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Autore: syontai    14/11/2014    6 recensioni
Un mondo diviso in quattro regni.
Un principe spietato e crudele, tormentato dai fantasmi del passato.
Una regina detronizzata in seguito ad una rivolta.
Una regina il cui unico scopo è quello di ottenere sempre più potere.
Un re saggio e giusto da cui dipendono le ultime forze della resistenza.
Una ragazza capitata per il volere del destino in un mondo apparentemente privo di logica, e lacerato dai conflitti.
Una storia d'amore in grado di cambiare le sorti di una guerra e di tutto questo magico mondo.
This is Wonderland, welcome.
[Leonetta, accenni Pangie, LibixAndres e altri]
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leon, Un po' tutti, Violetta
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Capitolo 58
La scalata per la superficie e la caduta verso il fondo

Tutto intorno a lei solo frammenti di cristallo. Ci vollero dei secondi prima che riuscisse ad abituare gli occhi di fronte a quel buio pesto. Sdraiato contro una parete, che mugolava dolorante, c’era un’ombra. Perché non ricordava nulla? Una bisaccia di pelle era gettata ai suoi piedi. Era stata svuotata di fretta perché tutto il suo contenuto era riversato sul pavimento. Piccole fiale, ciuffi d’erba, fiori secchi. Che strano, sebbene si sforzasse non riusciva ancora a capire dove si trovasse. Il suo nome? Le sfuggiva come l’acqua in quel momento. Prese un respiro profondo, allontanando il panico crescente. Si alzò traballante: le gambe erano ancora intorpidite. Tastò tutte le pareti, fino a quando non sentì il freddo metallo delle sbarre intorno a cui strinsero meccanicamente le dita. L’angoscia ricrebbe: quello spazio era chiuso e angusto e in più la persona stesa contro il muro non aveva mosso ancora un muscolo. Non ebbe il coraggio di avvicinarglisi per paura di scoprire che in realtà fosse un cadavere. Sarebbe toccata anche a lei quella sorte?
Francesca. Si, quello era il suo nome. Emerse dall’oblio in modo inaspettato. Sulla testa portava una diadema: era una regina? Le sembrava di aver già vissuto una situazione simile di prigionia. Era stata imprigionata da sua cugina Natalia per la corona. Un altro ricordo, lentamente stava riacquistando la memoria, che però si interrompeva con il frusciare delle cascate di Nefertiris. Si osservò i palmi delle mani e quasi sobbalzò: era sveglia! Non era un sogno, perché il sonno magico non presentava la possibilità di viaggiare oniricamente.
“Aiuto” sussurrò rivolta verso l’esterno, sperando in qualche anima buona. “Aiuto!” ripetè, alzando il tono di voce. La terza volta che chiamò soccorsi stava urlando. Qualcosa strusciò dietro di lei. Il sangue le si gelò nelle vene: si era completamente dimenticata della persona con cui condivideva la cella, perché di una cella si trattava, era chiaro. Un colpo di tosse e un rantolo che somigliava vagamente al suo nome. Terrorizzata, si appiattì contro le sbarre, continuando a urlare.
“Vi prego, vi prego!”. Ma mentre la paura la spingeva a cercare un modo per uscire la curiosità fatale le fece voltare la testa nella direzione delle mura sudice.
“Francesca”. Quella voce. La paura si dissolse come neve rimpiazzata dall’angoscia e dalla preoccupazione. Si precipitò da Federico, inginocchiandosi al suo fianco. Gli passò una mano sui capelli arruffati, le labbra piegate in una smorfia di terrore. Osservò le sue mani strette in un pugno con i rimasugli di una pianta, probabilmente estratta dalla bisaccia. 
“Non dovevi svegliarmi, non dovevi!” disse con voce tremante, mentre già le prime lacrime premevano per uscire, impetuose. Federico appoggiò la testa all’indietro e tossì di nuovo.
“Non…avevo scelta. In questo modo potrai fuggire e trovare chi ti potrà aiutare, il Brucaliffo”. 
“Fuggire da dove? Dove ci troviamo?”. Acosta gemette di dolore e quando Francesca gli toccò la gamba esplose in un urlo agonizzante. 
“Il drago…l’acido. Ce l’avevamo quasi fatta, ma mi ha colpito”. Francesca si buttò tra le sue braccia, piangendo e singhiozzando. Era stata colpa sua. Federico stava facendo di tutto per salvarla e lei finora era stata completamente inutile. Si, gli aveva salvato la vita, ma non poteva essere considerato un vero e proprio merito, visto che il Mana costituiva un pericolo per tutti, compresa lei stessa. Senza perdere tempo si liberò dall’abbraccio e strofinò una manica del vestito bianco che indossava sul viso asciugando tutte le lacrime. Non era quello il momento per abbattersi e disperarsi: anche se era stata svegliata avrebbe fatto tutto il possibile per contenere il potere del Mana, a costo di morire. Poggiò entrambi i palmi delle mani sul punto dove il tessuto dei pantaloni era stato lacerato. Lasciò che l’energia defluisse dal suo corpo. Era la cosa più naturale del mondo e sentì la pressione crescere sempre di più dentro di lei. Per un secondo le sembrò di non riuscire neppure a respirare, le orecchie le ronzavano, cantando una canzone antica. Poi fu il silenzio e si rilassò di colpo. La ferita era sparita, ma Federico non sembrava tranquillo.
