece una brevissima pausa, lo sguardo rivolto verso la clinica veterinaria, fuori dai finestrini della Toyota, «questo è il motivo per cui non te l’ho detto e per cui non sono venuto da Deaton prima che mi ci trascinassi tu: perché non so cosa diavolo mi succede, ma so che non è una comune malattia da umani e ho paura e non posso fare nulla per rassicurare né me stesso né te, e non mi piace, sono umano, solo umano, non mi piace che al mio corpo succedano stronzate soprannaturali, non mi piace l’idea di cosa potrebbe significare e, no, non sto parlando del pensiero di avere un qualche accidenti magico che mi ammazzerà come farebbe un cancro, o non solo di quello… è che, se questa cosa dovesse cambiarmi, oppure… Lo vedi? Non so cos’è, e sragiono e tu eri così calmo, ti guardavo e pensavo “forse sto esagerando”, pensavo “passerà” e “se fosse davvero grave, Derek lo sentirebbe” e ora non so più cosa pensare, davvero, ma non è colpa tua, Derek, ok? Non ti azzardare a nemmeno a pensarlo e non ti azzardare a darmi per perso, non osare. Incazzati con me quanto ti pare, però smettila di guardarmi in quel modo. Dacci un taglio, ok? Ti odio quando lo fai, mi fai sentire inutile e senza speranze. Mi sembra di essere già spacciato.»
Adesso anche a Derek sembrava di non avere più aria nei polmoni.
«Tre settimane.» Si rendeva conto di assomigliare a un disco rotto. La sola idea di Stiles che sopportava in silenzio, che fingeva di stare bene, che si macerava in chissà quali timori senza dire niente, notte dopo notte, mentre lui dormiva ignaro e tranquillo come uno stupido, lo faceva sentire ancora più inutile. Avrebbe voluto trovare parole per scusarsi di essere stato così ottuso e così poco percettivo. Una parte del suo cuore lo esortava a lasciar perdere tutto il resto e a stringere Stiles nel più protettivo degli abbracci. Avvertiva un bisogno addirittura fisico di baciarlo e di ritrovare intatto il sapore della sua bocca, malgrado il dolore e la nausea.  Se solo fosse stato vero gli avrebbe assicurato: «Andrà tutto bene, Stiles, te lo prometto». Invece non poteva fare giuramenti, non dipendeva da lui, non quando il problema era tanto più complesso rispetto a un nemico in carne e ossa da combattere.
Derek poteva allungare una mano, stringere il polso di Stiles e portarsi via un po’ di sofferenza, come aveva fatto anche quella mattina, a letto, prima ancora di essersi ripreso completamente dallo shock e dallo spavento. Ma non c’era altro modo in cui fosse in grado di rendersi utile, e lenire uno o più sintomi non bastava per guarire una malattia, soprannaturale o meno che fosse. Non c’era tempo per le rassicurazioni false e alimentate solo da una vaga speranza.
Inoltre il fatto che Stiles gli avesse nascosto ciò che stava passando, che Derek lo volesse o meno, continuava ad accendere in lui piccole scintille roventi di rancore. Quell’astio e la paura di perdere Stiles gli avevano scavato dentro un lungo solco, già fin troppo profondo, proprio come un graffio su un vecchio vinile, netto abbastanza da imprigionare la puntina facendole suonare sempre la stessa strofa. «Tre settimane. Sei un… Devi vedere subito Deaton. Ora. Non voglio sentire nemmeno un’altra mezza cazzata. Dovevi dirmelo. E Scott? No… non voglio saperlo.»
Scese dalla macchina senza aspettare risposta e girò intorno al cofano fino a raggiungere il lato del passeggero. Non guardò in giù, verso Stiles che probabilmente lo fissava con un’espressione ansiosa, si limitò a spalancare lo sportello in modo violento e brusco e a intimare: «Scendi!» Non aggiunse che, in caso di disobbedienza a quel suo ordine perentorio, era pronto a trascinare Stiles di peso fin dentro la clinica veterinaria. Non c’era bisogno di specificarlo. E per fortuna non ci fu bisogno nemmeno di farlo.
Stiles saltò fuori dalla Toyota e si diresse con passo nervoso verso l’ingresso della clinica. Ma prima di entrare si fermò sulla soglia, si voltò verso Derek e gli scoccò una lunghissima occhiata carica di così tanti significati che a lui parve quasi solida, come un tocco incerto in punta di dita, su una guancia e sulle labbra tirate.
Poi Stiles scomparve oltre la porta a vetri e lo stomaco e il cuore di Derek si chiusero in una morsa gelata. La sensazione che Stiles avrebbe potuto svanire sul serio, da un momento all’altro e per sempre, si fece così forte che Derek dovette compiere uno sforzo titanico per non seguirlo correndo trafelato.
Pur sforzandosi di trattenersi, fece praticamente irruzione nel sancta sanctorum di Deaton, raggiungendo Stiles a passo di carica. Lo trovò appoggiato a uno dei mobili in cui una volta lui stesso aveva frugato alla ricerca di un laccio emostatico e di una piccola ma affilatissima sega a motore. Al suo ingresso Stiles decise di contemplarsi le scarpe. A braccia conserte e con l’aria infelice sembrava perfino più umano e più fragile del solito, appariva facile da abbattere, da far sanguinare, da spezzare come un fuscello.
