I nomi in grassetto stanno a indicare personaggi mitologici documentati (su internet e fuori)
http://it.wikipedia.org/wiki/Seconda_guerra_messenica
Quel
sole
tinto di rosso era di cattivo auspicio per i locali poiché
presagiva che, di lì
a poco, sarebbe stato versato molto sangue.
La
regione
chiamata Messenia era la riserva di schiavi di Sparta. Gli abitanti,
dopo aver
perso una guerra contro i laconici, furono privati di ogni diritto e
chiamati
Iloti. Gli spartani li tennero a bada per decadi con la sola forza del
terrore
derivato dalla propria abilità guerriera, superiore a quella
di chiunque. Ma in
realtà erano invece gli spartani a
temere nascostamente la loro forza. I messeni erano dieci volte
più numerosi: erano
centinaia di migliaia. Un popolo intero che bruciava nel fuoco del
rancore.
E
ora l’infuocata
luce dell’astro si rifletteva sullo scudo di un uomo che
dall’alto di un colle
scrutava i suoi nemici. Il suo volto era celato da un elmo avvolgente
della
forma di un falcone.
Alle
sue
spalle lo seguivano una miriade di guerrieri. Così tanti che
forse una tale armata
non era mai stata veduta prima in Grecia. Molti avevano armature in
cuoio,
altri erano coperti di pellicce, la maggior parte erano vestiti solo
con le
proprie stoffe. Ma alcune centinaia di loro, avevano un equipaggiamento
da
oplita.
Quell’armata
infatti era originariamente formata da uomini di ogni sotto-regione
della Messenia,
i quali avevano trucidato le esigue forze spartane locali e dato fuoco
a tutti
gli accampamenti di controllo in quelle zone. Infine avevano rubato le
loro
armature.
“Sono
un’infinità, comandante! E sono pervasi
da una foga che non è di questo mondo! Attaccano i nostri
soldati come se la
loro vita non valesse niente. Si immolano sulle lance dei nostri opliti
per
permettere a quelli dietro di loro di avere il sopravvento!”
Aveva
spiegato il capitano Tirteo
al
polemarco Anassandro,
nella
tenda comando.
“Non mi interessano queste scuse!”
gridò
il comandante scagliando un bicchiere colmo di vino ai piedi
dell’interlocutore.
“Il
vallo che difendiamo è l’ultimo baluardo
prima della sacra Sparta, te ne rendi conto? Schiererai nuovamente i
tuoi
uomini e questa volta dovranno avere successo. Non esiste sconfitta per
uno
spartano fintanto che non si trovi esanime sul proprio scudo! ORA
ANDIAMO A
CREARE UNA LINEA DIFENSIVA!”
Alcuni
comandanti, come Emperamo,
udite
quelle parole schiamazzarono fomentati. L’altro polemarco Anassidamo,
approvò la
decisione del suo pari in silenzio.
“Mio
signore. Lasciate a me il comando della
prima linea”
Aveva
detto
rocamente Leneo,
un tetro e
cupo capitano spartano i cui modi avevano sempre inquietato il suo
superiore.
L’uomo si leccava la bocca in continuazione e i suoi occhi
erano quelli di una
belva feroce.
Tutti
rabbrividirono. Si
conosceva bene tra le
fila lacedemoni il disprezzo che quell’uomo avesse per la
vita umana, compreso
quella dei suoi sottoposti e dei modi brutali con cui essi venivano
puniti.
Come
poteva
una tale bestia essere stata partorita da una donna spartana? Chi lo
conosceva
dall’infanzia lo ricordava come un giovane spartiata eccelso
in ogni sua dote,
piuttosto chiuso in se stesso, ma non di certo una belva come era
diventato
solo di recente.
“Va
bene, Leneo. Terrai tu la prima linea.” Rispose
Anassandro
Le
falangi
spartane si disposero cingendo tutto il perimetro di quelle colline,
dalle
quali sarebbe discesa l’orda di lì a poco. Erano
appena diecimila, contro un
intero popolo in movimento e avevano lo svantaggio della posizione.