“Ti fa ancora male?” chiese Francesca preoccupata. Scosse la testa. “Non sento nulla”. Quelle tre parole furono pronunciate con una tale solennità da farle venire i brividi.
Fece per alzarsi, ma ricadde, strusciando contro il muro. Riprovò ancora e ancora, ma era come se la gamba non rispondesse più al suo comando. Nonostante fosse ormai chiaro che aveva perso l’uso della gamba non volle arrendersi a quella certezza. Si dimenò tentando di rimettersi in piedi, ma finiva solo per agitarsi come un bambino. Gli occhi si spensero e neppure la calda carezza di Francesca lungo il viso riuscì a donargli un po’ di pace.
“E’ colpa mia! Non dovevo cercare di aiutarti, sono solo un pericolo” mormorò lei tristemente. Acosta non poteva accettare che pensasse questo di lei, quindi le prese il viso tra le mani con ferocia, costringendola a guardarlo negli occhi.
“Non dirlo più! Non di fronte a me. Non puoi controllare il Mana e in ogni caso probabilmente avrei perso l’uso della gamba, almeno non hai prolungato la sofferenza”. Si rivolse a lei con sicurezza, tranne quando accennò alla sua disabilità fisica.
“Che fine ha fatto Dj?” chiese voltando lo sguardo verso la bisaccia gettata alla rinfusa.
“Lo ha preso Ana”. A Francesca si gelò il sangue nelle vene: la fama di quella maga la precedeva ed era temuta per la sua spietatezza e crudeltà. “Sei l’unica che può farci uscire…” aggiunse prendendo un respiro profondo.
La regina annuì, quindi si rialzò in piedi. A passo lento si fermò solo quando si trovò di fronte alle sbarre. Questa volta però non aveva paura di essere rimasta da sola. C’era Federico con lei, che l’aveva svegliata per evitare che rimanessero rinchiusi in quella prigione. Dove poggiava i piedi la polvere si alzava creando un nuvola bassa e piatta che sembrava quasi frapporsi tra lei e il pavimento. Le mani si tinsero di bianco, ma un filo nero le avvolse facendole sgranare gli occhi. Che cosa stava succedendo? C’era qualcosa di diverso nel Mana. Qualcosa di diverso in lei. Avvertì una leggera fitta di dolore, che si spense all’istante, come se fosse solo l’avvertimento di un cambiamento imminente. Le sbarre vibrarono, smosse da una forza inesistente, e si piegarono in direzioni opposte fino a creare al centro un varco. Grazie all’aiuto di Francesca Federico riuscì a rimettersi in piedi e a camminare, anche se doveva usarla come supporto. Quando però uscirono dalla gabbia si trovarono di fronte ad un labirinto su più piani. Tutti i corridoi erano sospesi sul vuoto dentro un gigantesco pozzo senza fondo. In basso c’erano altri livelli con vie che si intersecavano conducendo alle celle scavate nelle pareti del pozzo. Non si riusciva a distinguerne il fondo.
Federico scosse la testa: neppure lui aveva la più pallida idea di dove fossero finiti. L’unica cosa che potevano fare era avanzare fino ad incontrare il primo bivio. Mentre camminavano per sbaglio Francesca diede un calcio ad un sasso che cascò di sotto. Si aspettò dopo qualche secondo il rimbombo nel momento in cui avrebbe toccato terra, ma esso non arrivò mai. Deglutì, cercando conforto nello sguardo rassicurante di Acosta che cercava in tutti i modi di mantenere il sangue freddo per non peggiorare le cose. Arrivati alla fine si diramavano due scalinate: una conduceva al piano superiore, l’altra invece al piano inferiore. Francesca alzò lo sguardo nella speranza di scorgere uno spiraglio di luce ma proprio come sotto anche sopra c’era solo buio. Sopra o sotto? Era ragionevole credere che si trovassero dentro una torre, ma allora perché il sasso non aveva toccato il fondo? Il fenomeno non si spiegava in ogni caso anche se si trovassero nel sottosuolo.
“Da che parte andiamo adesso?” chiese sperando che Federico avesse avuto un’idea illuminante. Il ragazzo scosse la testa. “Non ne ho idea”.  Un urlo agonizzante e dei lamenti squarciarono il silenzio, portando con sè il terrore e la fretta di prendere una decisione. Potevano essere dei prigionieri come loro oppure qualcosa da cui avrebbero voluto tenersi lontano, era meglio non scoprirlo.
“Francesca, tu possiedi il Mana! Dovresti poter capire dove si trova Dj, visto che la magia e il Mana sono tra loro strettamente legati. Il primo dipende dal secondo, giusto?” esclamò Federico, sollevato di aver avuto quel lampo di genio.
Francesca si diede della sciocca per non averci pensato prima. Cercò di affinare i sensi, ma non capiva ancora come poter controllare il Mana per riuscire a fargli fare ciò che voleva. Si ritrovò a chiudere gli occhi, aprendoli di tanto in tanto come se sperasse che una luce abbagliante li guidasse verso l’uscita. “Niente?” chiese Federico, abbassando le spalle sconfortato.
