Convergenza evolutiva
<<
Prendila tu, Daryl! >> urlavano i suoi sogni, fumo che
andava
disperdendosi nella silenziosa notte.
<< Andate!! >>
echi in lontananza, che tornavano, flebili, ma chiari nel loro
tentativo di schiacciare chi era presente.
<<
Andate! >>
<<
No, aspetta. >>
<<
Andrà tutto bene, Molly. >>
Sogni
su sogni, echi che scacciavano i precedenti, che tornavano,
rimbalzavano, si allontanavano e poi colpivano senza sosta quella
nera figura seduta a terra, raggomitolata tra le radici sporgenti di
un albero, schiacciata a esso, sentendosi un coniglio incapace di
tornare nella sua tana. Incapace di tornare a casa sua. Solo nel suo
pericolo.
Le
braccia tese coprivano, quasi schiacciavano, il viso, nascondendolo e
proteggendolo. Aveva freddo. Aveva paura.
Ed
era irrimediabilmente sola.
<<
Max! >> un altro urlo, disperato in tutta la sua forza,
risvegliò altri sogni, ricordi, paure.
<<
Prendila tu, Daryl! >> aveva implorato Ocean quella
mattina,
cercando di porgere la bambina a Daryl, compagno di quel piccolo
viaggio che, incredibilmente, l'aveva reso il più grande
dopo così
tanto tempo. Il resto era stato tutto così rapido che
nessuno dei
due era riuscito a quantificare il tempo e a decifrare bene le azioni
svolte, in pochi attimi Ocean si era liberata di Molly, lasciandola a
Daryl, e lui era fuggito via senza voltarsi. Senza tornare indietro.
Ed era stata la cosa più giusta che potesse scegliere di
fare.
Ocean
aveva sfoderato la spada nell'istante in cui li aveva incitati a
correre via e si era buttata a capofitto in quell'onda violenta, uno
tsunami che aveva fronteggiato con forza e coraggio, richiamando
energie che neanche sapeva di possedere. Non si era voltata indietro,
non si era assicurata che Daryl avesse seguito il suo suggerimento,
ma sapeva che l'aveva fatto. Aveva una bambina da proteggere. Gli
zombie erano più numerosi di quello che aveva calcolato
inizialmente, probabilmente i rumori della battaglia ne stavano
attirando altri che fino ad allora erano rimasti nel bosco a vagare e
mangiare scoiattoli che non sempre riuscivano a fuggire.
Tagliò la
testa al primo, afferrando il corpo prima che cadesse al suolo e lo
lanciò contro chi aveva di fronte. Non voleva ucciderli
tutti, non
ne sarebbe stata capace, doveva solo riuscire a passare e portare via
il suo amico. Era più facile scappare. Con un colpo di spada
dal
basso verso l'alto aprì il ventre di un altro di quei
Putridi che la
stavano circondando, questo ovviamente non lo uccise, ma il colpo
inferto lo fece cadere all'indetro e guadagnare altro tempo. Corse.
Uno davanti a lei era già pronto, fauci spalancate, per
riceverla e
addentarla, incurante dello sguardo ben fermo e deciso della ragazza
mentre gli correva incontro. Sapeva che non erano il top della
resistenza, avevano un equilibrio precario e bastava poco a piegarli,
tutto causato dalle loro ossa e muscoli ormai in putrefazione e
marci. E su quel principio si basò quando gli
arrivò addosso con
una spalla, ben china su se stessa, scaraventandolo a terra e
rotolando lei stessa poco più lontano. Era riuscita
così a crearsi
un varco tra di loro, arrivando al suo obiettivo, anche se nella
caduta, non seppe bene come, lo zombie aveva trattenuto a sè
uno dei
suoi guanti, forse nel tentativo di afferrarla. Max, poco lontano da
lei, continuava ad abbaiare rabbioso contro chi gli si stava
lanciando addosso, correndo, arretrando, cercando una disperata via
d'uscita.
Un
altro dei Putridi avanzò, cercando di afferrarlo e lui
ancora si
voltò velocemente e scappò, infilandosi tra le
loro gambe, cercando
di uscire dall'orda, e ritornò sulla strada, vicino
all'auto. Ocean
si alzò cercando di riprendere a respirare: nella caduta a
terra
aveva sbattuto il fianco e il fiato le era mancato per il dolore. Uno
di loro le arrivò alle spalle, cogliendola di sorpresa, ma
per
fortuna non abbastanza da morderla prima che potesse difendersi: era
sempre pronta, da quando era cominciato tutto, a reagire alle
sorprese. Il suo carattere l'aveva aiutata molto: nelle situazioni di
pericolo, spesso (ma non sempre, a quanto pare, dato ciò che
era
successo alla chiesa) il suo cervello rallentava le azioni intorno a
lei e le donava una lucidità unica, capace di trovare
soluzioni in
pochi attimi. E per quello riuscì a salvarsi: si
portò
istintivamente una mano dietro la spalla, afferrando lo zombie per
fronte e capelli. Non avrebbe potuto tenerlo a lungo, loro non
sentono dolore e la loro pelle marcia rende tutto più
difficile a
volte: la pelle e il cuoio capelluto si stava staccando dal suo
proprietario, non impedendogli di avanzare verso la sua carne. E
all'urgenza si stava sommando urgenza: davanti a lei un altro di loro
stava per lanciarsi verso la sua preda. Lasciò cadere la
spada a
terra, sfoderò la daga, più comoda in certe
occasioni, e la
conficcò nella testa che aveva quasi sfiorato la sua spalla.
Non
ebbe tempo di sfilarla e liberarsi del corpo, l'altro zombie l'aveva
raggiunta. Alzò un piede e sferrò un calcio
davanti a sè,
spingendolo via. Il contraccolpo e il peso che ancora aveva
aggrappato alla schiena le fecero perdere l'equilibrio e cadere
all'indietro, atterrando pesantemente sul corpo del Putrido, che,
dato la sua fragilità e il peso della ragazza atterrata
sopra di
lui, si aprì come un palloncino pieno d'acqua, riversando
sotto di
lei qualsiasi cosa contenesse: budella, sangue e cibo appena
ingurgitato. Si alzò subito, scuotendo la testa frastornata,
ma
dovette tornare subito in sè, non c'era tempo. Si
chinò sullo
zombie schiacciato, ormai impacciata per via di confusione e dolori
sparsi qua e là, e afferrò la sua daga per
sfilarla, ma era
incastrata e non venne via. La sua debolezza completava l'opera:
cominciava ad essere veramente stanca. Puntò i piedi per
terra e
tirò all'indietro usando la forza che le rimaneva alle gambe
per
fare leva. La daga era conficcata così in
profondità e incastrata
così bene che Ocean dovette trascinarsi dietro il corpo per
un po'
prima di riavere la sua proprietà. La violenza con cui poi
venne via
le fece perdere ulteriormente l'equilibrio, barcollando all'indietro,
lasciandosi sfuggire un grido, ma fortuna volle che dietro di lei ci
fosse un albero su cui potè poggiarsi per evitare di finire
nuovamente a terra. Si poggiò sul tronco con una mano,
cercando di
riprendere subito l'equilibrio, e riprendendo immediatamente a
correre, senza neanche notare l'impronta insanguinata che aveva
lasciato sulla corteggia ben disegnata. Sfoderò un altro
paio di
colpi, aprendosi un'altra strada, riafferrò la spada
lasciata a
terra e corse di nuovo verso il suo amico, zoppicando e arrancando.
Riuscì a vederlo di nuovo: le spalle schiacciate contro
l'auto, tre
zombie che lo avevano circondato di nuovo e stavano avanzando verso
lui che ancora faceva l'unica cosa che poteva fare: abbaiare, nella
speranza di spaventarli.
<<
Max!! >> urlò Ocean correndogli incotro.
Uno
dei Putridi si lanciò in avanti, braccia tese, pronto ad
afferrarlo,
e Max disperato si voltò velocemente e cercò di
saltare sul cofano
dell'auto. Mugolò quando sentì una fitta alla
zampa e una forza che
lo tratteneva nel salto, facendolo sbattere contro il cofano,
impedendogli di salire del tutto. L'aveva preso. Gli aveva afferrato
la zampa e lo aveva trattenuto, facendolo sbattere. Max, orecchie
basse e sguardo disperato, tentò di usare le unghie per
salire
sull'auto come programmato ma scivolava e lo zombie non lo lasciava.
La zampa gli doleva.
<<
Max!! >> urlò ancora Ocean riuscendo
finalmente a
raggiungerlo, si lasciò cadere in avanti in un disperato
tentativo
di arrivare prima, la spada ben tesa davanti a sè
andò a colpire la
giuntura del gomito del Putrido che non voleva lasciare il suo amico.