Nonostante
ciò erano tutti consapevoli di quanto potesse essere letale
e inamovibile una
falange spartana sulla difensiva. Quale che fosse stato
l’esito, sarebbe stata
un’ecatombe.
Il
capoguerra
dei messeni
teneva alto il suo scudo lucente, gridando e incitando il popolo alle
sue
spalle. Mai come ora dagli occhi di quegli iloti risplendeva la
speranza di una
vittoria.
“Androclo,
Alone, Dafni
preparate la fanteria per lo scontro frontale”
comandò
l’uomo con l’elmo da falcone ai suoi luogotenenti.
“…Alettore,
Ischi: la
cavalleria sui lati”
E
migliaia
di messeni discesero dalle colline come onde di tempesta: miriadi di
corpi di
uomini, donne, anziani e fanciulli armati solo di bastoni e di grezze
lame.
Tutti pronti a morire per una folle speranza di libertà.
“Cianippo!”
Urlò
Leneo ad uno dei suoi pentecotarchi. Sguinzaglia i cani.
“Sicuro!” urlò
compiaciuto l’addestratore solcato da
infinite cicatrici.
“Liberate
i
molossi!” ordinò
a sua volta ai suoi
uomini.
Appena
I
quadrupedi furono liberati dalle loro gabbie, schizzarono indiavolati
verso
quella moltitudine.
I
molossi
balzavano sulle loro prede con tanta rapidità da non lasciar
loro il tempo di
reagire. Azzannavano le loro vittime al collo trucidandole sul colpo,
segno che
quelle belve erano state appositamente addestrate per uccidere
più che portate
a espletare il loro primario bisogno di cibo.
I
cani
difatti, una volta sbranata la preda non esitavano un istante a
lanciarsi sulla
successiva.
Tra
le fila
dei messeni ci fu subito scompiglio.
“Non fatevi prendere dal panico!”
Gridò
Androclo. E quando una delle bestie
balzò su di lui, con lesta prontezza, il comandante si
scansò su un lato e la
decapitò al volo con la sua spada.
Il
muso
della bestia roteò in aria innumerevoli volte, prima di
precipitare a terra
ancora mugghiante. Vincendo quell’iniziale paura, la
spropositata quantità di
combattenti incominciò ad avere la meglio sugli animali,
abbattendosi su di
loro come mosche su una carogna. Anche le donne, munite di grossi
coltelli si
gettarono contro i quadrupedi occupati a divorare i corpi delle
precedenti
vittime.
Le
bestie
avevano avuto un impatto travolgente su quella prima ondata di uomini,
squartandone alcune centinaia e mandandone in rotta altrettanti. I
pochi cani
rimasti guaivano da una parte all’altra dello schieramento,
venendo colpiti di
tanto in tanto da qualcheduno che si trovasse alla loro portata.
Il
comandante Alone, noto nel suo villaggio per essere un eccellente
guaritore,
era chino su una donna ferita, cercando di fermare
l’emorragia di una lesione.
Le
grida dei
suoi sottoposti lo distolsero dal suo lavoro.
Quando alzò lo sguardo vide una marea di frecce
oscurare il cielo.
Nessuno avrebbe avuto il tempo di scappare, e solo in pochi tra loro
possedevano uno scudo. Lui non era tra questi.
Ma
proprio
mentre quell’infinità di dardi stava per
abbattersi su di loro, avvenne
qualcosa di innaturale quanto spaventoso.
Si chiese se non stesse solo vivendo uno stranissimo sogno
quando quelle
frecce furono deviate dalla loro direzione attuale da un’onda
d’aria
proveniente dal basso.
Alcune
di
esse si frantumarono su un muro invisibile, altre tornarono indietro
nel loro
verso. Gli arcieri
lacedemoni che
avevano serbato il tiro si trovarono del tutto alla sprovvista. Molti
di loro
caddero trafitti dai loro stessi proiettili.