“Non so come mai, non ci riesco! Prima, quando ti ho guarito o ho aperto le sbarre non ho dovuto pensarci su, è successo e basta. Ma adesso…non so come mai, non funziona” si lamentò lei, vergognandosi per quell’insuccesso. Federico però la sorprese abbracciandola di colpo. Si separò in modo impacciato, sempre tenendosi con il braccio intorno alle spalle.
“Non devi mai perdere la speranza, mai. Ci sarò sempre io per ricordartelo” le sorrise imbarazzato e per Francesca fu come se il sole avesse invaso quel luogo oscuro, diffondendo la sua luce in ogni direzione. Un brivido le percorse la schiena; si sentiva leggera, come distesa su un prato fiorito, lo sguardo perso nel cielo limpido, la mano stretta in quella di Federico. Una scala fatta di raggi dorati saliva a chiocciola sempre più su e non si riusciva a distinguerne la fine. Si perse a contemplarla, ignara del fatto che quel sogno era ben diverso dalla triste realtà. Con un brivido venne richiamata dalla voce di Federico, preoccupato per quel suo improvviso estraniamento. Francesca si sentiva sicura di una cosa: dovevano salire. “A sinistra” disse con un filo di voce, per poi procedere nella direzione indicata. Federico non obiettò nulla, fidandosi ciecamente del suo istinto, e insieme salirono la scalinata di pietra scolpita rozzamente che portava al livello superiore. Ad attenderli però c’era una guardia, che indossava un’armatura imponente, il cui volto era coperto dalla visiera dell’elmo. Non appena li vide grugnì qualcosa, prima di puntargli contro la lama. Federico la spinse via affinché non fosse sotto tiro. “Vattene, scappa!” disse, cadendo in ginocchio, senza più un sostegno. Francesca rimase a terra con lo sguardo fisso su di lui, che eppure continuava a supplicarla. Perché continuare a salvarle la vita se lei era un pericolo per tutti? Perché lasciarla con quel tormento quando la morte avrebbe potuto essere per lei una vera liberazione? I palmi graffiati che avevano attutito la caduta le facevano male, ma mai come il dolore che sentiva in petto nel vedere l’uomo protetto dall’armatura nera alzare la spada per infliggere il colpo di grazia. Di nuovo l’energia le scaturì nel corpo, senza che lei l’avesse chiamata. La luce esplose per un istante per poi sparire così come era venuta, inghiottita nel buio. L’avversario giaceva a terra di fronte a Federico, che ancora non riusciva a credere di aver assistito ad una delle devastanti manifestazioni del Mana. Il ferro emetteva volute di fumo e l’elmo era rotolato via. Dentro quell’armatura non c’era nessuno, era vuota.
“Magia” digrignò il ragazzo tra i denti. Francesca però era terrorizzata e si osservava le mani sconvolta, rigirandole. C’era mancato pochissimo ed aveva paura di ammetterlo, ma quel potere le stava completamente sfuggendo dal controllo: avrebbe potuto colpire anche Federico e doveva ringraziare il cielo che non fosse successo. Era come se attingendo al Mana la sua coscienza interrompesse il flusso di pensieri e perdesse i sensi. Non ricordava nulla, se non un lampo di luce improvviso. A pochi passi da lei c’era un’altra cella e solo in quel momento si rese conto che un paio di occhi scuri la stava osservando.
“C-cosa siete?” mormorò una voce stanca dall’altra parte delle sbarre, che aveva assistito a tutto lo scontro. “Vi volete sbarazzare di noi?” proseguì la voce. Era una donna, ma aveva un tono duro, diretto. Da esso trapelava orgoglio e dignità, nonostante la sua condizione di prigionia.
“Ti sbagli, tutto il contrario” tentò di rassicurarla Francesca, alzando le mani. “Come possiamo liberarti?”.
La donna, la cui figura era ancora avvolta dalle tenebre, rimase per qualche secondo in silenzio, quindi puntò un dito ossuto fuori dalle sbarre indicando l’armatura stregata. “C’è una cinta con un mazzo di chiavi lì. Una di quelle apre la serratura”.
“Non sappiamo se può essere pericolosa! O peggio, una trappola!” si intromise il conte Acosta. Francesca però non lo ascoltava: quella donna le ispirava fiducia. Doveva aver sofferto molto, rinchiusa in quell’inferno senza luce. Raccolse il mazzo di chiavi ancora fumante, su cui era dipinto in rosso un numero: 10. Le chiavi erano tutte diverse tra loro: alcune erano grosse e arrugginite, altre sembravano addirittura nuove. Su ognuna di esse era inciso un numeretto seguito da una lettera. 1A, 3C, 7D…Sopra la cella della donna c’era la scritta 8B. Non ci mise molto a trovare la chiave con quella stessa cifratura, quindi la girò con sicurezza nella serratura, che emise un cigolio prolungato prima di scattare. La porta si aprì e ne uscì una donna dagli abiti stracciati e delle profonde fosse al posto delle guance. Doveva essere almeno qualche mese che si trovata lì rinchiusa. La donna barcollò, facendo ondeggiare dei lunghi capelli scuri. Alcune lacrime di felicità le illuminarono il viso sporco, prima che ad esse si sostituirono paura e preoccupazione. Si precipitò nuovamente dentro la cella, lasciando Francesca attonita.