L'impatto tagliò di netto il suo braccio, ma la forza
impressa
contro esso tirò giù anche la parte di braccio
attaccata alla zampa
del cane, trascinandoselo dietro e facendolo cadere sull'asfalto con
un tonfo. Un altro guaito prima di cominciare a divincolarsi per
rimettersi in piedi. Ocean tentò anche lei di rialzarsi, ma
voltando
la testa fece appena in tempo a vedere il volto del suo aggressore
mentre le cadeva addosso con le fauci spalancate. Neanche lei seppe
bene con quale forza e quale destrezza riuscì a piroettare
la spada,
nonostante la scomoda posizione, e a recidergli il cranio,
aprendoglielo e uccidendolo. Sangue e cervello colarono sul suo viso.
Il disgusto e la voglia di vomitare le diederò la forza per
spingere
violentemente via il corpo morto che le stava sopra.
Vomitò,
non riuscendosi più a trattenere. E si odiò per
questo: era un
pessimo momento per fermarsi per certi bisogni fisiologici.
Cercò di
correre via subito, arrancando, ancora sporca di qualsiasi cosa ci
fosse intorno a lei. Si poggiò al cofano, debole, dolorante,
sicuramente ferita e le gambe che tremavano per sforzo e paura. Ma la
mano che reggeva la spada non cedeva. Con un colpo orizzontale,
deciso, aprì il volto a un altro di loro, facendosi strada.
Vide
Max, davanti al muso dell'auto, che si guardava attorno ormai
impanicato, ferito anche lui e con la zampa che era stata afferrata
sollevata in alto, incapace di posarla a terra senza sentire un
dolore atroce. Inciampò nella sua maldestria, sbattendo il
muso di
nuovo contro l'asfalto. Ocean gli corse incontro, barcollante anche
lei, rinfoderò la spada e usò entrambe le braccia
per raccogliere
il suo amico e tirarselo su. Si guardò attorno in cerca di
una via
d'uscita: non ce n'erano.
I
suoi occhi si tinsero di disperazione.
Non
così. Non poteva finire così.
Aveva
paura. Ma non per sè...Max. Max doveva salvarsi!
Arretrò
velocemente, sbattendo contro il muso dell'auto e senza pensarci due
volte si arrampicò su essa e si infilò dentro,
passando dal
parabrezza che lei stessa aveva sfondato poco prima. Fece cadere Max
sul sedile posteriore e lo seguì con la stessa grazia,
spingendosi e
cadendo, ma arrancando riuscì a fare ciò che
andava fatto prima che
fosse troppo tardi. Si spinse dietro, verso il portabagagli e con
forza lo chiuse. Prese poi il divisore in plastica dura che separava
il portabagagli dal resto della vettura e ancora con una
velocità
che solo la paura di morire poteva dargli si spinse sui sedili
anteriori e lo schiacciò sul parabrezza frantumato,
improvvisando un
tappo che non avrebbe sicuramente retto se non qualche secondo.
Riuscì a fermarlo legando i suoi lacci elastici a delle
piccole
sporgenze ai lati del parabrezza, resti di vetri o di carrozeria:
insomma niente di resistente. Ma non sapeva che altro fare. Intanto
uno dei Putridi cercò di entrare nell'auto dallo sportello
accanto a
sè spalancato. Lanciò un urlo e con un altro paio
di calci riuscì
a spingerlo via e chiudere lo sportello. Spinse poi le sue spalle
contro il tappo improvvisato, usando anche la sua forza per impedire
che venisse tolto. Solo la disperazione continuava a tenerla in
vita. Era chiusa in un auto che mai avrebbe retto al peso dei Putridi
sul parabrezza, che mai sarebbe stata sicura e libera. Mai sarebbero
usciti di lì. Lanciò un urlo cercando di
raccogliere le forze per
continuare a resistere alle spinte che venivano date alle sue spalle.
Una lacrima le rigò il viso. Erano finiti. Non potevano
farcela. Un
singhiozzo.
Cosa
doveva fare? Cosa poteva fare?
Max
steso sui sedili posteriori ormai non si muoveva più e Ocean
l'avrebbe creduto morto se non fosse stato per i suoi gauiti flebili.
Ancora
un urlo disperato. Una richiesta di aiuto che mai sarebbe arrivata a
chi di dovere.
<<
Aiutatemi. >> singhiozzò ancora.
E
all'improvviso si ritrovò a urlare con quanto più
fiato avesse,
mossa dall'istinto, qualcosa che la sorprese <<
Daryl!!!>>.
Aveva
sempre creduto di potercela fare da sola. Era sempre stata sola, non
aveva bisogno di nessuno, non voleva nessuno, eppure in quel momento,
dopo tutto quello che era successo, aveva pregato di averlo accanto.
Perchè sapeva lui l'avrebbe potuta tirare fuori dai guai.
Lui aveva
vegliato su lei in quei due giorni, e per la prima volta dopo tanto
tempo si era sentita sicura. A lungo era fuggita dalle persone, non
volendo più avere niente a che fare con loro, disprezzandole
e
scansandole. Tutte!! Nessuno escluso. E aveva pensato che soprattutto
quel Daryl era da evitare come la peste, perchè era il
peggiore di
tutti, lo si vedeva, era uno stronzo a prima vista. Ma l'aveva
giudicato male. Ora... aveva bisogno di lui. Solo allora se ne rese
conto. Era stato l'unico essere umano con cui aveva avuto a che fare
dopo così tanto tempo, l'unico essere umano che l'aveva
fatta
sorridere e fatta star bene dopo quel giorno...E lui sarebbe
tornato...sì, sarebbe tornato a salvarla! Lo aveva fatto
prima,
perchè non poteva succedere di nuovo? Lui...aveva la
sindrome
dell'eroe. Non l'avrebbe mai lasciata sola.
Ma
avrebbe resistito fino ad allora?
Un
altro colpo arrivò dalle sue spalle, spingendola un po' in
avanti,
quasi sfondando il suo tappo provvisorio, ma con un colpo di spalle
riuscì a far tornare tutto al suo posto.
No,
non avrebbe resistito un minuto di più.
<<
E va bene. >> disse tra sè e sè
ormai decisa. Si spostò
velocemente dal tappo, pregando reggesse ancora qualche secondo da
solo senza sostegno e si lanciò verso i sedili posteriori,
dove era
steso Max. Aveva la mano sporca di sangue, sia suangue loro che suo,
era abbastanza per permetterle di scrivere qualcosa. Una disperata
richiesta d'aiuto. Un addio.
"Sindrome
dell'eroe".
Avrebbe
sicuramente attirato la sua attenzione quando sarebbe tornato, era un
messaggio rivolto solo a lui, la sapeva, ed era anche un suo
personalissimo addio con una delle sue battute sarcastiche tanto "gli
piacevano". Perchè di quello si trattava, due sole parole
per
dire così tanto: aiutami. Sapevo che saresti tornato. Non
puoi
proprio fare a meno di correre ad aiutare le persone. Io te l'avevo
detto.
Addio.
Fece
un respiro raccoglitore.
<<
Andrà tutto bene, Max. >> disse non sapendo
bene chi dei due
stava cercando di rincuorare, e con uno sprizzo di coraggio che non
aveva spalancò la portiera con forza, spingendo via gli
zombie che
ci si erano appoggiati sopra, uscì e la richiuse velocemente
prima
di allontanarsi di qualche passo. Si voltò a guardare quelli
che si
stavano affaccendando sull'auto e lanciò un urlo
<< Ehi!! >>
gridò due, tre volte, sempre più forte,
dimenandosi e sbracciandosi
<< Sono qui!! >>.
Molti
la sentirono e furono attirati dal suo rumore, altri invece erano
ancora attratti dall'odore del cane dentro l'auto. Ocean si
chinò a
raccogliere un sasso, arretrò di qualche passo per
allontanarsi da
chi si stava già dirigendo verso lei e lo lanciò
verso quegli
zombie che ancora non la consideravano.
<<
Prendetemi! Forza! >> Si voltò, guardando di
nuovo il bosco a
lato strada: non poteva correre per strada, non aveva modo di
nascondersi, non sarebbe riuscita a liberarsi di loro.
Cominciò a
urlare con tutto il fiato che aveva, continuando ad attirare la loro
attenzione, voleva portarseli tutti dietro. Dovevano lasciare in pace
Max. Lui doveva salvarsi. Daryl sarebbe riuscito a salvare almeno
lui. Lo sapeva.
Corse
nel bosco, continuando a farsi strada da chi si trovava di fronte,
utilizzando quasi solo spintoni e spallate, non aveva tempo di
giocare alla guerra. Riuscì a inoltrarsi nuovamente tra gli
alberi,
ma era ancora sul campo di battaglia.
Si
sentì improvvisamente strattonare all'indietro e
lanciò un altro
urlo, spaventata. Si voltò e vide che uno degli zombie che
le erano
sbucato di fianco l'aveva afferrata per la sacca. Cercò di
strattonarla per liberarla: era sua! C'erano le sue cose dentro. Ma
lo zombie non mollava la presa e lei non aveva tempo da perdere,
doveva scappare o si sarebbe di nuovo trovata circondata.
<<
Vaffanculo!! >> urlò tra le lacrime quando
lasciò la presa,
lanciando addosso al Putrido il suo bottino e scappando via, urlando
ancora, sbattendo la spada contro pietre e alberi, attirandoli
lontani dal suo amico. Dolore e fatica. Non c'erano altro in lei.