Ma
cosa era
accaduto?
Tutti
gli
uomini presenti, messeni e spartani, si rivolsero basiti verso colui
che aveva
gridato poco prima del miracolo.
L’uomo
con
l’elmo da falcone aveva alzato il suo scudo lucente, ma nulla
di più. Eppure
gran parte degli astanti era convinta che fosse opera di magia divina.
E questa volta furono gli spartani ad essere spauriti e in preda allo
scompiglio.
Gli
iloti
lanciarono un grido di esultanza. E dopo che il falcone si
sincerò che tutti i
mastini fossero stati massacrati, comandò una seconda
carica. L’orda ricominciò
la sua corsa verso i nemici.
Decine
di
migliaia di uomini si aggiunsero alle poche migliaia precedenti andando
a creare
una massa di uomini di tutt’altra consistenza. La portata di
quell’attacco fu così sconfinata
che fin sulla linea dell’orizzonte si poteva ammirare la
forza con cui la
Messenia minacciava Sparta. Gli
scudi
spartani formavano un argine che si andava a estendere per diversi
chilometri.
Quando
quella forza inarrestabile colpì quel muro inamovibile
l’impatto fu devastante.
Una
massa di
umanità fuori controllo si abbatteva sul ferro degli scudi
ribaltandosi o
facendo ribaltare i loro nemici. Il peso di quella quantità
si fiondò sugli
spartani con tale imponente foga, da rendere inutile la loro
abilità di
combattenti. Innumerevoli iloti furono trafitti dalla selva di lance
degli
spartani, ma il loro numero era così grande che le perdite
non furono altro che
una goccia nell’oceano.
Cianippo,
l’addestratore di cani, fustigava i nemici col suo flagello.
Tre uomini furono
feriti gravemente. Altri si tenevano lontani.
Il
comandante degli iloti Dafni, uomo di grande costituzione, rimase
impassibile.
Continuò a marciare coprendosi il volto con le braccia. La frusta gli lacerava la
pelle e lambiva lo
strato muscolare sottostante, eppure l’uomo pareva
insensibile alle frustate.
Giunto a un passo da Cianippo, scattante gli mise una mano al collo. Le
sue
mani da lavoratore della terra erano callose e molto più
grandi del normale.
Cianippo lasciò cadere la sferza. La stretta al collo era
così forte che gli
uscì del sangue dal naso.
Restò a
fissare allibito il suo assassino per quegli ultimi attimi, prima che
anche gli
occhi gli schizzassero fuori dalle orbite.
Dafni
sorrise. I suoi stessi uomini ebbero paura di lui, ma inneggiarono lo
stesso il
suo nome.
La
cavalleria messenica incombette ai lati. Centinaia di uomini vestiti di
pelli e
muniti di bastoni e qualche lama furono intercettati da cavalieri ben
più
armati subordinati di Sparta: gli elidi di Pisa.
La
disciplina a cavallo dei cavalieri elidi spazzò via gran
parte di quegli
straccioni in groppa agli equini. Le loro stesse cavalcature persero il
controllo disarcionandoli.
I
sopravvissuti rimasti a terra videro il rapido disfacimento della loro
divisione.
Re
Enomao, signore degli elidi,
in piedi
sulla sua quadriga dalle ruote dentate trainata da un tiro di cavalle
rapide
come il vento, si faceva largo in mezzo allo schieramento nemico
tranciando le
ossa degli equini nemici.
“Psilla!
Apinna! Forza galoppate come il vento!”
Spronò Mirtilo,
servitore
di Enomao nonché miglior auriga greco.
Il
comandante messeno Alettore riuscì a colpire e atterrare un
paio di cavalieri
elidi con il suo lungo bastone. Poi si rivolse verso il loro re.
Il
confronto
durò poco. Le ossa pastorali della sua cavalcatura
schizzarono in aria,
tranciate dalle ruote dentate e, nel momento in cui il comandante
rimase in
aria prossimo a morire, maledisse quella fredda indifferenza sul viso
del suo
assassino.