Deaton li osservò entrambi di sottecchi. Stava sistemando garze e strumenti vari più o meno affilati e dall’aspetto sinistro, tutti lucidissimi.
Derek rispose a malapena a un suo vago accenno di saluto e esordì sbraitando: «Stiles sta male. Non è una cosa normale, è soprannaturale, posso fiutarlo. Ha bisogno che lo visiti subito».
Stiles, tanto per cambiare, rimase in silenzio. Deaton annuì, ma anziché affrettarsi finì di arrotolare la garza che aveva in mano con quella che a Derek parve, a torto o a ragione, una lentezza esasperante.
«È urgente.» Derek faticò parecchio a non ruggire ogni singola sillaba. «Poco fa è svenuto e non riuscivo a svegliarlo, non respirava, era…»
Deaton lo interruppe in modo netto, rivolgendosi direttamente a Stiles. «Sei rimasto svenuto a lungo? Hai visto o sentito qualcosa mentre eri incosciente?»
Stiles prese fiato e scosse il capo. «Non… Derek dice che non riprendevo i sensi, ma io non me lo ricordo, non ho idea di quanto sia durato. Non mi pare di aver avuto visioni, allucinazioni o… forse, ecco, sì, forse non appena mi sono risvegliato, ma è stata solo una sensazione come… lo so che suona assurdo, ma come di sete, una sete terribile, però, non so come spiegarlo, non come una sete che avrei potuto far sparire bevendo. Era come se tutto il mio corpo, le mani, le braccia, i piedi, le gambe, la pelle, tutto il mio corpo avesse una sete tremenda. Come se fossi diventato un pezzo di terra secco e arido sotto un sole a picco, una cosa così. Lo so, è folle. Comunque è durato soltanto un istante, me ne ero scordato.»
Derek notò che lo sguardo di Deaton si era fatto più acceso e che era interamente concentrato su Stiles. Garza e strumenti erano stati del tutto dimenticati. Era ciò che aveva desiderato – che tutta l’attenzione si canalizzasse su Stiles – però avrebbe preferito che Deaton tenesse un atteggiamento più “professionale” e distaccato, piuttosto che mostrare quel subitaneo guizzo di interesse e curiosità tanto vivaci. Sembrava quasi affascinato, più che preoccupato.
«Era la prima volta che ti sentivi così? La sensazione di sete, intendo? E il resto?»
Stiles dardeggiò una timida occhiata di sbieco in direzione di Derek prima di rispondere. «Tre settimane. Che sto male, sono tre settimane, circa. La sensazione di avere sete, non mi era mai successo di sperimentarla prima, che io ricordi. Forse… ma no, no, non che io ricordi.»
«Uhm…» Deaton pareva intento a riflettere con attenzione. «È stata la prima volta in cui ti è capitato di svenire?»
Stiles tornò a fissarsi con insistenza la punta un po’ logora delle scarpe da tennis. «Sì… io… questa settimana è la prima volta, sì.»
Se Deaton aveva avuto intenzione di formulare una nuova domanda Derek non gliene diede il tempo. Le parole di Stiles erano state come l’ennesimo pugno nello stomaco.
«Questa settimana?» Suonò come un rantolo. Il tono era tutto sbagliato e doloroso, come se le parole prima di diventare voce si fossero trasformate in spine che gli avevano graffiato la gola. Qualcosa dentro di lui cedette, proprio come avrebbe ceduto una diga: di schianto, causando una violenta alluvione. Con l’unica differenza che a tracimare furono collera, ansia e cose non dette.
Di norma Derek era il classico tipo di persona che veniva definita laconica, e invece, una volta iniziato a recriminare, gli parve di non avere alcun modo di fermarsi. Neanche la consapevolezza che Deaton era presente e che certe faccende non lo interessavano e avrebbero dovuto rimanere tra lui e Stiles riuscirono a frenarlo. Derek sentì di odiare se stesso fin dalla prima sillaba che si lasciò sfuggire, ma non seppe trattenerla, gli pareva di essere sul punto di esplodere. Era così furioso, frustrato e terrorizzato che fu come se si fosse scordato perfino dell’esistenza di Deaton, e come se insieme a quest’ultima, avesse dimenticato l’orgoglio e un certo senso del pudore.