Voleva fermarsi, voleva riposare, non riusciva che a zoppicare, ma la
sua disperata voglia di vivere la spingeva sempre più
avanti,
arrancando, inciampando ma senza fermarsi.
Non
ancora.
La notte era calata da tempo, l'oscurità nascondeva
non solo lei, ma anche tutti i possibili pericoli che poteva avere
attorno. Aveva dolori ovunque, lividi e ferite che ancora vomitavano
sangue. I muscoli avevano lavorato più di quanto era per
loro
possibile e ora non facevano che chiedere pietà, riposo e
cure. Il
freddo la faceva tremare come una foglia. La paura ancora non se
n'era andata, aggiungendo scosse ad altre scosse. Ma nonostante tutto
questo lei dormiva. Si era lasciata andare nel momento in cui era
crollata a terra, tra quelle radici, come un animale che tenta
disperatamente di nascondersi, e non aveva neanche fatto in tempo a
sistemarsi per cercare una posizione comoda che gli occhi si erano
chiusi e l'oblio era calato su lei.
Passò
un l'intero pomeriggio e la notte che seguiva a dormire, un sonno
senza sogni, solo qualche ricordo che tornava come un esplosione, si
mostrava, spaventava e poi lentamente si diradava.
Qualche
zombie era passato di lì più volte, notandola, ma
lasciandola
stare: era ricoperta di sangue marcio e interiora, puzzava come uno
di loro, ed era immobile se non per qualche lamento e movimento
causato dal continuo irrigidirsi del muscoli. La scambiavano per una
di loro, non profumava affatto di cibo, e proseguivano per la loro
strada.
Il
giorno successivo, dopo quasi 24 ore di sonno, Ocean riaprì
gli
occhi e si sentì peggio di un cadavere. Aveva la nausea e
sentiva
ancora più dolore del giorno prima, gli occhi bruciavano, la
gola
secca continuava a procurarle tosse e il mal di testa non voleva
lasciarla in pace. Si puntellò su un braccio e
tentò di rialzarsi,
guardandosi attorno, sollevandosi con fatica e cercando di rimettere
ordine ai pensieri. Per sua sfortuna ricordava tutto quello che era
successo. Aiutandosi con l'albero che aveva alle spalle si
sollevò
in piedi, gemendo a ogni movimento: i muscoli sembravano essere
diventati di pietra.
Aveva
sete. Doveva trovare dell'acqua.
Così
cominciò a camminare verso l'unica direzione che conosceva,
lenta,
muovendo a fatica le gambe, e zoppicando. Il sangue era incrostato
ovunque e alimentava la sua nausea con quel suo odore disgustoso.
Non
si chiese cosa avesse dovuto fare ora. Era una domanda che non voleva
porsi, perchè già sapeva che non avrebbe trovato
risposta. Era sola
e senza un obiettivo, senza sapere cosa avrebbe fatto ora della sua
vita, e per ora si limitava a seguire l'istinto e andare alla ricerca
di una fonte d'acqua.
Qualsiasi
pensiero le venisse alla mente lo scacciava in malo modo: ora
l'acqua! Ora solo l'acqua!
Camminò a lungo, o forse così le
sembrò data la sua lentezza, quando raggiunse una casa
isolata, una
di quelle villette nel bosco che tanto piaceva alla gente. Forse
lì
dentro c'era dell'acqua, forse c'era ancora acqua corrente.
Cercò di
accelerare il passo, digrignando i denti per il dolore, e raggiunse
velocemente il pianerottolo esterno. Salì gli scalini e si
avvicinò
alla porta a vetri. Lanciò uno sguardo dentro, cercando di
vedere
oltre l'opacità causata dalla polvere. Sembrava tranquillo.
Bussò,
per sicurezza. Nel caso ci fosse stato qualche zombie il rumore
l'avrebbe attirato e lei non sarebbe stata colta impreparata.
Nessuna
risposta. Posò la mano sulla maniglia e aprì,
entrando lentamente e
cautamente. La sala sembrava deserta. Si chiuse la porta alle spalle
e zoppicando cominciò ad avanzare, cercando un bagno o una
cucina.
Qualsiasi cosa avesse un lavandino.
Entrò
nella cucina, separata dal resto della casa da una tendina a perline
che scendeva dall'alto, molto all'antica, e cercò il
lavandino con
gli occhi.
Un
paio di occhi bianchi all'improvviso la fecero sussultare. Rimase
pietrificata mentre lo zombie che le si era piazzato davanti la
scrutava.
"Merda!"
pensò mentre l'istinto le portò velocemente la
mano alla spada. Ma
non la estrasse.
Cosa
aspettava ad attaccarla?
Lo zombie fece qualche verso, lamentò,
sembrò guardarsi attorno e poi si voltò e si
allontanò lasciando
Ocean completamente disorientata. Si guardò i vestiti,
curiosa di
capire cosa avesse tenuto a distanza la morte, e subitò
capì che si
era salvata solo grazie al sangue di quei due o tre zombie che il
giorno prima avevano riversato su di lei tutto ciò che
contenevano.
<<
Scambiata per un morto. >> parlottò tra
sè e sè e provò a
ridere, ma dalla sua bocca uscì solo qualche colpo di tosse
che le
raschiò la gola come la lama di un coltello seghettato. Si
portò
una mano al collo d'istinto e fece una smorfia di dolore.
Aveva
trovato la situazione così ironica. Per la prima volta non
era lei a
fare del sarcasmo sugli altri, ma era stata la vita stessa a farlo su
lei. Era morta dentro, Alice era morta da un pezzo, e ora vagava come
uno di loro, barcollando, e veniva addirittura accettata nella
comunità dei mangiatori di carne come fosse davvero uno di
loro.
<<
Sono un morto che cammina anche io ora. >> rise ancora,
tossendo, lamentando dolore. Lo zombie si voltò attirato
dallo
strano rumore, ma Ocean non gli diede tempo di realizzare che la sua
compagna di stanza era cibo. Gli si avvicinò con assoluta
tranquillità, sapendo che fretta non ce n'era
finchè era conciata
in quella maniera, estrasse la daga e cercando di dare quanta
più
forza potesse nel braccio la conficcò nella fronte del
Putrido. Lo
lasciò cadere a terra, controllando fosse morto davvero, e
si
diresse infine verso la sua fonte d'acqua. Aprì il rubinetto
e quasi
si commosse quando la vide scorrere. Piegò la testa e
infilò le
labbra sotto il getto, bevendo avida, sentendo il liquido fresco
placare un po' il fuoco che aveva in gola. Si lavò poi mani
e
faccia, chiuse il rubinetto e decise di perlustrare la casa prima di
mettersi a suo agio. Era bene assicurarsi fosse sicura.
Perlustrò
ogni singola stanza, ogni angolo, ogni armadio e sotto ogni letto.
Ovunque potesse nascondersi del pericolo. Trovò un altro
paio di
zombie nelle altre stanze, probabilmente membri della famiglia che
abitava lì, ma nessuno tentò di attaccarla e
Ocean riuscì a porre
fine al loro vagare quasi con dolcezza.
Voleva
farsi un bagno quanto prima, aveva visto avevano una vasca e
desiderava affondare nell'acqua il prima possibile, anche se
sicuramente sarebbe stata gelata. Ma aveva ancora una stanza da
controllare.
L'aprì
e il cuore si fermò. Sulle pareti azzurre erano disegnati
personaggi
di cartoni animati. La moquette era piena di giocattoli. Sul letto
era stesa una copertina in pile con sopra pianeti e navicelle
spaziali. Ocean fece un passo entrando all'interno della stanza e la
gola tornò a bruciare. Gli occhi si appannarono e senza
rendersene
conto un lamento le uscì dalle labbra. Quei personaggi dei
cartoni,
alle pareti, erano macchiati di sangue. La coperta in pile era
strappata. Alcuni giocattoli anche loro macchiati di quel terribile
destino. Per terra, la moquette, era in alcuni punti impiastricciata
e incrostata. Si portò una mano alla bocca cercando di
soffocare i
lamenti.
Il
mondo era diventato l'Inferno, e l'Inferno si sa è per i
peccatori,
per coloro che in vita avevano commesso crimini e violenze, per
questo era così facile colpire e sopravvivere. Se quello era
l'inferno, i Putridi erano i dannati e come tali avevano sicuramente
fatto qualcosa per meritare tutto quello. Loro meritavano la loro
fine, per forza! Era colpa loro se erano diventati così. Ma
i
bambini...i bambini riportavano alla violenta realtà. Loro
che colpa
potevano avere? I bambini erano innocenti, non meritavano quel
destino. Perchè tutto questo? E solo allora
realizzò che non c'era
spiegazione logica che teneva: era la fine del mondo, e nessuno
scappava. Prima o poi chiunque giungeva al proprio destino, anche i
buoni e gli innocenti. Il crudele Dio era sceso in terra e stava
divorando ogni cosa.
Nessuno
scappava.