Per
Enomao
quello scontro non era stato più impegnativo di schiacciare
una mosca. Non
provava niente nell’uccidere nemici così deboli.
Alettore
si
schiantò a terra rompendosi l’osso del collo.
In
un punto
imprecisato della battaglia, il Falcone si faceva strada in mezzo alle
linee
del nemico puntando il suo scudo contro i soldati. Un bassorilievo
circolare su
di esso prese a illuminarsi di una strana luce azzurra. Nel giro di un
attimo
tutti i soldati furono scaraventati via dalle loro posizioni per poi
riprecipitare finendo per morire o ferirsi gravemente. I messeni al suo
seguito
finirono le vite di quelli caduti a terra e attaccarono di nuovo.
Ovunque
passava il Falco, gli spartiati venivano catapultati in aria prima
ancora di
riuscire ad avvicinarsi abbastanza da poterlo attaccare. Tutti gli
altri,
intimoriti da quel potere fuori dal mondo, per quanto fossero valorosi
guerrieri, si ritrovarono impotenti a fuggire verso le retrovie.
“Bene,
bene, bene…Falcone Nero, Sideris. O come
vuoi essere chiamato. Ci sei tu in persona dietro a questo attacco” proferì una
voce roca alle spalle del
guerriero dallo scudo lucente.
Il
comandante Leneo si stagliava in piedi in mezzo a quello sterminio e a
quella
morte fresca. Dietro di lui c’erano cinque guerrieri spartani
tutti con lo
stesso sguardo e la stessa perfidia negli occhi. Una perfidia che non
aveva
nulla di naturale…Nulla di umano.
Leneo
si
leccò la bocca. “Abante,
Dedalione
Prendetelo”
Due
dei
cinque soldati alle sue spalle sorrisero diabolicamente e dei sinistri
riflessi
balenarono nei loro occhi.
Il
loro
corpo fu pervaso da tremiti convulsivi. Dalla bocca schiumarono
torrenti di
bile e saliva. Gli occhi si rigirarono completamente. Dalle loro carni
emersero
protuberanze artigliate, affiorarono scaglie, spuntarono piume.
Urlarono
entrambi. Dapprima le loro grida erano umane. Poi alla voce naturale se
ne
aggiunse una seconda più squillante, più stridula.
Messeni
e
lacedemoni interruppero i loro scontri facendo cerchio attorno a quegli
indicibili orrori.
Ognuno
di
loro era a conoscenza dell’esistenza di
mostruosità come i centauri, i ciclopi
o altre creature presenti nelle narrazioni degli anziani. Ma questi
esseri avevano
sempre fatto parte delle storie e mai della realtà. Un
silenzio panico era
calato su quella parte di piana, e adesso tutti gli spettatori sapevano
che
quelle degli anziani non erano più solo storie.
Due
immani
ali piumate fuoriuscirono dalle spalle di Dedalione, che con un balzo
spiccò il
volo.
Intanto
Abante
era divenuto così grosso che le sue vesti e persino
l’armatura non erano più
state in grado di contenerlo. Egli aveva scaglie verdognole su tutti i
suoi
quasi tre metri di altezza e dalle sue robuste mascelle sporgevano due
file di
denti aguzzi. Dal posteriore faceva agitare sinuosamente una
lunghissima coda.
La
coscienza
dell’uomo che fu un tempo si sentì onnipotente.
I
suoi occhi
gialli contemplarono la carne umana che aveva attorno. Con inverosimile
agilità, si approssimò ad alcuni soldati e,
spalancando le fauci fece guizzare
una rosea lingua biforcuta con la quale agguantò un
guerriero messeno per attirarlo
a se.
La
corazza
di cuoio non trattenne la pressa del suo morso e i denti affondarono
profondamente nel petto della vittima.
Abante
fu
meravigliato dalla facilità con la quale riusciva a dare la
morte. Volle
testare ancora le sue capacità.