«Stiles. Dio, Stiles, ma ti ascolti quando dici certe cose? Cos’altro hai pensato bene di non raccontarmi? Convulsioni? Delirio? Cosa? Aspettavi di morire per lasciarmi un fottuto biglietto di addio in cui mi spiegavi che non ti ero sembrato abbastanza affidabile da avvisarmi del fatto che stavi crepando, giorno dopo giorno, proprio sotto il mio naso? Tutte le volte in cui non hai dormito da me e ti ho mandato un ridicolissimo sms per augurarti la buonanotte e tu mi hai risposto come se fosse tutto a posto, invece eri sul punto di collassare sul pavimento o peggio ancora? Oltre che essere un bugiardo ti sei anche bevuto il cervello? Svenire di continuo ti è sembrato normale? Stiles! Guardami. Guardami! Io ero lì con te per tutto il tempo. Ogni giorno. Ti ho visto, ti ho toccato, ti ho chiesto com’era andata la giornata, abbiamo… ero lì, Stiles, e non mi sono accorto di niente e tu non hai fatto che sorridere e mentirmi come se fossi un bambino idiota. Come diavolo ho fatto a non vedere come stavano le cose? Sembravi stanco, ok, ma… quando avevi intenzione di dirmelo? Mai? Solo se non trovavi una soluzione per conto tuo? Solamente se invece la trovavi? Quando? L’ho sempre saputo che sei un bugiardo, ma pensavo… cazzo, Stiles non sappiamo cosa ti sta succedendo e tu ti comporti come se non mi riguardasse. Non sei da solo. Se stai bene non sei da solo, se stai male non sei da solo. Perfino se stessi davvero morendo non saresti da solo. Non comportarti come se io non esistessi, come se fossi inutile o come se fossi presente solo quando ti fa comodo. Anche se avrei dovuto accorgermi di cosa stavi passando e invece non ci sono riuscito non puoi volermene fino al punto di tagliarmi fuori. Non ci posso credere, Stiles, non…»
«Idiota!» Lo spintone lo raggiunse prima dell’insulto, ma Derek quasi non lo sentì. Si zittì, mentre Stiles gli allungava un’altra manata e e cominciava a strillare, rosso in viso. «Stupido bisonte complessato, hai ascoltato anche solo mezza parola di quello che ho provato a spiegarti prima nel parcheggio? Non è colpa tua se non hai fiutato la mia malattia con i tuoi preziosi supersensi, non è colpa tua se non ti ho detto nulla e se davvero vuoi aiutarmi devi smetterla di considerarmi già morto. Lo odio, è orribile, è come se non ti fidassi di me.»
Derek rise in maniera così sguaiata che ebbe difficoltà a riconoscere la sua stessa risata. «Fidarmi di te? Sei sempre stato un bugiardo nato e da un mese a questa parte non fai che dirmi una stronzata dietro l’altra, Stiles, stai scherzando, vero?»
«Derek!» Deaton si era avvicinato senza che lui ci facesse caso e ora stava lì, a pochi centimetri da lui e Stiles, con l’atteggiamento di chi è pronto a intervenire al minimo scatto aggressivo, a costo di mettersi in mezzo tra un umano sconvolto e un lupo mannaro furibondo. Forse Derek aveva alzato troppo la voce, di sicuro aveva appena digrignato i denti, ma non aveva avuto intenzione di far del male a Stiles, non era quello il punto.
«Derek, per favore, aspettaci fuori.» Deaton sapeva usare un tono molto perentorio, quando ci si metteva, ma Derek scosse il capo, ben deciso a rimanere dov’era. Nemmeno Deaton, però, pareva intenzionato ad arrendersi. «Vuoi che mi occupi di Stiles e che faccia il possibile per capire cos’ha e per aiutarlo? Allora esci, aspetta fuori. Non sei abbastanza calmo per restare, non mi lasci altra scelta, se resti finirete con il continuare a discutere e io ho bisogno di tranquillità, di farmi rispondere da Stiles senza che nulla lo distragga e di visitarlo senza interruzioni, perciò, te lo chiedo per favore, aspettaci fuori, non costringermi a dirti che qui, adesso, non sei il benvenuto.»
«Bene» fu la sua unica replica, anche se in realtà Derek trovava ingiusto che Deaton lo stesse mettendo alla porta in quel modo. Ma Stiles veniva prima di tutto, e così girò sui tacchi e uscì con lo stesso identico passo bellicoso con cui era entrato.
Se non avesse avuto ancora tanta rabbia in corpo non sarebbe riuscito a tenere le spalle così dritte e il mento così alto, anche se in fondo non gli importava un fico secco dell’orgoglio o di mantenere in piedi una facciata di freddezza impassibile. Non provò a fingere nemmeno per un secondo che non gli interessasse ascoltare ciò che Deaton e Stiles si stavano dicendo, anzi, non appena si fu chiuso alle spalle il portoncino a vetri della clinic, fece ricorso a tutto il potenziale del suo udito. Del resto gli avevano imposto di andarsene, non di astenersi dall’origliare.
Malgrado il fastidio per il modo in cui Deaton l’aveva allontanato, Derek comprendeva i motivi del suo gesto, però aveva un disperato bisogno di sapere cosa stava tormentando Stiles e di sentirsi dire che non era nulla di irrisolvibile.
Proprio per quel motivo era talmente nervoso e teso che, nonostante fosse riuscito subito ad afferrare ciò che Deaton e Stiles si stavano dicendo, cominciò a connettere di nuovo e a comprenderne il significato solo quando ebbe girato l’angolo e si fu fermato sul retro dell’edificio, al riparo da occhi indiscreti.
Anche se non poteva vederlo sentì distintamente Stiles che riassumeva i suoi sintomi. «Mal di testa. Inizia con quello. È come un qualcosa che stringe e stringe finché non mi convinco che mi esploderà il cervello. Non sempre, all’inizio era lieve e non aumentava, ora a volte rimane soprattutto un fastidio, ma quando è forte ci sono momenti in cui mi sembra di avere due spilli conficcati negli occhi e, ah, non riesco nemmeno a immaginare la cosa senza… beh, insomma, fa male, e ho la nausea, quella inizia sempre dopo, non manca mai, comincio a sospettare di essere incinta…»
Derek non riusciva proprio ad ascoltarlo scherzare perfino su quel tipo di cose. Da un lato era consolante che Stiles ci riuscisse, certo, però era sbagliato, fuori luogo. Stiles doveva prendere più sul serio la situazione. Deaton avrebbe dovuto dire qualcosa, sgridarlo, fargli notare che non era il caso di fare dell’ironia sulla propria salute. Invece Deaton taceva, e con le mura della clinica di mezzo Derek non era in grado di comprendere se quel silenzio fosse un buono o un pessimo segno.
