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Autore: Giorgia_Farah    09/11/2014    0 recensioni
Alexia vive nel suo mondo fatato, insieme alla famiglia, un ragazzo che ama, degli amici stupendi. Ma il futuro le riserverà eventi al di là di ogni sua aspettativa: con l'arrivo di un fratellastro, un padre che non ha mai conosciuto, la sua vita cambierà. Un misto di avventure, pericoli, passioni, sogni infranti, battaglie e scontri, l'eterna storia di questa giovane vampira sarà un portale che vi porterà in un mondo mai conosciuto.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1

Era il 2 gennaio 1972. TIC TOC, contava i secondi il mio orologio circolare inchiodato sopra la porta. Centonovantanovemila secondi di intero studio. Fuori la stanza, oltre il giardino, nella strada sentivo lo zampettare di un gatto che la attraversava, il suo frun-frun era perfettamente udibile da qui che sembrava starmi accanto, sentivo dei passi di donne e uomini, il saltellare e ridere di un bambino, il graffiare delle lunghe unghie di un cane sopra il marciapiede mentre camminava…un uomo stava dando appuntamento ad una donna e lei rifiutò per vari impegni. Sicuramente era timida e non voleva dimostrarlo al conoscente. Ma il quel balbettare non le diede la sua riuscita vittoriosa su l’uomo che ammise una risata e poi passarono ad un altro argomento. Sentii il respiro della donna rilassarsi. Quanti cuori battevano fuori casa, quanti tipi di respiri….ah! che delizia. Udivo il vento muovere le foglie degli alberi, quello strofinarsi tra foglia a foglia mi fece pensare a Boscosenzafine; “chissà se mamma mi darà il permesso di ritornarci”, mi chiesi mentalmente, mentre rileggevo le stesse lettere di una parola tre volte. Ormai era inutile: i rumori, gli odori, i suoni, mi avevano completamente staccato dallo studio. Era impossibile che ritornassi a studiare quelle pagine. Ogni tanto sfogliavo il librò, ma solo per dare l’idea che ero interessata a quegli argomenti: studiavo storia. Una materia molto interessante per me, e che mi affascinava, ma quando l’avevo già ripassata per tre volte di seguito non mi garbava più. Fuori c’era più sole che nuvole. Massimo quattro o tre, si fa per dire.

Quattrocentocinquantatré secondi, sentivo i passi di mamma avanzare nella cucina, aprii un cassetto, udivo il fastidioso rumore del metallo che si spostava, prese una pentola….non sentì il rubinetto aprirsi: probabilmente aveva usato una magia. Fui colpita subito dal rumore dell’acqua che cadde di getto dentro la pentola, mamma posò la pentola sopra i fornelli con un rumore sordo che mi fece male alle orecchie. TIC TIC TIC faceva il pulsante quando mamma lo schiacciò per accendere i fornelli, e in seguito in rumore corrente, ma caldo: il fuoco. Il TI TIC TIC  non c’era più da quando il fuco del fornello mi aveva inondato l’udito. Mamma si schiarì la gola e fece un respiro profondo, camminò e i suoi passi si fermarono in un altro cassetto e ne estrasse una scatola di legno con dentro la pasta. Dentro la scatola gli spaghetti si muovevano tra loro. La scatola si aprii e gli spaghetti scivolarono nell’acqua della pentola che ormai cominciava a bollire.

“Bè, per ora lasciamo perdere il cibo umano”, pensai sbuffando, per cui mi concentrai e spostai il mio udito dalla cucina al salotto. Sentivo il battere frenetico del cuore di papà, e il sudore caldo che gli scivolava dalla fronte: era agitato. Per forza! Stava assistendo ad una partita di calcio tra due squadre: Occhiodifalco e Tamburbattente. Già sentivo che potevano vincere comodamente i ragazzi fatati di Occhiodifalco. Dalla gola di papà uscivano degli urli mai pronunciati dal vivo per non spaventare mamma. Sentivo le sue mani stringere la stoffa liscia dei pantaloni per il nervosismo. Il suo cuore si fermò: un giocatore alato della squadra Tamburbattente stava per fare un goal spettacolare ma l’intervento di un altro giocatore della squadra avversaria non gli concesse la gloria. Il cuore di papà tornò a battere, si abbandonò deluso sulla poltrona, coprendosi il viso con le mani. “Evvai! Continuate così Occhiodifalco!”, li incoraggiai mentalmente, soddisfatta. Ma ora c’era la pubblicità, quindi papà emise uno sbuffo e borbottò qualcosa “maledetta pubblicità”. Sbuffai anche io, ma divertita; era incredibile mio padre: quando vede che la sua squadra comincia a dare scarsa energia nella partita non vede l’ora che inizi la pubblicità per distrarsi, quando invece inizia la pubblicità non vede l’ora che ricomincia la partita. Mi lasciai scappare comodamente una risata fragorosa.

Indietreggiai l’udito e lo spostai da un’altra stanza. In quest’ultima tutto era calmo, a parte il “là, là, là!’’, di una vocina dolce e acuta appartenente ad una bambina, qualcosa di plastica cadde rumorosamente su un altro oggetto di plastica. Consuelo stava giocando con le bambola. Che bambina unica era Consy, la mia sorellina. Aveva sette anni ed era una bambina simpatica e dolce, solare soprattutto, faceva amicizia con tutti. Aveva i capelli lunghi e castani, con i boccoli, grandi occhi azzurri ed una corporatura gracile, viso paffutello con le guance rosee, era bassa- mi arrivava fino al braccio- e labbra esili e morbide, nasino all’insù. La sua corporatura era gracile. Praticamente era tutta papà, a parte la corporatura di lui che era muscolosa e con i capelli corti e spettinati. D’altro canto, era un bellissimo uomo.

Un’ora e centocinque secondi, sbuffai. “Accidenti! Adesso ne ho abbastanza!”, mi lamentai piano. Okay, adesso era il momento di finirla lì. Dopotutto avevo studiato fin troppo quel giorno, volevo andare dalla mia Consuelo. La volevo. Diedi uno sguardo antipatico verso l’orologio che continuava a contare i secondi con tranquillità; se a quest’ora gli orologi avrebbero preso vita avrei scommesso che alla mia vista avrebbero ingranato la quinta per partire via a zampe levate. Era una lotta contro il tempo la mia, odiavo i secondi, minuti, e ore…odiavo quegli aggeggi che sembrassero dirmi “goditi la vita fin che puoi perché non ti rimane troppo tempo”. Al diavolo gli orologi e il tempo! Io di tempo ne avrò avuto anche dopo morta; ma la cosa che mi raggelava era l’idea di quanti anni gli rimanevano ai miei familiari. Cosa avrei fatto se passati cento anni loro se ne sarebbero andati dalla mia vita. La testa mi consigliava qualcosa di malefico, che mi rabbrividiva fare, ma il cuore mi diceva che sarebbe andato tutto bene. A chi dovevo dare ascolto? Alla testa, o al cuore? Testa o cuore, testa o cuore, testa o cuore…..Ah! accidenti! Quanti pensieri orrendi quel giorno. Ero sempre stata così fantasiosa ma fino ad un certo punto, dovevo smetterla di farmi tante preoccupazioni; “Coraggio Alexia, questa questione la risolveremo più avanti”, mi incoraggiai, ottimista. Di seguito, feci un respiro profondo, e chiusi il libro. Contai fino a tre e poi ritornai ad ascoltare i rumori della mia stanza: silenzio, a parte il ticchettio di quel maledetto orologio; mi guardai attorno, giusto per salutare la mia stanza e passare a quella di mia sorella. Puntai, per preferenza, lo sguardo sulle tende, lo allungai: riuscivo a vedere, come se guardassi attraverso la lente di ingrandimento, i fili di seta perfettamente cuciti per creare la stoffa, i piccoli granelli di polvere che si alzavano dal vetro e oltrepassavano le tende per appoggiarsi delicatamente sul pavimento, sembravano microscopici pianeti che vorticavano l’uno distanziato a sei, se non dieci, centimetri dall’altro in una danza infinita, tipo la danza della neve. Riuscivo a vedere quello che l’occhio umano non sarebbe mai stato in grado di vedere: vedevo i colori dell’arcobaleno del bianco della luce della lampada, e a distinguere le varie scie luminose al suo interno. Dietro la luce riuscivo a contare le venature legnose del soffitto, e se allungavo la mia vista avrei potuto dire che assomigliavano a delle enormi crepe. Sul pavimento riuscivo a vedere i milioni ed infiniti granelli di polvere che formavano un velo sopra le piatte mattonelle di legno. Anche se guardavo una pagina di un libro distante da me dieci metri riuscivo a leggere facilmente le mille frasi nel rispettivo foglio. Lo ammetto, era una cosa celestiale quello di vedere tutto quello che gli umani non potevano mai vedere in un modo più ravvicinato; vi avrei perfino giurato che sapevo ogni cosa della mia camera, anche quella più microscopica.

