VIII.
Reason
Sherlock spalancò gli occhi di colpo. Sondò la
stanza con rapidi movimenti delle pupille, il respiro lievemente pesante, i
muscoli contratti e pronti a scattare. Dettagli, questi, che avrebbero dato ad
un osservatore esterno l’impressione che temesse la presenza di qualche intruso
nella stanza.
E in un certo senso era così: perché
nell’incoscienza generata da quel violento drenaggio delle sue energie,
Sherlock aveva avuto la strana sensazione di essere stato toccato da una
presenza ostile.
In realtà, rifletté Sherlock grugnendo
infastidito, era molto più probabile che quella percezione fosse riconducibile
ad un evento avvenuto prima del suo svenimento: se avesse dovuto pensare
razionalmente, era plausibile che il contatto che l’aveva suscitata fosse
avvenuto quando aveva esteso la sua coscienza al di fuori dei confini del suo
corpo, per raggiungere e sanare il figlio di John.
L’euforia del momento gli aveva forse impedito
di identificare il pericolo sul momento, ma la sensazione di essere stato sfiorato
da qualcosa o qualcuno a lui avverso era stata registrata dalla sua mente per
essergli riproposta quando i livelli di adrenalina nel suo sangue fossero scesi
a livelli più accettabili - ovvero, quando le forze lo avevano abbandonato ed
era scivolato a terra.
“Laat…[1]” mormorò
incollerito, scuotendo la testa per scacciare dal suo organismo la sfuggente
traccia di panico che vi aleggiava.
Non c’era motivo di crucciarsene, adesso. Qualsiasi
rischio avesse corso, ormai era storia vecchia.
Il Demone sbuffò. Tentò di sollevarsi appena da
terra, facendo leva sul braccio destro con tutte le sue forze - il sinistro,
rimasto intrappolato sotto di lui durante tutto il tempo in cui non era stato
cosciente, era praticamente assimilabile ad un pezzo di carne morta. L’unico
risultato che riuscì a conseguire, dopo uno sforzo che gli scosse i muscoli del
braccio fino a farlo tremare, fu quello di ricadere miseramente sul pavimento
con un tonfo.
Sherlock mugolò, affondando il viso nell’incavo
dell’avambraccio ed esalando un sospiro irritato.
Si sentì una risata roca e beffarda. “Brgda ul[2]?” gracchiò
Yorick, squadrandolo con derisione dall’alto del suo palchetto. Aveva atteso in
gloria il momento in cui avrebbe potuto rivalersi con Sherlock del silenzio che
gli aveva imposto, e ora che ne aveva l’occasione l’avrebbe sfruttata al meglio.
Il Demone lo guardò di sottecchi, mugolando una
non meglio definibile maledizione verso quell’ingrato mucchio d’ossa e maledicendo
anche sé stesso per non averlo ridotto a polvere con cui concimare il giardino
alla prima ribellione.
“Taci…” gli sibilò contro, cercando di alzarsi
una seconda volta. Stavolta andò meglio: con uno sforzo titanico riuscì a
sollevarsi sui gomiti, posizione che gli consentì di avere una migliore visione
sulla stanza. Poter osservare la figura di John Watson, abbandonata sul pavimento
come un mucchio di panni logori a pochi passi da lui, fu come un balsamo per il
suo animo scosso. Scacciò via le ultime propaggini dell’inquietudine che aveva
provato al risveglio, facendolo sospirare di sollievo.
Il conforto che provò fu evidente nel modo
discreto in cui le sue labbra si piegarono delicatamente verso l’alto, in un
sorriso che gli increspò gli angoli degli occhi e gli accese le iridi di una
luminosità calda e ambrata. Yorick osservò con occhio critico quei cambiamenti
avvenire sul volto del Demone, grugnendo tutta la sua disapprovazione.
“Sembri un cucciolo di fronte al suo nuovo
giocattolo.” Disse bellicoso a Sherlock, accertandosi di far trasparire dalla
sua voce tutto il disgusto che provava, “Manca soltanto che tu ti metta a
scodinzolare. Patetico.”
Sherlock lo ignorò puntualmente, facendosi un
piccolo appunto mentale di metterlo a mollo nell’acido cloridrico quando ne avesse
avuto il tempo e la voglia. Si trascinò verso John, strisciando sul pavimento -
azione che provocò una nuova serie di brontolii di quell’inutile suppellettile
biancastro. Si portò a incombere sulla figura supina del Dottore, che sembrava
immerso in un sonno privo di ogni coscienza o pensiero.