Si
voltò a guardare il mobile che era poggiato alla parete alla
sua
destra, sopra erano riposti altri giocattoli. Ne prese uno e un altro
singhiozzo la scosse, facendo scivolare via una lacrima dai suoi
occhi. Sorrise, ma era un sorriso triste. Un pupazzetto snodabile di
IronMan. Ne aveva già visto uno simile, lei stessa l'aveva
comprato
e regalato...a qualcuno. Qualche ricordo guizzò, come
pesciolini che
saltano fuori dall'acqua, riempiendola di tristezza e malinconia, e
anche se poi rispariscono subito sotto la superficie, i cerchi
formati restano a lungo, allargandosi, prendendosi sempre
più spazio
dentro quel piccolo laghetto di malinconia.
"Abbiamo
giocato tante volte assieme con questo" pensò muovendo le
braccia del pupazzetto e mettendolo in posizione di attacco, come
sempre aveva fatto in precedenza. Ricordava c'era un pulsantino
dietro la schiena, se premuto faceva il rumore di IronMan nel film
quando sparava. Lo voltò e lo premette. Il rumore si
prolungò
fintanto che Ocean tenne premuto, un eco dei suoi pensieri. Poi un
altro rumore si aggiunse nella stanza, facendola sussultare. Versi.
Versi che conosceva bene.
<<
No. No, ti prego. >> sussurrò tra
sè e sè pregando di
essersi sbagliata, pregando che voltandosi non avrebbe visto
ciò che
temeva. Un nodo le chiuse la gola.
E si
voltò.
<<
No. >> lamentò con un singhiozzo.
Uno
zombie si stava avvicinando a lei, attratto dal rumore del
pupazzetto. Uno zombie che arrancava sui suoi piedini, che spesso
inciampava e continuava a gattoni, lento. Uno zombie non più
alto di
80 cm e che allungando le sue manine paffute, nel tentativo di
afferrare la preda, rendeva tutto più triste di quanto
già fosse.
Era
la prima volta da quando era successo tutto che incontrava un
bambino. I capelli neri, lisci, ormai secchi e diradati
incorniciavano il suo viso tondo, violaceo. Ocean arretrò di
un
passo, trovandosi improvvisamente a singhiozzare, e andò a
sbattere
contro l'angolo del mobile dietro di lei.
<<
No, ti prego. >> singhiozzò ancora.
Portò una mano alla daga,
tremando come mai aveva fatto prima. Sapeva quello che andava fatto.
Non era più un bambino, era un mostro, come tutti gli altri
e andava
ucciso prima che lui avesse ucciso lei. Ma non ce la faceva. Come
poteva farlo, con che cuore avrebbe piantato un arma affilata nella
testa di una creatura così piccola.
Sfilò
la daga dal fodero, tremando ancora e si inginocchiò,
lasciando
cadere il pupazzetto a terra, guardando il bimbo mentre avanzava e
lentamente si avvicinava. Singhiozzò ancora, non riuscendosi
a
fermare.
Afferrò
il collo del bambino con la mano libera, bloccandolo, impedendogli
così di avvicinarsi oltre e morderla. La sua pelle era
così fredda.
Alzò la daga, cercando dentro sè la forza per
farla cadere sulla
sua testa, per fare il suo dovere. Altre lacrime si riversarono sulla
sua guancia mentre il bambino bloccato si dimenava, allungando le
braccia verso lei, chiudendo ritmicamente la bocca desideroso di
mordere.
Gli
occhi le si appannarono, impedendole di vedere. La mano che reggeva
la daga si portò velocemente al suo viso e con la manica si
asciugò,
prima di tornare alla sua posizione. Ma la vista le giocò un
brutto
scherzo. Quel bambino prese improvvisamente sembianze che non aveva,
ma che lei conosceva così bene e che custodiva da tempo
dentro sè.
Le sembianze di quel bambino che aveva portato a lungo gelosamente
con sè, dentro il suo portafoglio.
La
mano alzata cadde improvvisamente, arresa, facendo scivolare via la
daga sul pavimento.
<<
Non ce la faccio. >> sussurrò <<
Non ce la faccio. Mi
dispiace. >>.
Si
alzò in piedi, sollevando il bambino, sempre tenendolo ben
fermo per
la gola impedendogli così di morderla e si diresse verso il
lato
sinistro della stanza, dove era poggiato un box con sbarre alte e
altri giochi all'interno. Lo poggiò lì dentro e
si allontanò
velocemente di un passo. Il bambino si sollevò di nuovo in
piedi e
arrancò fino alle sbarre del box, contro cui si
schiacciò e allungò
le manine verso la ragazza, lamentando, dimenandosi. Ocean lo
guardò
per qualche secondo, non pensando a niente di preciso, cercando solo
di liberarsi da quel dolore che le attanagliava il cuore, poi si
voltò, prese il pupazzetto di IronMan che aveva lasciato a
terra, lo
raccolse e lo portò dal bambino, facendoglielo cadere nel
box.
Abbassò gli occhi dispiaciuta, triste e silenziosamente
uscì dalla
stanza chiudendosi accuratamente la porta alle spalle.
La
casa era ripulita a dovere. Ora poteva godersi il suo bagno.
Il
tempo passò veloce e silenzioso. Un'ombra. Si sentiva ormai
un'ombra
che passava come tutte le altre, senza scopo, pronta a morire al
calare del sole. Soddisfò tutti i suoi bisogni, lavandosi,
mangiando
qualche scatola vecchia che era rimasta nella dispensa della casa,
bevendo e cercando di curarsi qualche graffio con delle medicine
trovate nello stipetto del bagno.
Si
lasciò cadere sul divano, sedendosi a gambe divaricate e le
braccia
stese lungo i fianchi, gli occhi puntati su un televisore spento e
che sarebbe rimasto spento a lungo. Il silenzio era il suo unico
compagno. Il televisore era spento, ma i suoi occhi vedevano scorrere
su di lui immagini di un programma comico italiano. Era sola su quel
divano, ma sentiva accanto a sè delle persone, che ridevano
di quel
programma, commentavano e le chiedevano divertiti se avesse capito la
battuta. Un bambino le corse davanti ai piedi con un aereo tra le
mani, simulando il rumore del suo volo, correndo per la stanza, e la
voce di una donna l'ammonì dicendogli di stare in silenzio,
di
andare nella sua stanza a giocare perchè lì
disturbava. Un piccolo
batuffolo bianco, tutto spettinato, saltò sul divano,
arrancando un
po' date le sue zampette corte, e si sistemò vicino a lei,
posando
il musetto su una sua gamba e cominciando a dormire beato.
Un'altra
battuta. Risate.
<<
L'hai capita Alice? >> rise la signora anziana accanto a
sè.
<<
Sì, nonna l'ho capita. >> sorrise lei,
intenerita dal suo
bisogno di coinvolgere ed essere coinvolta nelle sue
attività
ludiche. Il bambino tornò correndo davanti a loro.
<<
Zia Alice!! Giochi con me? Dai, vieni? >> le
afferrò il
pantalone e cominciò a tirare.
<<
Andrea!! >> lo ammonì una giovane donna
accanto a sè <<
Lascia stare tua zia! Ha lavorato tutto il giorno, è stanca.
Vai a
giocare da solo. >> Il bambino sbuffò e
lasciò cadere le
braccia lungo i fianchi, scocciato e contrariato.
Alice
rise e gli scompigliò i capelli.
<<
Giochiamo insieme dopo cena, che ne dici? Perchè non vai a
chiedere
alla nonna tra quanto si mangia? Magari ha bisogno di aiuto.
>>
suggerì, cercando lo stesso di coinvolgere il bambino in
qualcosa
che non lo annoiasse. Andrea sorrise e annuì prima di
correre verso
la cucina.
<<
Chiara, non essere così severa con lui. >>
disse la nonna alla
ragazza seduta vicino ad Alice, quella che aveva brontolato il
piccolo Andrea << E' un bambino, è normale
voglia giocare. >>
<<
A volte mi chiedo dove abbia le batterie e soprattutto di che marca
sono. >> sospirò la ragazza <<
Non si stanca mai! Vorrei
essere come lui. >>
<<
Tu sei una gran pigrona invece! >> rise Alice.
<<
Proprio come te, sorella sciagurata!! >>
brontolò Chiara dando
uno spintone a quella che spesso diceva di essere il suo riflesso
allo specchio. Nessuno avrebbe sbagliato nella loro parentela, erano
assolutamente identiche, l'unica irrilevante differenza stava nel
fatto che Chiara era più vecchia di Alice di ben 10 minuti.
La nonna
ammonì le loro chiassose risa con un netto "ssh",
sforzandosi di sentire la televisione << Questo
è forte!
Fatemi sentire che dice! >> e seguì un gesto
della mano ad
indicare di abbassare la voce. Alice sorrise ancora e
accarezzò il
cane che ancora dormiva beato appoggiato alla sua gamba. Era
così
piccolo che chiunque avrebbe potuto confoderlo per un peluche.
Una
donna si affacciò alla porta con uno straccio in mano,
asciugandosele, i capelli scuri legati in una crocchia, occhiali
rettangolari sul naso e un abbigliamento sempre elegante
<<
Mamma, vieni di là a guardarlo. E' pronto da mangiare.