La mia stanza era a forma rettangolare, posta nella zona est della casa, l’enorme finestra che faceva anche da porta si trovava nel lato parallelo della sta stanza in cui si trovava la porta d’entrata. Dopo l’enorme finestra, il terrazzo: di lì riuscivo a vedere il castello di Redmoon. Quel giorno avevo coperto il vetro della finestra per impedire alla luce del sole di entrare nella stanza. Quel posto della casa era il mio regno: la parte che adoro di più. Appena si entra, la cosa che colpisce di più sono le pareti color porpora, decorata successivamente con dei sottili ricami floreali dorati. Tutti gli altri mobili sono di legno: accanto alla scrivania, posta di fianco alla porta, c’è la libreria. Sulla scrivania c’erano tre libri, messi però in modo disordinato dato l’impegnativo studio del giorno, accanto ai libri c’era una lampada di vetro con il coperchio fatto di stoffa bianca, un porta penne blu, ed una cornice di legno rossa con la foto della mia famiglia; il pezzo forte della mia stanza è il mio letto, con le tende: era morbido e grande, coperto da un piumone color ambra, la testata blu e i laterali neri, le tende color azzurro chiaro erano agganciate da due cambi di legno ( posti ambedue sopra i fianchi del letto) e agganciati poi dai quattro lunghi bracci di legno del letto, che dopo scendendo facevano anche da piedi. Il comodino anch’esso di legno con tre cassetti, e sopra giaceva una piccola cornice di Consuelo quando aveva tre anni, le tende della finestra-porta erano di colore rosa, il pavimento era fatto di legno, come il soffitto, dove si poteva comodamente camminare scalzi. Sotto i piedi del letto, stava disteso un morbido tappeto di pelliccia.

L’ultimo sguardo lo inviai alla foto della mia sorellina, e aspirai l’aria allargando le narici: gli unici sapori che riuscivo a percepire erano: miele, lilla, mela, che apparteneva a mamma; sole, giacinto, acqua che appartenevano a papà e cioccolato, fragola che appartenevano a Consuelo. Poi c’era quel dolciastro odore di cibo umano, che più delle volte sembrava come assaggiare la spazzatura. Meno male che la mamma sapeva cucinare alla grande…rendeva quei cibi indigeribili in nuove fragranze che potevo gustare senza arricciare il naso. Alle volte ci aggiungeva un po’ di sangue animale nel mio piatto, rendendo il composto più delizioso, ma quel giorno non mi andava di mangiare dato che avevo fatto una caccia abbondante quella mattina. Ora i canini mi sia allungarono desiderosi di affondarsi su qualcosa di morbido, mentre ricordai la calda pelliccia di quel cervo tra le mie braccia, e quella morbida carne che per me assomigliava come al burro quando andai a morderla. Adesso Consuelo aveva smesso di cantare da circa tredici secondi esatti e cominciava ad imitare le voci delle bambole. Sentii prendere una bambola. “Ehi, papà, ti va di fare qualcosa?’’, imitava la voce di una piccola bambina per la bambola. Poi con rapidità prese un’altra bambola di plastica. “Va bene, scogliattolina!”, disse con una voce più profonda e gonfia, per imitare la voce di un omone: quella della bambola-papà. Al mio udito, sembrava che la piccola imitasse la voce dell’orso Yoghi. Risi divertita. Per due precisi la sentii respirare profondamente e profondamente e poi: “Ti va di andare a giocare al parco?!’’, imitò la voce della piccola figlia. Udii muoversi l’aria mentre voltava la testa verso l’altra bambola.

“Okay, andiamo tutti a giocare al parco!”, urlo con la voce maschile della bambola-papà .e la sentii nuovamente cantare quel “là, là, là!” dolce e cristallino che apparteneva alla sua vera voce. Uno…due…tre secondi e scattai dalla sedia. Data la rapida velocità con cui mi alzai, si sollevò con i cambi anteriori e si trovò in bilico con quelle posteriori; la presi appena in tempo senza provare un minimo senso di paura, i miei riflessi da vampira erano prontissimi, e la rimisi a terra senza fare alcun rumore. Mamma odiava sentire il rumore di qualcosa che cadeva, e a me toccava sempre scappare dalla finestra per quanto urlava forte; su questo però, non diamogli tanta importanza. Ora l’importante era la mia Consy. “Okay, Alexia, abbiamo finito col dovere ed ora si passa al piacere”, pensai, ed involontariamente un sorriso eccitato mi curvò le labbra. A quel punto concessi all’attenzione di rubarmi, perciò con un gesto automatico uscii dalla mia stanza: era passato un intero secondo da quando ero passata dalla mia camera da latto a quella di mia sorella. Non mi preoccupai dei movimenti rapidi del mio corpo, dato che c’ero abituata. Non appena decisi di andare in contro al mio odore, eccomi là: tra le mie braccia il corpicino della mia sorellina. Non passò nemmeno un piccolo frammento di tempo tra il pensiero e l’azione: il cambiamento che ebbe il mio corpo per spostarsi fu istantaneo, quasi in assenza di movimento.

La bambina fra le mie braccia lasciò cadere le bambole dallo spavento e contemporaneamente lanciò un piccolo urlo di paura; al tempo stesso il suo cuoricino si fermò ma non passò due secondi che ritornai ad udire i suoi battiti cardiaci più veloci di prima; si lasciò abbandonare e al fine appoggiò stremata la schiena contro il mio petto, mi strinse le braccia senza fare una piega al contatto freddo della mia pelle. D’altronde, i veri vampiri avevano la pelle più fredda della mia, ma che al mio contatto sarebbe risultata calda. Avevo una temperatura tiepida, fresca ma non raggelata. Puntai la punta del naso alla sua gola e aspirai l’odore squisito proveniente dalla sua pelle. Mi venne l’acquolina. Le mie orecchie sentirono perfino il sangue scorrere sotto i tessuti della pelle, sembrava l’acqua corrente, ma un liquido più caldo dell’acqua, più dolce della cioccolata, più appetitoso che delizioso, più irresistibile che ottimo, e sempre ed urgentemente essenziale.

“Oh, accidenti, Alexia! Se lo fai un’altra volta ti giuro che lo dico a mamma”, si lamentò, mentre nelle sue labbra sfoderò uno di quei sorrisi scherzosi. Alzai gli occhi al cielo e ricambiai il sorriso.

“Tu provaci e io ti fermerò senza sforzo”, la sfidai. In seguito liberai il suo corpicino dalla mia stretta lasciandola libera di muoversi. Riprese le bambole e ritornò a giocarci.

“Che fai?”, le chiesi facendo finta di non sapere niente. Lei si rigirò verso di me, sempre con le due bambole in mano, aveva sulle labbra un sorriso così bello da far sorridere anche alla gente che le stava accanto. Di seguito lanciò le tre bambole in aria allungando al tempo stesso le braccia. Le mani fecero segno di STOP e le bambole si fermarono a dieci centimetri sopra le nostre teste. Rimasero in aria immobili. “È ridicolo!”, pensereste voi, eppure non c’era nessun filo trasparente che le sostenesse, né erano possedute dai fantasmi: era il potere della mia Consuelo: il potere dell’aria; successivamente, con l’indice della mano iniziò a creare un cerchio trasparente nell’aria e le bambole seguirono il suo esempio. Sentivo sopra di me il rumore dell’aria simile a quello di un uragano.

“Guarda’’, mi ordinò con voce pacata. Una volta alzato lo sguardo, ritornò a spiegarmi:

“Questa è la Signora Televisione, questo è il Signor Radio, e questa è la Figlia Radiolina”, disse indicandomi le bambole con l’altro indice che non si impegnava a creare un cerchio nell’aria, mentre le bambole facevano il giro-tondo al ritmo giusto per farmi capire quale fosse  il Signor Radio o la Figlia Radiolina. Rimasi accigliata, grattandomi la fronte. In fine la bambina lasciò cadere le  bambole in modo leggiadro e delizioso: iniziò ad abbassare tutte e due le mani lentamente fino ad appoggiarle sul piumone del letto, le bambole scesero da terra aggraziate come i fiocchi di neve dopo una breve danza sopra i nostri occhi.

“Che cosa: la Figlia Radiolina e la Signora Televisione?’’, chiesi, più sorpresa che confusa. Che nomi buffi dava a delle bambole, ma graziosi. Stetti per ridere ma riuscii a trattenermi.

“E il Signor Radio ’’, aggiunse.

“Ma con chi stai giocando: la Famiglia Elettrodomestici?’’, chiesi.

“Si!”, squittì lei infine, tutta eccitata, applaudendo e saltellando sul letto; alzai di nuovo gli occhi al cielo e sbuffai.

Il rumore della tovaglia alzata in aria catturò la mia attenzione, sentii in seguito lo strisciare della stoffa contro il tavolo di legno, sembrava un fruscio sentito da qui, il martellare di uno…tre…quattro bicchieri mentre si lasciavano posare sopra la tovaglia, l’appoggiare di due bottiglie di vetro che da me fu come un enorme schianto. Udii anche il ferrò tagliente delle forchette strisciarsi rumorosamente accanto all'altra quando mamma le prese, il cassetto delle posate si chiuse, un enorme botto, le forchette si posarono sulla tovaglia con leggiadri colpetti sopra la stoffa, il fruscio dei tovaglioli uno sopra l’altro e poi posati accanto alle forchette; nessuno avrebbe mai sentito quell’ondeggiare della carta dei tovaglioli mentre erano lasciati cadere in aria. Ed in fine quattro piati di vetro, udii il martellamento contro il legno. Che fastidio! Ecco uno dei vari motivi che avvolte odiavo la cucina.

Fra tre secondi la mamma avrebbe detto “è pronto il pranzo!”, il mio intuito non sbagliava mai. Infatti ambedue riuscimmo a sentire la sua voce: io la percepii più vicina la piccola Consy un po’ lontana. Uno…due…tre…

“È pronto il pranzo!”, urlò mamma. Mi lasciai sfuggire una risata e poi presi in braccio la sorellina. Era leggera come una piuma, nonostante avesse sette anni ed ero tutta pelle e ossa. Dopotutto i vampiri o mezzi-vampiri avevano una forza inumana quindi anche per me era difficile che sentissi il suo peso. La mia mano scatto dalle bambole e le ritrovai entrambe nella mi mano. le posai dolcemente sul cuscino.