Sguisciò
tra
le linee degli uomini con una rapidità incontrastabile. I
lunghi artigli che
fuoriuscivano dagli arti ne dilaniavano le armature penetrando nei loro
punti
vitali.
Con
veloci
spazzate di coda ne buttava a terra cinque per volta. I primi a subire
l’impatto della sferzata si ruppero la spina dorsale.
Nessuno
era
al sicuro dai suoi attacchi, né i messeni né gli
spartani. Erano tutte prede
per Abante.
Non
c’era
modo di placare una simile forza. Entrambi gli schieramenti arretrarono
attoniti. Alcuni uomini fuggirono terrorizzati.
Due mani artigliate agguantarono un paio di fuggiaschi. I due uomini
videro il
terreno sotto i proprio piedi farsi sempre più distante.
Videro gli eserciti
diventare sempre più piccoli fino a sembrare formiche e
videro l’intero vallo
che gli spartani stavano difendendo in un unico sguardo. Poi
precipitarono.
Non
soddisfatta, la creatura volante che li aveva afferrati si
calò in picchiata su
un gruppo di messeni in fuga travolgendoli e uccidendoli
nell’impatto.
Dedalione,
lo
spartano mutato in volatile, era più piccolo di Abante, la
sua altezza superava
appena i due metri. Dalle sue spalle spuntavano grosse ali la cui
apertura
alare doveva superare il doppio della propria altezza. Al centro del
viso aveva
ora un adunco becco e il suo intero corpo era ricoperto di piume e di
penne. I
suoi rapaci occhi sottili fissavano l’uomo con
l’elmo del falcone.
“Quale
ironia per il Falcone Nero, essere
destinato a perire per mano di un falco…Un vero uomo falco.
Ciò che lui non
sarà mai.”
La
sua voce era stridula e lacerante, fin
troppo fastidiosa.
“Sei
diventato un falco adesso, questo è vero…
Ma sei mai stato un uomo?”
Rispose il condottiero
dei messeni.
La
mostruosità con la forma di falco stridette offesa e
incominciò a battere
fortemente le ali alzando un gran polverone.
La
visuale
del condottiero era molto limitata. Attivò il suo scudo e
un’altra di quelle
potentissime ondate d’aria spazzò via la polvere.
La vista che ottenne rivelò Abante, l’uomo rettile
incombere su di lui con le
sue zampe artigliate. Le sue mani immonde languirono lo scudo per un
istante,
prima che la bestia fosse investita in pieno dal getto di potere
emanato da esso.
Fu sbalzata di pochi metri, ma riuscì a cadere in piedi
frenandosi al terreno
con le sue grinfie.
Il
Falcone
avvertì poi uno spostamento d’aria alle sue
spalle, e se non fosse stato per i
suoi riflessi fulminei, sarebbe stato certamente squartato.
Invece
in
quella frazione d’istante si accorse di Dedalione e,
voltandosi di scatto
riuscì a parare l’attacco nemico e respingerlo di
qualche metro, ma la foga con
cui era stato colpito lo fece crollare a terra di schiena.
Abante
dall’altra parte, si approfittò del momento per
far guizzare la sua lingua
contro l’uomo caduto. La protuberanza si appiccicò
all’elmo del Falcone
strappandoglielo via dalla testa.
Il
muso di
falco vibrò in aria come l’animale che
rappresentava e poi crollò a terra
emettendo un rumore metallico.
“Ero
curioso di saperlo…” sibilò
la
creatura.
“È
Dunque questo il vero volto del Falcone
Nero” .
L’uomo,
adesso divelto del suo avvolgente copricapo, si ricompose.
I
suoi lunghi
capelli biondo cenere erano smossi dal vento, gli occhi di identico
colore
attraversavano temerari il mostruoso muso del suo nemico: era
Aristomene.
Si
stagliava
in piedi, da solo, tra i due mostri. Entrambi pronti a scattare su di
lui.
Il
temerario
luogotenente del Falcone incominciò a vacillare. La sua
testa si fece pesante,
e avvertì il tocco della paura.
