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Autore: Ray Wings    14/11/2014    2 recensioni
Non voltare la testa, non andartene di nuovo! Sono cambiata. Sì, è vero, non sono più Alice! E questa ti sembra una colpa? Tu e il tuo strafottutissimo gruppo del cazzo mi avete trascinata qui: è solo colpa vostra. Mai più, mai più rivedrò gli occhi di mia sorella o di mia madre, ed è solo colpa vostra. Mai più rivedrò i tuoi occhi. Ma quelli non voglio nemmeno ricordarli, vuoti e disperati, mentre affondavano e annegavano e io impotente sulla spiaggia a pregare.
Mi avete lasciata sola, cazzo!
Sono rimasta in un angolo a piangere, come ho sempre fatto, aspettando l'arrivo di qualche supereroe dimenticandomi che questa è la fottuta realtà! Che qui si muore!
E sono morta.
Dimentica Alice...te la sei portata via.
So che sei un sogno, stai sfumando, comincio a non vederti più e so che quando aprirò gli occhi sarò di nuovo sola. Ma non voltare la testa. Guardami fino alla fine...guarda l'Oceano. Fino alla fine. Come ho fatto io. Pregando, sciocco, di svegliarti.
Manu. Guardami.
Ora sono Ocean.
[In revisione]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daryl Dixon, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Convergenza evolutiva

<< Prendila tu, Daryl! >> urlavano i suoi sogni, fumo che andava disperdendosi nella silenziosa notte.
<< Andate!! >> echi in lontananza, che tornavano, flebili, ma chiari nel loro tentativo di schiacciare chi era presente.
<< Andate! >>
<< No, aspetta. >>
<< Andrà tutto bene, Molly. >>
Sogni su sogni, echi che scacciavano i precedenti, che tornavano, rimbalzavano, si allontanavano e poi colpivano senza sosta quella nera figura seduta a terra, raggomitolata tra le radici sporgenti di un albero, schiacciata a esso, sentendosi un coniglio incapace di tornare nella sua tana. Incapace di tornare a casa sua. Solo nel suo pericolo.
Le braccia tese coprivano, quasi schiacciavano, il viso, nascondendolo e proteggendolo. Aveva freddo. Aveva paura.
Ed era irrimediabilmente sola.
<< Max! >> un altro urlo, disperato in tutta la sua forza, risvegliò altri sogni, ricordi, paure.

<< Prendila tu, Daryl! >> aveva implorato Ocean quella mattina, cercando di porgere la bambina a Daryl, compagno di quel piccolo viaggio che, incredibilmente, l'aveva reso il più grande dopo così tanto tempo. Il resto era stato tutto così rapido che nessuno dei due era riuscito a quantificare il tempo e a decifrare bene le azioni svolte, in pochi attimi Ocean si era liberata di Molly, lasciandola a Daryl, e lui era fuggito via senza voltarsi. Senza tornare indietro. Ed era stata la cosa più giusta che potesse scegliere di fare.
Ocean aveva sfoderato la spada nell'istante in cui li aveva incitati a correre via e si era buttata a capofitto in quell'onda violenta, uno tsunami che aveva fronteggiato con forza e coraggio, richiamando energie che neanche sapeva di possedere. Non si era voltata indietro, non si era assicurata che Daryl avesse seguito il suo suggerimento, ma sapeva che l'aveva fatto. Aveva una bambina da proteggere. Gli zombie erano più numerosi di quello che aveva calcolato inizialmente, probabilmente i rumori della battaglia ne stavano attirando altri che fino ad allora erano rimasti nel bosco a vagare e mangiare scoiattoli che non sempre riuscivano a fuggire. Tagliò la testa al primo, afferrando il corpo prima che cadesse al suolo e lo lanciò contro chi aveva di fronte. Non voleva ucciderli tutti, non ne sarebbe stata capace, doveva solo riuscire a passare e portare via il suo amico. Era più facile scappare. Con un colpo di spada dal basso verso l'alto aprì il ventre di un altro di quei Putridi che la stavano circondando, questo ovviamente non lo uccise, ma il colpo inferto lo fece cadere all'indetro e guadagnare altro tempo. Corse. Uno davanti a lei era già pronto, fauci spalancate, per riceverla e addentarla, incurante dello sguardo ben fermo e deciso della ragazza mentre gli correva incontro. Sapeva che non erano il top della resistenza, avevano un equilibrio precario e bastava poco a piegarli, tutto causato dalle loro ossa e muscoli ormai in putrefazione e marci. E su quel principio si basò quando gli arrivò addosso con una spalla, ben china su se stessa, scaraventandolo a terra e rotolando lei stessa poco più lontano. Era riuscita così a crearsi un varco tra di loro, arrivando al suo obiettivo, anche se nella caduta, non seppe bene come, lo zombie aveva trattenuto a sè uno dei suoi guanti, forse nel tentativo di afferrarla. Max, poco lontano da lei, continuava ad abbaiare rabbioso contro chi gli si stava lanciando addosso, correndo, arretrando, cercando una disperata via d'uscita.
Un altro dei Putridi avanzò, cercando di afferrarlo e lui ancora si voltò velocemente e scappò, infilandosi tra le loro gambe, cercando di uscire dall'orda, e ritornò sulla strada, vicino all'auto. Ocean si alzò cercando di riprendere a respirare: nella caduta a terra aveva sbattuto il fianco e il fiato le era mancato per il dolore. Uno di loro le arrivò alle spalle, cogliendola di sorpresa, ma per fortuna non abbastanza da morderla prima che potesse difendersi: era sempre pronta, da quando era cominciato tutto, a reagire alle sorprese. Il suo carattere l'aveva aiutata molto: nelle situazioni di pericolo, spesso (ma non sempre, a quanto pare, dato ciò che era successo alla chiesa) il suo cervello rallentava le azioni intorno a lei e le donava una lucidità unica, capace di trovare soluzioni in pochi attimi. E per quello riuscì a salvarsi: si portò istintivamente una mano dietro la spalla, afferrando lo zombie per fronte e capelli. Non avrebbe potuto tenerlo a lungo, loro non sentono dolore e la loro pelle marcia rende tutto più difficile a volte: la pelle e il cuoio capelluto si stava staccando dal suo proprietario, non impedendogli di avanzare verso la sua carne. E all'urgenza si stava sommando urgenza: davanti a lei un altro di loro stava per lanciarsi verso la sua preda. Lasciò cadere la spada a terra, sfoderò la daga, più comoda in certe occasioni, e la conficcò nella testa che aveva quasi sfiorato la sua spalla. Non ebbe tempo di sfilarla e liberarsi del corpo, l'altro zombie l'aveva raggiunta. Alzò un piede e sferrò un calcio davanti a sè, spingendolo via. Il contraccolpo e il peso che ancora aveva aggrappato alla schiena le fecero perdere l'equilibrio e cadere all'indietro, atterrando pesantemente sul corpo del Putrido, che, dato la sua fragilità e il peso della ragazza atterrata sopra di lui, si aprì come un palloncino pieno d'acqua, riversando sotto di lei qualsiasi cosa contenesse: budella, sangue e cibo appena ingurgitato. Si alzò subito, scuotendo la testa frastornata, ma dovette tornare subito in sè, non c'era tempo. Si chinò sullo zombie schiacciato, ormai impacciata per via di confusione e dolori sparsi qua e là, e afferrò la sua daga per sfilarla, ma era incastrata e non venne via. La sua debolezza completava l'opera: cominciava ad essere veramente stanca. Puntò i piedi per terra e tirò all'indietro usando la forza che le rimaneva alle gambe per fare leva. La daga era conficcata così in profondità e incastrata così bene che Ocean dovette trascinarsi dietro il corpo per un po' prima di riavere la sua proprietà. La violenza con cui poi venne via le fece perdere ulteriormente l'equilibrio, barcollando all'indietro, lasciandosi sfuggire un grido, ma fortuna volle che dietro di lei ci fosse un albero su cui potè poggiarsi per evitare di finire nuovamente a terra. Si poggiò sul tronco con una mano, cercando di riprendere subito l'equilibrio, e riprendendo immediatamente a correre, senza neanche notare l'impronta insanguinata che aveva lasciato sulla corteggia ben disegnata. Sfoderò un altro paio di colpi, aprendosi un'altra strada, riafferrò la spada lasciata a terra e corse di nuovo verso il suo amico, zoppicando e arrancando. Riuscì a vederlo di nuovo: le spalle schiacciate contro l'auto, tre zombie che lo avevano circondato di nuovo e stavano avanzando verso lui che ancora faceva l'unica cosa che poteva fare: abbaiare, nella speranza di spaventarli.
<< Max!! >> urlò Ocean correndogli incotro.