Le sue pupille si dilatarono, il suo respiro si
coordinò con quello dell’uomo sotto di lui: guardò cautamente il modo in cui le
labbra di John si arricciavano, per poi socchiudersi e rilasciare il suo caldo
respiro in piccoli, timidi sbuffi che solleticavano il volto del Demone; si
lasciò rapire dalla delicata trama di solchi che, sul suo volto, raccontavano
di una vita fatta in egual misura di gioie travolgenti e ombrosi dolori; solo,
si astenne dal toccare, nonostante la pelle delle sue mani fremesse dal desiderio
di quel contatto, timoroso che il tocco della sua carne bollente risvegliasse
l’uomo da quel sonno di esaustione che gli permetteva, finalmente, di
osservarlo per quanto tempo desiderasse.
“Sei un vero rompicapo…” sussurrò, ridendo fra sè. Ed era suo, tutto suo da risolvere per i seguenti
dodici mesi.
“Un
rompicapo? Quel penoso normolap[3]? Ma se è l’essere più banale che abbia
mai messo piede in questo Castello!” sghignazzò Yorick alle sue spalle, facendo
drizzare i capelli sulla nuca del Demone con il tono canzonatorio della sua
voce.
Se Sherlock avesse avuto a portata di mano un
oggetto da lanciare a Yorick, a quel punto il teschio si sarebbe già ritrovato
ad essere ridotto in frammenti disordinati sul pavimento. Non c’era niente di
utile a tale proposito nelle vicinanze, purtroppo, e il Demone era ancora
troppo infiacchito per far orbitare nel suo palmo quella splendida lampada ad
olio che gli ammiccava dall’ultima mensola della libreria, e sembrava pregarlo
di essere lanciata; avrebbe dovuto ancora una volta ricorrere soltanto alla sua
superiore capacità di formulare insulti.
“Oh, non preoccuparti. Il tuo primato non è
affatto messo a rischio da lui. Sei e resterai sempre la cosa più noiosa e scontata
su cui abbia mai posato gli occhi.” Esclamò, condendo le sue parole con giusto
un pizzico di veleno,
“Anche più di Mycroft?” ribatté Yorick impenitente,
provocando nel Demone una leggera risata.
A quel suono cavernoso e profondo, il corpo di
John fu scosso da un intenso tremore. Lo sguardo di Sherlock scattò su di lui,
e il Demone si trovò a trattenere il fiato, piantando i canini nell’interno
morbido del suo labbro inferiore nell’attesa che quei due globi color del mare
si aprissero su di lui.
Non avvenne. Invece, il tremore fu seguito da
un lungo, luttuoso lamento, che sfuggì dalle labbra di John in singhiozzi
spezzati e sofferti. Sherlock, stupefatto, osservò la calma dell’uomo
frantumarsi in innumerevoli schegge di terrore e panico, il suo respiro
accelerare e farsi difficoltoso, i suoi muscoli contrarsi, i suoi occhi
muoversi in maniera convulsa dietro le palpebre sottili.
Se chiudeva gli occhi, poteva immaginare i
surreni di John lavorare febbrilmente per produrre e rilasciare massicce dosi
di adrenalina nel sangue, che pompato dal cuore in tutto il corpo con ritmo
sempre più incalzante preparava il suo fisico a combattere un qualche nemico invisibile,
ma non per questo meno reale.
“Cosa Diavolo gli prende?” domandò Yorick,
abbandonando tutta la sua ironia in cambio di un tono fortemente preoccupato.
Sherlock alzò le spalle, sfiorando con i
polpastrelli una gocciolina di sudore che si era formata sul sopracciglio del
Dottore. “Non ne sono certo… credo che stia sognando…”
John boccheggiò, inarcando la schiena. Sherlock
perì alla curiosità di sapere cosa stesse accadendo nella mente dell’uomo. Si
inginocchiò, sciogliendo i muscoli delle braccia per riattivare definitivamente
la circolazione in quello sinistro e conferirgli un più acuto senso del tatto.
Cautamente raggiunse le tempie striate di fili argentei di John con i palmi
delle mani, giungendo alla distanza di un solo capello dalle tempie dell’uomo.
“Uran-tia ananael[4]”
esclamò, attendendo che propaggini lattiginose di coscienza fluissero dalle sue
dita e carezzassero la pelle del Dottore. Poi, fece collidere con un gesto
risoluto le sue mani con la testa dell’uomo.
E perse la capacità di raziocinio.