“Tartalenta, Tartalenta! Siamo liberi finalmente!”. Per un po’ non ebbe nessuna risposta, ma subito dopo ci fu un lungo e profondo sbadiglio. Insieme alla donna, avanzava una tartaruga che si reggeva su due zampe per mezzo di un bastone raggrinzito come la sua pelle. Il guscio era di un colore scurissimo e Francesca indovinò che dovesse essere verde. Presentava delle profonde concavità ai lati, rendendo la figura più slanciata di quel che fosse in realtà. Si rivolse poi ai due stranieri: “Grazie per averci salvato, grazie di cuore. Mi chiamo Marcela, mentre il mio amico è Tartalenta…ci siamo conosciuti in questa prigione” spiegò la donna, facendo un breve inchino a Francesca, che arrossì, non più abituata ad un segno di riverenza da parte di qualcuno. Tartalenta non diceva nulla, ma delle lacrime silenziose gli uscivano dagli occhi chiari e limpidi mentre Marcela parlava. Francesca rimase commossa dal dolore della tartaruga, quindi si chino di fronte a lui, sfiorando la sua pelle ruvida.
“Mi hanno tolto tutto…” spiegò l’animale trattenendo a stento un singhiozzo.
“Le sue pietre” si affrettò a spiegare Marcela, notando la confusione sul volto dei loro salvatori. “Le aveva incastonate sul guscio, ma prima ancora di farlo finire in cella gliele hanno strappato via. Sembra che avessero al loro interno una forte magia”.
La pena che provava Francesca per quei due prigionieri era immensa: una donna sola, forse strappata dalla sua famiglia, una tartaruga a cui era stato tolto ciò a cui più teneva, insieme alla sua libertà. Che cosa poteva giustificare delle azioni del genere?
 
Diego osservava il suo riflesso verdastro nella pietra incastonata nel medaglione. Del suo gemello non se ne era saputo più nulla: Matias ed Esmeralda erano scomparsi senza lasciare traccia. Peggio per loro, pensò sbuffando. Almeno non avrebbe dovuto liberare quella donna di cui il biondo era invaghito, quella tale Marcela, e quella bambina tanto insopportabile sarebbe rimasta un’aquila. Osservò fuoi dal finestrino della carrozza, che si fermò all’improvviso di fronte a quella che un tempo doveva essere stata una città fiorente, ma che adesso era ridotta ad un cumulo di macerie. Un imponente edificio sormontava di cui erano rimasti in piedi solo alcuni muri. Le rovine di Telhalla, l’ultima città delle ninfe prima che la guerra tra la Regina Rossa e la Regina Bianca spazzasse via l’intera razza. Era stata proprio la Regina Rossa a voler attuare quel genocidio, convinta che le ninfe fossero alleate di sua sorella. Le ninfe erano infatti quelle stesse creature che avevano creato la Palude, ma del loro essere leggendario era rimasto solo il ricordo. La paura poteva condurre alle malvagità più grandi; era la paura che muoveva Ludmilla, quella di non poter avere il controllo di se stessa. Era arrivato in quelle rovine solo per ritirare un antico artefatto di cui si era persa la memoria, ma che lui aveva scoperto grazie ai suoi studi al Tridente. Anche se non era un mago gli era concesso maneggiare tutti i tomi di quel luogo ricco di conoscenza, grazie ad un lasciapassare speciale che Ludmilla si era fatta donare dalla regina Natalia. Ordinò alla scorta di rimanere in prossimità delle rovine. Non si fidava di nessuno e voleva che non si venisse a sapere dell’oggetto che era venuto a prelevare. Inoltre era un abile spadaccino, avrebbe saputo affrontare un attacco a sorpresa da parte di chiunque.
La natura aveva ormai inglobato quell’antica città, considerandola sua di diritto. Piante dal fusto sottile spuntavano dove prima doveva esserci la strada lastricata, di cui era rimasto ben poco. Il muschio si annidava un po’ ovunque sui muri rimasti ancora in piedi, unici testimoni della passata esistenza di case e botteghe, il cui colore era a mala pena visibile, soffocato dai rampicanti molesti. Il silenzio tutto attorno non lo spaventava, anzi, lo rendeva molto più a suo agio rispetto a quando si trovava per le vie della capitale del Regno di Quadri. Estrasse un pugnale dalla fodera sul fianco destro, mentre la spada la teneva sul sinistro, e si preparò mentalmente ad ogni eventuale sorpresa sgradita. Raggiunse incolume una scalinata dissestata che conduceva al palazzo della città. Un tempo lì risiedeva la famiglia reale delle ninfe, i parenti di quelle giovani che si erano sacrificate per proteggere il cacciatore che era poi diventato lo spirito della Palude di Jolly. In quel posto dall’aria solenne mito e storia si fondevano in una soluzione intrisa di mistero e fede. Non appena mise piede dentro il salone d’ingresso gli sembrava di essere tornato indietro in un tempo indefinito: squilli di tromba, risate soavi, voci che cantavano a cappella, diffondendo la loro musica in tutte le sale. Proprio all’ingresso c’erano due piedistalli ridotti a pezzi, in cui si riconoscevano le figure sinuose di due delfini. Gli occhi, un tempo illuminati da chissà quali pietre preziose erano cavi, dando l’idea di scheletri abbandonati al loro destino. Scheggie di vetro e i resti di un lampadario troneggiavano al centro della stanza. Diego passò di lato rivolgendo solo delle fugaci occhiate ai dintorni: ancora nessuna traccia di ciò che cercava. Girò a destra e raggiunse la sala del trono, arresasi ormai di fronte alle intemperie. Il tetto, un tempo costituito da una cupola, era crollato da tanto tempo a giudicare dell’inselvatichimento generale. Senza perdere tempo esaminò ogni centimetro quadrato di quella stanza, ma dopo poco perse di già la pazienza. Nessuna traccia di ciò per cui era venuto. Imprecò tra i denti ma non si perse d’animo e riprese le ricerche.