Frustrato, diede una manata contro il muro, proprio come poco prima l’aveva data al volante della macchina. Con sua sorpresa la parete resse l’urto molto meglio del previsto. Derek si era aspettato di sentire il rumore dell’intonaco che si incrinava, perché, per quanto lui si stesse controllando il più possibile e non avesse usato tutta la forza del lupo, ci aveva messo abbastanza vigore da causare almeno un minimo danno. Invece sulla superficie liscia davanti a lui non c’era traccia di crepe, nessun segno della foga con cui era stata colpita.
«La cosa peggiore è il senso di oppressione, qui, ecco…» La voce di Stiles lo raggiunse carica di così tanta angoscia che era possibile percepirla perfino nell’intonazione. Derek se ne sentì tramortito. Chiuse gli occhi e li sentì bruciare, mentre Stiles cercava di spiegare cosa intendeva. «Esatto, parte dal centro del petto, sotto lo sterno, no, sopra, come se qualcosa premesse per sfondarlo e poi si allarga e arrivano le fitte. Lo so che non è quello che ti interessa, ma le odio, Dio, quanto le odio. Non sono mai stato pugnalato o colpito con una mannaia o con un’accetta, non ancora, grazie al cielo, eppure sono sicuro che ci si sente così. È orribile, se proprio devo dirlo. Taglia, anche se non ci sono ferite, mi fa quell’impressione. Taglia e brucia e mi costringe a contrarre i muscoli, ma non sempre ci riesco e poi diventa come un peso enorme, intollerabile, che mi schiaccia e non riesco a prendere fiato, non mi fa respirare, mi sembra che i polmoni non si riempiano mai. Davvero uno schifo.»
Questa volta Derek usò entrambe i pugni chiusi. Mentre il dolore arrivava e gli risaliva le braccia come una scarica elettrica, si chiese se Stiles si rendesse conto del fatto che lui stava ascoltando. Quando era stato lui a domandargli cosa avesse e i motivi del suo malore, Stiles era stato decisamente più approssimativo e molto meno in vena di descrizioni vivide e sincere.
Derek sferrò un destro ancora più feroce. Sentì la pelle delle nocche aprirsi e il tepore del sangue che cominciava a colare lungo il dorso della mano. Meglio così. Non poteva trasformarsi e mutare all’aperto e in pieno giorno ed era davvero a un passo dal farlo.
Aveva la netta sensazione di essere piombato dritto in un incubo, ma aveva le sue stesse dita proprio davanti agli occhi e poteva contarle. Cinque, per ogni mano. Quindi non stava affatto sognando. Non si sarebbe svegliato con accanto Stiles che borbottava nel sonno dopo avergli rubato quasi del tutto il piumone.
Nemmeno si accorse di aver picchiato con ancora più violenza contro la parete, sbucciandosi anche i palmi ora di nuovo aperti. In un momento diverso forse avrebbe notato che c’era qualcosa di strano nel modo in cui si stava ferendo mentre il muro resisteva impassibile, a malapena deturpato dal rosso del suo sangue. Derek ci avrebbe riflettuto e, alla fine, sarebbe giunto alla giusta conclusione e avrebbe risolto il mistero, anche se forse non prima di Stiles. Ma ci sarebbe comunque arrivato: sorbo selvatico. O sorbo degli uccellatori, come lo chiamavano nell’antichità. Tutta la struttura portante della clinica veterinaria, in effetti, era costruita con il legno di sorbo e così anche parte degli elementi interni. Derek lo sapeva. Forse Deaton aveva aggiunto della cenere alla vernice o al cemento, chissà. In ogni caso, era proprio al potere respingente del sorbo nei confronti di creature soprannaturali come Derek che Deaton si era riferito con il suo accenno al non essere graditi all’interno dell’ambulatorio. Sì, in un’occasione e con uno stato d’animo differenti Derek l’avrebbe intuito. Al momento non ci pensava.
«Hai mai avuto tremori? Convulsioni? Altre sensazioni particolari come quella che hai chiamato sete?» Deaton parlava con voce piatta e calma. Troppo. Come diavolo ci riusciva? Perché non gli importava niente di niente? Non aveva il tono di uno a cui importasse davvero, e se così era come avrebbe fatto ad aiutarli?
Erano quelli i soli quesiti che Derek riusciva a porsi, mentre si rendeva sempre più conto che l’idea di perdere Stiles lo terrorizzava. Era come se qualcuno gli avesse infilato una mano nella gabbia toracica, avesse afferrato il suo cuore agitato, trattenendolo fermo, bloccandone perfino il battito, fino a provocargli vero e proprio dolore, e poi avesse ruotato bruscamente il polso strappando e lacerando, con cattiveria e con determinazione, ma senza completare l’opera fino in fondo. Derek si sentiva proprio come se un nemico spietato si fosse appena bloccato un secondo prima di strappargli via tutto ciò che lo manteneva integro e in vita e ora gli stesse ridendo in faccia, minaccioso, solo per fargli capire che, volendo, sarebbe bastato un niente per lasciarlo vuoto e inerme.