Non appena le loro pelli si sfiorarono, infatti,
il mondo di Sherlock si dissolse in un turbine travolgente di colori vivi e
sconvolgenti sensazioni. Fu come se un sole fosse stato improvvisamente acceso
in una stanza immersa per secoli nel buio. Come se sopra e sotto, bianco e
nero, giusto e sbagliato avessero perso qualsiasi significato.
E la ragione di tutto ciò era che, dai punti in
cui i loro corpi erano congiunti, un quantitativo spropositato di energia aveva
iniziato a scorrere prepotentemente da John a Sherlock, con forza bruciante e
quasi violenta. Il Demone ne fu sopraffatto, tutti i suoi sensi portati al
sovraccarico. Poteva percepire ogni singola cellula del suo corpo pervadersi di
nuovo vigore, il suo spirito brillare di luce nera ed espandersi oltre i
confini costrittivi di quel corpo dall’aspetto umano. Il piacere era così
intenso, così obnubilante, che Sherlock non poté fare a meno di rovesciare la
testa all’indietro e gridare con quanto fiato aveva nei polmoni.
Con la sua mente impossibilitata ad andare
oltre il basico percepire, e il suo
corpo concentrato nello sfruttare tutti i suoi sensi per godere di quella
sensazione estatica, l’essere di Sherlock regredì ai suoi istinti più
primordiali. Sordo ai continui richiami di Yorick, che confuso non riusciva a
comprendere cosa stesse succedendo davanti ai suoi occhi, abbandonò la sua
forma umana in favore di quella Demoniaca, più congeniale ad un così
straordinario quantitativo di forza vitale.
Era stato così difficile per lui ultimamente
assumere e mantenere quella forma, che quando liberò le sue ali dalla loro
prigione di carne fu quasi come nascere per una seconda volta. Le sentiva tutte, le piume che
le componevano, dalle scapolari alle remiganti, con una chiarezza che negli
ultimi quarantaquattro anni aveva solo sognato. Le mosse sperimentalmente,
gridando ancora e ancora, mentre l’osso frontale del suo cranio si deformava
per dare vita a due corna ricurve e affilate come rasoi. E in quel momento,
dopo tanto, troppo tempo, Sherlock sentì di essere di nuovo realmente sé
stesso, e non una pallida ombra di ciò che era stato.
Quando, con la stessa estemporaneità con cui
era iniziata, quella corrente di energia venne meno, e la mente di Sherlock poté
nuovamente formulare un flusso coerente di pensieri, il Demone prese un lungo
respiro. Le sue mani ancora appoggiate alle tempie di John, la vista che
sfavillava di mille spettri cangianti, comprese infine cosa di preciso fosse
accaduto… e la caratteristica che rendeva il biondo Dottore davanti a lui
diverso da tutti gli altri esseri umani.
Sorrise.
“Oh, avevo ragione a quanto pare.” Sussurrò,
passandosi viziosamente la lingua sugli affilati canini che facevano capolino
dalla sua bocca. Si alzò in piedi, e per una volta nel farlo non si sentì venir
meno.
“Se solo
Mycroft potesse vedermi adesso… dovrebbe rimangiarsi tutte quelle sciocchezze
sulla sua preoccupazione per il mio benessere. Glielo farei vedere io chi di
noi due è quello debole.”
Sospirando tutto il suo sollievo, Sherlock distese
le sue ali in tutta la loro maestosità, sobbalzando appena ai lievi schiocchi
che facevano quelle ossa ormai disabituate ad avere tanta possibilità di
movimento. Si sentiva bene come non si era sentito da decenni.
Yorick si schiarì la voce, e Sherlock lo guardò
da sopra una spalla, le sopracciglia inarcate in due parentesi arroganti.
“Cosa è successo? Per un attimo ho avuto quasi
l’impressione che ti stessero uccidendo, da quanto strillavi.” Gli chiese il
teschio, con voce tremolante come la fiamma di una candela.
Sherlock gesticolò vagamente con le mani nella
sua direzione, per poi inginocchiarsi di nuovo a fianco di John. Il malessere
che aveva segnato il suo viso e il suo corpo fino a pochi istanti prima era completamente
sfumato in un’espressione placida e tranquilla: solo alcune sparute goccioline
di sudore, che costellavano umide la sua fronte distesa, restavano a memento di
quello che era avvenuto. Non più timoroso di turbare la sua pace, Sherlock
passò la sua mano sulla fronte dell’uomo, che rabbrividì lievemente quando il
suo corpo registrò il calore che il Demone irradiava.
Sherlock lo vide socchiudere appena gli occhi,
e osservarlo con quelle gemme iridescenti da sotto palpebre appesantite dal
sonno.
“Shhhh. Va tutto bene, Darilapa El[5].