Uno dei Putridi si lanciò in avanti, braccia tese, pronto ad afferrarlo, e Max disperato si voltò velocemente e cercò di saltare sul cofano dell'auto. Mugolò quando sentì una fitta alla zampa e una forza che lo tratteneva nel salto, facendolo sbattere contro il cofano, impedendogli di salire del tutto. L'aveva preso. Gli aveva afferrato la zampa e lo aveva trattenuto, facendolo sbattere. Max, orecchie basse e sguardo disperato, tentò di usare le unghie per salire sull'auto come programmato ma scivolava e lo zombie non lo lasciava. La zampa gli doleva.
<< Max!! >> urlò ancora Ocean riuscendo finalmente a raggiungerlo, si lasciò cadere in avanti in un disperato tentativo di arrivare prima, la spada ben tesa davanti a sè andò a colpire la giuntura del gomito del Putrido che non voleva lasciare il suo amico. L'impatto tagliò di netto il suo braccio, ma la forza impressa contro esso tirò giù anche la parte di braccio attaccata alla zampa del cane, trascinandoselo dietro e facendolo cadere sull'asfalto con un tonfo. Un altro guaito prima di cominciare a divincolarsi per rimettersi in piedi. Ocean tentò anche lei di rialzarsi, ma voltando la testa fece appena in tempo a vedere il volto del suo aggressore mentre le cadeva addosso con le fauci spalancate. Neanche lei seppe bene con quale forza e quale destrezza riuscì a piroettare la spada, nonostante la scomoda posizione, e a recidergli il cranio, aprendoglielo e uccidendolo. Sangue e cervello colarono sul suo viso. Il disgusto e la voglia di vomitare le diederò la forza per spingere violentemente via il corpo morto che le stava sopra.
Vomitò, non riuscendosi più a trattenere. E si odiò per questo: era un pessimo momento per fermarsi per certi bisogni fisiologici. Cercò di correre via subito, arrancando, ancora sporca di qualsiasi cosa ci fosse intorno a lei. Si poggiò al cofano, debole, dolorante, sicuramente ferita e le gambe che tremavano per sforzo e paura. Ma la mano che reggeva la spada non cedeva. Con un colpo orizzontale, deciso, aprì il volto a un altro di loro, facendosi strada. Vide Max, davanti al muso dell'auto, che si guardava attorno ormai impanicato, ferito anche lui e con la zampa che era stata afferrata sollevata in alto, incapace di posarla a terra senza sentire un dolore atroce. Inciampò nella sua maldestria, sbattendo il muso di nuovo contro l'asfalto. Ocean gli corse incontro, barcollante anche lei, rinfoderò la spada e usò entrambe le braccia per raccogliere il suo amico e tirarselo su. Si guardò attorno in cerca di una via d'uscita: non ce n'erano.
I suoi occhi si tinsero di disperazione.
Non così. Non poteva finire così.
Aveva paura. Ma non per sè...Max. Max doveva salvarsi!
Arretrò velocemente, sbattendo contro il muso dell'auto e senza pensarci due volte si arrampicò su essa e si infilò dentro, passando dal parabrezza che lei stessa aveva sfondato poco prima. Fece cadere Max sul sedile posteriore e lo seguì con la stessa grazia, spingendosi e cadendo, ma arrancando riuscì a fare ciò che andava fatto prima che fosse troppo tardi. Si spinse dietro, verso il portabagagli e con forza lo chiuse. Prese poi il divisore in plastica dura che separava il portabagagli dal resto della vettura e ancora con una velocità che solo la paura di morire poteva dargli si spinse sui sedili anteriori e lo schiacciò sul parabrezza frantumato, improvvisando un tappo che non avrebbe sicuramente retto se non qualche secondo. Riuscì a fermarlo legando i suoi lacci elastici a delle piccole sporgenze ai lati del parabrezza, resti di vetri o di carrozeria: insomma niente di resistente. Ma non sapeva che altro fare. Intanto uno dei Putridi cercò di entrare nell'auto dallo sportello accanto a sè spalancato. Lanciò un urlo e con un altro paio di calci riuscì a spingerlo via e chiudere lo sportello. Spinse poi le sue spalle contro il tappo improvvisato, usando anche la sua forza per impedire che venisse tolto. Solo la disperazione continuava a tenerla in vita. Era chiusa in un auto che mai avrebbe retto al peso dei Putridi sul parabrezza, che mai sarebbe stata sicura e libera. Mai sarebbero usciti di lì. Lanciò un urlo cercando di raccogliere le forze per continuare a resistere alle spinte che venivano date alle sue spalle. Una lacrima le rigò il viso. Erano finiti. Non potevano farcela. Un singhiozzo.
Cosa doveva fare? Cosa poteva fare?
Max steso sui sedili posteriori ormai non si muoveva più e Ocean l'avrebbe creduto morto se non fosse stato per i suoi gauiti flebili.
Ancora un urlo disperato. Una richiesta di aiuto che mai sarebbe arrivata a chi di dovere.
<< Aiutatemi. >> singhiozzò ancora.
E all'improvviso si ritrovò a urlare con quanto più fiato avesse, mossa dall'istinto, qualcosa che la sorprese << Daryl!!!>>.
Aveva sempre creduto di potercela fare da sola. Era sempre stata sola, non aveva bisogno di nessuno, non voleva nessuno, eppure in quel momento, dopo tutto quello che era successo, aveva pregato di averlo accanto. Perchè sapeva lui l'avrebbe potuta tirare fuori dai guai. Lui aveva vegliato su lei in quei due giorni, e per la prima volta dopo tanto tempo si era sentita sicura. A lungo era fuggita dalle persone, non volendo più avere niente a che fare con loro, disprezzandole e scansandole. Tutte!! Nessuno escluso. E aveva pensato che soprattutto quel Daryl era da evitare come la peste, perchè era il peggiore di tutti, lo si vedeva, era uno stronzo a prima vista. Ma l'aveva giudicato male. Ora... aveva bisogno di lui. Solo allora se ne rese conto. Era stato l'unico essere umano con cui aveva avuto a che fare dopo così tanto tempo, l'unico essere umano che l'aveva fatta sorridere e fatta star bene dopo quel giorno...E lui sarebbe tornato...sì, sarebbe tornato a salvarla! Lo aveva fatto prima, perchè non poteva succedere di nuovo? Lui...aveva la sindrome dell'eroe. Non l'avrebbe mai lasciata sola.
Ma avrebbe resistito fino ad allora?
Un altro colpo arrivò dalle sue spalle, spingendola un po' in avanti, quasi sfondando il suo tappo provvisorio, ma con un colpo di spalle riuscì a far tornare tutto al suo posto.
No, non avrebbe resistito un minuto di più.
<< E va bene. >> disse tra sè e sè ormai decisa. Si spostò velocemente dal tappo, pregando reggesse ancora qualche secondo da solo senza sostegno e si lanciò verso i sedili posteriori, dove era steso Max. Aveva la mano sporca di sangue, sia suangue loro che suo, era abbastanza per permetterle di scrivere qualcosa. Una disperata richiesta d'aiuto. Un addio.
"Sindrome dell'eroe".
Avrebbe sicuramente attirato la sua attenzione quando sarebbe tornato, era un messaggio rivolto solo a lui, la sapeva, ed era anche un suo personalissimo addio con una delle sue battute sarcastiche tanto "gli piacevano". Perchè di quello si trattava, due sole parole per dire così tanto: aiutami. Sapevo che saresti tornato. Non puoi proprio fare a meno di correre ad aiutare le persone. Io te l'avevo detto.
Addio.
Fece un respiro raccoglitore.
<< Andrà tutto bene, Max. >> disse non sapendo bene chi dei due stava cercando di rincuorare, e con uno sprizzo di coraggio che non aveva spalancò la portiera con forza, spingendo via gli zombie che ci si erano appoggiati sopra, uscì e la richiuse velocemente prima di allontanarsi di qualche passo. Si voltò a guardare quelli che si stavano affaccendando sull'auto e lanciò un urlo << Ehi!! >> gridò due, tre volte, sempre più forte, dimenandosi e sbracciandosi << Sono qui!! >>.
Molti la sentirono e furono attirati dal suo rumore, altri invece erano ancora attratti dall'odore del cane dentro l'auto. Ocean si chinò a raccogliere un sasso, arretrò di qualche passo per allontanarsi da chi si stava già dirigendo verso lei e lo lanciò verso quegli zombie che ancora non la consideravano.
<< Prendetemi! Forza! >> Si voltò, guardando di nuovo il bosco a lato strada: non poteva correre per strada, non aveva modo di nascondersi, non sarebbe riuscita a liberarsi di loro. Cominciò a urlare con tutto il fiato che aveva, continuando ad attirare la loro attenzione, voleva portarseli tutti dietro. Dovevano lasciare in pace Max. Lui doveva salvarsi. Daryl sarebbe riuscito a salvare almeno lui. Lo sapeva.