Era già così: vulnerabile come non avrebbe più creduto possibile. Realizzarlo non era meno spaventoso di tutto il resto, però Derek non poteva negarlo. Stiles era diventato davvero così fondamentale.
Stiles. Dio, Stiles! Quanto doveva essere stato terrificante per Stiles soffrire in quel modo e sentirsi soffocare fino a perdere i sensi, o rendersi conto che in ciò che stava passando c’era una componente soprannaturale e non sapere perché, o a causa di chi o di che cosa stava tanto male. E mentre accadeva Derek non aveva detto una sola parola per confortarlo, non si era accorto di nulla, non l’aveva né soccorso né aiutato.
«…e la nausea, ovvio, a parte questo, e l’insonnia, no, no, è tutto.» Alle orecchie di Derek arrivarono solo le ultime parole di una frase che evidentemente era stata molto più lunga.
«Calmati!» si impose, provando a rallentare se non il battito cardiaco almeno il ritmo dei respiri. Si morse un labbro, cercando di concentrarsi di nuovo su ciò che accadeva all’interno, nell’ambulatorio, e nel farlo sentì i canini premere oltre il labbro, lunghi in maniera innaturale per un umano. Strinse più forte e diede un altro paio di pugni alla cieca, per provare abbastanza dolore fisico da tornare in pieno controllo e ricacciare indietro il suo lato animale.
Ci riuscì giusto per il tempo necessario a contare fino a cinque, ma non appena riaprì gli occhi sentì di nuovo la voce di Stiles. «Scordavo il freddo. Non so come ho fatto a dimenticarmi del freddo perché è, scusa il gioco di parole, parecchio agghiacciante. In realtà freddo non rende l’idea… è come una specie di sensazione di assenza, no, è come… oh, non ci voglio pensare e non succede sempre e… devo per forza raccontartelo, giusto? È come se una parte del mio corpo svanisse. La vedo, lo so che c’è, potrei toccarla, ma per qualche istante, davvero dura pochissimo per fortuna e non succede sempre, però non riesco a muovermi, ma è diverso da quando ho un attacco di panico, è diverso da tutto. Ho la sensazione di ricordarmi cosa vuole dire avere le braccia, o le dita, ma di non sentirle più, e mi succede solo nella parte superiore del corpo. È raro, per fortuna, e poi passa subito. E quando capita dopo ho freddo anche dentro i muscoli, sotto la pelle, ovunque, almeno per un paio di minuti, poi torna tutto normale. Sempre che in questo casino ci sia qualcosa di normale, e ne dubito, visto che sono seduto sul lettino di un veterinario per farmi visitare manco fossi un labrador con una zampa rotta.»
Derek sentì Deaton rispondergli in modo calmo e pragmatico. «Dovrò prelevare un piccolissimo campione di sangue, appena una goccia, e verificare un paio di cose ma, a giudicare da ciò che mi hai raccontato e da quello che sto vedendo ora, credo di sapere di cosa si tratta. Aspetta qui un momento, devo cercare una cosa.»
Stiles doveva avere annuito in silenzio, e non disse più nulla per almeno un minuto. Derek lo sentì soltanto sospirare e odiò se stesso per avergli urlato contro facendosi sbattere fuori quando invece avrebbe dovuto essere lì con lui per sostenerlo.
Proprio mentre se ne rammaricava, Stiles ricominciò a parlare, a voce così bassa che perfino con il suo udito Derek fece fatica a capire cosa stesse dicendo. Ci mise un lungo istante per rendersi conto che Stiles lo stava chiamando per nome, che sussurrava, sperando di non farsi sentire da Deaton che doveva essere in un’altra stanza.
«Derek? Lo so che mi stai ascoltando. Ci sei? Mi dispiace, Derek, sul serio. Sono un bugiardo, hai ragione, scusa. Lo so che hai sentito tutto, se sei incazzato va bene, se sei spaventato mi dispiace, ho solo tentato in ogni maniera possibile di non farti soffrire. Non voglio avere paura e non voglio che ce l’abbia tu, voglio solo tornare a casa, e che vada tutto bene. Anche se ora vorresti prendermi a pugni, per favore, credi almeno a questo: mi dispiace. Avrei dovuto dirti tutto in un’altra maniera. Volevo solo prendermi cura di te, anche se stavo male, non voglio smettere di prendermi cura di te solo perché il mio corpo ha deciso di beccarsi una malattia soprannaturale… Dio, che cosa ridicola! Miguel, non ti viene da ridere? Ah! Derek, scusami. Mi dispiace, sul serio. Almeno questo è vero.»
Derek digrignò i denti – ora tornati nella forma tipica degli esseri umani – e scosse il capo. Si sentiva così stupido e inutile da aver voglia di urlare. Eppure Stiles aveva bisogno di lui e se non ci fossero state porte aperte da cui passare Derek avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di raggiungerlo, perfino distruggersi le mani e le braccia contro un’idiotissima barriera fatta di mattoni, cemento e cenere di sorbo selvatico. Avrebbe lottato fino ad aprirsi un varco, in un modo o nell’altro. Nonostante ciò, anche se era appena rientrato correndo dalla porta principale, quando vide Stiles seduto in un angolo con il capo chino e il viso tra le mani, ebbe un attimo di esitazione.