“È ora di mettere le bambole a dormire”, aggiunsi con voce mielata, accarezzando poi la guancia della bimba. Sentii il suo sangue pompare veloce sotto la sua pelle, divennero un po’ rosse: era imbarazzata.

“Sì, però dopo devono andare al parco”, incalzò, cercando di scacciare l’imbarazzo. Aveva agganciato le sue braccia al mio collo per reggersi forte a me, più che aver paura di cadere era una dimostrazione di affetto.

“Non li noterà nessuno la famiglia elettrodomestici, ci sono già Cip e Ciop”, scherzai. lei alzò gli occhi al cielo come per dire: la solita saputella. Entrambe ci lasciammo scappare una fragorosa risata e poi uscimmo. Consuelo si acquattò ancor di più a me durante quella corsa a razzo, e in un secondo eravamo in salotto. Dietro di me sentivo la scia dell’odore di Consuelo. Mi leccai di nascosto i canini. Consuelo scoprii il suo viso dalla mia gola e si fermò a guardare papa che era super concentrato allo schermo. In una mano teneva stretto il telecomando per non iniziare a mordicchiarsi le unghie per il nervosismo, allungai la vista notando le gocce di sudore calde che gli uscivano dalla fronte, il suo sangue scorreva velocissimo sotto la sua pelle: era canale d’acqua delizioso. Non batteva nemmeno le palpebre. Ci sporgemmo entrambe un pochino con la testa ma non si accorse di noi, attento com’era; ridemmo sotto i baffi.

Dalla cucina sentii qualcosa di liquido e morbido che scivolava su un recipiente di plastica, le mille gocce d’acqua che cadevano sullo scolapasta e ricadevano sulla pentola bollente, sembravano gocce di pioggia. Addirittura mi misi a guardare fuori dalla finestra e iniziava un temporale. Udii il cigolio amaro di un cassetto che si apriva, mamma prese un altro recipiente, grosso, di vetro, un altro cigolio fastidioso e poi un enorme schianto contro il legno. La pasta scivolò sul recipiente. Sentii un tanfo che mi fece arricciare il naso. “Che schifo!”, pensai, disgustata. Poi un altro odore, più dolce e…sapeva d’olio, fresco…acqua? O acqua marina? Anche qui granelli amari e acidi: sale? Mi sembrava che c’erano entrambi. Capii al volo: tonno e pomodoro. Bene, io non l’avrei di certo mangiato quella roba.

La testa di Consuelo si sporse a me e avvicinò le labbra al mio orecchio, coprendo entrambi con la manina libera. Il suo alito arrivò al mio orecchio come un soffio di vento caldo che me lo riscaldò, la sua vocina era così ravvicinata che pareva provenisse dalla mia mente.

“Cosa ha preparato mamma?’’, mi chiese.

“Pasta con tonno e pomodoro”, risposi con una smorfia di disgusto, lei al contrario: allungò la testa per odorare quell’essenza per lei deliziosa che si era sparsa per tutto il salotto. Che schifo! Chinai di nascosto la testa dall’altra parte perché- sarei stata pronta a giurarlo- mi venne da rimettere. A quel punto avevo deciso: chiusi il respiro almeno così non avrei rischiato di vomitare addosso a Consuelo. Per me era un gesto naturale, era facile rimanere senza respiro per tutto il giorno, di sicuro non per un essere umano. Sarei rimasta senza respirare, se lo avrei voluto, anche per uno o tre anni, oppure volendo anche per sempre; era una sensazione…comoda. Non avevo bisogno d’aria, i miei polmoni non se l’aspettavano e rimasero indifferenti.

Bene, ora andava piuttosto meglio, ma già gli odori della stanza mi mancavano. Scrollai di dosso quella mancanza e ritornai al presente. Consuelo mi chiese gentilmente di farla scendere ed obbedii. Corse veloce verso la cucina intenta a divorarsi il suo essenziale cibo umano, mentre io rimasi, ridicola, senza neanche sapere il perché, immobile sul posto, fra il corridoio e il salotto. Mi chiedevo se era giusto incamminarsi verso quell’odore orrendo che proveniva dalla cucina oppure distrarmi guardando la televisione con l’uomo buffo che stava immobile sulla poltrona. Ad essere sincera non mi andava di guardare quella partita, tanto sapevo che gli Occhiodifalco avrebbero vinto comunque, ma non mi garbava nemmeno l’idea di assaporare quell’odore che mi faceva…rizzare i peli delle braccia.

Strinsi i denti e mi incamminai…si fa per dire. Nemmeno un secondo ed eccomi nella stanza più puzzolente della casa; ma non volevo di certo offendere mamma, infondo capiva quanto me che per il mio naso era disgustoso entrare nella cucina; non si lamentava mai. Solo quando nel mio piatto ci aggiungeva il sangue liquido di un’animale la mia forza di volontà mi governava il corpo trasportandomi fino al tavolo. Arricciai ancora il naso, anche se non respiravo l’aria puzzolente mi entrava nelle narici, mentre mamma rise sotto i baffi. Mi guardò di sottecchi curiosa facendomi poi la linguaccia. Ricambiai.

Che mamma speciale era la mia, si comportava sempre come un’amica. Quando camminava era così aggraziata come una ballerina, Consuelo aveva preso da lei, era simpatica e svampita, solare ed una curiosona. Praticamente come me, solo che io alle volte ero più seria che simpatica: praticamente come… Bé, sapete chi, no? Se avrei pronunciato il suo nome mi sarei messa…non so cosa avrei fatto per cancellarmi quella D dalla mente. Anche se non mi importava niente di lui, il suo nome e quello di suo figlio mi galleggiava sempre nella mente come se avessi una sfrenata voglia di vedere se quel nome esiste veramente, se erano frutto della mia fantasia oppure la realtà, insomma…volevo vederli. E ogni volta che li pensavo, un forte brivido glaciale mi percorreva tutta la spina dorsale, facendomi tremare. Come ad esempio in quel momento.

Mamma in tanto aveva messo la pasta su tutti e quattro i bicchieri e pose il recipiente di cristallo nel lavandino ancora sporco di quella sostanza rossa del pomodoro. Rosso, rosso, che colore delizioso. Qualunque oggetto che era di un colore rosso mi faceva bollire la gola.

Ahi! Che caldo! Sembrava che avessi ingoiato un barattolo intero di peperoncini piccanti, ketchup…o quant’altro vi passa nella mente che bruciasse. Ma per di più c’era il fioco dentro la mia gola, era una fiamma che cresceva. La gola si fece secca, come una pianta posta al sole per un mese intero. Avevo sete. La mia mano a forma di coppa, si agguantò alla pelle liscia della gola cercando di far passare le lingue di fuoco dentro di essa. Me la schiarii ma questo non fece che peggiorare. Accidenti a quel pomodoro!. Consuelo rimase a guardarmi per qualche secondo ma quando gli sorrisi, facendole credere che tutto andava alla grande, si rimise a mordicchiare gli spaghetti.

Mamma, invece, non esitò a prendere dalla credenza un bicchiere di vetro e afferrare dal frigorifero una bustina grande quanto tre mani. Tagliò la bustina argentata con le forbici e da dentro emerse una sostanza liquida di un colore rosso scuro. Quasi nero. Eccolo il mio colore preferito. Che squisito calore invase la stanza, ora liberai il respiro e annusai l’aria. Caldo, un caldo sublime invase la stanza devastando l’odore puzzolente e scacciarlo via. Sembrava una guerra: l’odore del sangue contro quello del cibo umano; vinse il sangue, mandandomi in estasi. Mamma buttò via la bustina argentata, ai lati sporca di sangue che gocciolava ai bordi, con un’espressione disgustata e afferrò una delle cinquanta cannuccia su un bicchiere al fianco del lavandino. La mese sul liquido caldo e piegò il beccuccio bianco. Dopo due secondi il bicchiere era fra le mie mani. Lo strinsi più forte per riscaldarmi i palmi delle mani, come se premessi un picchiere pieno di cioccolata calda, e avventai le labbra alla cannuccia. Sentii la sottile plastica del beccuccio bucarsi dato che miei denti se fecero più affilati. E ricordai la carne morbida di quel cervo ormai all’apice delle forze. Il sangue inondò la mia gola e spense il fuoco. Il sangue era come un mio pompiere che mi salvava dalle fiamme ardenti, una cascata fresca per rinfrescarmi la gola, ma allo stesso tempo calda per riscaldarmi ogni parte del mio corpo fino alla punta delle unghie. Passato un minuto preciso, svuotai il bicchiere e lo misi accanto nel lavandino, ignorando il recipiente che mi stava proprio davanti allo sguardo.

Quando mi girai rivolsi a mamma un sorriso per perdonarmi e lei ricambiò senza esitare. C’era sempre quando avevo bisogno di qualcosa, a parte che con altre cose me la sono cavata da per me. La amavo con tutta me stessa, e non saprei cosa avrei fatto se nella mia vita non ci fosse stata lei; date le circostanze, entrambe ci dovevamo fare mille favori. Una era la salvatrice dell’altra: mamma mi ha tenuta in grembo nonostante sapesse quale specie di creatura avrebbe allevato, ed io la salvai per continuare a vivere insieme a lei e per ringraziarla dell’enorme gesto che aveva fatto per me.

Al solo ricordo, mi venne un groppo in gola, strinsi i denti per trattenere le lacrime. Respirai a fondo, mi sentii bene. Guardai mamma affondare la forchetta sui spaghetti, arrotolarli intorno ai denti di ferro e poi portarseli a tre centimetri dalle labbra…e si fermò.

“Dov’è papà?’’, chiese, si accigliò. Oh, accidenti! Quella maledetta partita, era una droga per i maschi. Entrambe alzammo gli occhi al cielo.