Riposa. Domani sarà un giorno frenetico… perché ho finalmente trovato qualcosa
in cui potrai essermi utile.” Gli ordinò soavemente, chiudendogli gli occhi con
una delicata carezza dei polpastrelli.
John, che non aveva mai ripreso realmente
conoscenza, obbedì prontamente, ricadendo in un sonno profondo e, questa volta,
senza sogni. Gli occhi di Sherlock si illuminarono di una luce pericolosa, il
suo viso si deformò in una maschera maliziosa e tagliente. Raccolse John da
terra con un gesto elegante, la facilità con cui riuscì a reggere con le
braccia tutto il suo peso equiparabile a quella con cui una madre stringe al
petto il figlio lattante; c’era una spettrale dolcezza, nel modo in cui lo
teneva stretto a sé, unita a un qualcosa di molto più macabro e innominabile che
avrebbe fatto rizzare i capelli sulla testa di Yorick, se solo ne avesse avuti.
Perché il teschio poteva vederla chiaramente,
negli occhi pallidi del Demone, la fiamma gelida che preannunciava il suo
gettarsi in una nuova, folle e pericolosa impresa. Quel fuoco che non
preannunciava mai niente di buono, che aveva già visto negli occhi di Sherlock
quando, ormai quasi duecentonovantanove anni prima,
aveva deciso di punto in bianco di lasciare gli Inferi per non farvi più
ritorno.
“Sai Yorick, quest’oggi mi hai dimostrato che
neppure tu sfuggi alla mia valutazione sulla generale idiozia di chi non sia me.”
Gli disse Sherlock, sorprendendolo con il tono vizioso della sua voce,
“Ah sì? E perché, di grazia?” si costrinse a
rispondere lui, ordinando alle sue parole di non tremare.
Sherlock lo guardò per una frazione di secondo,
per poi riportare i suoi occhi, che subito persero l’affilatezza riservata a
Yorick, sulla misera forma del Dottore. L’uomo, che rispondendo al tocco delle
braccia del Demone aveva affondato la testa nell’incavo del suo collo, ghermì con una mano la stoffa della camicia
di Sherlock, in un gesto istintivo che per gli esseri umani rappresentava da
due milioni di anni l’esigenza di sentirsi al sicuro. Il Demone utilizzò le sue
maestosi ali per avvolgerlo, celandolo allo sguardo del mondo.
“Perché, amico mio, questo essere umano in
particolare è l’essere più interessante con cui abbia avuto a che fare in tutta
la mia centenaria esistenza.” Sospirò, ghignando nella direzione di Yorick per
mostrargli tutta la sua soddisfazione.
Il pallido essere deglutì, per poi schiarirsi
la voce. “E cos’ha di tanto speciale?”
Il modo in cui Sherlock sogghignò nel
rispondergli lo fece trasalire di orrore. “Semplice. La mente di quest’uomo è
in grado di partorire Sogni Neri.”
Non appena terminò di parlare, prima che Yorick
potesse anche solo formulare l’abbozzo di una risposta, la figura di Sherlock
venne avvolta da un’incandescente fiamma nera, che proiettò bagliori accecanti
in tutta la stanza, donandole ombre dai contorni funerei. Sparì un istante
dopo, inghiottito dalla cortina di fumo che essa generò, portando con sé John e
lasciando Yorick da solo a riflettere su ciò che gli era appena stato rivelato.
Sogni Neri. Nati soltanto dalle menti degli
uomini che avevano respirato il putrido fiato della Morte, ed erano
sopravvissuti per poterlo raccontare, erano per le creature concepite dalle
fiamme dell’Averno il corrispettivo di un sorso d’acqua fresca per un
viaggiatore del deserto. Trovare chi era in grado di sognarli e sopravvivere
era cosa rara, e i Demoni che ci erano riusciti si contavano sulle punte delle
dita di una mano (non che Yorick avesse possibilità di farlo, ovviamente…);
ancora più esiguo era il numero di coloro che, poi, non avessero finito per
abusare di una tale, inesauribile fonte di energia vitale e fossero stati
condotti alla rovina.
“Spero che tu sappia quello che stai facendo
ragazzo…” mormorò Yorick alla stanza vuota.
L’unica consolazione che aveva era
rappresentata dal pensiero che, se le cose fossero scivolate dalle mani del suo
idiota preferito, il Fratellone sarebbe intervenuto e avrebbe posto fine a
quella follia.
O, per lo meno, così si augurava.