>>
disse rivolta alla vecchia seduta, con una coperta sulle ginocchia,
vicino ad Alice.
Il
bambino corse veloce dalla cucina verso l'ingresso dell'appartamente,
urlando di gioia << E' tornato papà!!!
>> e subito si
sentì il rumore della porta che si apriva.
<<
Eccolo qua il mio mostriciattolo! >> si sentì
dire dalla voce
di un uomo sulla soglia dei 30 anni. Chiara fu la prima a seguire il
figlio, andando verso quello che presto sarebbe diventato suo marito,
per salutarlo. Una famiglia allargata la loro, necessaria per via
delle terribili condizioni economiche in cui vivevano che non
permetteva a ciascuno di loro di avere un proprio appartamento. Ma
andava bene così. Erano insieme, questo era l'importante. E
Alice
aveva potuto così fare non solo da zia, ma anche da seconda
madre,
sorella maggiore e migliore amica del piccolo Andrea, la luce di
quella casa. Il giorno in cui Chiara e Leonardo si sarebbero
sistemati con i soldi, e si sarebbero sposati, sarebbe stato il
peggiore della sua vita perchè non solo avrebbe dovuto
separarsi
dalla sua gemella, ma anche dal suo cuoricino Andrea. Ma nessuno le
avrebbe impedito di andare a trovarli ogni giorno.
O
almeno questo era quello che pensava al tempo.
Alice
seguì la sorella, andando a salutare educata il cognato.
<<
Ciao Alice. >> salutò Leonardo, alzando il
viso, guardandola
con i suoi occhi bianchi, i denti scoperti, insanguinati, i capelli
diradati e la pelle verdastra. Alice sussultò, arretrando e
andando
a sbattere contro una persona dietro di sè. Si
voltò e si trovò
davanti sua madre, con le stesse caratteristiche di suo cognato,
putrida, marcia, che la guardava famelica << Che succede,
bambina mia? >> chiese con una voce che non era la sua
mentre
digrignando i denti si avvicinava a lei, annusandola. Alice si
lasciò
sfuggire un urlo e arretrò ancora, schiacciandosi contro la
parete
dietro di lei.
<<
Alice. Stai bene? >> chiese a sua volta la sorella, o
almeno
quella che credeva essere sua sorella, anche lei ormai trasformata e
che si avvicinava pericolosamente. Alice si guardò attorno,
disperata, terrorizzata. Cosa stava succedendo? Dov'era la sua
famiglia? Gli zombie nell'atrio continuavano ad avvicinarsi a lei,
accerchiandola, impedendole la via di fuga. Alice cominciò a
tremare
e pregare. Volevano mangiarla! Erano morti! Non sapeva per quale
delle due cose disperarsi di più. La sua famiglia...dov'era
la sua
famiglia? Si sentì tirare la maglia verso il basso e si
voltò a
guardare chi stesse richiamando la sua attenzione. Andrea, in piedi
vicino a lei, era come gli altri, trasformato. Alzò la testa
verso
la zia e lì il suo viso mutò, diventando quello
del bambino trovato
nella stanza di quella casa abbandonata nel bosco. In Georgia.
<<
Zia, giochi con me? >> chiese e mai una richiesta era
sembrata
più minacciosa. Alice urlò terrorizzata,
allontanandosi di colpo
dal bambino, inciampando, cadendo....
Si
svegliò di soprassalto, sollevando la testa. Il cuore le
martellava
in petto. Si era fatto di nuovo buio fuori, nemmeno un filo di luce
penetrava dalle finestra rendendo la stanza un buco nero. Gli occhi
corsero convulsamente intorno a sè, guardando, scrutando
ogni
angolo, assimilando ciò che era successo: si era di nuovo
addormentata, e aveva di nuovo fatto incubi. Tirò un sospiro
di
sollievo, ma che aveva sfumature di esasperazione, stufa ormai di
dover subire tutto quel terrore gratuito, e lasciò
nuovamente
ricadere la testa all'indietro, rilassandosi.
<<
Che palle... >> sussurrò esternando tutta il
suo esaurimento
con quel espressione che aveva dell'infantile. Si lasciò
scivolare
sul divano, togliendosi dalla posizione seduta e stendendosi
realmente per rilassare i muscoli e magari placare qualche crampo e
qualche fitta. Fissò il buio soffitto senza un reale
interesse.
Niente aveva un reale interesse. Non sapeva più cosa voleva,
cosa
doveva fare, non sapeva più niente. Doveva solo
sopravvivere, senza
avere un piano, e questa la mandava fuori di testa. Aveva lasciato
indietro degli amici, era vero, ma erano passati quasi due giorni da
quando aveva lasciato Max nell'auto, sicuramente Daryl era
già
tornato a l'aveva preso con sè, tornare indietro era inutile
oltre
che rischioso. Avrebbe potuto imbattersi nuovamente nell'orda. Quel
luogo per ora sembrava sicuro e sarebbe rimasta lì un po'.
Tornare
dal gruppo? No, non ce la faceva. Non voleva. Nella disperazione
aveva desiderato avere Daryl accanto a sè, ma ora era
tornata quella
di prima. Era solo il panico ad averla fatta parlare. Non voleva. Lei
era sola e sarebbe rimasta sola. E sotto quelle mentite spoglie
cercò
di nascondere la vera ragione della sua solitudine: la paura di
essere di nuovo lasciata sola e tradita. E poi....era fuggita. Lei
stessa se n'era andata, gli aveva ritenuti buoni a nulla, maltrattati
e mal giudicati. Con che faccia sarebbe tornata da loro? Sicuramente
non l'avrebbero più voluta con loro. Non poteva tornare
indietro.
E
Peggy...
Sapeva
dov'era Peggy. Lo sapeva fin dal primo giorno di ricerca, quando
Daryl non toglieva gli occhi dal suolo seguendo segni di zoccoli
lungo la via. Aveva riconosciuto la strada che stavano percorrendo.
Peggy
era tornata a casa. E lei non aveva nessuna intenzione di
raggiungerla. Forse era anche per quel motivo che non aveva detto a
Daryl che conosceva la strada, impedendogli di proseguire con
così
tanta lentezza. Non voleva tornare in quel posto, e in qualche modo
sperava che il balestriere avrebbe sbagliato qualcosa, che non
sarebbero giunti a destinazione. O comunque ciò ritardava il
loro
arrivo, e lei aveva avuto il tempo di riflettere sul da farsi, anche
se le conclusioni non erano arrivate come aveva sperato. Il destino
aveva fatto tutto per lei. La loro separazione era in qualche modo
servita a salvarla. Ora poteva vagare sola come aveva desiderato, era
riuscita a liberarsi di quel gruppo, aveva ottenuto ciò che
diceva
desiderava. E non era neanche più obbligata a tornare in
quel luogo,
dove sicuramente Peggy si era rifugiata, anche se non era convinta
che "rifugiata" fosse il termine adatto. Per quanto ne
sapeva poteva essere anche invaso, così come l'aveva
lasciato
l'ultima volta.
Un
bicchiere si ruppe sul pavimento della cucina.
Ocean
sussultò e d'istinto si rizzo a sedere, puntando gli occhi
verso il
corridoio dietro di lei, da dove si raggiungeva la cucina. Solo
allora fece caso agli strani scricchiolii che provenivano da quella
stanza. C'era qualcuno. O qualcosa. Quando era entrato? Mentre
dormiva?
Sentì
il rumore dei vetri calpestati. Uno stipetto scricchiolò
aprendosi.
Gli zombie non sapevano aprire gli stipetti, forse era qualcuno di
vivo.
<<
Cazzo. >> sussurrò rotolando giù
dal divano, cercando di
essere il più silenziosa possibile, sperando il pavimento
non le
giocasse qualche cattivo scherzo facendo rumori che non erano
richiesti. Strisciò fino a bordo divano e guardò
di nuovo l'entrata
della stanza, assicurandosi che il suo ospite non fosse ancora
entrato. Si alzò, posandosi sui piedi, ma rimanendo china e
con le
mani poggiate al pavimento. Guardò ancora l'entrata prima di
fare un
silenzioso scatto verso la poltrona accanto e si nascose dietro a
essa. Allungò una mano e afferrò le armi che
aveva posato lì sopra
prima di stendersi sul divano. Si legò velocemente le varie
cinghie.
Uno scricchiolio nel corridoio: stava arrivando. Si sbrigò
nel suo
riassemblarsi e afferrò per ultimo arco e frecce. Si mise la
faretra
dietro la schiena, prese una freccia e la incoccò.
Restò qualche
secondo con le spalle schiacciate contro il fianco della poltrona,
nascosta, affidandosi solo al suo udito, anche se il rumore del suo
respiro affannoso e del suo cuore le assordava le orecchie.
Aveva
imparato per esperienza che bisognava avere più paura dei
vivi che
dei morti.