“La partita”, ci uscii dalla bocca all’unisono. Con la percezione che mamma lo disse a mo’ di risposta, io come lamento, e Consuelo come divertimento. E di seguito scoppiammo a ridere. Fuori dalla cucina sentii il cuore di papà battere all’impazzata, più forte di prima; avrei dovuto provare sete ma grazie a quell’assaggio di qualche minuto fa mi aveva saziata, bè…per quel che bastava per rimanere controllata.

“Dai, vai a chiamare il nostro calciatore’’, mi ordinò mamma divertita, sbuffando. Le feci l’occhiolino e uscì dalla cucina. Un secondo ed ero accanto all’omone imbambolato. Non gli feci nemmeno paura quando mi trovai improvvisamente accanto a lui. E che cavolo! Pensavo che con quel metodo si sarebbe distratto dallo schermo. “Maledetta scatola nera!”, pensai, digrignando i denti.

Diedi un colpetto alla spalla di papà. Lui matte tre volte la palpebre, mimando un “eccomi” con le labbra. Alzai gli occhi al cielo.

“Dai, papà, è pronto il pranzo. Vieni”, lo invitai. Non parlò.

“Sì”, riuscì a dire dopo due minuti. Ma era più oltre le nuvole che presente. Doveva essere una risposta mai pronunciata la sua.

D’un tratto lo vidi strizzare gli occhi ( leggeva qualcosa di piccolo), per interesse mi rivolsi anche io verso lo schermo, e tre secondi dopo si spalancarono sorpresi, bè più che sorpresa per lui era una disgrazia vedere ciò che aveva visto; infatti: nella schermata si intravvedeva il tabellone con i nomi delle dieci squadre che avevano gareggiato quel giorno. Occhiodifalco era arrivata prima(grande!) mentre Tamburbattente si era maritata il posto in seconda file…diciamo che dopo aver ricevuto una coppa d’argento c’era da far festa, era andata bene anche a loro. Al contrario di papà che:

“No, no, no, come hanno fatto? C’è stato un trucco…qualcosa deve essere andato storto! Ma…come…? Accidenti! Stavano andando alla grande!”, si lamentò papà, mentre io attaccai con una risata che si senti per tutta la casa. Risi così forte che sentii provenire dalla cucina:

“Che succede laggiù?!’’, chiese la voce curiosa di mamma.

“Niente di brutto, sto solo godendo della perdita di papà”, risi. Lui invece mi infuocò con lo sguardo.

“Che fai tu? Ritorna a mangiare, su’!”, mi sgridò. In parte però sapevo che non aveva intenzione di sgridarmi, odiava essere preso in giro.

“E dai, papà, guarda la cosa positiva: siete arrivati secondi. Avete vinto una coppa d’argento!”, lo incoraggiai. Veramente, doveva essere fiero di essere arrivato secondo e non quarto! Se avessi anche io fatto il tifo di quella squadra, mi sarei sentita fiera, e al diavolo i miei amici che mi avrebbero preso in giro per la loro perdita. Però avevo detto SE avrei tifato quella squadra. Per fortuna, non l’avevo fatto. Sorrisi compiaciuta.

“Si, certo, certo. E voi una coppa d’oro”, borbottò. L’ultima parola la pronunciò con un sussurro, come se gli facesse disgusto che tipo di colore di coppa avesse vinto la mia squadra. Alzai gli occhi al cielo.

“Su’, andrà bene la prossima volta”, stavo per dire “ve la siete cercata” ma non ci tenevo vedere la sua faccia ribollire dalla rabbia.

“Mmm”, mimò.

“E poi…scommetto che il prossimo mese noi saremo secondi mentre voi primi”, tentai.

“Che c’è, adesso prevedi il futuro?’’, mi chiese in tono dolce, facendomi l’occhiolino. Io gli sorrisi e arrossii contemporaneamente. Adoravo quando cercava di stuzzicarmi in quel modo, sfoderava il solito ragazzino gentile che era una volta.

“Magari papà”, risi.

Lo vidi riflettere per un minuto mentre ritornava a guardare al TV, ormai il tabellone era scomparso, e poi ritornò a guardarmi:

“Sì, forse hai ragione Alì, meglio non lamentarsi più di tanto”, concluse.

“Questo è lo spirito giusto”, dissi e ci demmo il batti-cinque. Entrambi ci scambiammo un sorriso, e poi lui si diresse verso la cucina.

Ora dallo schermo della tele era trasmessi la pubblicità, mostrai i denti per l’antipatia. D’un tratto fece capolino nella mia mente riguardo alcune parole che papà disse riguardo all’argomento: maledetta pubblicità. Infatti “maledetta pubblicità!”, pensai facendo eco alle parole di papà. Per me quei spezzoni duraturi per venti secondi non contavano niente, e poi a cosa servivano…alla fine di un film non poteva precedersi un altro? Le nuove novità le potevo osservare comodamente al super-mercato. “roba da quattro soldi”, pensai di nuovo. Spensi disgustata la televisione e mi sedetti sul divano. La stanchezza fece effetto su di me che m buttò violentemente sulla stoffa del divano. Non appena la mia schiena premette sui cuscino morbidi, ogni muscolo del mio corpo si rilassò.

Curiosa, diedi uno sbircio alla cucina, allungai la vista, e come un lente ravvicinata di un ottavo osservai i movimenti della mia famiglia: mamma, papà e Consuelo si abbuffavano dei piatti deliziosi che aveva preparato la padrona di casa.

Tuttavia, se mi stavo divertendo vedere mio padre e Consuelo vederli gareggiare per chi avrebbe finito prima, rimasi perplessa. Per sicurezza, contai i piatti: uno, due, tre, quattro piatti? Aspetta! Se io non mangiavo, allora l’ultimo piatto era…Di lui. era chiaro! Che stupida sono stata. Doveva venire qui questo pomeriggio, a mangiare con noi! Che cocciuta, che idiota sono stata ad essermi scordata di lui. Colpa dello studio che mi aveva distratta. Sfoderai uno di quei sorrisi gioiosi, immaginandomi il suo sguardo.

Nello stesso istante in cui mi chiedevo quando sarebbe arrivato, successero tre cose:

DRIN DRIN! Suonarono alla porta, la solita fiamma incandescente ritornò a seccarmi la gola, e sentii un profumo di…mela, lilla, cielo. Era il suo odore, che buono. Proprio nello stesso tempo in cui mia madre si alzò dal tavolo per aprire alla persona aspettata, mi fiondai alla porta girandomi contemporaneamente verso di lei.

“Apro io”, mimai con le labbra facendogli l’occhiolino. Lei sorrise eccitata e ritornò a sedere, sembrava volesse dirmi: vi concedo questa volta un tenero minuto da soli. Anche papà e Consuelo avevano smesso di mangiare. Non volevano apparire maleducati alla visita il un loro conoscente.

Tre secondi prima di aprire la porta, annusai bene l’aria che proveniva da fuori. Ora l’odore era più dolce a quella vicinanza. Al solo pensare che lo avrei sentito più da vicino, la fiamma dentro la gola divampò.

Aprii la porta, ignorando l’urgenza di schiarirmi la gola.

Eccolo, lui era davanti a me, più celestiale di qualsiasi ragazzo che conoscessi a Solemville; bellissimo, adorabile, comprensibile, protettivo, dolce, era serio quando ce n’era bisogno, ma divertente, ed…unico. Sì, era unico. Ed era l’unico che poteva appartenermi, ed io a lui.

Louis era il suo nome, e anche ora. Per esteso si chiamava: Louis Anderson. Era un ragazzo alto 1, 85, con la pelle abbronzata, occhi a mandorla, capelli color del grano lunghi fino alle spalle ( quel giorno se li aveva raccolti con un elastico), viso ovale e con pelle naturale : né tanto grassa, né tanto magra, naso normale, labbra carnose e con un sorriso che ti riscaldava il cuore.

Fu un lampo ad entrare prima che i raggi del sole mi colpissero in faccia. Non è che mi uccidessero, il motivo è che mi dava fastidio. Potevo uscire comodamente fuori casa con una bella giornata di sole, ma doveva coprirmi gli occhi con degli occhiali da soli dato che quest’ultimi erano molto deboli alla vista dei raggi solari.

Quel giorno Louis indossava una maglietta color ambra con le maniche corte e con dei pantaloncini lunghi fino ai polpastrelli dei piedi, scarpe da ginnastica con calzini corti bianchi. Impeccabile.

Non feci in tempo a salutarlo che già avevo le sue labbra contro le sue. All’inizio cercai di allontanarmelo, dato che avevo molte possibilità di saltargli addosso, ma dopo pensai “Oh, lascialo stare Alexia, è solo un bacio!”, e lo lasciai fare. Gli attorcigliai le braccia al collo e assaporai più a fondo l’odore della sua bocca. Il suo profumo era più intenso da quella vicinanza, più squisito, irresistibile.

Proprio quando stavo per avvicinare il suo volto al mio, si ritirò di scatto ricordando in cosa era capace di fare se mi stuzzicava troppo.

“Ops!”, disse, abbozzando un sorriso benevolo. Risi rincuorata, ma un po’ dispiaciuta dato che mi aveva scansata in quel modo rapido.

“Ciao amore, tutto bene?!”, mi chiese poi.

“Caratterialmente sì, fisicamente un tantino”, precisai.

“Ah”, fu la sua risposta quando capì che intendeva con “ un tantino”. Intuivo di aver esagerato con le parole, mi feci torva. Tuttavia a lui non gli importava più di tanto. Mi amava per quella che ero e non per quello che avevo. Ed era questo, oltretutto, che lo rendeva speciale ai miei occhi.