Corse nel bosco, continuando a farsi strada da chi si trovava di fronte, utilizzando quasi solo spintoni e spallate, non aveva tempo di giocare alla guerra. Riuscì a inoltrarsi nuovamente tra gli alberi, ma era ancora sul campo di battaglia.
Si sentì improvvisamente strattonare all'indietro e lanciò un altro urlo, spaventata. Si voltò e vide che uno degli zombie che le erano sbucato di fianco l'aveva afferrata per la sacca. Cercò di strattonarla per liberarla: era sua! C'erano le sue cose dentro. Ma lo zombie non mollava la presa e lei non aveva tempo da perdere, doveva scappare o si sarebbe di nuovo trovata circondata.
<< Vaffanculo!! >> urlò tra le lacrime quando lasciò la presa, lanciando addosso al Putrido il suo bottino e scappando via, urlando ancora, sbattendo la spada contro pietre e alberi, attirandoli lontani dal suo amico. Dolore e fatica. Non c'erano altro in lei. Voleva fermarsi, voleva riposare, non riusciva che a zoppicare, ma la sua disperata voglia di vivere la spingeva sempre più avanti, arrancando, inciampando ma senza fermarsi.
Non ancora.
La notte era calata da tempo, l'oscurità nascondeva non solo lei, ma anche tutti i possibili pericoli che poteva avere attorno. Aveva dolori ovunque, lividi e ferite che ancora vomitavano sangue. I muscoli avevano lavorato più di quanto era per loro possibile e ora non facevano che chiedere pietà, riposo e cure. Il freddo la faceva tremare come una foglia. La paura ancora non se n'era andata, aggiungendo scosse ad altre scosse. Ma nonostante tutto questo lei dormiva. Si era lasciata andare nel momento in cui era crollata a terra, tra quelle radici, come un animale che tenta disperatamente di nascondersi, e non aveva neanche fatto in tempo a sistemarsi per cercare una posizione comoda che gli occhi si erano chiusi e l'oblio era calato su lei.
Passò un l'intero pomeriggio e la notte che seguiva a dormire, un sonno senza sogni, solo qualche ricordo che tornava come un esplosione, si mostrava, spaventava e poi lentamente si diradava.
Qualche zombie era passato di lì più volte, notandola, ma lasciandola stare: era ricoperta di sangue marcio e interiora, puzzava come uno di loro, ed era immobile se non per qualche lamento e movimento causato dal continuo irrigidirsi del muscoli. La scambiavano per una di loro, non profumava affatto di cibo, e proseguivano per la loro strada.
Il giorno successivo, dopo quasi 24 ore di sonno, Ocean riaprì gli occhi e si sentì peggio di un cadavere. Aveva la nausea e sentiva ancora più dolore del giorno prima, gli occhi bruciavano, la gola secca continuava a procurarle tosse e il mal di testa non voleva lasciarla in pace. Si puntellò su un braccio e tentò di rialzarsi, guardandosi attorno, sollevandosi con fatica e cercando di rimettere ordine ai pensieri. Per sua sfortuna ricordava tutto quello che era successo. Aiutandosi con l'albero che aveva alle spalle si sollevò in piedi, gemendo a ogni movimento: i muscoli sembravano essere diventati di pietra.
Aveva sete. Doveva trovare dell'acqua.
Così cominciò a camminare verso l'unica direzione che conosceva, lenta, muovendo a fatica le gambe, e zoppicando. Il sangue era incrostato ovunque e alimentava la sua nausea con quel suo odore disgustoso.
Non si chiese cosa avesse dovuto fare ora. Era una domanda che non voleva porsi, perchè già sapeva che non avrebbe trovato risposta. Era sola e senza un obiettivo, senza sapere cosa avrebbe fatto ora della sua vita, e per ora si limitava a seguire l'istinto e andare alla ricerca di una fonte d'acqua.
Qualsiasi pensiero le venisse alla mente lo scacciava in malo modo: ora l'acqua! Ora solo l'acqua!
Camminò a lungo, o forse così le sembrò data la sua lentezza, quando raggiunse una casa isolata, una di quelle villette nel bosco che tanto piaceva alla gente. Forse lì dentro c'era dell'acqua, forse c'era ancora acqua corrente. Cercò di accelerare il passo, digrignando i denti per il dolore, e raggiunse velocemente il pianerottolo esterno. Salì gli scalini e si avvicinò alla porta a vetri. Lanciò uno sguardo dentro, cercando di vedere oltre l'opacità causata dalla polvere. Sembrava tranquillo.
Bussò, per sicurezza. Nel caso ci fosse stato qualche zombie il rumore l'avrebbe attirato e lei non sarebbe stata colta impreparata.
Nessuna risposta. Posò la mano sulla maniglia e aprì, entrando lentamente e cautamente. La sala sembrava deserta. Si chiuse la porta alle spalle e zoppicando cominciò ad avanzare, cercando un bagno o una cucina. Qualsiasi cosa avesse un lavandino.
Entrò nella cucina, separata dal resto della casa da una tendina a perline che scendeva dall'alto, molto all'antica, e cercò il lavandino con gli occhi.
Un paio di occhi bianchi all'improvviso la fecero sussultare. Rimase pietrificata mentre lo zombie che le si era piazzato davanti la scrutava.
"Merda!" pensò mentre l'istinto le portò velocemente la mano alla spada. Ma non la estrasse.
Cosa aspettava ad attaccarla?
Lo zombie fece qualche verso, lamentò, sembrò guardarsi attorno e poi si voltò e si allontanò lasciando Ocean completamente disorientata. Si guardò i vestiti, curiosa di capire cosa avesse tenuto a distanza la morte, e subitò capì che si era salvata solo grazie al sangue di quei due o tre zombie che il giorno prima avevano riversato su di lei tutto ciò che contenevano.
<< Scambiata per un morto. >> parlottò tra sè e sè e provò a ridere, ma dalla sua bocca uscì solo qualche colpo di tosse che le raschiò la gola come la lama di un coltello seghettato. Si portò una mano al collo d'istinto e fece una smorfia di dolore.
Aveva trovato la situazione così ironica. Per la prima volta non era lei a fare del sarcasmo sugli altri, ma era stata la vita stessa a farlo su lei. Era morta dentro, Alice era morta da un pezzo, e ora vagava come uno di loro, barcollando, e veniva addirittura accettata nella comunità dei mangiatori di carne come fosse davvero uno di loro.
<< Sono un morto che cammina anche io ora. >> rise ancora, tossendo, lamentando dolore. Lo zombie si voltò attirato dallo strano rumore, ma Ocean non gli diede tempo di realizzare che la sua compagna di stanza era cibo. Gli si avvicinò con assoluta tranquillità, sapendo che fretta non ce n'era finchè era conciata in quella maniera, estrasse la daga e cercando di dare quanta più forza potesse nel braccio la conficcò nella fronte del Putrido. Lo lasciò cadere a terra, controllando fosse morto davvero, e si diresse infine verso la sua fonte d'acqua. Aprì il rubinetto e quasi si commosse quando la vide scorrere. Piegò la testa e infilò le labbra sotto il getto, bevendo avida, sentendo il liquido fresco placare un po' il fuoco che aveva in gola. Si lavò poi mani e faccia, chiuse il rubinetto e decise di perlustrare la casa prima di mettersi a suo agio. Era bene assicurarsi fosse sicura. Perlustrò ogni singola stanza, ogni angolo, ogni armadio e sotto ogni letto. Ovunque potesse nascondersi del pericolo. Trovò un altro paio di zombie nelle altre stanze, probabilmente membri della famiglia che abitava lì, ma nessuno tentò di attaccarla e Ocean riuscì a porre fine al loro vagare quasi con dolcezza.
Voleva farsi un bagno quanto prima, aveva visto avevano una vasca e desiderava affondare nell'acqua il prima possibile, anche se sicuramente sarebbe stata gelata. Ma aveva ancora una stanza da controllare.
L'aprì e il cuore si fermò. Sulle pareti azzurre erano disegnati personaggi di cartoni animati. La moquette era piena di giocattoli. Sul letto era stesa una copertina in pile con sopra pianeti e navicelle spaziali. Ocean fece un passo entrando all'interno della stanza e la gola tornò a bruciare. Gli occhi si appannarono e senza rendersene conto un lamento le uscì dalle labbra. Quei personaggi dei cartoni, alle pareti, erano macchiati di sangue. La coperta in pile era strappata. Alcuni giocattoli anche loro macchiati di quel terribile destino. Per terra, la moquette, era in alcuni punti impiastricciata e incrostata. Si portò una mano alla bocca cercando di soffocare i lamenti.