«Stiles» disse piano, prima che la gola gli si chiudesse del tutto. E poi Stiles sollevò lo sguardo e, per l’ennesima volta, abbozzò un sorriso. Aveva le labbra che tremavano e gli occhi troppo lucidi e a Derek parve che tutto si fosse appena fermato, congelato, immobilizzato. Ogni cosa: il tempo, il suo cuore, i pensieri, la rabbia cieca che aveva provato fino a pochi istanti prima.
Solo quando le labbra di Stiles si stirarono in una linea ancora vacillante ma chiaramente più serena, il mondo si sbloccò di colpo e Derek capì che arrendersi alla fatalità e al caso non poteva in nessuna maniera essere un’opzione contemplabile. Dovevano trovare una soluzione. L’avrebbero trovata, a qualunque costo. Insieme.
Si ritrovò a giurarlo a Stiles senza nemmeno rendersi conto di cosa stava facendo e, non appena Stiles si alzò in piedi e accennò ad abbracciarlo, lui lo prevenne e lo strinse per primo.
Deaton entrò proprio in quel momento. Teneva in mano un pezzetto di legno intagliato grande come una noce o poco più. Derek ci fece poco caso e non si mosse di un millimetro. Non era un grande amante delle effusioni in pubblico, però era deciso a confortare Stiles e a mostrargli che non l’avrebbe mai lasciato da solo. Se Stiles avesse voluto avrebbe potuto scivolare via, lontano dalle sue braccia, altrimenti sarebbero rimasti così, Deaton o non Deaton.
Stiles scelse di restare dov’era e Derek aspettò per vedere se Deaton avrebbe avuto qualcosa da obiettare alla sua presenza. Era pronto ad assicurargli che si era calmato e che non c’era alcun bisogno di allontanarlo di nuovo. Deaton, però, non fece la minima rimostranza.
«Stiles» esordì mostrando loro quello che sembrava il pendente di un ciondolo. I bordi erano lavorati con un semplice disegno geometrico di minuscole linee simili a onde, il centro era piatto e liscio. «Sai cos’è questo?»
Stiles sembrò riflettere con attenzione. «Un talismano? Qualcosa che dovrebbe proteggermi?»
Deaton sfoderò il sorrisetto che gli illuminava sempre il viso quando una delle sue enigmatiche domande riceveva una risposta intelligente ma non del tutto corretta.
«È un talismano, in un certo senso, sì» ammise. «Mi dirà se ho davvero capito il motivo dei disturbi di cui mi hai parlato. È stato ricavato da uno dei rami del Nemeton, molto tempo fa, quando l’albero era ancora forte e vitale. È lo stesso tipo di legno che per anni ha custodito gli artigli di Talia. È molto prezioso e molto potente.»
Derek si sarebbe forse distratto, almeno per un momento, perso a pensare a sua madre, se non fosse stato per il fatto che, alla menzione della scatola che aveva contenuto gli artigli, Stiles aveva rabbrividito. Non era difficile immaginare il perché: ora quello stesso cilindro era la prigione della Nogitsune che gli aveva quasi distrutto la vita. Per scacciarne il fantasma Derek rese un po’ più salda la sua stretta.
Intanto Deaton, dopo una brevissima pausa a effetto – forse anche lui si era accorto che Stiles aveva bisogno di un attimo per tirare il fiato – aveva ripreso la sua spiegazione. «Mi servirà una goccia del tuo sangue, andrà bene una goccia sola, non sentirai nulla. Dammi una mano, sarà solo una piccola puntura, e poi voglio che tu prema il dito sul legno fino a quando non ti dirò di smettere.»
Mentre Stiles si lasciava pungere un polpastrello e seguiva le istruzioni che gli venivano date, Derek dovette scioglierlo dall’abbraccio, ma non smise nemmeno per un secondo di tenergli una mano appoggiata sulla spalla, per non interrompere del tutto il contatto.
Insieme si chinarono a osservare il talismano che Deaton aveva adagiato su uno dei vassoietti metallici in cui di solito teneva i suoi strumenti operatori. Sotto la luce vivida di un faretto acceso appositamente, Derek vide dapprima una macchiolina indistinta formata da tante minuscole sbavature di sangue, poi, però, nel giro di un battere di ciglia, qualcosa cambiò. Rosso scuro sul marrone intenso del legno liscio e levigato, il sangue si mosse in fretta, come mercurio appena versato fuori da un vecchio termometro, aggregandosi al centro del pendente.
«Cos’è?» chiese Stiles, anticipando la domanda che Derek era stato sul punto di fare. Non si trattava più di una normale macchia di sangue fresco. Assomigliava a un’incisione e aveva una forma distinta, che non poteva essere casuale. Sembrava una grossa “C” o la parte acuta e sporgente di una “K”, solo che, che fosse giusta l’una o l’altra ipotesi, era una lettera rovesciata. Non una “C”, ma il suo contrario esatto.