Sentì
il rumore di passi pesanti e decisi entrare nella sala e camminare
velocemente verso il divano. Il respiro di Ocean non le diede pace,
il petto le faceva male nel suo disperato tentativo di cercare sempre
più aria: stava rischiando l'iperventilazione. Non riusciva
a
calmarsi. Tentò di arretrare, cercando di scivolare lungo il
fianco
della poltrona per arrivarle dietro e continuare a essere nascosta al
suo ospite, ma le sue scarpe la tradirono facendo rumore nel piegarsi
sotto ai suoi passi. Il cuore le si fermò. E anche i passi
dell'uomo
si fermarono. L'aveva sentita.
La
sicura di una pistola venne tolta con un sinistro suono che
preannunciava guai. Ocean cominciò a tremare.
Il
bambino al piano di sopra lanciò un leggero urlo, attirato
da chissà
cosa, ma qualsiasi cosa fosse Ocean lo ringraziò. Sapeva che
così
come aveva attirato lei avrebbe potuto attirare anche l'uomo.
Approfittò del momento sbucando all'improvviso con la
freccia e la
testa da dietro la poltrona, prendendo rapidamente la mira e
scoccando la sua freccia verso la figura nera, in piedi, con lo
sguardo alzato al soffito. Ma la freccia mancò il bersaglio,
graffiando semplicemente la guancia dell'uomo e facendolo sussultare.
Un eco odioso risuonò in quel momento nelle orecchie di
Ocean:
"Imbranata" diceva la voce di Daryl, e avrebbe volentieri
ucciso lui in quel momento. L'uomo si voltò di colpo, e
senza
pensarci due volte fece fuoco.
Fiamme
improvvise si impossessarono della spalla di Ocean che cadde a terra
e senza rendersene conto cominciò a urlare. Era la prima
volta
veniva colpita da un proiettile, e non pensava fosse qualcosa di
così
doloroso. Sentiva fisicamente l'oggetto inserito nella sua spalla
muoversi a ogni suo divincolo. Con la mano tremante si strinse la
ferita in un disperato tentativo di placare il dolore. Un grosso
piede con stivali militari si posò pesantemente davanti al
suo viso
steso a terra. Con la coda dell'occhio Ocean cercò di
risalire la
gamba, guardando in volto il suo aggressore. Un uomo grosso, vestito
con abiti militari, un pesante giubbetto di pelle imbottito di pelo
di chissà quale animale e un sigaro stretto tra i denti la
guardava
sorridendo quasi soddisfatto.
<<
Ciao, bambolina. >> disse.
La
paura più profonda si impossessò di lei.
Cominciò a sentire il
fiato mancarle e la vescica premere per potersi liberare all'istante
sotto lo sforzo. Avrebbe singhiozzato. Ma era talmente pietrificata
che neanche quello riuscì a fare.
"Non
di nuovo, ti prego" riusciva solo a pensare e all'improvviso
desiderò essere morta.
L'uomo
si chinò su di lei e le puntò la pistola alla
tempia, continuando a
guardarla col suo sorriso divertito e probabilmente soddisfatto della
sua scoperta.
<<
Vediamo di non muoverci, eh?! >> le disse prima di
portare le
mani alle sua armi, togliendole di dosso, senza certo precocuparsi di
non toccare cose, parti del corpo, che certamente non erano di sua
proprietà. La disarmò, allontanando le sue cose
per evitare che
potesse riprenderle, poi l'afferrò per il braccio sano e la
costrinse ad alzarsi. Il dolore alla spalla la fece lamentare tra i
denti. L'uomo la trascinò e la lanciò sul divano,
facendola sedere.
<<
Togliti questa roba. >> disse indicando la sua camicia
con la
canna della pistola. Ocean voleva scoppiare a piangere, ma si
sforzò
di mantenere una certa dignità. Sapeva che certe cose
piacevano di
più agli uomini che si dedicavano a certe
attività schifose solo
per poter urlare al mondo il loro testosterone. Il loro dominio.
Piangere avrebbe dato a lui tutto questo. Strinse i pugni e
continuò
a guardare il suo aggressore negli occhi, non facendo ciò
che gli
aveva detto. I suoi occhi urlavano tutta la sua rabbia e il disgusto
che le stava facendo venire da vomitare.
<<
Forza, non fare la capricciosa e non farmi perdere tempo.
>>
continuò lui dandole un colpo alla spalla ferita con la sua
pistola.
Ocean si lamentò ancora e chiuse gli occhi per il dolore, ma
continuò a rimanere immobile.
<<
Figlio di troia >> disse in Italiano.
Non gli avrebbe
certo concesso l'onore di poter comunicare con lei. Non gli avrebbe
dato la soddisfazione di fargli credere che ciò che lui
diceva era
capito, così magari avrebbe scoraggiato anche tutte le frasi
di
circostanza che le facevano venire il vomito.
"Vedrai,
ti piacerà" o "Sarà veloce". Era qualcosa che
scatenavano tutta la sua furia e il suo disgusto, avrebbe ucciso solo
per quello. Non voleva sentirle. E poi parlare in inglese era
qualcosa che aveva sempre fatto solo per poter beneficiare il suo
interlocutore, lei avrebbe volentieri parlato solo Italiano. Era una
forma di rispetto e concessione che faceva all'altro. E lui certo non
meritava questo.
<<
Una straniera, eh. Che carina. >> sorrise ancora
aspramente,
condendo la frase di una certa dose di ironia. Rinfoderò la
pistola
e si calò su lei con una tale velocità da non
darle neanche il
tempo di provare a scappare. Le mise una mano al collo, bloccandola,
e con l'altra cominciò a toglierle la camicia, sbottonando
ogni
singolo bottone, cosa che in un certo senso gli avrebbe anche
addirittura fatto onore: così poteva rivestirsi dopo e non
era poi
costretta a girare nuda con i vestiti stracciati per tutta la
Georgia. Quand'ebbe finito con un colpo secco la spintonò e
la fece
stendere a pancia in giù sul divano, le posizionò
un ginocchio tra
le scapole impedendole di muoversi. Ocean strinse ancora i pungi,
cercando di mantenere la calma. In quelle occasioni l'unica era
ragionare lucidamente, non dimenarsi e non farsi prendere dal panico.
Sarebbe solo stato un inutile spreco di energie. Senza contare che
ancora aveva dolori ovunque, se si fosse agitata si sarebbe fatta
solo ancora più male. L'uomo le afferrò i polsi e
glieli legò con
un pezzo di corda, così stretti da fargli male, ma non
abbastanza da
rischiare di fargliele perdere per mancanza di circolazione. Fece la
stessa cosa con i piedi, dopo averle sfilato gli stivali, e dopo
averle sistemato le mani dietro la schiena la rialzò a
sedere,
trattandola come si può trattare una bambola. Gli occhi di
Ocean
bruciavano, ma non pianse. Solo rabbia, fierezza e disgusto dovevano
uscire dal suo sguardo. Non la paura. Doveva restare ferma, fiera,
doveva mantenere dignità dimostrando di non essere in suo
potere.
Lui non era superiore, solo aveva la pistola dalla parte del manico.
Per ora. Era questo che doveva dimostrare. Lei non era in suo potere,
lei non era sua.
<<
Piangerai un po'. >> ridacchiò lui prima di
tirar fuori un
coltello. Ocean spalancò gli occhi presa da un attimo di
terrore:
che diavolo voleva fare? L'uomo piantò bene il suo
bracciò contro
il petto della ragazza, vicino all'attaccatura del collo, e
posò un
ginocchiò sulle sue gambe, immobilizzandola. Senza dar tempo
alla
ragazza di capire che cacchio avesse intenzione di fare l'uomo aveva
infilato la punta del suo coltello nella ferita della ragazza e senza
nessun riguardo cominciò a muoverlo all'interno. Ocean
urlò con
tutto il fiato che aveva. Il dolore era indescrivibile, qualcosa che
non aveva mai neanche immaginato. Cercò di dimenarsi
desiderando
solo scappare da quella tortura, ma ogni minimo movimento faceva
finire il coltello dove non doveva facendole ancora più male.
<<
E chiudi quella bocca. >> brontolò l'uomo
ancora intento a
rigirare il suo coltello all'interno del buco creato dal suo
proiettile. Ocean strinse i denti, ma non riuscì a fermare i
lamenti, il suo corpo urlava dolore e non riusciva a fermarlo.
Sbuffò, scosse la testa, strinse i pugni e urlo fino a
quando l'uomo
non ebbe finito. Il tempo era sembrato infinito e non seppe bene
quanto gli ci era voluto, sapeva solo che in quegli interminabili
attimi aveva ancora una volta desiderato morire.
<<
Eccolo qua il figlio di puttana! >> rise l'uomo
rigirandosi tra
le mani il proiettile insanguinato come una reliquia, non sembrando
per niente disgustato. Chissà quante altre volte lo aveva
fatto, o
quante volte aveva sventrato qualcuno per mostrare una tale
disinvoltura. Ocean non lo guardò, voleva essere lasciata in
pace e
basta. Lasciò cadere la testa all'indietro, esausta,
cercando di
riprendere fiato. Il braccio le pulsava.
