-E poi?-
-Poi, poi... Poi questo.-
Sollevai la testa, avevo paura a guardarla.  Pensavo che come ogni persona in quella situazione avrebbe pianto. 
Lei scoppiò a ridere. Rideva forte, di cuore. Io rimasi spiazzata. Spalancai lo sguardo verso Richard, che come me era sorpreso. 
-Ahahahahaha.... Ma ci pensate, anni passati a studiare e combattere il cancro... È ora lui mi sta portando via. Strani scherzi del destino.- 
-Mi dispiace tanto, davvero...- dissi.
-Anche a me... mi dispiace pensare che non potrò più curare i miei pazienti e passare tempo con loro.-
Non potevo credere a quella che aveva appena detto. Nel mio mondo, nella mia testa, in me non era mai nato un pensiero così altruista. Non lo concepivo. Per me ero sempre e solo esistita io. Dopo Carly sempre e solo io. Non meritavo il contatto umano. Il calore umano. L'amore.
Non disse nulla dopo. 
Nemmeno io.
Nemmeno Richard.
Lei si tirò su nel letto, e poi lentamente cercò di mettersi seduta. Le gambe magre e pallide penzolavano giù dal letto. Richard si offrì di aiutarla, ma lei fece cenno di restare dove era. Sì alzò, e afferrò la sedia che affiancava il letto. La trascinò lenta verso un piccolo armadietto e lo aprì. Dentro era stato montato un ripiano e ora era un bodoir. Sopra aveva appoggiata una testa plastica che sosteneva una parrucca. Premette un piccolo interruttore è una serie di lucine dell'albero di Natale si accesero. Lei sorrise. 
-Questo è stato un regalo dei miei colleghi.-
Prese una trousse e ne estrasse un tubetto di fondotinta troppo scuro e della cipria.
Il colore della sua pelle non si avvicinava nemmeno lontanamente a quello del trucco, ma supposi che lo usava per coprire le occhiaie e il pallore della malattia.
-Da quanto…?- domandò Richard.
-Quattro mesi… secondo quarto stadio, al fegato. Davvero una brutta bestia… si chiama Oliver.-
-Oliver?-
-Si… il mio cancro si chiama Oliver, mi madre pensa che da quattro mesi mi frequento con un certo Oliver… ahahahahah- spremette il liquido su una spugnetta e lo spalmò abbondantemente sul viso.
-Non lo sa? Non l’hai detto a tua madre?- il distaccamento era sempre maggiore.
–No, ma lei vive in Minnesota adesso… da una sua cugina, da quando mio padre se n’è andato ha preferito tornare nel suo stato.-                                                                           
-Ah.- dissi sgomenta.                                                                                                                   
–Non ti preoccupare scrittrice, quando lo saprà io me ne sarò già andata e non soffrirà… non saprà che ad uccidermi è stato un cancro. Ah, ehm… Tyler, tu sei pratico di trucco?-                                     -Quello che basta per una performance… cosa devo fare?-                                                  
Richard si alzò, lasciò la mia mano, e si avvicinò a lei, per poterla osservare più da vicino.                                                                                                                                             
–Voglio sembrare il più reale possibile, okay? Nessun effetto maschera… devo avere un bel colorito, faccio la notte e metà delle infermiere che sono di turno la sera sono delle complete idiote, quindi meglio che la mia faccia abbia un aspetto affidabile.- descrisse così, brevemente, quello che Richard avrebbe dovuto fare, e lui obbedì. Come se sei fosse una star del cinema e lui il suo make- up artist.  Sentivo lo sconcerto, e forse anche un po’ di fastidio salire dallo stomaco alla gola, poi fino all’estremità delle mie membra. Strinsi i pugni. Gettai lo sguardo su Beth e Eugenia che si rotolavano sul pavimento.                                                                                                 
–Non così Beth, ti fai male…- dissi con la voce spezzata.                                                            
–Claire Lambert non fare quella voce, non fare così… cosa c’è di male?-  Lei, con il volto inclinato all’indietro, si lasciava truccare da Richard.                                              
Trattenni la voglia di urlare e piangere in un morso al labbro.                                          
–Nulla, non c’è nulla… sono solo molto stanca. Richard, sarà meglio andare a cercare un Hotel…-                                                                                                                                    
-Starai scherzando? Casa mia non vede l’ombra di una persona da troppo tempo… potete stare da me, davvero. Qualcuno farà meglio a dormire nel mio letto.- scosse flebilmente il capo, e si voltò verso di me.  Mi sorrise, e poi si rigirò di nuovo verso Richard. Lui finì di truccarla.                                                                                                      
–Sisisisi… mi piace molto. Bravo, bravo Tyler! Vedete ci vuole davvero poco per sembrare vivi. Ora ragazzi, se non vi dispiiace vi chiederei di andare… devo finire di sistemarmi. Claire, torna domani… almeno possiamo parlare.- Annuii, mentre le sue ultime parole mi rimbombavano nella testa. “Sembrare viva”. Si sentiva già morta? La lasciammo seduta davanti allo specchio, intenta a sistemarsi la parrucca.