«Kenaz, la sesta runa.» Deaton aveva l’aria soddisfatta di chi aveva appena ricevuto un’importante conferma e forse anche di chi era stato illuminato da un’intuizione importante. «Proprio come pensavo. È il Nemeton, Stiles. In un certo senso siete legati, la soglia che…»
Derek non fu il solo a rendersi conto di quando le ultime parole avessero terrorizzato Stiles. La sua reazione fu di afferrarlo per la vita e di racchiuderlo di nuovo in una stretta protettiva. Quella di Deaton fu di cambiare approccio.
«Non è come temi, Stiles, non ha importanza che io ti spieghi tutto ora, non ha nulla a che fare con il passato, tranne che per il fatto che tu e il Nemeton siete rimasti legati. È un albero antico e tenace e aveva cominciato a riprendersi, ma non ha trovato abbastanza energia per riuscirci e quindi sta male, e tu avverti il suo malessere come se ne soffrissi tu stesso. Beh, in effetti è esattamente quello che ti succede. Non è una cosa comune, ma con il tuo passato non mi meraviglia più di tanto, anche se non l’avevo previsto. Se curiamo il Nemeton guarirai anche tu e potrai scordarti i mal di testa e tutto il resto. Se riuscissimo a fare rifiorire il Nemeton, io credo che perfino la soglia che ti preoccupa tanto si richiuderebbe una volta per tutte.»
Avendolo così vicino, Derek avvertì il momento esatto in cui Stiles abbandonò il timore dovuto ai pessimi ricordi e ricominciò a credere che ci fosse un modo per guarire. Il naso di Derek percepì quel cambiamento con la massima chiarezza e fu come se la speranza fosse diventata qualcosa che si poteva respirare. Derek ne aveva bisogno, quindi socchiuse gli occhi e se ne riempì i polmoni.
Né Deaton né Stiles gli stavano prestando attenzione. Deaton contemplava ancora il ciondolo. La sua espressione era pensierosa. Di sicuro stava ragionando su come potevano risolvere la situazione e forse stava riflettendo anche sugli specifici motivi che l’avevano causata e che spaventavano tanto Stiles.
Stiles, dal canto suo, stava borbottando tra sé e sé, finché non sbuffò impaziente. «Ok, perfetto, c’è una cura, quindi. Voglio dire, se curiamo l’albero, se lo facciamo germogliare di nuovo, o quel che è, io guarirò, giusto? Il che non significa che devo essere annaffiato e concimato ogni giorno, spero. Non penso che far rinascere un albero sacro dei druidi che è stato tagliato un sacco di anni fa e che ne ha passate fin troppe sia semplicissimo, se lo fosse non starei così male. Però si può fare, no? Ne hai parlato come di una cosa che si può fare. Si può, non è vero? Solo, ti prego, dimmi che per riuscirci non abbiamo bisogno di sacrifici umani o che non dovrò rassegnarmi a sanguinare su un tronco sin quasi a morire dissanguato. Ti prego, Deaton, dimmi che possiamo evitare tutte quelle cose che hanno a che fare con pugnali rituali, garrotte, sgozzamenti e  roba simile.»
Derek storse le labbra in una smorfia e scacciò con decisione il pensiero di Jennifer. Non gli importava proprio niente di lei, non in quel momento. Allontanare dalla propria mente anche l’immagine di Paige fu un po’ più difficile, ma molto meno doloroso del previsto, dato che Stiles era ancora lì tra le sue braccia, con una spalla che premeva solida contro il suo petto.
Deaton parve considerare con attenzione ciò che Stiles aveva domandato. Fece un netto cenno di diniego. «Basterebbe un legame tra il Nemeton e un qualunque membro della famiglia Hale. Il sangue degli Hale è antichissimo, sono licantropi per nascita da moltissime generazioni, e hanno sempre protetto anche il Nemeton, a modo loro. Non sono druidi, non sono maghi o stregoni, ma hanno potere, più di quanto sembra. Se tu fossi connesso con il Nemeton nel modo giusto, Derek, io potrei usare parte della tua energia ancestrale per compiere un rito che farebbe rivivere l’albero. Non proveresti dolore, non avresti conseguenze nocive, non sarebbe nemmeno pericoloso, e Stiles guarirebbe del tutto.»
Derek fu sul punto di ribattere che non aveva bisogno di quel tipo di rassicurazione, se anche per curare Stiles avesse dovuto sacrificarsi l’avrebbe fatto, senza pensarci due volte e con il solo rammarico di lasciare Stiles da solo. Ma Stiles non avrebbe mai accettato di sentirgli dire nulla di simile, quindi si limitò ad affermare: «Ottimo. Creiamo il legame. Anche adesso. Subito».
Non gli piacque affatto il modo in cui Deaton atteggiò il viso in una smorfia anziché dargli una risposta affermativa. Gli piacque ancora meno sentirlo dichiarare che la situazione era meno rosea del previsto.