Un secondo dopo agitò la testa come se volesse scrollare quelle frasi dalla mente, e ritornò a sorridermi.

“Hai studiato bene? Bada che se…”

“Sì, tutto e perfettamente bene. Al parco ti ripeterò tutto”, promisi.

Mi cinse le spalle con un braccio e mi baciò la fronte, la punta del naso, le labbra ed infine la guancia. Quei baci dolci e aggraziati mi facevano sempre sorridere. Quei gesti erano come un saluto per me perché li usava sempre da quando ci eravamo messi insieme.

“È una promessa, ricordatelo”, mi avvisò con voce seria, ma con un sorriso stampato sulle labbra. Gli feci l’occhiolino.

“Ti amo”, sussurrò infine.

“Ti amo anch’io”, riuscì a dire prima che premette le sue labbra contro le mie. Questa volta il bacio durò tre secondi, ed era più dolce. Ci avviammo, mano nella mano, verso la cucina e Louis poté salutare in fine la mia famiglia; ora che avevo il suo odore accanto a me, la puzza della pasta sembrava essere svanita. Papà e il mio ragazzo si strinsero la mano.

“Ben tornato figliuolo, come va?’’, gli chiese papà educato, e si misero seduti accanto. Intuii che fra qualche minuto avrei dovuto sentire la parola “calcio” o “Tamburbattente” oppure “Occhiodifalco” uscire dalle loro bocche. Ecco il semplice motivo per cui si mettevano sempre accanto durante il pranzo. Io e mamma ci guardammo, come se avessimo pensato della stessa cosa, e alzammo gli occhi al cielo. Mi sedetti anche io.

“Alla grande, domani io e Alexia avremmo la verifica di scuola e siamo tutti agitati. Nessuno se lo aspettava, la professoressa Dorothy ci sorprende sempre con il suo regolamento ’’, rispose Louis.

“E quando dice “siamo tutti agitati” intende dire “io e miei compagni siamo agitati”, io me lo sarei aspettato che succedeva qualcosa”, lo corressi io, ma lui proseguii come se non avessi parlato. Non mi diede fastidio, adoravo sentirlo parlare.

“Ad ogni modo, per vedere se tua figlia si è preparata desidero interrogarla al parco”, sembrava un permesso rivolto più a me che a mio padre.

“Hai tutto il dovere di farlo, te lo permetto io”, disse papà.

“Evvai, il parco! Posso portare le bambole?”, chiese la voce squillante di Consuelo quando ingoiò un vortice di spaghetti. Guardò prima Louis poi me.

“Appena la Famiglia Elettrodomestici avrà finito di scaricarsi nel letto, potrai portarli con te”, la raccomandai. A mo’ di accordo mi sorrise con la boccuccia sporca di pomodoro e qualche filetto di tonno. 

“Che? La Famiglia Elettrodomestici?’’, chiese confuso Louis alzando un sopracciglio.

“Una storia lunga”, farfugliai io.

E poi iniziarono a mangiare, mentre io rimasi a guardare uno per uno addentare quei fili di pasta macchiati di un…Cavolo! Scattai dalla sedia, coprendomi la bocca, e aprii il frigorifero prendendo in modo fulmineo un’altra busta argentata, un bicchiere, e una cannuccia. Ormai i canini mi si erano allungati troppo e abbastanza sporgenti per vederli ad occhio nudo: si sarebbero notate le punte affilate. Ci misi tre secondi per prepararmi la bevanda, e finalmente riuscii a rilassarmi dopo un secondo che il sangue mi avrebbe rinfrescato la gola. Dimenticavo! Quello è sangue di animale non umano: dolce. Sapeva di erba, muschio, terra, comunque anche buono, ma quello degli umani era più appetitoso di quello animale. Dopo due minuti di intero silenzio…

“Hai visto la partita di calcio?”, chiese Louis a papà. Sbattei il picchiere sul tavolo, assumendo un’espressione piena d’ira che avrebbero fatto anche spaventare le immagini dei quadri se avrebbero presi vita, e diressi a Louis uno sguardo fulmineo. Lui mi sorrise a mo’ di scusante e poi ritornò a papà. “Basta, calcio!’’, avrei voluto dire. Meno male che lo avevo solo pensato. Io e Consuelo tirammo uno sbuffo di noia, e con le braccia conserte restammo ad ascoltare.

“Sì, purtroppo”, cominciò papà. Nel vero senso della parole.

“Che è successo?’’, chiese a sua volta Louis tutto concentrato su papà meno che sul piatto. Sentii mamma alzare un sospiro: odiava quando si ignorava i suoi cibi. Non feci a meno di sollevare un lato delle labbra a mo’ di sorriso.

“Hanno vinto Occhiodifalco!”, rispose papà in modo possente, sbattendo un pugno sul tavolo, da far rimbalzare dalla spavento Consuelo e mamma. Mia sorella per poco non gli cadde il bicchiere d’acqua addosso. Louis alzò gli occhi al cielo come per dire “me lo sarei immaginato”. Mi diede una rapida occhiata, prese due forchettate di pasta, e poi ritornò a papà.

“Be’…è un vero peccato”, disse lui dando una pacca sulla spalla all’uomo che le stava accanto. Più di comprensione, sembrava una smorfia di sarcasmo.

“Mmm”, disse papà girando si e no gli spaghetti intorno alla forchetta. Sentii lo stridulo dei denti di ferro sfregare contro il vetro del piatto. Cavolo! Certe volte papà si dimenticava la mia dote. Fortunatamente mamma si accorse della fine smorfia addolorata che mi si era formata in viso, e diede un colpetto alla spalla di papà. Quest0ultimo si rianimò, come se quei spaghetti lo avesse incantato.

“Perché non finite di mangiare, adesso? Dopo potete parlare della partita quando sarete soli”, li consolò mamma, guardando però il babbo. E finalmente un silenzio tanto atteso si espanse nella cucina. Insomma, nella frase “ un silenzio tanto atteso si espanse nella cucina” era una parolona! Forse ero l’unica che sentivo il rumore più impossibile che si sarebbe potuto sentire all’orecchio umano, ma già era molto meglio della continua discussione sul calcio. Louis si mise subito a mangiare senza esitare, papà invece borbottò qualcosa. Io e mamma ci scambiammo uno sguardo repentino. Quanto bisognava consolare a papà? Era solo una coppa d’argento! Io sarei stata fiera d’averla vinta, senza rimanere a rimuginarci sopra come una bambina di tre anni; se in futuro mi sarei comportata come lui, tanto valeva spararsi prima che ciò accadesse…Se, invece, questa influenza l’avrebbe trasmessa a Louis, allora avrei dovuto costringerlo a seguire un altro sport.

Mentre ritornai a succhiare il sangue dalla cannuccia, pensai “gli uomini certe volte sono incredibili”. Ogni tanto tiravo uno sguardo alla mia famiglia e a Louis. Non sapevo il perché, ma era come se in un certo modo mi stessero osservando, e mi dava fastidio.

Finito il pranzo, svolgemmo ognuno i nostri compiti: io e mamma ci mettemmo a riordinare la cucina, Consuelo corse nella sua stanza per studiare la matematica: le divisioni, per quanto agli uomini della casa: si misero a guardare lo sport. Fortunatamente le trasmissioni del calcio erano finite. Alle 14. 20 era iniziato il baseball.

Per non spiare troppo le conversazioni di mio padre e Louis, mi misi ad ascoltare i rumori della cucina.

“Mi chiedo come faccia il tuo ragazzo a sopportare tutte le lamentele di tuo padre”, disse con un sorriso divertito. Stava lavando i piatti. Con dei movimenti, simili alle onde del mare, delle mani e dei bracci riusciva ad far uscire quanta acqua gli serviva dal rubinetto e avvolgere come una bolla tutte le posate e piatti sporchi del pranzo. Oltre la sacca d’acqua sentivo un rumore corrente, come il fiume, e i resti, di pomodoro e tonno che erano rimasti su quest’ultimi, iniziarono a staccarsi e a volteggiare veloci sullo spazio acquoso della bolla. Fra tre minuti mamma avrebbe staccato la bolla dalle posate che sarebbero risultate scintillanti e immacolate.

“Anche lui in passato era un Tamburbattente, poi si è innamorato della mia squadra”, risposi piano. Stavo piegando la tovaglia.

“Perché si era innamorato di te”, precisò mamma, con espressione eccitata, ma allo stesso tempo amorevole, dolce, e consapevole di quello che diceva. Ora si era messa seduta su una sedia. Mentre, mettevo la stoffa piegata nel cassetto, insieme ad altre tre tovaglie, mi sentii le guance ardere dall’imbarazzo. Abbassai lo sguardo mentre scattai in una sedia accanto a lei, feci un respiro profondo.

“Si è innamorato di me perché mi trovava speciale”, precisai, arricciandomi le dita, senza incontrare il suo sguardo.

“Speciale in cosa?’’, chiese mamma con una voce che trasmetteva serietà. E riecco che sbuca l’argomento “ma Louis è il ragazzo giusto per te?’’. Feci un respiro profondo per tranquillizzarmi.

“Che cosa vuoi da Louis, mamma? Lo amo, che c’è di strano?’’, arrivai al punto. Abbassai la voce perché iniziava presentarsi un pochino alta. Sgonfiai il ribollimento di un ruggito che stava nascendo nel mio petto.

“Non c’è niente di strano, tesoro. Io voglio solo sapere che tu sei felice con Louis”

“Ma io sono felice, più felice di quanto non lo sia mai stata. Sono felice come tu sei felice insieme a…papà’’, rabbrividii, consapevole di quello che stavo per dire al posto di “papà”. Nello stesso tempo in cui mi si stava formando nella mente quel nome, sembrava volesse uscire dalla mie labbra. Inaspettatamente, mamma se ne accorse. Strinsi la mascella.