“Solo macerie, nient’altro che macerie” sibilò il ragazzo, rimettendosi in piedi dopo aver controllato il trono in fondo alla stanza, scolpito nella pietra, nella speranza di trovare qualche meccanismo nascosto. Ma le ninfe erano furbe, non lasciavano certo la loro magia incustodita. Proprio quando stava per arrendersi del tutto si rese conto che stava calpestando un antico mosaico, rimasto miracolosamente intatto. Un enorme cerchio bianco che invadeva quasi completamente l’intero pavimento, coperto da chiazze verdi di muschio ed erbacce, mostrava due creature simili a serpenti che si rincorrevano in cerchio, tentando ciascuno di azzannare la coda dell’altro. Intorno a loro c’erano pesci e animali marini.
Viverne del mare. Creature ormai estinte dall’alba dei tempi, quando ancora il Paese delle Meraviglie non poteva considerarsi civilizzato. Che amarezza constatare che un popolo antico come quello delle ninfe, il cui sapere si tramava da quando se ne aveva memoria, era stato annientato dalla stupidità umana. In quella cruda riflessione però si rese conto che quel mosaico era troppo ben conservato. Troppo per essere passato così tanto tempo e aver subito un saccheggio. Si mise in ginocchio, passando la punta della lama in una fenditura tra due tasselli. Il coltello incontrò quasi subito un ostacolo che produsse un rumore sordo. Metallo. Quel mosaico posava su una piattaforma di metallo. Era pronto a scommettere che la magia aveva impedito che quell’operta d’arte si deteriorasse così da tenere nascosta l’esistenza di una stanza sotto la sala del trono. C’erano anche alte possibilità che si sbagliasse: forse quel tesoro era veramente perduto per sempre. Non gli restava che aprire quella gigantesca botola per scoprirlo.
Non c’era nessuna leva, niente che potesse aprirla. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte: si sentiva così vicino eppure così lontano. Serviva il richiamo della magia per accedere a quella stanza? Tirò fuori il medaglione con incastonato lo smeraldo e lo lasciò penzolare in aria. Non successe nulla. Quando però si decise ad appoggiarlo sul mosaico, la sua luce venne come catturata dagli occhi dei due draghi che si tinsero di un verde maligno. Le fauci si aprirono ancora di più, deformando i loro musi in ghigni diabolici, quindi uno dei due ruotò fino a sovrapporsi all’altro, mostrando una scala a chiocciola stretta ed angusta. Lo smeraldo strappato a quella stupida creatura, intriso di un potere magico ancestrale, aveva fatto al caso suo. L’unico suo cruccio era aver perso il suo gemello affidandolo a quella coppia di ladruncoli. Scese rapidamente gli scalini con l’ansia che si accentuava ad ogni passo. L’ultimo scalino era appena rialzato e poggiava su una stanza dal soffitto basso di pietra. Tutto intorno era buio. Afferrò una torcia posta su una parete e con qualche difficoltà riuscì ad accenderla. L’aria era talmente umida da risultare soffocante, difatti la fiamma si fece sempre più fievole. Ma fu sufficiente per raggiungere l’oggetto che stava cercando. Allungò la mano con un brillio avido negli occhi: eccola. L’arma che gli avrebbe permesso di porre fine alla guerra a favore della sua regina.
 
Marcela aveva loro spiegato che quella prigione era stata voluta dai genitori di Ludmilla, l’attuale regina di Quadri, per potersi disfare di tutti i loro oppositori. Era costrituita sottoterra e della sueperficie era visibile solo un innocuo edificio in pietra all’apparenza abbandonato. Sui prigionieri venivano condotti anche alcuni pericolosi esperimenti.
“Non certo come succede nel Centro di Ricerca. Girano storie terribili sul suo conto” disse la donna, rabbrividendo al solo dover nominare quel posto terribile.
Avevano ormai fatto la metà della strada, cercando di nascondersi al passaggio delle armature stregate. Il più delle volte però erano stati costretti a scontrarsi. Francesca comunque con i suoi poteri riusciva ad annientarle senza problemi. Era il fatto che le stesse sfuggendo di controllo a preoccuparla: le mani le bruciavano ed era come se il Mana fremesse per fuoriuscire. L’essenza della magia che voleva tornare a circolare nella natura. Il suo contenitore umano non poteva essere sufficiente a trattenerla a lungo. Fu proprio nella loro perenne e disperata ascesa verso la luce che accadde. Fu come perdere i sensi, o forse acuirli a tal punto da non sentirsi più nel proprio corpo.