***
Per John Watson, la notte in cui sigillò il suo
patto con il Demone che infestava il Castello della palude fu segnata da un
altalenarsi continuo di sonno e veglia. I contorni tra i due stati erano così
labili, e il suo fisico così provato dagli avvenimenti di quel giorno e dei tre
precedenti, che l’uomo non fu però mai capace di distinguere con sicurezza quando
stesse sognando da quando i suoi occhi fossero effettivamente aperti su quel
luogo surreale e misterioso che era il posto dove si trovava.
Ad un certo punto, ad esempio, ebbe
l’impressione di trovarsi davanti un bellissimo angelo dalle maestose ali nere,
ammantato in una calda luce che, accecante, impediva a John di vederlo in
volto. Quella creatura gli aveva parlato, allungando verso il suo viso una mano
il cui tocco era come fuoco vivo sulla sua pelle, ma John non aveva compreso le
sue parole: solo, si era sentito avvolgere da una dolce sensazione di
protezione, che aveva sedato le sue angustie e gli aveva fatto pensare che, sì,
tutto sarebbe andato per il meglio, che Hamish sarebbe stato bene e lui al
sicuro.
Per molto tempo, fu certo di aver sognato. Ma
quella sensazione intrinseca di sicurezza non lo avrebbe abbandonato per tutto
il resto della sua vita.
***
“Dottor Watson? Caro? È sveglio?”
John mugolò infastidito. Strizzò gli occhi,
rifiutandosi categoricamente anche solo di prendere in considerazione l’idea di
aprirli, e si rigirò nelle calde coperte che lo avvolgevano, dando le spalle a
chi era lì per svegliarlo.
“Altri cinque minuti…” tentò di mugugnare,
anche se quello che effettivamente uscì dalle sue labbra non risultò affatto
simile ad alcun tipo di parola umana.
In risposta alla sua richiesta, l’uomo sentì
qualcuno sospirare divertito, poi un rumore di passi che si allontanavano.
Dovette essersi assopito nuovamente, perché dopo quelli che sembrarono soltanto
pochi istanti le sue narici furono solleticate da un mieloso profumo di tè.
John inspirò profondamente, riempiendosi i polmoni di quell’odore che tanto
sapeva di casa, e che aveva quasi la sensazione di poter assaporare sulle
labbra. Sorrise, socchiudendo un occhio sperimentalmente: poggiato
aggraziatamente sul comodino che costeggiava il letto in cui era disteso, c’era
un vassoio di vetro su cui svettava una tazza di ceramica. Il motivo floreale
che l’abbelliva aveva una delicatezza che parlava di altri tempi; il fuggevole
filo di vapore che si sollevava dal liquido dorato che conteneva fece venire a
John l’acquolina in bocca.
Sospirando soddisfatto, l’uomo si lasciò
cullare da quell’atmosfera familiare, pensando che in pochi minuti si sarebbe
alzato e avrebbe svegliato Hamish, avvertendolo che Mrs. Thompson sarebbe
arrivata da lì a poco per la sua lezione di Francese.
Non si rese conto da subito che c’era qualcosa
di estremamente fuori posto, in quella mattina. Il suo cervello ci mise un po’
a masticare i dettagli stonati, a restituirgli i ricordi del giorno precedente,
a metterlo in allarme sul fatto che qualcosa di fatidico era avvenuto e niente
sarebbe stato mai più come prima. Quando lo fece, lo sconvolgimento fu tale che
a John mancò il fiato.
Tutti i muscoli del suo corpo si contorsero
all’unisono, facendo scattare il suo corpo con la repentinità di una molla e
sbalzandolo fuori dal morbido letto in cui era affondato. Il Dottore finì sul
pavimento, tirandosi dietro le coperte in cui si era crogiolato fino a poco
prima e atterrando malamente sulla sua gamba destra, che protestò lanciandogli
una scossa di dolore.
La mano di John scattò verso il focolaio di quel
male accecante… e fu allora che l’uomo vide il marchio impresso nella pelle del
suo avambraccio. Faceva capolino dai brandelli semi-carbonizzati della manica
della sua camicia: una serie di cerchi concentrici, triangoli sovrapposti e
simboli che l’uomo non riusciva a interpretare.
Lo osservò a lungo, in gola un nodo sempre più
stretto che gli rendeva difficile respirare e gli faceva lacrimare gli occhi. Non
era disegnato in linee nere e spesse, né formato da rosse cicatrici di pelle
marchiata a fuoco: sembrava affiorare dalla morbida pelle del suo avambraccio
in maniera quasi spontanea, come i nei che lo circondavano e la voglia di
nascita che gli segnava il fianco destro; anche il suo colore era più simile a
quello di una macchia della pelle che ad altro.