“Ero felice anche con lui, tesoro. Lo amavo tanto, e lo amo ancora dentro anche se non posso più”, aggiunse, con la voce piena di rammarico. Per una frazione di secondo, provai compassione per lei.

“Ma per colpa sua ormai vivi con questo dolore addosso ’’, precisai, d’un tratto mi accorsi che la mia voce suonava più fredda di quella di un iceberg. Per di più sembrava tenebrosa.

“Non è stata colpa sua”

“E allora di chi è la colpa? Mia, dato che sono una mezza vampira?’’

“NO! Come puoi pensare questo, angioletto mio? Noi ti amiamo!’’, disse con la voce più dolce del mele, stringendomi le mani in una morsa di fuoco. Adoravo quel fuoco, non era simile alla singola fiamma che qualche minuto fa si era spenta dentro di me. Rimasi impassibile.

“Noi chi? Tu e papà spero. Drakon non mi ama’’

“Scommetto che ti ama anche lui, ed Alucard’’, mi incoraggiò, un tentativo falso. “non perdere la pazienza, non perdere la pazienza..”, mi ripetevo mentalmente.

“Se mi amano così tanto perché allora non vengono a farci visita!”, urlai piano. Menomale, altrimenti il mio urlo petava essere scambiato per un ruggito. Mi infuriava violentemente parlare con queste cose con mamma. Specialmente se era lei a prenderne il via. Dall’altra parte della stanza sentii che papà e il mio ragazzo avevano smesso di parlare. Aspettai un minuto intero di silenzio prima di ritornare a mia madre. nelle sue braccia notai i brividi di terrore ,il suo cuore batteva a velocità incredibile, ma mai più del mio, come le ali di un uccellino, e il suo sangue assumeva un rumore di una cascata in corso. Fu questione di tre secondi e poi ritornò calma.

“Non me lo so spiegare nemmeno io, tesoro’’, rispose sincera mamma, ma sempre con la dolcezza sia nella voce che nel viso. scrollai la testa incredula. Incredibile, dopo tutto quello che gli ha fatto passare Drakon lei gli voleva ancora bene! “Accidenti! Non essere così sensibile mamma, guarda in faccia la realtà. Lui ti ha mentita! Ti ha usata come uno strumento per buttarti via quando sarebbe stato necessario!”, pensai furiosa. Fui attenta a non far trapassare quelle parole nella bocca, altrimenti avrei ferito ancor di più mamma. Mi sarei vergognata a morte al solo immaginare di attaccare mamma con quelle parole proprio agli occhi di Louis; in conseguenza lei non mi avrà fatto uscire di casa per un mese. Capivo i sentimenti di mamma, e non desideravo stroncarglieli proprio quel giorno. Non ci tenevo nemmeno a ferirla…come se gli avessi infilzato una lama al petto. dopotutto, preferivo rispettarla più che rovesciarglieli contro.

“Mmm’’, feci. In quel momento mi sentivo come papà. Ringraziai il cielo che mamma avesse sposato un uomo che mi assomigliasse un po’.

“Però sono certa che ti amano ancora. Dopotutto Drakon è stato accanto a me quando stavo partorendo…’’

“Un’assassina”, dissi al secondo giusto, alzando appena il labbro. Avrei voluto piangere, avrei voluto correre e scoppiare in lacrime nel mio amato bosco. Mamma mi strinse ancora di più le mani. C’era un non so che nell’aria che mi metteva inquietudine.

“NO MAI! Tu sei il mio angelo”, mi consolò baciandomi poi sulla guancia, nella fronte, nelle mani.

“Un angelo un po’ strano”, farfugliai. Mamma mi sorrise e mi fece l’occhiolino. Mi cinse le spalle con un braccio e mi accarezzò la guancia con la sua mano calda.

“Ti prego mamma, non ne parliamo più di queste cose. Ti farebbe star male, di sicuro ’’, la implorai con una voce materna che usavo spesso con Consuelo. Le lessi un filo di tristezza negli occhi, e poi un pensiero.

“Ok”, acconsentì. Mi accorsi di buon punto che stava trattenendo un singhiozzo, dato la sua voce così bassa. Forse aveva frugato nella mente un ricordo lontano che la fece star male. Oppure fui io quella che la fece star male. Mi si espanse sul viso un velo di incertezza. Dopo un minuto d’intero silenzio…

“Arriviamo al punto dell’argomento, mamma”, ordinai io, con voce mielata.

“Bè…il succo della cosa era che volevo sapere se sei veramente felice con Louis’’, disse. Mi si staccò e si mise nella stessa posa in cui mi trovavo io: braccia sopra il tavolo e mani unite.

“Sì, mamma, ne sono più che sicura’’, risposi sincera.

“Bene”, fece mamma. E poi di nuovo silenzio. Un silenzio più imbarazzante, che tombale. Stetti per andare via, ma mamma ritornò a parlarmi. Per tutto quell’arco di silenzio si era incantata a guardare il legno bianco ed elaborato a mano della tavola. Precisamente, più che imbambolata sembrava pensierosa. Pensava ad un progetto? Un altro ricordo sul passato? Oppure al mio compleanno? Ero emozionata a quell’avvenire: avrei compiuto diciott’anni, sarei diventata maggiorenne. E questo significava che avrei fatto tutto di testa mia, ormai ero un’adulta, ma dovevo essere anche ben consapevole di quello che avrei fatto in futuro.

“Tesoro…’’,

“Sì?’’, risposi a mamma ritornando a sedere sulla sedia. Nel suo viso c’era un’espressione incerta, come se non sapeva se parlare oppure no.

“Che c’è?’’, le chiesi, con una voce più dolce che riuscivo a trasmetterle. Le sorrisi.

“Spero che anche Louis partecipasse alla festa ’’

“L’ho già invitato. Ci sarà senz’altro”, la rassicurai, con un’espressione gioiosa.

“Ma le tue amiche non vengono?’’

“Lilly starà con il suo ragazzo quel giorno e Jessica dai nonni. Mi hanno detto che le dispiaceranno molto non venire, e che il regalo me lo daranno il giorno dopo ’’

“Sei fortunata ad avere delle amiche così splendide’’

“Anche tu mamma ’’, considerando il fatto che le sue amiche erano appunto le madri delle mie amiche. Che strana coincidenza mi aveva riservato il destino quando le conobbi. Eravamo piccolissime: 6 anni, facevamo entrambe la stessa scuola. Risi sotto i baffi.

“Ti andrebbe di vedere anche qualcun altro?’’, chiese dopo. Lo disse in un modo…buttar via, come se si volesse liberare una volta per tutte di quella domanda, che mi incuriosì. D’altro canto, la mia mente non poteva essere così intelligente: ero ancora un umana, sotto certi aspetti.

“Certo, mi piacerebbe’’, risposi sorpresa. Mamma sorrise compiaciuta, rilassandosi.

“Sei felice?’’, le chiesi amareggiata. Il suo sorriso si allargò.

“Sì, tesoro’’

“Ma chi è? È un parente? Forse lo conosco’’, in quel momento la curiosità aveva avuto la meglio su di me, sembravo una bambina.

“Non te lo posso dire, è una sorpresa…consideralo pure un regalo che ti fa la mamma ’’, rispose, strizzando l’occhio.

“Ma chi è?’’, insistetti. Avete presente quelle persone che non possono resistere alla tentazione di sapere tutti i costi un segreto? Bene, io ero una di quelle. Finché non mi si spiegava ogni cosa, non smettevo di insistere. Però quel giorno feci un’eccezione: basta tormentare mamma fino a quando non sarà arrivato il mio compleanno. La grande battaglia per me, fu quella di resistere all’impulso della curiosità.

“Un parente, si può dire’’, rispose, con un velo di incertezza

“Ah’’, dissi, frenando le mie labbra. Mi cominciarono a pizzicare le mani. Per un minuto buono riuscii a non rompere il ghiaccio, nello stesso minuto in cui io e la mamma finimmo di conversare. Forse non c’era più niente da dire.

“Dai, adesso vai ad aiutare tua sorella con la matematica. Spero che, uscita dalla camera, sappia bene le divisioni, altrimenti può scordarsi una bella giornata al parco ’’, mi ordinò in tono severo. D’altro canto, nei suoi occhi c’era amarezza, quindi sapevo che la giornata al parco in un modo o nell’altro si faceva comunque.

“Ok, vado subito”, per non spronarti nel dirmi quello che voglio sapere. In un secondo mi fiondai nella camera di mia sorella. La trovai nella scrivania intenta a risolvere una divisione. Stava per sbirciare nel libro, ma con uno scatto fulmineo glie lo presi. Mi guardò accigliata.

“Ah-ah-ah! Non si sbircia!’’, le feci presente. Lei sbuffò come per dire: sei ingiusta, e poi ritornò a fare l’esercizio.  Questa volte la vidi in difficoltà. La penna a malapena toccava il foglio, non appena la vidi decisa a scrivere si fermò di colpo, ebbe molti ripensamenti. Dopo due minuti d’un silenzio incerto e assordante, decisi di mettermi all’opera. Gli feci esempi che si faceva ai bambini piccoli: i tipici esempi matematici con la mela o pera…o altre cose. Con quelli le sembrò più facili capire. Dopo un’ora di intero studio ed esercizi, la vidi svolgere più meglio il suo compito. Uscimmo dalla stanza per andare da mamma e la piccola gli mostrò alcuni esempi. Non appena mamma fu compiaciuta mi rivolse uno sguardo accusatore, e io gli risposi con un sorrisetto soddisfatto. La mia mente andava oltre di quella umana…certo! Avevo una mente tipica di una vampira, ma non del tutto simile ad una vampira vera e propria.