Era in una stanza. Il soffitto era basso, la pareti sudicie. Francesca non riusciva a capire come fosse finita in quel posto, avvertiva solo i brividi sulla pelle. Lungo le pareti c’erano alcuni scaffali pieni zeppi di alambicchi, alcuni vuoti, altri riempiti con sostante dai colori inquietanti. Un gemito soffocato le fece distogliere lo sguardo da una piuma d’oca appoggiata al fianco di alcuni rotoli ripiegati. Si avvicinò confusa ad una croce di legno, usata per le torture. Legato per i polsi e le gambe, tenute divaricate, c’era un ragazzo che teneva lo sguardo basso, mentre ansimava. Sudore misto a sangue gli colava dalle ferite sul viso e sul torso nudo, messo a dura prova e pieno di tagli più o meno profondi. Ebbe paura di chi fosse il prigioniero, ma ebbe la terribile certezza di conoscerlo.
“Rieccomi…come sono scortese a lasciare il mio ospite di punto in bianco”. Una voce femminile, venata da una nota crudele, la colse di sorpresa. Fece in tempo a scorgere il fruscio di un mantello scuro prima che la figura si immergesse in un angolo buio della stanza. Sentì il tintinnare di oggetto metallici e la donna tornò visibile alla luce di una candela posta su un tavolo vicino alla croce di legno. Lunghi capelli lisci, raccolti da un lato e coperti appena da un cappuccio nero. In mano teneva un coltellino, con cui giocava amabilmente. “Devo ringraziare Ludmilla per avermi concesso di usare questo posto…non mi aspettavo che usassi la magia in questo Regno, ma così è stato più facile localizzare la direzione che avresti voluto prendere e dirottarti qui. Devo ringraziarti” disse ancora la donna, quindi con velocità piantò velocemente la punta del coltello su un fianco del prigioniero, che urlò. Un urlo pieno di disperazione e impotenza. Fu allora che lo vide negli occhi. Le sue pupille scure dilatate, ma prive di forza, il viso contratto dalla sofferenza. Era Dj.
“Francesca! Francesca, che cosa ti prende?”. Federico le scuoteva le spalle e trasse un sospiro di sollievo quando la vide muoversi e sottrarsi a quegli scossoni.
“Dobbiamo salvare Dj!” esclamò esasperata, guardandosi intorno febbrilmente alla ricerca di qualche indizio che la portasse dal loro amico mago, in preda a quei terribili supplizi.
“Lo so, Francesca…lo salveremo” provò a rassicurarla Federico, ma Francesca sapeva che non era abbastanza. Doveva agire, doveva trovare il modo di condurli tutti in salvo. Erano quelli i doveri di una regina, proteggere chi aveva intorno. Però continuavano a vagare alla cieca, in una disperata ascesa verso l’altro, verso la luce.    
 
Le carte erano dispiegate sul tavolo della sala delle riunioni intorno a cui erano riuniti i maggiori esponenti delle forze militari di Picche. Pablo illustrava a tutti la strategia difensiva, sotto lo sguardo afflitto dei presenti. La guerra non stava andando a loro favore. Sebbene fossero riusciti a mantenere le linee fino a quel momento, le forze di Quadri e Cuori insieme erano numericamente schiaccianti. Il fronte a nord-est era stato infranto e le truppe avevano dovuto fare terra bruciata dietro di sé.
“Se spostassimo la maggior parte delle forze all'entrata delle Gole potremmo sperare in un contrattacco” pensò ad alta voce, sollevano parecchi borbotti diffidenti.
“Sua maestà, questa è una follia, significherebbe lasciarli entrare e prendere metà del Regno di Picche. Le Gole si trovano qui, non possiamo perdere tutto questo terreno”.
Angie assisteva in silenzio in fondo alla sala, tentata più volte di intervenire per aiutare suo marito, ma la sua intemperanza era già costata troppo. Nonostante la strigliata iniziale Pablo la aveva perdonata quasi subito e i due erano tornati più uniti di prima. Facendo tesoro delle parole del Re aveva imparato a celare le paure, la debolezza, per mostrarsi forte e sicura di fronte al suo popolo. Era la sua famiglia ad averle concesso quella forza che sembrava essere inesauribile. Ricordava ancora con amarezza il momento in cui il padre le aveva voltato le spalle, mentre la madre, che non l’aveva mai dimenticata né rinnegata di sua volontà, era rimasto il suo unico legame con il passato. Angie non riuscì ad aspettare che finissero di parlare e si precipitò fuori dalla stanza. Lasciare metà del suo Regno in balia degli invasori era per lei come una pugnalata al cuore. Le mancava l’aria al solo pensiero di campi ridotti in cenere, di migliaia di fuggitivi che avrebbero cercato in tutti i modi di raggiungere la capitale, credendola l’unica ancora di salvezza. Chiuse gli occhi e il cuore riprese a battere regolarmente: aveva imparato a non agire d’istinto, non erano quelli i tempi per potersi permettere un errore, e questo Pablo gliel’aveva fatto capire. Nonostante le buone intenzioni la sua fuga era stata una sciocchezza, adesso ne era consapevole. Aprì con foga la porta che aveva di fronte e in punta di piedi si sedette sul grande letto dove la piccola Cassidy era seduta con la schiena poggiata su morbidi cuscini. Diventava ogni giorno più bella: i suoi occhi erano di un colore ambrato che sembrava una curiosa fusione del colore degli occhi dei suoi genitori. I capelli castano chiaro lasciati liberi sulle spalle incornicivano un visino pallido e magro. Dal giorno dell’incidente la bambina usciva sempre più di rado, per paura di quello che potesse succederle all’esterno, oppure che una qualche visione la cogliesse all’improvviso. Gli occhi però erano spenti, fissi sul vuoto, non c’era nulla della vitalità tipica di una ragazzina della sua età.