 
 
Vuoto. Era la sensazione che ti coglieva quando entravi in casa di Grace.                       
Buio e vuoto. Erano le sensazioni che percepivo, invece, quando cercavo di guardare in me stessa. Non avevo detto una parola, non avevo accennato nulla. Ne si, ne no. Nemmeno quando Beth mi chiese se avesse potuto tenere Cleo, una volta tornata a Londra. Camminai dritta nella camera di Grace, e lì rimasi sdraiata nel letto sfatto e stropicciato. Passò il tempo, divenne buio. Non feci assolutamente nulla, non cambiai posizione. Ero vuota. Completamente svuotata da ogni tipo di pensiero, azione, sentimento. Sentivo solo la necessità di lasciarmi andare, ma non riuscivo. Avrei voluto alzarmi, urlare, piangere, distruggere tutto. Buttare a terra i sette vasetti di terracotta che stavano sul davanzale della finestra. Strappare le tende, buttarmi contro il muro fino allo sfinimento. Fino al limite, ma nulla. Non sapevo come fare. Non sentivo nulla assolutamente nulla. Non mi facevo più domande.                                                 
–Claire? Stai bene?- Richard. Era passato davanti alla camera 23 volte. Le avevo contate. Sempre buttando l’occhio, ma senza dire o chiedere nulla. Penso temesse una qualche mia crisi isterica. Come biasimarlo.                                                                                                    
–Claire, hai bisogno di qualcosa? Rispondimi, per favore, dimmi solo se vuoi qualcosa, poi ti lascio stare sola. Lo giuro. So che vuoi solo essere lasciata in pace, ma rispondimi. Ti prego.-              Gli davo le spalle, ma avrei potuto dipingere il suo volto, la sua espressione. La bocca dischiusa, il ciglio destro alzato e lo sguardo rassegnato di chi ci sta provando per davvero a non esplodere. Mi rannicchiai, senza mai voltarmi.
–Ok, ho capito…- sentii il suo passo muoversi all’indietro. Se ne stava andando. Mi rizzai a sedere.                                                         
–Richard… non ho… bisogno… di stare sola.-  e parole uscirono meccaniche, a stretto comando. Appena finii la frase, percepii qualcosa di umido scivolare lungo la mia guancia. La voce mi si spezzò sul “sola”. Per un attimo interminabile non avvertii rumori, solo la sigla dei Muppet provenire dalla cucina. Poi calpestio frenetico di due piedi. Me lo ritrovai sdraiato davanti a me. Gli crolla tra le braccia. Quasi svenuta. E lui mi strinse. Lasciò scorrere la sua mano sulla mia schiena a lungo, per placare i miei brividi.                                                                                          
Non fui capace di fare nient’altro, solo annusare il suo profumo. Sapeva di Londra.