Erano le 18.00 spaccate quando uscimmo da casa, il sole c’era ancora. Fortunatamente avevo sempre come me la mia scorta di occhiali da sole. Me li misi non appena Louis aprii la porta, il resto del corpo poteva ben uscire allo scoperto. Indossavo una maglietta verde acqua a maniche corte con dei jeans che arrivavano fino alle ginocchia, calzini corti color lavanda e scarpe da ginnastica bianche. Più coperte di così non si può. Dopotutto il caldo lo sentivo anche io: non era una creatura che sentiva l’opposto di quello che sentivano gli esseri mortali.

“Mi raccomando, stai attenta a non esporti troppo al sole. Appena arrivi al parco vai subito sotto gli alberi’’, mi raccomandò mamma prima di varcare l’uscita di casa.

“Si’’, promisi e gli tirai un bacio a mo’ di saluto.

Louis stette sempre accanto a me, mentre Consuelo stava davanti a noi immaginando di essere la guida. Ogni volta era sempre così elettrizzata di andare al parco che in alcuni pomeriggi correva sempre veloce per essere la prima ad attraversare quel prato verde ed immacolato. Sentire Louis che mi cingeva la vita con un braccio, e Consuelo accanto a noi, mi faceva sentire come una piccola famiglia; forse l’immagine era un po’ azzardata, ma mi faceva sorridere di speranza.

Il parco si trovava a un chilometro da casa mia, era una distesa di prato verde, circondato di vari tipi d’alberi: pino, ciliegio, pesco, melograni, abete, anche altri alberi che produceva frutti di ogni tipo e altri con fiori bianchi che se esprimevi un desiderio loro te lo avveravano senza indugiare. Lo scivolo era un enorme bruco piatto e scivoloso che incurvava la schiena quando i bambini decidevano di andarci sopra. Il bruco era dolce innocuo, aveva il dono della parola. La sua voce era gonfia e possente, simile ad uno di quegli uomini panciuti e gentili che incontri per la strada. Se volevi vedere Solemville dall’alto c’erano apposta delle nuvole passeggere che, montandoci sopra, ti alzava in aria per farti vedere quello che volevi tu; al posto delle giostre c’erano enormi coccinelle e farfalle, graziose, in fila con dei cavalli alati, e librandosi in aria a distanza due metri da terra, creano una specie di cerchio trasparente. Il salta-salta era stato creato con la tela del ragno, anche le corde appese da qualche ramo dell’albero più vicino; in un lato del parco, c’erano enormi fiori con petali color, rosa, azzurro, e giallo, alti sedici metri, e radunati in un cerchio. Una volta entrati nello spazio circondato dai fiori, questi si aprivano e spruzzavano acqua come una fontana, tre scivoli normali con dea cascata di brillanti al posto dell’acqua; nel momento in cui ti fermavi da terra i brillanti ti facevano librare in aria: come Peter Pan. E molte altre cose.

Arrivati al parco, Consuelo andò in contro a sue due amichette ed io mi sedetti su una panchina di pietra, lavorata a mano, sotto un abete. Al riparo dal sole, fui dolcemente accarezzata da un’arietta liscia e fresca che mi permise di assaporare tutti gli odori presenti nel parco: la freschezza della terra e il suo odore dolce, il profumo naturale dell’erba, del muschio, l’odore quasi percepibile dell’acqua, quello dolce, aromatico e delizioso dei fiori, quello dolciastro del tronco, ecc.…

Sentii l’abbraccio caldo di Louis riscaldarmi il corpo, appoggiai la testa sopra la sua spalla, mentre lui me la accarezzava e mi baciava la fronte come se d’improvviso avesse assunto il ruolo del padre. Di sottecchi riuscii a vedere Consuelo e le sue amichette giocare con le bambole, accanto all’enorme bruco Jonny. L’occhio nero e grosso quanto un palmo del lombrico gli fecero l’occhiolino e le piccole risero imbarazzate. Abbozzai un sorriso compiaciuto vedendole così felici.

“Allora mi vuoi ripetere la guerra di Ketha?’’, mi sussurrò dolcemente Louis nell’orecchio. Sulle prime borbottai qualcosa, non avevo voglia di parlare, ma non volevo neanche fargli presumere che ero una fifona. Dopo un minuto di silenzio pieno di ripensamenti, staccai la testa dalla sua spalla voltandomi verso di lui, notai il suo sorriso di sfida. Credeva che non sarei riuscita a dirgli tutto a memoria, ma in cinque minuti precisi gli feci vedere i sorci verdi. Al termine di quest’ultimi lo vidi imbronciato, mentre io ricambiai quel sorriso vittorioso che mi aveva rivolto prima; d’altro canto sapevo che era fiero di me. Se fosse stato lui la professoressa Dorothy mi avrebbe dato sicuramente 10, e 10 lo avrei preso comunque senza si facesse quello scambio di persona.

“Te l’ho detto che avevo imparato tutto a memoria!”, gli ripetei per la terza volta.

Lui si scrollò qualcosa dalla mente, come se avesse ragionato come uno stupido, e mi sorrise soddisfatto.

“Me lo immaginavo, sei unica, amore”, mi congratulò stropicciandomi i capelli con una mano, mentre io scoppiai a riedere rincuorata. Mi abbracciò forte e mi baciò la fronte. Come se quel complimento non bastasse per lui, era forse imbarazzato? Non m’importava più di tanto. Lo amavo così tanto, adoravo stargli accanto. Mi faceva sentire importante fra le sue braccia. Ora come ora era un bisogno urgente, dato che l’aria iniziava a farsi gelida.

Preoccupata, mi misi a guardare la mia sorellina al sole: non batteva in denti, né vedevo traccia di brividi sulla sua pelle; dopo un secondo risi sorpresa e capii subito il perché: intorno alle tre bambine si notava a malapena un velo trasparente che le circondava e al tempo stesso le proteggeva dal freddo respingendo l’aria nemica d’altri parti della zona. Era ovvio che dentro quella sfera trasparente Consuelo aveva fatto sì che entrambe sentissero l’aria calda di qualche minuto fa, era intelligente proprio come sua sorella.

Un brivido gelido mi sorprese facendomi scuotere le spalle, e all’appunto Louis cominciò a stringermi ancora più forte per tenermi al riparo.

Uno…due…quattro...sei secondi dopo e la sua temperatura corporea assomigliava a quella di un forno, mi sembrò di stare intorno al fuoco, e notai che la sua pelle si era fatta ancora più scura, il suo cuore batteva più forte di prima ma il suo respiro era regolare, anche il sangue era di due volte più veloce del normale. Ma la sua salute era di ferro, era tranquillo e normale. Appoggiai la testa sul suo petto per sentire il suo cuore: il mio batteva otto volte più rapido del suo, ma allo stesso modo del mio sembrava che volesse uscire dalla gabbia toracica per quanto le pompate erano possenti. Ogni volta mi preoccupavo anche se non dovevo. Mi rilassai tra quel fuoco che mi circondava. Era un calore speciale per me, oltre che alle mani calde di mamma. Louis aveva il potere del fuoco, lui era il mio fuoco personale. Nessuno poteva privarmi di esso.

“Stai bene?’’, mi chiese con una voce più calda del solito, come una fiamma.

“Sto sempre bene, quando accanto a me ci sei tu’’, risposi con voce mielata. La mia voce dolce, non avrebbe di certo superato la sua in quello stato di trasformazione, ma lui non avrebbe di certo superato la mia con toni melodici. I vampiri, o mezzi-vampiri, hanno una voce così armoniosa e affascinante che sembrano cantare.

“Allora, sei pronta per il gran giorno?’’, mi chiese la voce entusiasmante di Louis. Mi accorsi subito che quella postura era perfetta, non avevo voglia di incontrare il suo sguardo, stavo bene così: rilassata, stretta al suo abbraccio caldo, ascoltando il suo cuore. Premetti ancor di più l’orecchio sul petto: oltre quello scorrere liquido del suo sangue, c’era il pompare quasi frenetico del suo cuore, uniti insieme questi rumori davano al mio orecchio un ritmo appetitoso.

“Manca una settimana per il gran giorno e tu mi dici se sono pronta? Altroché!”, cinguettai come una bambina. Ero eccitatissima all’idea di festeggiare il mio compleanno insieme al ragazzo che amavo, ed ero felice che avrei raggiunto la maggiore età. La cosa che mi lasciava a desiderare era sapere come mi sarei comportata quando avrei raggiunto quella soglia. Rabbrividii al solo pensiero del mio comportamento riguardante il mio lato immortale. Per me era più facile comportarsi da vampira piuttosto che da umana. Non era facile essere così maldestri come gli umani, oppure cocciuti, o lenti nella corsa, o lievemente sordi, o meno intelligenti e logici…non riuscivo a fare ognuna di queste cose…era come se mi avrebbero costretto a mangiare spazzatura. Non riuscivo a considerarmi metà umana perché non mi riconoscevo in tal modo nelle azioni, nella logica, o nel comportamento. Solo nell’aspetto fisico potevo essere considerata umana, data la mia capacità di arrossire, di versare lacrime, di sbiancare quando avevo paura, e il mio cuore batteva come qualsiasi altro umano ma alla velocità delle ali di un uccellino come il mio sangue ancora vivo dentro di me. Tutti gli altri sensi erano inferiori a quelli dei vampiri comuni. Essi riescono a prolungare ancor di più la vista ( io riuscivo a prolungarla a solo verso gli oggetti o persone che mi circondavano), a sentire suoni o rumori da più chilometri ( io solo nel raggio di cinque chilometri), sono più forti, non dormono mai mentre io riuscivo a farlo, sono bianchi come il marmo mentre il mio bianco tendeva al rosa, sono più belli, di sicuro più di me…per quanto riguarda alla corsa e tatto credo che eravamo alla pari.