Si
aspettava la venuta dei mostri. Sideris glielo aveva presagito in
alcuni
scritti che gli aveva lasciato trovare. Ma Aristomene, forte del suo
scudo dai
poteri epici, credeva di essere divenuto imbattibile. Ora, trovatisi
davanti a
quei mostri, non lo pensava più.
“In
fondo, sei solo umano”
Commentò
Dedalione.
Una
pioggia
di frecce si abbatté sul corpo piumato del mostro. Quel tiro
non gli procurò
gravi danni, visto lo spessore delle penne che lo ricoprivano, ma uno
dei dardi
s’inculcò sotto il suo occhio, trapassandogli il
volto.
L’essere
si
voltò furente stridendo in modo così acuto e
stridulo da costringere tutti gli
umani presenti a coprirsi le orecchie.
La
seconda
cavalleria dei messeni era giunta sul campo e aveva trovato il coraggio
di opporsi
al proprio destino.
“Affronta
noi, bestia!”
gridò
Ischi, il comandante di quel plotone a cavallo.
Dedalione
accettò la sfida e si abbatté furibondo su quei
cavalieri. Ali nere incombevano
sul loro schieramento. Gli equini imbizzarrivano, sotto le redini degli
uomini
che cercavano di mantenere il controllo. Il mostrò
falciò l’intero reggimento
atterrando una decina di soldati. Il comandante Ischi gli
scagliò contro una
lancia. La frenesia di quella situazione gli impedì di
essere maggiormente accurato
e l’arma colpì solo la spalla sinistra
trapassandola da parte a parte.
La
creatura
ignorò il dolore e lo raggiunse in pochi attimi.
L’artiglio
della sua mano destra agguantò il volto di Ischi, mentre con
gli arti inferiori
lacerava il collo della cavalcatura uccidendola tra atroci dolori.
Gli
occhi
del mostro Dedalione, ricolmi di un odio senza nome, si assottigliarono
cercando di ghermire l’anima stessa della sua vittima assieme
alla sua vita.
La
testa di
Ischi esplose.
Intanto
Aristomene cercava di prendere in pieno l’uomo lucertola,
facendo scaturire dal
suo scudo scariche di pura energia che colpivano il terreno
deflagrandosi.
Ma
il mostro
schivava e sguisciava, scansava ed eludeva ogni colpo riducendo sempre
più le
loro distanze. A cosa serviva un’arma tanto potente se non si
era in grado di
usarla? Si chiese Aristomene.
Giunto
a un
metro di distanza, il mostruoso Abante scatenò tutta la sua
potenza in un colpo
di coda discendente.
Il luogotenente rivoluzionario, con sorpresa del mostro,
lasciò andare lo scudo
che
era
troppo ingombrante
da permettergli movimenti fluidi, e con scatto fulmineo
schivò il colpo.
La
coda
collise fragorosamente sul terreno e la spada dell’umano
reagì con maggiore
rapidità abbattendosi su di essa ma non prima di aver
assunto un cupo colore
grigio. La coda del
mostro venne
tranciata di netto dalla spada divina del guerriero.
Abante
ruggì
di dolore. Con l’artiglio tentò di agguantare il
suo avversario che di
riflesso, si chinò eludendo e contrattaccando. Il mostro
ruggì ancora di più quando
si vide il braccio mutilato.
E
Aristomene
in preda alla furia si lanciò sul suo avversario
lacerandogli tranci di carne e
squame a ogni colpo. Questa volta era il mostro Abante a sentire il
terrore, e
con tutta la sua velocità si divincolò
allontanandosi il più possibile dal
pericoloso guerriero.
“Ora
ho capito che questo scudo, per quanto
formidabile, non è l’arma adatta per
contrastarti” Disse.
Gli
occhi
spaventati di Abante si fecero beffardi e canzonatori.
“Non
pensare che sia finita, miserabile
feccia”.
Ruggì
ferocemente. I suoi occhi si dilatarono e sul muso spuntarono grosse
vene.