<<
Sei stata fortunata. >> continuò lui,
infischiandosene del
fatto che lei non potesse capirlo, o almeno questa era l'impressione
che lei gli aveva dato. Si tirò fuori da una grossa tasca
dei suoi
pantaloni una piccola fiaschetta che aprì con i denti, bevve
un
sorso e poi si richinò sulla ragazza.
<<
Non abbiamo finito, tesoro. >> disse prima di versare
sulla
ferita il liquido contenuto dentro la sua fiaschetta. Il braccio le
sembrò prendesse fuoco e un alto lamento le uscì
dai denti ben
serrati. Strinse il tessuto del divano tra le dita, dietro di
sè, si
irrigidì, e si chiese quanto sarebbe andato ancora avanti.
L'uomo
prese un fazzoletto sempre da una delle sue tasche e lo premette
contro la ferita, schiacciandola poco delicatamente, aggiungendo
dolore al dolore. Il braccio le formicolava. Ma il peggio sembrava
passato.
Con
lo stesso fazzoletto l'uomo fece un nodo intorno alla sua spalla,
bello stretto, arrangiando una fasciatura. L'aveva aiutata, le aveva
curato la ferita, avrebbe dovuto ringraziarlo, ma era ancora legata
nuda su un divano, era ancora troppo presto per cantar vittoria.
L'avrebbe ringraziato e forse gli avrebbe chiesto anche scusa solo
quando le avrebbe permesso di andarsene senza toccarla ancora.
<<
Se ti fossi mostrata subito, senza fare strane sorprese questo non
sarebbe successo. Impara dai tuoi errori, tesoro. >>
disse lui
avvicinando il suo viso a quello della ragazza, facendole sentire
tutto il suo alito fetido di sigaro e alcol, e dandole leggeri
schiaffi alla guancia. La ragazza fece una smorfia disgustata, e
continuò a non rispondere, voltando la testa dall'altra
parte.
L'uomo sorrise, si chinò e l'afferrò per i
fianchi sollevandola di
peso e con pochi gesti rapidi se la caricò sulle spalle come
un
sacco di patate, facendola gemere ancora.
<<
Penso di non dover continuare la perlustrazione, con le tue urla se
ci fosse stato qualcuno o qualcosa sarebbe già arrivato di
corsa. >>
disse cominciando a camminare e dirigendosi verso le scale che
portavano al piano di sopra, lasciando in quella sala la camicia e le
armi di Ocean.
<<
Andiamo, bella. Che ora mi diverto un po' io. >>
sghignazzò
lui colpendole il sedere che sporgeva dalla sua spalla, prima di
cominciare a salire le scale. Ad ogni passo le fitte diventavano
sempre più dolorose, ma la paura era tale che il dolore
passava in
secondo piano. Voleva scappare. Preferiva buttarsi in pasto ai
Putridi piuttosto. Ma non quello...non di nuovo! Odiava gli uomini,
che davanti alla morte ancora non smettevano di pensare ad altro che
al loro pene, e che anzi spesso approfittavano di certe occasioni per
soddisfare bisogni che in occasioni normali non avrebbero potuto.
Erano diventati tutti stupratori da quando era successo il casino. Da
quando non c'era più una legge a punirli. Ne aveva
incontrati a
bizzeffe, anche se spesso era riuscita a cavarsela, e la
caratteristica che li accumunava quasi tutti era che dopo la violenza
lasciavano in vita le vittime, anzi le armavano. Volevano che le
donne restassero vive così un giorno avrebbero potuto
"riusarle".
Ed era quello lo stesso motivo per cui quella specie di militare le
aveva curato la ferita da proiettile, non voleva morisse. Poteva
servirgli ancora. Con la mano libera buttò giù un
altro sorso del
liquido altamente alcolico che conteneva la sua fiaschetta, un lungo
e profondo sorso con la chiara intenzione di ubriacarsi. Sarebbe
stato più divertente. Questo pensava lui. Ocean in quei
secondi che
la separavano dalla camera da letto pensò a qualsiasi cosa,
cercò
di trovare qualsiasi soluzione che fosse rubargli la pistola, o
cercare di aprire la porta dove aveva tenuto in vita il bambino,
così
magari se lo sarebbe mangiato, ma nessuna di quelle erano plausibili.
Lei era legata, non poteva muoversi troppo, e poi un bambino avrebbe
certo potuto morderlo, ma non divorarlo. Lui l'avrebbe ucciso prima,
e prima che si trasformasse avrebbe potuto violentarla altre 10
volte. Pensò a un modo di difendersi, di picchiarlo, ma era
troppo
debole, malconcia e le corde che la legavano non le permettevano
movimenti. Senza contare la massa muscolare che aveva lui in
confronto alla sua misera. Non ce l'avrebbe mai fatta.
Lasciò
cadere la testa, arrendevole. L'avrebbe tenuta in vita. Magari era
solo questione di resistere qualche minuto, il tempo che finisse, e
poi l'avrebbe lasciata andare. Nessuno poteva aiutarla.
Arrivarono
alla camera. L'uomo la lanciò sul letto, proprio come un suo
giocattolino. Sghignazzando diede un calcio alla porta che rimase
però accostata, senza chiudersi. Ma cosa importava?
Posò il sigaro
sul comodino e cominciò a spogliarsi. Ocean
guardò dall'altra parte
e nel frattempo, disperata, cercò di dimenare le mani dietro
la
schiena con la vana speranza di riuscire a slegarsi. Le facevano
male, sentiva le corde bruciare e tagliare la sua pelle, ma non si
allentavano neanche un po'.
Cominciò
a tremare e d'istinto tentò di allontanarsi quando lui,
ormai nudo,
le si avvicinò, le slegò le caviglie e
cominciò a toglierle i
pantaloni. L'odore di alcol impregnava la stanza, ma Ocean sentiva
solo quello della paura. Cercò di restare forte,
cercò di mantenere
la calma, doveva restare lucida, ma era tutto così
difficile. L'uomo
la toccò, senza smettere di sghignazzare, ormai inebriato
dal suo
desiderio. E Ocean tentò un gesto disperato, alzando un
piede e
cercando di dirigere un calcio verso la sua parte debole ormai
scoperta. Il dolore l'avrebbe tramortito un po', e lei ormai libera
alle caviglie avrebbe potuto scappare. Ma lui fu più rapido
e riuscì
a bloccare il colpo, fermandole il piede.
<<
Ribelle! Sapevo che quegli occhi così severi erano solo una
maschera. Stai tremando. >> sghignazzò ancora
prima di
lanciarsi sulla sua vittima. Ma la fortuna aveva salvato più
volte
la ragazza, e ancora sembrava non volerla lasciare sola, cosa di cui
Ocean era molto grata. Si sentì un rumore di finestra rotta
dal
piano di sotto, versi gutturali che provenivano da fuori e un
continuo sbattere alla porta d'ingresso.
<<
Che cazzo... >> brontolò l'uomo sollevandosi,
lasciandola
libera. Afferrò i pantaloni e se li infilò
scocciato <<
Devono essere state le tue stupide urla! >>
afferrò la pistola
e scese al piano di sotto a torso nudo e piedi scalzi. Ocean non
perse tempo e rotolò giù dal letto. Si
alzò velocemente, corse
verso le cose del militare che aveva lasciato lì, stese a
terra e
cominciò a cercare col piede, sperando di riuscire a trovare
il
coltello che si portava dietro. Ma non lo trovò.
Probabilmente era
rimasto nei pantaloni che aveva indossato. Sentì il rumore
della
battaglia al piano di sotto, l'uomo non stava sparando evitando di
attirarne altri, ma sentiva i corpi cadere per terra. Probabilmente
stava usando quel coltello che lei non aveva trovato. Lanciò
un'occhiata alla porta della camera, controllando che non arrivasse
nessuno e si diresse verso il comò. Doveva pur trovare
qualcosa!
Delle forbici, uno specchio, qualsiasi cosa fosse minimamente
affilato! Si voltò e aprì il cassettò
con le mani ancora legate
dietro la schiena e guardò dentro. Si voltò di
nuovo e provò a
spostare un po' di vestiti. Niente. Disperata si guardò
attorno.
Doveva sbrigarsi o l'uomo o gli zombie l'avrebbero trovata e presa.
Corse verso l'armadio e l'aprì. E lì
trovò qualcosa che le diede
un minimo di speranza: un set di cucito. Usò i piedi per
aprirlo e
per cercare dentro trovando ciò che voleva: un paio di
forbici da
sarta. Le prese con le mani dietro la schiena e facendo affidamento a
tutta la sua disperazione cercò di utilizzarle per tagliare
quelle
stramaledette corde! Riuscì a maneggiarle, con grande
difficoltà e
fitte ai polsi, ma ci riuscì! E pian piano sentì
il rumore di corda
che veniva tagliata.
Un
colpo attirò la sua attenzione e alzò lo sguardo
verso la porta.
Uno
zombie era riuscito a salire al piano di sopra e ora la guardava,
seduta sul letto, disarmata e pronta per essere servita a cena. Fece
uno dei suoi versi prima di avvicinarsi velocemente a lei.