Ritornai alla realtà solo venti minuti dopo, quando mi accorsi di essermi semplicemente addormentata a causa del suo calore. Scoprii dopo un secondo il perché non sentivo più alcun rumore, e gli odori nel prato. Louis smise di cullarmi e mi accarezzò teneramente la fronte.

Con lo sguardo cercai di captare le risate di Consuelo dato che non la vidi più accanto al bruco, iniziai a spaventarmi, ma riuscii a trovarla sopra la schiena di una coccinella che stava volando. Rideva divertita, con le bambole in mano e con l’altra si teneva stretta all’antenna dell’insetto. Tirai un profondo respiro di sollievo.

“Vedo che il mio potere è una goduria per te ’’, disse quando si accorse che mi ero svegliata. Avevo ancora gli occhi socchiusi dato il fastidio della luce del sole. Li strinsi ancor più forte per adattarmi e un secondo dopo ero perfettamente libera di vedere. Ero un po’ frustrata di essermi svegliata, volevo riposarmi ancora, ma felice di sentire ancora la sua voce, che non fosse un sogno.

“Non sai quanto”, farfugliai, la mia voce era ancora stanca, ma aveva una melodia dolce e leggera. Lo sentii ridere di cuore.

“Avresti dovuto rimanere a casa se eri così stanca”, mi avvisò.

“Ma io volevo rimanere con te ’’

“Avevi paura che andavo in contro ad un’altra ragazza?’’, mi stuzzicò. Fui inondata improvvisamente dall’ira che gli sferrai un pugno nello stomaco, nel suo caso il contatto con pugno sul suo stomaco fu leggero. Lo sentii sobbalzare e trattenere un urlo. Subito dopo rise divertito. Scoprii i denti e glie li mostrai, i miei occhi divennero rossi come il sangue. Ma restavo sempre stretta a lui.

“Provaci e le vedrai!”, ruggii. Lui non fece una piega, sorrideva eccitato.

“Uh, che paura!”, disse con sarcasmo. Alzai gli occhi cielo.

“Tu che ne sai che non ti farò niente?’’

“Perché mi ami, e se mi uccidi chi ti farà sentire speciale come ti faccio sentire io?’’, giusta osservazione. Per un minuto arrestai il ruggito dentro il mio petto, ma dopo lo feci ricrescere cercando di impaurirlo in qualche modo. Poi lui fece una cosa da lasciarmi venire i brividi, pressoché impietrita: mi baciò nonostante avessi i canini appunti e in bella mostra tentando di ferirsi le labbra. Mi staccai subito da lui e sciolsi l’abbraccio, stetti per sgridarlo, ma non lo feci per fortuna: non volevo fare una figuraccia davanti a tutti. Respirai profondamente per sciogliere il ruggito che cercava di uscire nella mia bocca. Lo digerii.

Louis restò impassibile, ora non sorrideva più perché capii di avere esagerato. Nella sua faccia c’era una smorfia di rimorso. I suoi occhi mi supplicarono perdono. Gli riandai lentamente in contro, sentendo la mancanza del suo calore, riprendendo quell’abbraccio rilassante di prima.

“Devi stare attento, hai una ragazza diversa dalle altre’’, lo avvisai.

“Credevo che avessi capito che non ho paura di te ’’

“Lo so, ma non essere così coraggioso, ti amo così come sei’’

“Ti amo anch’io, vampirella mia’’

E risi divertita. Era così bello sentirmi essere chiamata “vampirella” da lui, nessuna macchia di paura in quella parola solo pura verità.

Ci fu qualche secondo di silenzio e poi…

“Di cosa avete parlato tu e tua madre quando io ero in salotto con Hendrik?’’, mi chiese. Lo guardai di nuovo: nel suo viso c’era curiosità, quasi quanto nella sua voce. Nel mio invece, c’era mistero, preoccupazione, e soprattutto un sentimento che mi incupiva il pensiero, che mi metteva una specie di tremarella in tutto il corpo, che mi faceva temere il peggio, non gradivo quel sentimento eppure era venuto tutto ad un tratto dentro di me, con il presentimento che era proprio lui a cui pensavo che venisse a manifestarsi dentro di me: la paura.; sì, avevo paura di qualcosa ma non sapevo di cosa; pregai in cuor mio che la giornata sarebbe andata per il verso giusto. Ma nulla nella vita deve essere sempre così perfetto. La bocca del mio stomaco si chiuse dandomi una morsa di dolore. Ed eccolo di nuovo quel nome che ogni volta sbucava dal nulla e mi tormentava l’anima: Drakon. Stavo così bene quel giorno che mi dimenticai totalmente che quel nome esistesse, era forse una prova per mostrare se ero veramente capace di vivere solo con la conoscenza del suo nome? O era proprio lui stesso ad ordinare col pensiero di ricordarmi di lui? Aveva un qualcosa di oscuro? Nel momento stesso in cui stavo per scacciarmelo dalla testa, fra i miei pensieri si fece largo un altro nome che si avvicinò al primo: Alucard. Il secondo era più digeribile dell’altro, era come se lo conoscessi da una vita, e mi rendeva diciamo…tranquilla, ma la paura rimaneva. La mia mente si fermò inconsciamente su Alucard, facendomi dopodiché tante domande che non mi sarei mai aspettata: dov’era? conosceva tutto di me? sapeva dove abitavo? Nelle notti vagava a Somenville e attirava mia madre per parlare di me? che aspetto aveva? Erano tutte domande difficili, impossibile trovarne una risposta. L’ultima domanda la cercai nel mio cuore, non nella mia testa, partii dal mio cuore fino ad arrivare al mio cervello. Lo sconvolse…mi sconvolse. Subito mi venne un groppo in gola, non sapevo se era di tristezza o di rabbia, o del desiderio di vederlo, sapevo solo che la domanda era lì, lì nella mia mente; difficile non scacciarla, che mi sconvolse del tutto, che mi fece venir la voglia d’un incontrollabile bisogno d’affetto: Mi amava?.

“Allora?’’, mi chiese d’un tratto Louis. ero rimasta in silenzio per un intero minuto non accorgendomi che il tempo era volato. Mi spaventai di colpo ricordando che mi ero scordata della sua presenza. Mi vergognai, da sempre non mi dimenticavo mai di Louis.

“Ehm…del compleanno’’, risposi con un sussurro. Aspettai che mi rispondesse ma non lo fece. Non aveva sentito. Ripetei perfettamente quello che avevo detto.

“Ah, e…’’

“Perché?’’

“Sai come sono, no? Un curiosone’’

“Ah, giusto. Vuoi sapere nei migliori dettagli al chiacchierata’’, giustificai.

“Esatto”, e mi accarezzò la guancia. Grazie alla sua tenerezza, un granello di paura se ne andò via. Gli sorrisi.

“All’inizio stavamo parlando di te. Mamma voleva sapere se ci vieni alla festa…’’

“E tu cosa gli hai detto?’’

“Le ho detto che non ti saresti perso per niente al mondo il mio compleanno, e che le mie due amiche saranno occupate quel giorno. Poi gli ho detto che sono felice con te come nessun altro. Aggiunsi anche che mi sento felice con te come lei insieme a papà. E…da “papà” capii..’’

“Che ti stavi riferendo a lui ’’, concluse Louis, nella parola “lui” la pronunciò piena d’odio, quasi la sputò fra i denti. Non ero l’unica ad odiare quel vampiro e compagnia bella, anche Louis odiava loro per quello che mi avevano fatto. Quando seppi che anche lui stava dalla mia parte mi rafforzò la convinzione che un giorno mi sarei vendicata per quello che mi avevano fatto.

“Che cos’hai?”, mi chiese in seguito vedendomi pensierosa. Stavo pensando ad una cosa che mamma mi aveva detto prima di andare in contro a mia sorella, qualcosa che mi incuriosiva tanto, e qualcosa che riguardava la festa…ma me lo scacciai dalla testa…era…improbabile quello che stavo pensando…non poteva mai accadere. O si?

“Niente…’’

“Pensavi a Drakon?’’, insistesse. Al solo sentire il suo nome mi venne il voltastomaco. Per un minuto mi accorsi che la paura era svanita ma poi ritornò.

“No, ad Alucard’’, confessai tutto d'un fiato, sorpresa d’aver detto il suo nome in suo presenza. Certe volte lo chiamavo “A” oppure “il figlio di lui” o “il figlio”, non mi affermavo sui nomi…non mi piaceva nemmeno nominarli.

“Alucard?’’, ripete sorpreso tanto quanto me.

“Sì’’

“Perché?’’

“Non lo so…Boh! Non ne ho la più pallida idea’’, e risi fra me, mi sentivo sciocca solo ad averlo pensato.

“Ah, forse sei agitata perché sta per avvicinarsi il gran giorno’’

“Già, forse è per quello’’, e infondo credevo che abbia avuto ragione lui.

“Non ti preoccupare, amore, ti starò accanto il più possibile. Vedrai che quel giorno sarà indimenticabile’’, mi consolò. Mi accarezzò dolcemente la guancia e mi baciò. Le sue labbra andarono al ritmo con le mie trasformando quel bacio in un momento misto di dolcezza e conforto che scacciò via la paura dandole uno schiaffo. Credeteci o meno, aveva detto la verità.


Ecco il mio primo capitolo, spero vi piaccia. Mentre scrivo, sembra che la vita della protagonista si fa sempre più reale, riesco a sentire il suo respiro. Un racconto unico. Domani pubblicherò il secondo capitolo! Kiss....

   
 
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