Come se fosse stato da sempre parte di lui.
Come se non gli fosse stato imposto da quel Demone con gli occhi
caleidoscopici.
Ai ricordo di quelle gemme ardenti il cuore di
John perse un battito. Era reale. Era tutto reale. Aveva stretto un patto con
un Demone. Era in trappola.
Proprio mentre un singhiozzo disperato gli
sfuggiva dalle labbra, il suono lontano di un violino proruppe nella stanza, e
la testa di John scattò verso l’alto. Le note struggenti di una melodia che l’uomo
non aveva mai sentito danzavano nell’aria, suadenti e maliziose a tratti, poi
allegre e gaudenti, poi maliziose ancora, in un crescendo spiraleggiante che lo
teneva con il fiato sospeso e gli faceva dimenticare delle grida che premevano
per uscire dalla sua gola.
Era come se gli parlasse, quella musica
sublime, raccontandogli di avventure ancora da vivere, posti nuovi da visitare,
situazioni pericolose da affrontare con coraggio e astuzia. Gli parlava di sé:
John non poté impedirsi di seguirla.
Si divincolò dalla soffocante stretta delle
coperte, alzandosi in piedi facendo leva su comodino e materasso con le
braccia. Il suo braccio sinistro era in preda ai tremori, la sua gamba era
interessata da spasmi continui, e John non avrebbe permesso a niente di tutto
questo di impedirgli di raggiungere la fonte di quella musica che sembrava risuonare
nel nucleo stesso del suo essere.
Zoppicò sgraziatamente fino alla porta,
ringraziando mentalmente chiunque si fosse peritato di portare il suo bastone
nella stanza che gli era stata riservata e sistemarlo in bella vista, in modo
che potesse afferrarlo al volo. Uscì dalla stanza senza riservare più di un
secondo sguardo ai vestiti nuovi e puliti che, su una sedia vicina, gli erano stati lasciati da Mrs. Hudson
perché si cambiasse.
Il tè aromatizzato alla cannella che la donna
gli aveva portato a mo’ di buon giorno rimase a raffreddare su quel comodino
fino a raggiungere la temperatura di una lastra di ghiaccio.
***
John percorse i corridoi di quella sterminata
magione come un fantasma. Niente pareva aver senso, in quel luogo: porte,
scalinate, ampi androni sembravano succedersi senza alcuna logica, come in un
labirinto; John percepiva il loro mutare dopo ogni suo passo, tanto che mai si
guardò indietro nel suo percorso, sicuro che i suoi occhi non avrebbero
ritrovato l’apertura nella quale si era appena immesso, o la gradinata che
tanto l’aveva fatto penare per essere salita. Talvolta ebbe l’assurda
sensazione che il Castello fosse una creatura vivente, le cui interiora
reagivano alla sua intrusione intricandosi convulsamente, pronte a stritolarlo;
in altri frangenti, invece, fu certo che quei mutamenti fossero accuratamente
orchestrati dal Demone che di quel luogo aveva fatto la sua dimora.
Se il suo destino non fu quello di perdersi per
sempre in quel dedalo ingarbugliato di pareti, condannato a vagare in eterno
alla vana ricerca di una via di uscita, fu solamente grazie a quella sublime
musica che lo guidava.
“Vieni da
me.
Vieni da
me.
Non avere
paura.
Potrebbe
essere rischioso.” gli
sussurravano ammaliatrici le lunghe, struggenti brevi che si susseguivano con
ritmo quasi stantio,
“Ma il
tuo cuore di acciaio brama il pericolo,
ne ha
bisogno per continuare a battere.
Con me
avrai il pericolo
Con me
avrai l’avventura.” gli
assicuravano quei ghirigori infiniti di crome che nessuna mano umana sarebbe
stata in grado di riprodurre,
“Vieni con
me.
Non ti
pentirai di non esserti mai voltato indietro.”
La musica cessò all’improvviso, abbandonando
John proprio davanti alla porta che aveva varcato il giorno prima quando,
accompagnato da Mrs. Hudson e Miss Adler, aveva fatto la conoscenza di Sherlock.
Con il fiato corto per quel percorso interminabile, e nelle orecchie ancora
l’eco di quella melodia angelica, John poggiò lentamente la mano sulla maniglia
di gelido ottone, abbassandola e spingendo verso l’esterno.
La stanza che si aprì davanti a lui, familiare
nella sua estraneità, era immersa in un’oscurità quasi totale. Solo una debole
e morente fiammella, che si lamentava nel focolare mordicchiando un unico
ciocco di legno, segnava i contorni delle figure che le erano più vicine. Prima
fra tutti, quella di Sherlock.