Senza dire nulla Angie le strinse la mano e sentì scorrere in lei nuovamente la forza per affrontare l’ennesima difficoltà che le era stata posta di fronte. Con l’altra le sfiorò la guancia, calda e morbida, e sentì un moto di commozione salirle come un groppo in gola. Le lacrime velarono i suoi occhi stanchi, ma cercò di trattenere i singhiozzi per non far preoccupare la bambina.
“Dov’è papà?” chiese Cassidy, scuotendo la testa e tendendo l’orecchio nella speranza di coglierne la presenza. “Adesso ha da fare…ma verrà presto, non preoccuparti” rispose lei sommessamente.
“Picche è molto fortunato ad avere papà come re, vero?”.
“Si, lo è…ripongono tutti molta fiducia in lui, io per prima”.
“Meno male, allora”. La voce di Pablo fece voltare Angie in direzione della porta e lo vide sull’uscio, con l’aria stanca, ma non per questo demotivato. Ostentava un sorrisetto di sfida, quel sorrisetto che era sempre stata una sua caratteristica ifin da giovane, quello che lei all’inizio aveva preso in odio ma di cui poi si era profondamente innamorata; perché nonostante tutto in quel sorriso vedeva un uomo astuto, intelligente, pragmatico e allo stesso tempo pieno di incertezze celate. L’uomo non indugiò troppo, si sedette vicino alla moglie, guardandola con tenerezza, quindi si rivolse alla figlia.
“Tuo padre è tanto forte perché ha una famiglia su cui può sempre contare”. Le diede un buffetto sulla guancia, e la bambina sorrise tristemente.
“Come sempre devi metterci in mezzo qualche massima, altrimenti non sei contento! Smettila di fare l’uomo saggio, non hai nemmeno i capelli bianchi” sghignazzò Angie, drizzando la schiena e guardandolo con finto rimprovero.
“Questa me la paghi!” la avvisò Pablo scherzosamente e si lanciò sulla consorte, torturandola con il solletico. Tutto di fronte a Cassidy che rideva di cuore. Mentre si dimenavano sul letto al suo fianco, i due genitori si sorrisero: la risata della loro piccola era rara come un fiore nel deserto, eppure era il suono più bello che potesse essere generato nella natura. Angie anche non riusciva a smettere di ridere, non per la situazione, bensì per il solletico, intrappolata ormai da Pablo.
“Non sai che bisogna sempre trattare con rispetto un re?” le disse, senza riuscire a trattenere una risata anch’egli.
Un vassoio cadde a terra, facendoli sobbalzare e videro un ragazzino intento a raccogliere tutto ciò che era cascato, ossia un paio di mele e alcuni biscotti, rosso in viso. “S-scusate, i-io…” balbettò tentando in qualche modo di scusarsi. Il sorriso di Pablo si accentuò ancora di più perché in quel ragazzino vedeva molto di se stesso: stessi capelli scuri e disordinati, stesso sguardo acuto e brillante. Il colore degli occhi era però di un azzurro chiaro, quasi trasparente.
“Non devi preoccuparti” lo rassicurò Angie, chinandosi per aiutarlo a prendere quello che era caduto. I biscotti erano ormai immangiabili, con grande rammarico del piccolo servitore che non aveva mai visto a palazzo. “Può capitare a tutti una distrazione. Come ti chiami? Non ti ho mai visto a palazzo”.
Il ragazzino si irrigidì, sempre più in imbarazzo. Era evidente che non sapesse in che modo rivolgersi alla regina. Prese un profondo respiro, abbassando lo sguardo. “Sono Fidel, il figlio del fornaio. E’ stato mio padre a mandarmi qui visto che mi aveva chiesto una mano e…vi prego, non ditegli del disastro che ho combinato!” disse tutto d’un fiato.
“Non preoccuparti. E ti ringrazio per il pensiero gentile che hai avuto nei confronti di mia figlia” esclamò Pablo, intuendo che quel vassoio fosse stato indirizzato per la piccola Cassidy. Fidel alzò per un secondo lo sguardo, incrociando quello della principessa, i cui occhi sembravano aver acquistato una luce strana. Tutti nel Regno sapevano del tragico incidente che aveva privato della vista l’unica erede per il Regno di Picche e lui stesso era rimasto affascinato dai numerosi racconti leggendari che circolavano intorno alla sua figura.
“Ho pensato solo che…potesse farle piacere” sussurrò Fidel. Era sempre stato un ragazzo avventato e aveva semplicemente pensato di farle quel regalo, senza certo immaginare che si sarebbe trovato al cospetto di tutta la famiglia reale.  