Il mondo era diventato l'Inferno, e l'Inferno si sa è per i peccatori, per coloro che in vita avevano commesso crimini e violenze, per questo era così facile colpire e sopravvivere. Se quello era l'inferno, i Putridi erano i dannati e come tali avevano sicuramente fatto qualcosa per meritare tutto quello. Loro meritavano la loro fine, per forza! Era colpa loro se erano diventati così. Ma i bambini...i bambini riportavano alla violenta realtà. Loro che colpa potevano avere? I bambini erano innocenti, non meritavano quel destino. Perchè tutto questo? E solo allora realizzò che non c'era spiegazione logica che teneva: era la fine del mondo, e nessuno scappava. Prima o poi chiunque giungeva al proprio destino, anche i buoni e gli innocenti. Il crudele Dio era sceso in terra e stava divorando ogni cosa.
Nessuno scappava.
Si voltò a guardare il mobile che era poggiato alla parete alla sua destra, sopra erano riposti altri giocattoli. Ne prese uno e un altro singhiozzo la scosse, facendo scivolare via una lacrima dai suoi occhi. Sorrise, ma era un sorriso triste. Un pupazzetto snodabile di IronMan. Ne aveva già visto uno simile, lei stessa l'aveva comprato e regalato...a qualcuno. Qualche ricordo guizzò, come pesciolini che saltano fuori dall'acqua, riempiendola di tristezza e malinconia, e anche se poi rispariscono subito sotto la superficie, i cerchi formati restano a lungo, allargandosi, prendendosi sempre più spazio dentro quel piccolo laghetto di malinconia.
"Abbiamo giocato tante volte assieme con questo" pensò muovendo le braccia del pupazzetto e mettendolo in posizione di attacco, come sempre aveva fatto in precedenza. Ricordava c'era un pulsantino dietro la schiena, se premuto faceva il rumore di IronMan nel film quando sparava. Lo voltò e lo premette. Il rumore si prolungò fintanto che Ocean tenne premuto, un eco dei suoi pensieri. Poi un altro rumore si aggiunse nella stanza, facendola sussultare. Versi. Versi che conosceva bene.
<< No. No, ti prego. >> sussurrò tra sè e sè pregando di essersi sbagliata, pregando che voltandosi non avrebbe visto ciò che temeva. Un nodo le chiuse la gola.
E si voltò.
<< No. >> lamentò con un singhiozzo.
Uno zombie si stava avvicinando a lei, attratto dal rumore del pupazzetto. Uno zombie che arrancava sui suoi piedini, che spesso inciampava e continuava a gattoni, lento. Uno zombie non più alto di 80 cm e che allungando le sue manine paffute, nel tentativo di afferrare la preda, rendeva tutto più triste di quanto già fosse.
Era la prima volta da quando era successo tutto che incontrava un bambino. I capelli neri, lisci, ormai secchi e diradati incorniciavano il suo viso tondo, violaceo. Ocean arretrò di un passo, trovandosi improvvisamente a singhiozzare, e andò a sbattere contro l'angolo del mobile dietro di lei.
<< No, ti prego. >> singhiozzò ancora. Portò una mano alla daga, tremando come mai aveva fatto prima. Sapeva quello che andava fatto. Non era più un bambino, era un mostro, come tutti gli altri e andava ucciso prima che lui avesse ucciso lei. Ma non ce la faceva. Come poteva farlo, con che cuore avrebbe piantato un arma affilata nella testa di una creatura così piccola.
Sfilò la daga dal fodero, tremando ancora e si inginocchiò, lasciando cadere il pupazzetto a terra, guardando il bimbo mentre avanzava e lentamente si avvicinava. Singhiozzò ancora, non riuscendosi a fermare.
Afferrò il collo del bambino con la mano libera, bloccandolo, impedendogli così di avvicinarsi oltre e morderla. La sua pelle era così fredda. Alzò la daga, cercando dentro sè la forza per farla cadere sulla sua testa, per fare il suo dovere. Altre lacrime si riversarono sulla sua guancia mentre il bambino bloccato si dimenava, allungando le braccia verso lei, chiudendo ritmicamente la bocca desideroso di mordere.
Gli occhi le si appannarono, impedendole di vedere. La mano che reggeva la daga si portò velocemente al suo viso e con la manica si asciugò, prima di tornare alla sua posizione. Ma la vista le giocò un brutto scherzo. Quel bambino prese improvvisamente sembianze che non aveva, ma che lei conosceva così bene e che custodiva da tempo dentro sè. Le sembianze di quel bambino che aveva portato a lungo gelosamente con sè, dentro il suo portafoglio.
La mano alzata cadde improvvisamente, arresa, facendo scivolare via la daga sul pavimento.
<< Non ce la faccio. >> sussurrò << Non ce la faccio. Mi dispiace. >>.
Si alzò in piedi, sollevando il bambino, sempre tenendolo ben fermo per la gola impedendogli così di morderla e si diresse verso il lato sinistro della stanza, dove era poggiato un box con sbarre alte e altri giochi all'interno. Lo poggiò lì dentro e si allontanò velocemente di un passo. Il bambino si sollevò di nuovo in piedi e arrancò fino alle sbarre del box, contro cui si schiacciò e allungò le manine verso la ragazza, lamentando, dimenandosi. Ocean lo guardò per qualche secondo, non pensando a niente di preciso, cercando solo di liberarsi da quel dolore che le attanagliava il cuore, poi si voltò, prese il pupazzetto di IronMan che aveva lasciato a terra, lo raccolse e lo portò dal bambino, facendoglielo cadere nel box. Abbassò gli occhi dispiaciuta, triste e silenziosamente uscì dalla stanza chiudendosi accuratamente la porta alle spalle.
La casa era ripulita a dovere. Ora poteva godersi il suo bagno.

Il tempo passò veloce e silenzioso. Un'ombra. Si sentiva ormai un'ombra che passava come tutte le altre, senza scopo, pronta a morire al calare del sole. Soddisfò tutti i suoi bisogni, lavandosi, mangiando qualche scatola vecchia che era rimasta nella dispensa della casa, bevendo e cercando di curarsi qualche graffio con delle medicine trovate nello stipetto del bagno.
Si lasciò cadere sul divano, sedendosi a gambe divaricate e le braccia stese lungo i fianchi, gli occhi puntati su un televisore spento e che sarebbe rimasto spento a lungo. Il silenzio era il suo unico compagno. Il televisore era spento, ma i suoi occhi vedevano scorrere su di lui immagini di un programma comico italiano. Era sola su quel divano, ma sentiva accanto a sè delle persone, che ridevano di quel programma, commentavano e le chiedevano divertiti se avesse capito la battuta. Un bambino le corse davanti ai piedi con un aereo tra le mani, simulando il rumore del suo volo, correndo per la stanza, e la voce di una donna l'ammonì dicendogli di stare in silenzio, di andare nella sua stanza a giocare perchè lì disturbava. Un piccolo batuffolo bianco, tutto spettinato, saltò sul divano, arrancando un po' date le sue zampette corte, e si sistemò vicino a lei, posando il musetto su una sua gamba e cominciando a dormire beato.
Un'altra battuta. Risate.
<< L'hai capita Alice? >> rise la signora anziana accanto a sè.
<< Sì, nonna l'ho capita. >> sorrise lei, intenerita dal suo bisogno di coinvolgere ed essere coinvolta nelle sue attività ludiche. Il bambino tornò correndo davanti a loro.
<< Zia Alice!! Giochi con me? Dai, vieni? >> le afferrò il pantalone e cominciò a tirare.
<< Andrea!! >> lo ammonì una giovane donna accanto a sè << Lascia stare tua zia! Ha lavorato tutto il giorno, è stanca. Vai a giocare da solo. >> Il bambino sbuffò e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, scocciato e contrariato.
Alice rise e gli scompigliò i capelli.
<< Giochiamo insieme dopo cena, che ne dici? Perchè non vai a chiedere alla nonna tra quanto si mangia? Magari ha bisogno di aiuto. >> suggerì, cercando lo stesso di coinvolgere il bambino in qualcosa che non lo annoiasse. Andrea sorrise e annuì prima di correre verso la cucina.
<< Chiara, non essere così severa con lui. >> disse la nonna alla ragazza seduta vicino ad Alice, quella che aveva brontolato il piccolo Andrea << E' un bambino, è normale voglia giocare. >>
<< A volte mi chiedo dove abbia le batterie e soprattutto di che marca sono. >> sospirò la ragazza << Non si stanca mai! Vorrei essere come lui. >>
<< Tu sei una gran pigrona invece! >> rise Alice.