Era affondato in una consunta poltrona che,
anche nel buio, sembrava aver visto giorni migliori. I suoi occhi erano chiusi,
i suoi capelli selvaggi. Il violino ancora poggiato armoniosamente sotto il suo
mento, inclinato verso il basso quel tanto che permettesse al legno lucido di
riflettere i barlumi di quella macilenta fiammella e proiettarli sul volto del
Demone.
John trattenne il fiato. Per uno come lui,
pasciuto a suon di nozioni scientifiche, trovarsi davanti a quanto di meno
scientifico potesse esistere aveva un che di terrificante. Un che di
terribilmente affascinante.
Come se non bastasse, lui a quella creatura che
se ne stava immobile davanti al camino, le gambe distese e i piedi poggiati
oziosamente su un minuscolo sgabello, silenziosa e incurante del mondo, doveva
ogni cosa. Un debito di sangue che avrebbe dovuto ripagare, prima o poi.
“Ci hai messo un po’ a svegliarti.” Sherlock
proruppe all’improvviso, e la sua voce baritonale rimbombò diretta nel petto di
John.
L’uomo trasalì lievemente, spiazzato. Non
credeva che il Demone si fosse accorto della sua presenza, in fondo si era
mosso per il Castello in maniera sufficientemente silenziosa. Fece alcuni passi
nella stanza, incerto su come e se rispondere a quel rimprovero neppure tanto
velato che il Demone gli aveva lanciato contro.
“Mi dispiace. Non sapevo che aveste bisogno di
me.” Mugolò alla fine, sperando che un atteggiamento remissivo sarebbe stato
per lui la scelta vincente.
“Abbandona quell’atteggiamento da cane
bastonato, non ti si addice per niente.”
No, a quanto pareva. John si martoriò con i
denti l’interno delle guance, fino a quando un caldo fiotto di sangue dal
sapore metallico non gli invase la bocca. Alzò gli occhi, che fino a quel
momento aveva tenuto incollati sul pavimento. Davanti a lui, Sherlock (che
aveva abbandonato il suo violino sulla poltrona per fronteggiare John in tutta
la sua maestosità) lo squadrava dall’alto in basso, la bocca ridotta a una
linea sottile di disappunto.
“Vedo
che non hai beneficiato degli abiti che ti ho fatto portare da Mrs. Hudson. La
poverina ha lavorato tutta la notte, per riadattare quelle cose alle tue
misure.” Gli disse, inarcando le sopracciglia in maniera quasi innaturale.
La mano di John si strinse istintivamente
contro l’impugnatura del bastone. Annuì gravemente, ripetendosi ancora e ancora
che non sarebbe stata una buona idea inimicarsi niente meno che un Demone.
Sherlock prese atto della sua condiscendenza.
Se non avesse saputo che aveva davanti un uomo che era sopravvissuto ad
un’atroce guerra, avrebbe giurato di essere al cospetto di un noioso paesanotto mite e terrorizzato. Avrebbe dovuto trovare il
modo di far capire a John che quell’atteggiamento non solo non gli era gradito,
ma gli era decisamente indigesto. Ma ci sarebbe stato tempo, per quello: adesso
Londra li stava aspettando.
Esalò un lungo, rassegnato respiro. “Pazienza.
Ora però vai a prepararti. Ci sono così tante cose che dobbiamo fare,
quest’oggi!” esclamò, afferrando John per le spalle e girandolo verso la porta
da cui era entrato.
L’uomo oppose decisa resistenza, spostando il
suo peso all’indietro per contrastare la spinta del Demone. “C-cosa?” balbettò,
cercando gli occhi di Sherlock coi suoi,
“Il Lavoro, John! Oggi ci dedicheremo al
Lavoro.” Ribatté il Demone irritatamente, spingendolo più forte.
John non aveva la più pallida idea di cosa
intendesse Sherlock con il termine “Lavoro”, e non era neppure certo di volerlo
realmente sapere. Le immagini apocalittiche che gli affollavano la mente al
pensiero di quale fosse il mestiere di un Demone, poi, non andava molto
d’accordo con il suo riflesso gastro-esofageo.
“Hamish non
avrebbe reagito così. Lo avrebbe sfiancato a furia di domande.”
Hamish. Il pomeriggio precedente John era
collassato prima di potersi accertare che Sherlock avesse portato a termine la
sua parte dell’accordo. Prima di essere certo che suo figlio stesse bene. Che
razza di padre avrebbe tollerato una cosa del genere? Puntò i piedi a terra,
rigirandosi nella presa di Sherlock fino a che i loro visi non furono che a
meri centimetri di distanza.