“E hai pensato bene, vero Cassidy?”. La principessa, sentendosi rivolgere quella domanda dalla madre, annuì appena, distogliendo subito lo sguardo. “Anzi, se vorrai potrai venirla a trovare quando vorrai!” aggiunse Angie entusiasta. Aveva notato che Fidel di sottecchi puntava sempre lo sguardo verso il letto, senza avere il coraggio di muovere un passo in avanti. Di fronte a quell’invito l’imbarazzante incidente sembrò passare in secondo piano e il ragazzo ne rimase sorpreso: lo stavano trattando in un modo strano, come se fosse un loro amico. Sapeva che Pablo era un uomo altruista e pieno di virtù, ma non immaginava certo che si sentisse così vicino al suo popolo.
“Se me lo vorreste concedere…potrei farlo. La prossima volta potrei portare un libro, ho imparato da poco a leggere! Dopo aver terminato i miei doveri, si intende…”. Ottenendo l'assenso della donna per la sua proposta, si congedò frettolosamente con un inchino e scappò via, biascicando ancora altre scuse per quello che aveva combinato.
“Che te ne pare di Fidel?” chiese Angie al marito, mentre si allontanavano della stanza della figlia. Dopo quella breve parentesi di serenità era il momento di tornare al loro compito, carichi di una nuova energia.
“Penso sia un bravo ragazzo e sono felice che Cassidy potrebbe aver trovato un compagno di giochi, arguto, intelligente…”.
“E che un giorno potrebbe diventare tuo genero” completò la frase la donna, ridendo sotto i baffi e preparandosi alla reazione del re che non tardò ad arrivare.
“COSA?! NO. Assolutamente no! Lei è troppo giovane e lui…che ne sappiamo di lui? Angie, pensi che sia interessato? Dobbiamo barricarla dentro la stanza, non si deve avvicinare! Se prova a rimettere piede qua dentro gli aspetta un bel discorsetto a quel dongiovanni in miniatura!” disse Pablo fermandosi e poi ricominciando a camminare. Si sbracciava a sembrava che fosse stato vittima di una grande ingiustizia.
“Ma smettila tu, non farai proprio un bel niente!” rise di gusto Angie, prendendolo a braccetto e conducendolo di peso alla sala del trono. Pablo sbuffò rassegnato: non si era mai dovuto confrontare con le gelosie di un padre, però non riusciva a sopportare che il cuore della sua bambina potesse diventare di qualcun altro. Aveva il forte impulso di tornare indietro per parlare con Cassidy e scongiurarla di non vedere più quel Fidel, ma sua moglie aveva ragione: non poteva mettersi in mezzo; era un ciclo destinato a ripetersi che in fondo ogni genitore viveva e forse era il segno che le cose stavano finalmente cambiando. Si strinse ancora di più a sua moglie, che ricambiò facendogli forza: si, le cose sarebbero cambiate.









NOTA AUTORE: PERDONO! Vi chiedo perdono per il ritardo e per il capitolo che forse non è un granchè, diciamo che è un po' interlocutorio, visto che dei protagonisti della storia non si sa nulla...per ora. Allora, Fran è stata svegliata da Federico e i due si trovani intrappolati nelle prigioni di quadri, dove Ana ha preso il povero Dj per torturarlo :( Nel loro tentativo di uscire incontrano Marcela e un personaggio di nostra conoscenza (in un certo senso), Tartalenta! L'animale però è abbattuto perché gli sono state rubate le pietre preziose sul suo guscio...tra di esse ci sono gli smeraldi che Diego aveva usato per i due medaglioni! A proposito di Diego...il consigliere entra in possesso di un'arma pericolosa, che è sicuro gli permetterà di vincere la guerra...di che si tratta? D: A proposito di guerra...sull'altro fronte Pablo è sempre più determinato a vincere quella guerra, anche se dovrà sacrificare metà del regno :/ Pablo e Angie trovano la forza per mostrarsi forti di fronte a tutti gli altri nel legame della famiglia che li unisce, e soprattutto grazie all'amore che provano nei confronti della figlia. Ma attenzione, potrebbe esserci un mini-pretendente per Cassidy, non molto ben visto da Pablo xD Anche se lui per primo all'inizio simpatizzava per il piccolo Fidel, dopo i dubbi che gli ha insinuato Pablo ha cambiato leggermente idea xD Ahahaha, Pablo alla fine come sempre deve cedere di fronte alle parole di Angie...si completano proprio quei due, riescono sempre a farsi forza l'un l'altro :3 Ma chiusa quella simpatica parentesi Pablo si sente richiamato ai suoi doveri e si prepara allo scontro finale sempre più imminente...che succederà? 
Riusciranno i protagonisti a recuperare l'ultimo pezzo, che risiede nel Palazzo di Quadri? L'arma di Diego sarà davvero così letale? E Andres e Emma? Fran e Fede riusciranno a salvare Dj? Fran controllerà il Mana, che sembra già stare per sovrastarla? Quante cose da scoprire ancora! Grazie a tutti voi che mi seguite con affetto, e vi chiedo perdono per il ritardo, spero la prossima volta di aggiornare in tempo :3 Grazie a tutti, anche per la comprensione, e alla prossima! Buona lettura, 
syontai :3 
  
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