<< Proprio come te, sorella sciagurata!! >> brontolò Chiara dando uno spintone a quella che spesso diceva di essere il suo riflesso allo specchio. Nessuno avrebbe sbagliato nella loro parentela, erano assolutamente identiche, l'unica irrilevante differenza stava nel fatto che Chiara era più vecchia di Alice di ben 10 minuti. La nonna ammonì le loro chiassose risa con un netto "ssh", sforzandosi di sentire la televisione << Questo è forte! Fatemi sentire che dice! >> e seguì un gesto della mano ad indicare di abbassare la voce. Alice sorrise ancora e accarezzò il cane che ancora dormiva beato appoggiato alla sua gamba. Era così piccolo che chiunque avrebbe potuto confoderlo per un peluche.
Una donna si affacciò alla porta con uno straccio in mano, asciugandosele, i capelli scuri legati in una crocchia, occhiali rettangolari sul naso e un abbigliamento sempre elegante
<< Mamma, vieni di là a guardarlo. E' pronto da mangiare. >> disse rivolta alla vecchia seduta, con una coperta sulle ginocchia, vicino ad Alice.
Il bambino corse veloce dalla cucina verso l'ingresso dell'appartamente, urlando di gioia << E' tornato papà!!! >> e subito si sentì il rumore della porta che si apriva.
<< Eccolo qua il mio mostriciattolo! >> si sentì dire dalla voce di un uomo sulla soglia dei 30 anni. Chiara fu la prima a seguire il figlio, andando verso quello che presto sarebbe diventato suo marito, per salutarlo. Una famiglia allargata la loro, necessaria per via delle terribili condizioni economiche in cui vivevano che non permetteva a ciascuno di loro di avere un proprio appartamento. Ma andava bene così. Erano insieme, questo era l'importante. E Alice aveva potuto così fare non solo da zia, ma anche da seconda madre, sorella maggiore e migliore amica del piccolo Andrea, la luce di quella casa. Il giorno in cui Chiara e Leonardo si sarebbero sistemati con i soldi, e si sarebbero sposati, sarebbe stato il peggiore della sua vita perchè non solo avrebbe dovuto separarsi dalla sua gemella, ma anche dal suo cuoricino Andrea. Ma nessuno le avrebbe impedito di andare a trovarli ogni giorno.
O almeno questo era quello che pensava al tempo.
Alice seguì la sorella, andando a salutare educata il cognato.
<< Ciao Alice. >> salutò Leonardo, alzando il viso, guardandola con i suoi occhi bianchi, i denti scoperti, insanguinati, i capelli diradati e la pelle verdastra. Alice sussultò, arretrando e andando a sbattere contro una persona dietro di sè. Si voltò e si trovò davanti sua madre, con le stesse caratteristiche di suo cognato, putrida, marcia, che la guardava famelica << Che succede, bambina mia? >> chiese con una voce che non era la sua mentre digrignando i denti si avvicinava a lei, annusandola. Alice si lasciò sfuggire un urlo e arretrò ancora, schiacciandosi contro la parete dietro di lei.
<< Alice. Stai bene? >> chiese a sua volta la sorella, o almeno quella che credeva essere sua sorella, anche lei ormai trasformata e che si avvicinava pericolosamente. Alice si guardò attorno, disperata, terrorizzata. Cosa stava succedendo? Dov'era la sua famiglia? Gli zombie nell'atrio continuavano ad avvicinarsi a lei, accerchiandola, impedendole la via di fuga. Alice cominciò a tremare e pregare. Volevano mangiarla! Erano morti! Non sapeva per quale delle due cose disperarsi di più. La sua famiglia...dov'era la sua famiglia? Si sentì tirare la maglia verso il basso e si voltò a guardare chi stesse richiamando la sua attenzione. Andrea, in piedi vicino a lei, era come gli altri, trasformato. Alzò la testa verso la zia e lì il suo viso mutò, diventando quello del bambino trovato nella stanza di quella casa abbandonata nel bosco. In Georgia.
<< Zia, giochi con me? >> chiese e mai una richiesta era sembrata più minacciosa. Alice urlò terrorizzata, allontanandosi di colpo dal bambino, inciampando, cadendo....

Si svegliò di soprassalto, sollevando la testa. Il cuore le martellava in petto. Si era fatto di nuovo buio fuori, nemmeno un filo di luce penetrava dalle finestra rendendo la stanza un buco nero. Gli occhi corsero convulsamente intorno a sè, guardando, scrutando ogni angolo, assimilando ciò che era successo: si era di nuovo addormentata, e aveva di nuovo fatto incubi. Tirò un sospiro di sollievo, ma che aveva sfumature di esasperazione, stufa ormai di dover subire tutto quel terrore gratuito, e lasciò nuovamente ricadere la testa all'indietro, rilassandosi.
<< Che palle... >> sussurrò esternando tutta il suo esaurimento con quel espressione che aveva dell'infantile. Si lasciò scivolare sul divano, togliendosi dalla posizione seduta e stendendosi realmente per rilassare i muscoli e magari placare qualche crampo e qualche fitta. Fissò il buio soffitto senza un reale interesse. Niente aveva un reale interesse. Non sapeva più cosa voleva, cosa doveva fare, non sapeva più niente. Doveva solo sopravvivere, senza avere un piano, e questa la mandava fuori di testa. Aveva lasciato indietro degli amici, era vero, ma erano passati quasi due giorni da quando aveva lasciato Max nell'auto, sicuramente Daryl era già tornato a l'aveva preso con sè, tornare indietro era inutile oltre che rischioso. Avrebbe potuto imbattersi nuovamente nell'orda. Quel luogo per ora sembrava sicuro e sarebbe rimasta lì un po'. Tornare dal gruppo? No, non ce la faceva. Non voleva. Nella disperazione aveva desiderato avere Daryl accanto a sè, ma ora era tornata quella di prima. Era solo il panico ad averla fatta parlare. Non voleva. Lei era sola e sarebbe rimasta sola. E sotto quelle mentite spoglie cercò di nascondere la vera ragione della sua solitudine: la paura di essere di nuovo lasciata sola e tradita. E poi....era fuggita. Lei stessa se n'era andata, gli aveva ritenuti buoni a nulla, maltrattati e mal giudicati. Con che faccia sarebbe tornata da loro? Sicuramente non l'avrebbero più voluta con loro. Non poteva tornare indietro.
E Peggy...
Sapeva dov'era Peggy. Lo sapeva fin dal primo giorno di ricerca, quando Daryl non toglieva gli occhi dal suolo seguendo segni di zoccoli lungo la via. Aveva riconosciuto la strada che stavano percorrendo.
Peggy era tornata a casa. E lei non aveva nessuna intenzione di raggiungerla. Forse era anche per quel motivo che non aveva detto a Daryl che conosceva la strada, impedendogli di proseguire con così tanta lentezza. Non voleva tornare in quel posto, e in qualche modo sperava che il balestriere avrebbe sbagliato qualcosa, che non sarebbero giunti a destinazione. O comunque ciò ritardava il loro arrivo, e lei aveva avuto il tempo di riflettere sul da farsi, anche se le conclusioni non erano arrivate come aveva sperato. Il destino aveva fatto tutto per lei. La loro separazione era in qualche modo servita a salvarla. Ora poteva vagare sola come aveva desiderato, era riuscita a liberarsi di quel gruppo, aveva ottenuto ciò che diceva desiderava. E non era neanche più obbligata a tornare in quel luogo, dove sicuramente Peggy si era rifugiata, anche se non era convinta che "rifugiata" fosse il termine adatto. Per quanto ne sapeva poteva essere anche invaso, così come l'aveva lasciato l'ultima volta.
Un bicchiere si ruppe sul pavimento della cucina.
Ocean sussultò e d'istinto si rizzo a sedere, puntando gli occhi verso il corridoio dietro di lei, da dove si raggiungeva la cucina. Solo allora fece caso agli strani scricchiolii che provenivano da quella stanza. C'era qualcuno. O qualcosa. Quando era entrato? Mentre dormiva?
Sentì il rumore dei vetri calpestati. Uno stipetto scricchiolò aprendosi. Gli zombie non sapevano aprire gli stipetti, forse era qualcuno di vivo.
<< Cazzo. >> sussurrò rotolando giù dal divano, cercando di essere il più silenziosa possibile, sperando il pavimento non le giocasse qualche cattivo scherzo facendo rumori che non erano richiesti. Strisciò fino a bordo divano e guardò di nuovo l'entrata della stanza, assicurandosi che il suo ospite non fosse ancora entrato. Si alzò, posandosi sui piedi, ma rimanendo china e con le mani poggiate al pavimento. Guardò ancora l'entrata prima di fare un silenzioso scatto verso la poltrona accanto e si nascose dietro a essa. Allungò una mano e afferrò le armi che aveva posato lì sopra prima di stendersi sul divano. Si legò velocemente le varie cinghie. Uno scricchiolio nel corridoio: stava arrivando. Si sbrigò nel suo riassemblarsi e afferrò per ultimo arco e frecce. Si mise la faretra dietro la schiena, prese una freccia e la incoccò. Restò qualche secondo con le spalle schiacciate contro il fianco della poltrona, nascosta, affidandosi solo al suo udito, anche se il rumore del suo respiro affannoso e del suo cuore le assordava le orecchie.