“Prima, se permettete, avrei una richiesta per
voi.”
C’era acciaio nella sua voce, e polvere da
sparo. Ascoltando attentamente vi si sarebbero potute rintracciare le vestigia
del Capitan John Watson, del Quinto Reggimento dei Fucilieri Northumberland, solitamente sepolte sotto sorrisi bonari e
maglioni informi. A Sherlock la cosa non sfuggì, e le sue labbra si
arricciarono in un sorriso sornione.
“Ah sì? E cosa ti fa pensare di essere nella
posizione di potermi fare richieste di alcun tipo?”
Il tono provocatorio che pervadeva la risposta
che Sherlock aveva formulato incendiò le iridi del Dottore. L’uomo scattò
all’indietro, allontanandosi da Sherlock. Le sue pupille, ridotte dall’ira allo
spessore di una capocchia di spillo, lo osservavano velenose. Il sorriso di
Sherlock raggiunse i suoi occhi, conferendogli una sfumatura dispettosa.
“Tranquillo, Dottore. Se la richiesta riguarda
la condizione di tuo figlio, sappi che noi Demoni siamo vincolati in maniera
imprescindibile alle clausole dei Patti che stringiamo.” Esclamò, tendendo la
mano verso il caminetto.
Subitamente, la consunta fiammella che lo
abitava prese vigore, tingendosi di una disarmante tonalità di blu in un coro
di crepitii e schiocchi. John osservò rapito le lingue di fuoco danzare in
maniera sempre più convulsa, fino a quando nei bagliori più intensi non
cominciò a distinguere il succedersi di confuse immagini.
Quando il volto di Hamish comparve fra le
fiamme, per poco le sue gambe non cedettero.
Era sveglio. Stava bene. I suoi occhi erano
stanchi e tristi, le sue guance scavate da giorni di febbre e alimentazione
stentata, ma era indiscutibilmente, meravigliosamente vivo.
John non combatté le lacrime che gli salirono
agli occhi: le lasciò scorrere, e ad ognuna di esse fu come se un’oncia del
peso che gli costringeva il petto si sollevasse. Sherlock lo guardò in
silenzio, e anche se i suoi occhi gravavano sulla pelle di John come macigni,
l’uomo si sentì grato del fatto che il Demone avesse deciso di non parlare.
Solo quando fu certo che John si fosse
rassicurato a sufficienza, Sherlock fece scomparire l’immagine del bambino dal
focolare. Tese una mano verso John, poggiandola delicatamente sul suo
avambraccio.
“Ora, va a prepararti. Londra ci attende.”
John abbassò la testa in un muto, rassegnato
assenso. Mentre si allontanava rifletté che, evidentemente, la clausola che gli
impediva di lasciare il Castello, se per espresso ordine di Sherlock, non era
così vincolante.
***
Nel cupo vuoto della sua dimora infernale,
Mycroft osservava nella superficie chiara di un antico specchio lo snodarsi di
una scena che non aveva precedenti nella sua memoria. Arricciò il naso,
scontento di ciò che vedeva, e per un secondo fu quasi tentato di frantumare l’oggetto
che si era fatto ambasciatore di notizie tanto sconcertanti.
Se quello che vedeva rispecchiava il vero,
avrebbe dovuto recarsi nel mondo degli uomini al più presto, per arginare la
situazione prima che provocasse danni irreparabili. Sperò vivamente che
quell’essere umano noto come John Watson non rappresentasse una minaccia per
suo fratello: in caso contrario, beh… all’Inferno c’era sempre spazio per una
nuova anima da torturare.
Note dell’autrice:
Già… Sogni Neri.
Devo aver mangiato
particolarmente pesante, prima di scrivere questo capitolo xD
Comunque, la cosa che più
mi preoccupa da qua in avanti è il problema rating. Lo avevo programmato giallo
per tutto il corso della storia… temo che le cose mi stiano appena appena
sfuggendo di mano :P Che posso dire… questi due si attirano a vicenda come
calamite xD
Bene, fine dei miei
vaneggiamenti ;) Al prossimo capitolo, grazie ancora a tutti voi per il
sostegno che mi date! Sono così felice che mi metterei a girare in giardino
come un orsetto ;D
Baci :*
PS: ha inizio la mia
nuova, maestosa impresa… come scrivere della risoluzione di un crimine senza
scrivere della risoluzione di un crimine? :P Mi voglio proprio bene….