<<
Cazzo, cazzo, cazzo. >> ripetè tra i denti
mentre cercava di
velocizzarsi per tagliare le corde. Si alzò in piedi sul
letto e si
allontanò quando lo zombie si lanciò in avanti
per afferrarla.
Arretrò e si voltò per scendere dall'altro lato e
scappare via, ma
inciampò nelle lenzuola sfatte e cadde a terra sbattendo
pancia e
petto. Il fiato le mancò e per un attimo la vista si
annerì. Pensò
di svenire. Ma la disperazione e l'adrenalina la tennero sveglia e la
spinsero a strisciare velocemente verso le forbici che nella caduta
era volate poco lontane. Si voltò, riprendendole e
ricominciando a
tagliare, ma lo zombie in quell'occasione era stato più
veloce di
lei, raggiungendola e atterrandole sopra.
Riuscì
nell'istante prima di ricevere il morso a liberarsi le mani e con una
velocità che solo la paura poteva darle conficcò
la punta delle
forbici nella testa del suo aggressore, uccidendolo sul colpo.
<<
Oh mio dio. >> le sfuggì nell'istante in cui
realizzò che era
ancora viva. Per un puro miracolo si era salvata. Si prese qualche
secondo per sè, per riprendere a respirare e ritrovare la
calma. Una
lacrima le rigò il viso, senza neanche rendersi conto che
aveva di
nuovo cominciato a piangere. Respirando profondamente e cercando di
ritrovare la calma cominciò a spingere via il cadavere da
sopra di
sè. Lo fece scivolare giù e si rialzò.
Barcollò e si tenne con
una mano poggiandola sul muro. Se prima aveva dolori ovunque ora non
sapeva neanche come riuscire a definire quello che provava. Qualsiasi
parte del suo corpo bruciava e formicolava. Tenne ancora stretta tra
le dita le forbici che le avevano salvato la vita e cercò di
riprendersi scrollando la testa.
<<
Lurida puttana. >> bofonchiò una voce maschile
sull'uscio
della porta. Ocean sobbalzò e si voltò a
guardarlo, portandosi
istintivamente le forbici davanti, pronta a difendersi, anche se
erano tentativi vani i suoi. Lui era più forte e armato di
pistola.
Le forbici non lo avrebbero neanche fatto spaventare. Notò
però che
era diverso da come se n'era andato: affaticato, irrigidito ma
sopratutto ricoperto di sangue. Aveva sangue che gli usciva da un
angolo della bocca, sangue sul petto e solo allora Ocean
notò un
enorme squarcio su di esso, con carne lacerata che penzolava. Era
stato morso.
<<
Io ti ammazzo, stronza! >> disse avvicinandosi
velocemente
verso di lei e allungando le mani per afferrarla. Non aveva neanche
guardato la pistola, nè il coltello: voleva ucciderla a mani
nude e
sfogare così tutto il suo risentimento. Come se fosse stata
colpa
sua se era stato morso.
Le
afferrò il polso che stringeva le forbici, prima che potesse
usarle
e le spinse all'indietro. La fece sbattere contro il muro, facendola
urlare. Ocean tentò di usare quel minimo di forza che le era
rimasta
per maneggiare quella misera arma che ancora stringeva in pugno, ma
era tutto inutile, lui era più forte. La spinse nuovamente
sul
letto. Cercò di gattonare via ma lui la prese per la
caviglia e se
la trascinò a sè, facendola urlare ancora. La
fece voltare con uno
strattone violento e le diede un ceffone su una guancia. Certo, la
guancia mancava alla lista dei dolori. Ocean cercò ancora di
usare
le forbici e lui di nuovo le bloccò i polsi. Un altro
ceffone.
<<
Che cazzo vuoi fare eh? >> la provocò, furioso
stringendole
entrambi i polsi con una sola mano. La mano libera andò a
posarsi su
uno dei suoi seni e strinse anche quello. Urla, ancora urla. Dolori
che si aggiungevano ai dolori.
<<
Ti ho detto di chiudere quella cazzo di bocca! >> disse
portando la mano che stringeva il seno sulle sue labbra per
tenergliele chiuse. Ocean incrociò per pure errore i suoi
occhi ed
ebbe paura: una furia bruciava dentro lui. L'avrebbe uccisa. La mano
sulla sua bocca si fece più pesante e andò a
coprire anche il naso,
schiacciandolo, privando ad entrambi dell'aria necessaria ai
polmoni. Ocean provò a scuotere la testa per liberarsi dalla
presa,
ma fu tutto inutile. Scalciò, si dimenò e
cercò di fare appello a
tutte le sue forze. Da sotto la mano dell'uomo provenivano i suoi
lamenti terrorizzati, richieste d'aiuto che mai sarebbero arrivate a
qualcuno. Il panico stava arrivando man mano che i polmoni
bruciavano, bramosi di un aria che gli era stata proibita. Doveva
respirare! Cercò ancora di scuotersi e pian piano
provò ad aprire
leggermente la bocca, sforzando la mascella per combattere la forza
che la mano imprimeva su lei. Poi morse. L'uomo si irrigidì
e si
lamentò, ma non mollò la presa. Ocean
provò a stringere più
forte, ma il suo aggressore stava dimostrando di avere più
resistenza e determinazione di quanto imaginasse. Non ce la faceva
più. Stava impazzendo! Doveva respirare! Aveva bisogno di
aria! Ed
eccola che arrivava: la lucidità che solo i momenti di vera
tragedia
poteva portarle. Quell'attimo di vuoto prima della fine che le
permetteva di vedere veramente ciò che la circondava e
pensare
velocemente e con ingegno come mai aveva fatto altre volte. Solo
perchè voleva disperatamente vivere. In quei pochi secondi
che
sentiva di avere ancora a disposizione riuscì a concentrare
tutte le
sue energie sulle sue mani, evitando di stancarsi ulteriormente.
Quelle poche forze rimaste doveva darle a loro che ancora avevano tra
le dita le forbici, unica speranza. Riuscì con grande fatica
e
girarle, con quei pochi movimenti concessi alle dita che non erano
serrate nel pugno dell'uomo riuscì a puntargliele contro le
mani e
aprirle. Poi le richiuse con forza e decisione.
L'uomo
lanciò un urlo sentendo un dolore improvviso alla mano
sinistra, tra
le dita. Ocean aveva tagliato di netto un centimetro, forse poco
più,
della parte di mano che tiene unite le due dita, la parte
più
sottile e delicata. Non mollò la presa, troppo furioso e
troppo
resistente, ma la sorpresa fece cedere un poco la presa, quel tanto
che bastava a dare a Ocean un minimo di vantaggio che con un colpo
secco ritirò le braccia verso sè, liberandosi.
L'uomo tentò di
riafferrarle, e riuscì a catturare subito la sinistra, ma
non fece
in tempo a raggiungere la destra, quella che stringeva ancora le sue
forbici, che Ocean conficcò con quanta più forza
aveva, di punta,
nella sua giugulare. Gli occhi dell'uomo si spalancarono
all'improvviso, sorpreso, sentendosi soffocare dal sangue che usciva
a fiotti, sentendosi strozzare. Allentò la presa sulla bocca
di
Ocean che si liberò subito anche di quella e
cercò di riprendere
quanta più aria possibile boccheggiando e tirando grossi
respiri.
Tossì un paio di volte sentendo i polmoni grattare e
bruciare e
lentamente scivolò via, trascinandosi sul letto,
allontanandosi dal
suo aggressore che ancora era in ginocchio, boccheggiante, con sangue
che usciva da bocca e gola. Guardò la ragazza, che non
riuscì bene
a interpretare cosa volesse dirle. Probabilmente un ulteriore
"Puttana". L'uomo cadde, le forbici ancora conficcare nella
sua gola, il sangue che sembrava non volesse fermarsi. Ocean lo
guardò qualche secondo, tranquillizzandosi del fatto che
fosse
veramente morto, che ormai non poteva più farle del male.
Era fatta.
Aveva ucciso per la prima volta un essere umano. Da quando era
cominciato tutto aveva avuto modo di uccidere solo morti, mai si era
ritrovata a dover puntare la propria spada contro la gola di un vivo.
Aveva per la prima volta ucciso qualcuno. E anche se si trattava di
uno della peggior specie, era pur sempre un essere vivente. Aveva
messo fine a una vita. Ed era una delle sensazioni peggiori che
avesse mai provato. Crollò, stesa sul letto, cercando
riposo, e
scoppiò a piangere come poche volte aveva fatto, urlando
come una
bambina, non cercando neanche di trattenersi. Aveva accumulato troppa
tensione, non riusciva più a tenersela dentro. Aveva avuto
così
tanta paura. Ed era stanca...stanca di essere aggredita, stanca di
dover correre, stanca di dover combattere, di doversi curare ferite
che mai sarebbero guarite. Stanca di avere paura.
Stanca
di stare lì.
Aveva
bisogno di riposare. Di smettere di correre, di chiudere gli occhi
sapendo che sicuramente poi li avrebbe riaperti, senza temere di
trovarsi al risveglio un uomo o uno zombie intento a divorarla,
ognuno a modo suo.
Singhiozzò
e urlò ancora.
Voleva
tornare a casa.