Aveva imparato per esperienza che bisognava avere più paura dei vivi che dei morti.
Sentì il rumore di passi pesanti e decisi entrare nella sala e camminare velocemente verso il divano. Il respiro di Ocean non le diede pace, il petto le faceva male nel suo disperato tentativo di cercare sempre più aria: stava rischiando l'iperventilazione. Non riusciva a calmarsi. Tentò di arretrare, cercando di scivolare lungo il fianco della poltrona per arrivarle dietro e continuare a essere nascosta al suo ospite, ma le sue scarpe la tradirono facendo rumore nel piegarsi sotto ai suoi passi. Il cuore le si fermò. E anche i passi dell'uomo si fermarono. L'aveva sentita.
La sicura di una pistola venne tolta con un sinistro suono che preannunciava guai. Ocean cominciò a tremare.
Il bambino al piano di sopra lanciò un leggero urlo, attirato da chissà cosa, ma qualsiasi cosa fosse Ocean lo ringraziò. Sapeva che così come aveva attirato lei avrebbe potuto attirare anche l'uomo. Approfittò del momento sbucando all'improvviso con la freccia e la testa da dietro la poltrona, prendendo rapidamente la mira e scoccando la sua freccia verso la figura nera, in piedi, con lo sguardo alzato al soffito. Ma la freccia mancò il bersaglio, graffiando semplicemente la guancia dell'uomo e facendolo sussultare. Un eco odioso risuonò in quel momento nelle orecchie di Ocean: "Imbranata" diceva la voce di Daryl, e avrebbe volentieri ucciso lui in quel momento. L'uomo si voltò di colpo, e senza pensarci due volte fece fuoco.
Fiamme improvvise si impossessarono della spalla di Ocean che cadde a terra e senza rendersene conto cominciò a urlare. Era la prima volta veniva colpita da un proiettile, e non pensava fosse qualcosa di così doloroso. Sentiva fisicamente l'oggetto inserito nella sua spalla muoversi a ogni suo divincolo. Con la mano tremante si strinse la ferita in un disperato tentativo di placare il dolore. Un grosso piede con stivali militari si posò pesantemente davanti al suo viso steso a terra. Con la coda dell'occhio Ocean cercò di risalire la gamba, guardando in volto il suo aggressore. Un uomo grosso, vestito con abiti militari, un pesante giubbetto di pelle imbottito di pelo di chissà quale animale e un sigaro stretto tra i denti la guardava sorridendo quasi soddisfatto.
<< Ciao, bambolina. >> disse.
La paura più profonda si impossessò di lei. Cominciò a sentire il fiato mancarle e la vescica premere per potersi liberare all'istante sotto lo sforzo. Avrebbe singhiozzato. Ma era talmente pietrificata che neanche quello riuscì a fare.
"Non di nuovo, ti prego" riusciva solo a pensare e all'improvviso desiderò essere morta.
L'uomo si chinò su di lei e le puntò la pistola alla tempia, continuando a guardarla col suo sorriso divertito e probabilmente soddisfatto della sua scoperta.
<< Vediamo di non muoverci, eh?! >> le disse prima di portare le mani alle sua armi, togliendole di dosso, senza certo precocuparsi di non toccare cose, parti del corpo, che certamente non erano di sua proprietà. La disarmò, allontanando le sue cose per evitare che potesse riprenderle, poi l'afferrò per il braccio sano e la costrinse ad alzarsi. Il dolore alla spalla la fece lamentare tra i denti. L'uomo la trascinò e la lanciò sul divano, facendola sedere.
<< Togliti questa roba. >> disse indicando la sua camicia con la canna della pistola. Ocean voleva scoppiare a piangere, ma si sforzò di mantenere una certa dignità. Sapeva che certe cose piacevano di più agli uomini che si dedicavano a certe attività schifose solo per poter urlare al mondo il loro testosterone. Il loro dominio. Piangere avrebbe dato a lui tutto questo. Strinse i pugni e continuò a guardare il suo aggressore negli occhi, non facendo ciò che gli aveva detto. I suoi occhi urlavano tutta la sua rabbia e il disgusto che le stava facendo venire da vomitare.
<< Forza, non fare la capricciosa e non farmi perdere tempo. >> continuò lui dandole un colpo alla spalla ferita con la sua pistola. Ocean si lamentò ancora e chiuse gli occhi per il dolore, ma continuò a rimanere immobile.
<< Figlio di troia >> disse in Italiano. Non gli avrebbe certo concesso l'onore di poter comunicare con lei. Non gli avrebbe dato la soddisfazione di fargli credere che ciò che lui diceva era capito, così magari avrebbe scoraggiato anche tutte le frasi di circostanza che le facevano venire il vomito.
"Vedrai, ti piacerà" o "Sarà veloce". Era qualcosa che scatenavano tutta la sua furia e il suo disgusto, avrebbe ucciso solo per quello. Non voleva sentirle. E poi parlare in inglese era qualcosa che aveva sempre fatto solo per poter beneficiare il suo interlocutore, lei avrebbe volentieri parlato solo Italiano. Era una forma di rispetto e concessione che faceva all'altro. E lui certo non meritava questo.
<< Una straniera, eh. Che carina. >> sorrise ancora aspramente, condendo la frase di una certa dose di ironia. Rinfoderò la pistola e si calò su lei con una tale velocità da non darle neanche il tempo di provare a scappare. Le mise una mano al collo, bloccandola, e con l'altra cominciò a toglierle la camicia, sbottonando ogni singolo bottone, cosa che in un certo senso gli avrebbe anche addirittura fatto onore: così poteva rivestirsi dopo e non era poi costretta a girare nuda con i vestiti stracciati per tutta la Georgia. Quand'ebbe finito con un colpo secco la spintonò e la fece stendere a pancia in giù sul divano, le posizionò un ginocchio tra le scapole impedendole di muoversi. Ocean strinse ancora i pungi, cercando di mantenere la calma. In quelle occasioni l'unica era ragionare lucidamente, non dimenarsi e non farsi prendere dal panico. Sarebbe solo stato un inutile spreco di energie. Senza contare che ancora aveva dolori ovunque, se si fosse agitata si sarebbe fatta solo ancora più male. L'uomo le afferrò i polsi e glieli legò con un pezzo di corda, così stretti da fargli male, ma non abbastanza da rischiare di fargliele perdere per mancanza di circolazione. Fece la stessa cosa con i piedi, dopo averle sfilato gli stivali, e dopo averle sistemato le mani dietro la schiena la rialzò a sedere, trattandola come si può trattare una bambola. Gli occhi di Ocean bruciavano, ma non pianse. Solo rabbia, fierezza e disgusto dovevano uscire dal suo sguardo. Non la paura. Doveva restare ferma, fiera, doveva mantenere dignità dimostrando di non essere in suo potere. Lui non era superiore, solo aveva la pistola dalla parte del manico. Per ora. Era questo che doveva dimostrare. Lei non era in suo potere, lei non era sua.
<< Piangerai un po'. >> ridacchiò lui prima di tirar fuori un coltello. Ocean spalancò gli occhi presa da un attimo di terrore: che diavolo voleva fare? L'uomo piantò bene il suo bracciò contro il petto della ragazza, vicino all'attaccatura del collo, e posò un ginocchiò sulle sue gambe, immobilizzandola. Senza dar tempo alla ragazza di capire che cacchio avesse intenzione di fare l'uomo aveva infilato la punta del suo coltello nella ferita della ragazza e senza nessun riguardo cominciò a muoverlo all'interno. Ocean urlò con tutto il fiato che aveva. Il dolore era indescrivibile, qualcosa che non aveva mai neanche immaginato. Cercò di dimenarsi desiderando solo scappare da quella tortura, ma ogni minimo movimento faceva finire il coltello dove non doveva facendole ancora più male.
<< E chiudi quella bocca. >> brontolò l'uomo ancora intento a rigirare il suo coltello all'interno del buco creato dal suo proiettile. Ocean strinse i denti, ma non riuscì a fermare i lamenti, il suo corpo urlava dolore e non riusciva a fermarlo. Sbuffò, scosse la testa, strinse i pugni e urlo fino a quando l'uomo non ebbe finito. Il tempo era sembrato infinito e non seppe bene quanto gli ci era voluto, sapeva solo che in quegli interminabili attimi aveva ancora una volta desiderato morire.
<< Eccolo qua il figlio di puttana! >> rise l'uomo rigirandosi tra le mani il proiettile insanguinato come una reliquia, non sembrando per niente disgustato. Chissà quante altre volte lo aveva fatto, o quante volte aveva sventrato qualcuno per mostrare una tale disinvoltura. Ocean non lo guardò, voleva essere lasciata in pace e basta. Lasciò cadere la testa all'indietro, esausta, cercando di riprendere fiato. Il braccio le pulsava.