«Non possiamo. Se ci provassimo ora non è detto che funzionerebbe. Temo che avremmo dovuto legare la tua famiglia al Nemeton prima che venisse tagliato, quando era nel pieno del potere. Anche nel tuo passato, se ci rifletti, ci sono indizi… avrebbe dovuto succedere anni prima e, se anche così non fosse,  io non so con esattezza quale sarebbe il giusto procedimento da seguire. Ci sono tantissimi tipi diversi di legame e ognuno richiede un rito differente e genera un risultato diverso. Se non mi sbaglio, quello che fa al caso nostro è un qualche tipo di sigillo, la triscele degli Hale, forse, ma non ne ho la sicurezza assoluta e, potremmo anche tentare, ma sbagliare sarebbe pericolosissimo. Non ho mai dovuto fare nulla di simile e se anche fosse fattibile con l’albero nel suo stato attuale… tua madre avrebbe saputo come fare, Derek, io no. Non mi ha mai confidato come, ma lei conosceva il metodo corretto. Se Talia fosse qui troverebbe comunque una soluzione, ne sono certo. Io invece, attualmente, sono solo in grado di lenire i sintomi di Stiles. Gli darò il ciondolo che abbiamo appena usato per appurare cos’ha. Devi portarlo sempre al collo, Stiles, e ti darò un misto di erbe e di radici che potrai usare per farne un infuso, ti farà stare meglio. Ne avrai bisogno, visto che il potere dei licantropi di lenire il dolore non funziona se non in modo superficiale quando si tratta di certi tipi di malattia. È la loro natura: malori come i tuoi non sono facili né da lenire né da avvertire con il fiuto. Non mi stupisce che nessuno si sia accorto del tuo stato, Derek compreso. Non sei il primo a cui succede di avere problemi simili, Stiles, anche se io non ho mai conosciuto nessun altro che ne soffrisse e la letteratura al riguardo scarseggia. In ogni caso, purtroppo, né Derek né Scott possono aiutarti a trovare sollievo dal dolore fisico, non del tutto. Quindi farò il possibile…»
Derek stava dando fondo a ogni briciolo del suo autocontrollo per non sbottare in modo violento e troppo brusco, e non era convinto che sarebbe riuscito a trattenersi a lungo. Non poteva starsene lì tranquillo mentre Deaton ammetteva che la cura esisteva ma che non c’era verso che potessero metterla in pratica e quindi… Dio, quindi cosa? Stiles era destinato a continuare a soffrire? A peggiorare, magari?
Derek l’aveva appena sentito irrigidirsi di nuovo e non sapeva cosa fare. Si sentiva impotente, inutile e frustrato. Si era aspettato che Stiles stesso perdesse le staffe, che urlasse perfino, che si incazzasse, come avrebbe avuto tutto il diritto di fare. Invece Stiles rimase in silenzio.
Era innaturale. Non era da lui e a Derek metteva i brividi.
«Mi spiace» stava dicendo Deaton che, nel frattempo, aveva legato il talismano ricavato dal legno del Nemeton a un cordoncino di cuoio e lo stava tendendo a Stiles. «Per ora non c’è altro che io possa fare, ma studierò tutto il materiale che riuscirò a scovare. Ci vuole tempo, sperando che il Nemeton si stabilizzi e…»
Derek deglutì un nodo di rabbia che rischiava strozzarlo. Come diavolo faceva Deaton ad aspettarsi che lui e Stiles fossero tanto pazienti? E se nel frattempo quel dannatissimo moncone d’albero si fosse seccato del tutto? Non avrebbero più potuto riportarlo in vita e Stiles sarebbe rimasto ammalato per il resto dei suoi giorni? Era un’ipotesi orribile, la peggiore a cui Derek avesse il coraggio di pensare. Il suo cervello e il suo cuore si rifiutavano di affrontare qualunque eventualità fosse anche solo un po’ più tragica e spaventosa.
Non aveva bisogno di immaginare scenari ancora più terrificanti, come aveva fatto più volte nelle ultime ore, per sentirsi in gabbia e senza scampo. E non era lui quello che doveva sopportare il dolore, il panico, il senso di soffocamento. Deaton parlava di ricerche e di tempo e pretendeva che intanto Stiles stringesse i denti e che si facesse bastare uno stupido intruglio a base di piante e un ridicolissimo pezzetto di legno macchiato del suo stesso sangue?
Derek stava sul serio per ringhiare in faccia a Deaton quando, evocato dalle sue stesse pessimistiche considerazioni, un’idea lo colpì all’improvviso, con così tanta forza da farlo quasi vacillare fisicamente.
Stupido idiota che non era altro! Il ciondolo. Il talismano che Stiles si stava mettendo al collo con l’aria più rassegnata e delusa che Derek avesse mai visto. Era stato intagliato nel legno del Nemeton, l’aveva detto Deaton. Ma non era quello il punto. «È lo stesso tipo di legno che per anni ha custodito gli artigli di Talia.» Le parole esatte che Deaton aveva utilizzato stavano ridando a Derek tutta la fiducia nel futuro che credeva di avere definitivamente perduto.
«Posso domandarglielo!» Ci volle un lunghissimo istante prima che Derek si accorgesse del modo in cui sia Stiles che Deaton lo stavano guardando e del fatto che non potevano comprendere a cosa si stava riferendo. «Mia madre. Ho i suoi artigli. Posso parlarle, posso chiederle di dirmi cosa dobbiamo fare.»
La solennità con cui Deaton mosse il capo per annuire gli tolse un immenso peso dallo stomaco. Era inequivocabile: evocare Talia li avrebbe aiutati. Grazie a lei avrebbero trovato una soluzione.

   
 
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