<< Sei stata fortunata. >> continuò lui, infischiandosene del fatto che lei non potesse capirlo, o almeno questa era l'impressione che lei gli aveva dato. Si tirò fuori da una grossa tasca dei suoi pantaloni una piccola fiaschetta che aprì con i denti, bevve un sorso e poi si richinò sulla ragazza.
<< Non abbiamo finito, tesoro. >> disse prima di versare sulla ferita il liquido contenuto dentro la sua fiaschetta. Il braccio le sembrò prendesse fuoco e un alto lamento le uscì dai denti ben serrati. Strinse il tessuto del divano tra le dita, dietro di sè, si irrigidì, e si chiese quanto sarebbe andato ancora avanti. L'uomo prese un fazzoletto sempre da una delle sue tasche e lo premette contro la ferita, schiacciandola poco delicatamente, aggiungendo dolore al dolore. Il braccio le formicolava. Ma il peggio sembrava passato.
Con lo stesso fazzoletto l'uomo fece un nodo intorno alla sua spalla, bello stretto, arrangiando una fasciatura. L'aveva aiutata, le aveva curato la ferita, avrebbe dovuto ringraziarlo, ma era ancora legata nuda su un divano, era ancora troppo presto per cantar vittoria. L'avrebbe ringraziato e forse gli avrebbe chiesto anche scusa solo quando le avrebbe permesso di andarsene senza toccarla ancora.
<< Se ti fossi mostrata subito, senza fare strane sorprese questo non sarebbe successo. Impara dai tuoi errori, tesoro. >> disse lui avvicinando il suo viso a quello della ragazza, facendole sentire tutto il suo alito fetido di sigaro e alcol, e dandole leggeri schiaffi alla guancia. La ragazza fece una smorfia disgustata, e continuò a non rispondere, voltando la testa dall'altra parte. L'uomo sorrise, si chinò e l'afferrò per i fianchi sollevandola di peso e con pochi gesti rapidi se la caricò sulle spalle come un sacco di patate, facendola gemere ancora.
<< Penso di non dover continuare la perlustrazione, con le tue urla se ci fosse stato qualcuno o qualcosa sarebbe già arrivato di corsa. >> disse cominciando a camminare e dirigendosi verso le scale che portavano al piano di sopra, lasciando in quella sala la camicia e le armi di Ocean.
<< Andiamo, bella. Che ora mi diverto un po' io. >> sghignazzò lui colpendole il sedere che sporgeva dalla sua spalla, prima di cominciare a salire le scale. Ad ogni passo le fitte diventavano sempre più dolorose, ma la paura era tale che il dolore passava in secondo piano. Voleva scappare. Preferiva buttarsi in pasto ai Putridi piuttosto. Ma non quello...non di nuovo! Odiava gli uomini, che davanti alla morte ancora non smettevano di pensare ad altro che al loro pene, e che anzi spesso approfittavano di certe occasioni per soddisfare bisogni che in occasioni normali non avrebbero potuto. Erano diventati tutti stupratori da quando era successo il casino. Da quando non c'era più una legge a punirli. Ne aveva incontrati a bizzeffe, anche se spesso era riuscita a cavarsela, e la caratteristica che li accumunava quasi tutti era che dopo la violenza lasciavano in vita le vittime, anzi le armavano. Volevano che le donne restassero vive così un giorno avrebbero potuto "riusarle". Ed era quello lo stesso motivo per cui quella specie di militare le aveva curato la ferita da proiettile, non voleva morisse. Poteva servirgli ancora. Con la mano libera buttò giù un altro sorso del liquido altamente alcolico che conteneva la sua fiaschetta, un lungo e profondo sorso con la chiara intenzione di ubriacarsi. Sarebbe stato più divertente. Questo pensava lui. Ocean in quei secondi che la separavano dalla camera da letto pensò a qualsiasi cosa, cercò di trovare qualsiasi soluzione che fosse rubargli la pistola, o cercare di aprire la porta dove aveva tenuto in vita il bambino, così magari se lo sarebbe mangiato, ma nessuna di quelle erano plausibili. Lei era legata, non poteva muoversi troppo, e poi un bambino avrebbe certo potuto morderlo, ma non divorarlo. Lui l'avrebbe ucciso prima, e prima che si trasformasse avrebbe potuto violentarla altre 10 volte. Pensò a un modo di difendersi, di picchiarlo, ma era troppo debole, malconcia e le corde che la legavano non le permettevano movimenti. Senza contare la massa muscolare che aveva lui in confronto alla sua misera. Non ce l'avrebbe mai fatta.
Lasciò cadere la testa, arrendevole. L'avrebbe tenuta in vita. Magari era solo questione di resistere qualche minuto, il tempo che finisse, e poi l'avrebbe lasciata andare. Nessuno poteva aiutarla.
Arrivarono alla camera. L'uomo la lanciò sul letto, proprio come un suo giocattolino. Sghignazzando diede un calcio alla porta che rimase però accostata, senza chiudersi. Ma cosa importava? Posò il sigaro sul comodino e cominciò a spogliarsi. Ocean guardò dall'altra parte e nel frattempo, disperata, cercò di dimenare le mani dietro la schiena con la vana speranza di riuscire a slegarsi. Le facevano male, sentiva le corde bruciare e tagliare la sua pelle, ma non si allentavano neanche un po'.
Cominciò a tremare e d'istinto tentò di allontanarsi quando lui, ormai nudo, le si avvicinò, le slegò le caviglie e cominciò a toglierle i pantaloni. L'odore di alcol impregnava la stanza, ma Ocean sentiva solo quello della paura. Cercò di restare forte, cercò di mantenere la calma, doveva restare lucida, ma era tutto così difficile. L'uomo la toccò, senza smettere di sghignazzare, ormai inebriato dal suo desiderio. E Ocean tentò un gesto disperato, alzando un piede e cercando di dirigere un calcio verso la sua parte debole ormai scoperta. Il dolore l'avrebbe tramortito un po', e lei ormai libera alle caviglie avrebbe potuto scappare. Ma lui fu più rapido e riuscì a bloccare il colpo, fermandole il piede.
<< Ribelle! Sapevo che quegli occhi così severi erano solo una maschera. Stai tremando. >> sghignazzò ancora prima di lanciarsi sulla sua vittima. Ma la fortuna aveva salvato più volte la ragazza, e ancora sembrava non volerla lasciare sola, cosa di cui Ocean era molto grata. Si sentì un rumore di finestra rotta dal piano di sotto, versi gutturali che provenivano da fuori e un continuo sbattere alla porta d'ingresso.
<< Che cazzo... >> brontolò l'uomo sollevandosi, lasciandola libera. Afferrò i pantaloni e se li infilò scocciato << Devono essere state le tue stupide urla! >> afferrò la pistola e scese al piano di sotto a torso nudo e piedi scalzi. Ocean non perse tempo e rotolò giù dal letto. Si alzò velocemente, corse verso le cose del militare che aveva lasciato lì, stese a terra e cominciò a cercare col piede, sperando di riuscire a trovare il coltello che si portava dietro. Ma non lo trovò. Probabilmente era rimasto nei pantaloni che aveva indossato. Sentì il rumore della battaglia al piano di sotto, l'uomo non stava sparando evitando di attirarne altri, ma sentiva i corpi cadere per terra. Probabilmente stava usando quel coltello che lei non aveva trovato. Lanciò un'occhiata alla porta della camera, controllando che non arrivasse nessuno e si diresse verso il comò. Doveva pur trovare qualcosa! Delle forbici, uno specchio, qualsiasi cosa fosse minimamente affilato! Si voltò e aprì il cassettò con le mani ancora legate dietro la schiena e guardò dentro. Si voltò di nuovo e provò a spostare un po' di vestiti. Niente. Disperata si guardò attorno. Doveva sbrigarsi o l'uomo o gli zombie l'avrebbero trovata e presa. Corse verso l'armadio e l'aprì. E lì trovò qualcosa che le diede un minimo di speranza: un set di cucito. Usò i piedi per aprirlo e per cercare dentro trovando ciò che voleva: un paio di forbici da sarta. Le prese con le mani dietro la schiena e facendo affidamento a tutta la sua disperazione cercò di utilizzarle per tagliare quelle stramaledette corde! Riuscì a maneggiarle, con grande difficoltà e fitte ai polsi, ma ci riuscì! E pian piano sentì il rumore di corda che veniva tagliata.
Un colpo attirò la sua attenzione e alzò lo sguardo verso la porta.
Uno zombie era riuscito a salire al piano di sopra e ora la guardava, seduta sul letto, disarmata e pronta per essere servita a cena. Fece uno dei suoi versi prima di avvicinarsi velocemente a lei.
<< Cazzo, cazzo, cazzo. >> ripetè tra i denti mentre cercava di velocizzarsi per tagliare le corde. Si alzò in piedi sul letto e si allontanò quando lo zombie si lanciò in avanti per afferrarla. Arretrò e si voltò per scendere dall'altro lato e scappare via, ma inciampò nelle lenzuola sfatte e cadde a terra sbattendo pancia e petto. Il fiato le mancò e per un attimo la vista si annerì. Pensò di svenire. Ma la disperazione e l'adrenalina la tennero sveglia e la spinsero a strisciare velocemente verso le forbici che nella caduta era volate poco lontane. Si voltò, riprendendole e ricominciando a tagliare, ma lo zombie in quell'occasione era stato più veloce di lei, raggiungendola e atterrandole sopra.
Riuscì nell'istante prima di ricevere il morso a liberarsi le mani e con una velocità che solo la paura poteva darle conficcò la punta delle forbici nella testa del suo aggressore, uccidendolo sul colpo.
<< Oh mio dio. >> le sfuggì nell'istante in cui realizzò che era ancora viva. Per un puro miracolo si era salvata. Si prese qualche secondo per sè, per riprendere a respirare e ritrovare la calma. Una lacrima le rigò il viso, senza neanche rendersi conto che aveva di nuovo cominciato a piangere. Respirando profondamente e cercando di ritrovare la calma cominciò a spingere via il cadavere da sopra di sè. Lo fece scivolare giù e si rialzò. Barcollò e si tenne con una mano poggiandola sul muro. Se prima aveva dolori ovunque ora non sapeva neanche come riuscire a definire quello che provava. Qualsiasi parte del suo corpo bruciava e formicolava. Tenne ancora stretta tra le dita le forbici che le avevano salvato la vita e cercò di riprendersi scrollando la testa.
<< Lurida puttana. >> bofonchiò una voce maschile sull'uscio della porta. Ocean sobbalzò e si voltò a guardarlo, portandosi istintivamente le forbici davanti, pronta a difendersi, anche se erano tentativi vani i suoi. Lui era più forte e armato di pistola. Le forbici non lo avrebbero neanche fatto spaventare. Notò però che era diverso da come se n'era andato: affaticato, irrigidito ma sopratutto ricoperto di sangue. Aveva sangue che gli usciva da un angolo della bocca, sangue sul petto e solo allora Ocean notò un enorme squarcio su di esso, con carne lacerata che penzolava. Era stato morso.
<< Io ti ammazzo, stronza! >> disse avvicinandosi velocemente verso di lei e allungando le mani per afferrarla. Non aveva neanche guardato la pistola, nè il coltello: voleva ucciderla a mani nude e sfogare così tutto il suo risentimento. Come se fosse stata colpa sua se era stato morso.
Le afferrò il polso che stringeva le forbici, prima che potesse usarle e le spinse all'indietro. La fece sbattere contro il muro, facendola urlare. Ocean tentò di usare quel minimo di forza che le era rimasta per maneggiare quella misera arma che ancora stringeva in pugno, ma era tutto inutile, lui era più forte. La spinse nuovamente sul letto. Cercò di gattonare via ma lui la prese per la caviglia e se la trascinò a sè, facendola urlare ancora. La fece voltare con uno strattone violento e le diede un ceffone su una guancia. Certo, la guancia mancava alla lista dei dolori. Ocean cercò ancora di usare le forbici e lui di nuovo le bloccò i polsi. Un altro ceffone.
<< Che cazzo vuoi fare eh? >> la provocò, furioso stringendole entrambi i polsi con una sola mano. La mano libera andò a posarsi su uno dei suoi seni e strinse anche quello. Urla, ancora urla. Dolori che si aggiungevano ai dolori.
<< Ti ho detto di chiudere quella cazzo di bocca! >> disse portando la mano che stringeva il seno sulle sue labbra per tenergliele chiuse. Ocean incrociò per pure errore i suoi occhi ed ebbe paura: una furia bruciava dentro lui. L'avrebbe uccisa. La mano sulla sua bocca si fece più pesante e andò a coprire anche il naso, schiacciandolo, privando ad entrambi dell'aria necessaria ai polmoni. Ocean provò a scuotere la testa per liberarsi dalla presa, ma fu tutto inutile. Scalciò, si dimenò e cercò di fare appello a tutte le sue forze. Da sotto la mano dell'uomo provenivano i suoi lamenti terrorizzati, richieste d'aiuto che mai sarebbero arrivate a qualcuno. Il panico stava arrivando man mano che i polmoni bruciavano, bramosi di un aria che gli era stata proibita. Doveva respirare! Cercò ancora di scuotersi e pian piano provò ad aprire leggermente la bocca, sforzando la mascella per combattere la forza che la mano imprimeva su lei. Poi morse. L'uomo si irrigidì e si lamentò, ma non mollò la presa. Ocean provò a stringere più forte, ma il suo aggressore stava dimostrando di avere più resistenza e determinazione di quanto imaginasse. Non ce la faceva più. Stava impazzendo! Doveva respirare! Aveva bisogno di aria! Ed eccola che arrivava: la lucidità che solo i momenti di vera tragedia poteva portarle. Quell'attimo di vuoto prima della fine che le permetteva di vedere veramente ciò che la circondava e pensare velocemente e con ingegno come mai aveva fatto altre volte. Solo perchè voleva disperatamente vivere. In quei pochi secondi che sentiva di avere ancora a disposizione riuscì a concentrare tutte le sue energie sulle sue mani, evitando di stancarsi ulteriormente. Quelle poche forze rimaste doveva darle a loro che ancora avevano tra le dita le forbici, unica speranza. Riuscì con grande fatica e girarle, con quei pochi movimenti concessi alle dita che non erano serrate nel pugno dell'uomo riuscì a puntargliele contro le mani e aprirle. Poi le richiuse con forza e decisione.
L'uomo lanciò un urlo sentendo un dolore improvviso alla mano sinistra, tra le dita. Ocean aveva tagliato di netto un centimetro, forse poco più, della parte di mano che tiene unite le due dita, la parte più sottile e delicata. Non mollò la presa, troppo furioso e troppo resistente, ma la sorpresa fece cedere un poco la presa, quel tanto che bastava a dare a Ocean un minimo di vantaggio che con un colpo secco ritirò le braccia verso sè, liberandosi. L'uomo tentò di riafferrarle, e riuscì a catturare subito la sinistra, ma non fece in tempo a raggiungere la destra, quella che stringeva ancora le sue forbici, che Ocean conficcò con quanta più forza aveva, di punta, nella sua giugulare. Gli occhi dell'uomo si spalancarono all'improvviso, sorpreso, sentendosi soffocare dal sangue che usciva a fiotti, sentendosi strozzare. Allentò la presa sulla bocca di Ocean che si liberò subito anche di quella e cercò di riprendere quanta più aria possibile boccheggiando e tirando grossi respiri. Tossì un paio di volte sentendo i polmoni grattare e bruciare e lentamente scivolò via, trascinandosi sul letto, allontanandosi dal suo aggressore che ancora era in ginocchio, boccheggiante, con sangue che usciva da bocca e gola. Guardò la ragazza, che non riuscì bene a interpretare cosa volesse dirle. Probabilmente un ulteriore "Puttana". L'uomo cadde, le forbici ancora conficcare nella sua gola, il sangue che sembrava non volesse fermarsi. Ocean lo guardò qualche secondo, tranquillizzandosi del fatto che fosse veramente morto, che ormai non poteva più farle del male. Era fatta. Aveva ucciso per la prima volta un essere umano. Da quando era cominciato tutto aveva avuto modo di uccidere solo morti, mai si era ritrovata a dover puntare la propria spada contro la gola di un vivo. Aveva per la prima volta ucciso qualcuno. E anche se si trattava di uno della peggior specie, era pur sempre un essere vivente. Aveva messo fine a una vita. Ed era una delle sensazioni peggiori che avesse mai provato. Crollò, stesa sul letto, cercando riposo, e scoppiò a piangere come poche volte aveva fatto, urlando come una bambina, non cercando neanche di trattenersi. Aveva accumulato troppa tensione, non riusciva più a tenersela dentro. Aveva avuto così tanta paura. Ed era stanca...stanca di essere aggredita, stanca di dover correre, stanca di dover combattere, di doversi curare ferite che mai sarebbero guarite. Stanca di avere paura.
Stanca di stare lì.
Aveva bisogno di riposare. Di smettere di correre, di chiudere gli occhi sapendo che sicuramente poi li avrebbe riaperti, senza temere di trovarsi al risveglio un uomo o uno zombie intento a divorarla, ognuno a modo suo.
Singhiozzò e urlò ancora.
Voleva tornare a casa.

   
 
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