Dalle
mutilazioni inferte grondò vischioso sangue verde. Poi una
nuova coda e un
nuovo braccio si rigenerarono dagli orribili squarci.
Tutti
gli
spettatori dello scontro inorridirono, compreso il suo avversario.
“Sei veramente un mostro”
Commentò Aristomene
con un ghigno. Non gli era sfuggito che il suo nemico aveva
però il fiato corto
a causa di quello sforzo, e che le lacerazioni sul corpo stavano
continuando a
sanguinare.
Aristomene
era in difficoltà: nessuno dei suoi uomini poteva aiutarlo.
E non solo per
codardia, ma anche perché davanti a un simile avversario si
sarebbero ritrovati
di fronte a morte certa.
Intorno
a
lui i messeni avevano respinto gran parte degli spartani e la maggior
parte era
ferma al limitare dell’area del duello per assistere allo
spettacolo. Altri
stavano ancora muovendo battaglia contro le file lacedemoni. Ma un
piccolo
gruppo di spartani era rimasto e lo stava fissando imperscrutabile.
C’era un
uomo in mezzo ad altri tre che
trucidavano qualsiasi messeno provasse ad avvicinarsi a lui. Era
l’uomo che
aveva ordinato alla lucertola e al falco di attaccare. Probabilmente
doveva
essere il più pericoloso sul campo.
L’uomo
lo
guardava come un lupo fissa la sua preda. Aveva mandato i suoi
lacchè solo per
testare le capacità di Aristomene, e di questo lui se ne era
accorto.
Il
finto
Falcone Nero era un bersaglio succulento per quei mostri ed era certo
che se la
battaglia fosse durata troppo, il misterioso spartano
l’avrebbe conclusa in
fretta.
Aristomene
era agitato.
Una
goccia
di sudore freddo calò lungo le tempie: era solo.
Se
solo
Sideris fosse lì sarebbe stato certo della vittoria, anche
se quei mostri lo
avessero attaccato tutti insieme. Ma se anche i suoi vecchi compagni
come
Cercione, Almo o Oreste lo avessero affiancato, avrebbe avuto
certamente più
possibilità.
Ma
adesso doveva
pensare a finire quello scontro il più presto possibile o
sarebbe stato
sopraffatto dalla foga di quei mostri.
Raccolse
il
suo scudo e incominciò a correre verso Abante. Una lancia si
schiantò sul
terreno davanti a lui, a pochi centimetri dalla sua faccia.
Dedalione
era in aria. Aveva trucidato da solo un intero plotone di cavalleria e
ora
stava scagliando dall’alto tutte le lance dei cadaveri.
Aristomene
non
si fece distrarre. Cambiò direzione e continuò a
correre verso il suo nemico.
“Devo
essere preciso”
pensò.
“Basta un piccolo errore, e sono morto.”
Si
scansò
evitando il colpo di un’altra lancia. Roteò su se
stesso e, ingaggiato il
bersaglio, scagliò contro di lui il proprio scudo magico.
L’oggetto
era veloce e puntava al collo dell’uomo lucertola.
Ma
il mostro
Abante lo era di più. E abbassandosi rapidamente
riuscì a evitare la
decapitazione.
“E’
LA MIA SPADA CHE DEVI TEMERE, MOSTRO!”
Urlò
il
signore dei messeni agitando la sua lama permeata di potere grigio.
Abante
fece
guizzare la sua oblunga lingua che si incollò al polso del
nemico
bloccandoglielo.
Aristomene
non riusciva più a muovere la mano.
“Ti
ho preso, finalmente” Dichiarò
la lucertola
facendo schioccare la mandibola e preparandosi al pasto imminente.
“No.
Io ti ho preso!”
Buttandosi
di lato, Aristomene schivo una delle lance scagliate da Dedalione, e al
contempo costrinse Abante a flettere la testa nella stessa direzione.
“Sono
stato impreciso con quel lancio, ma ho
vinto lo stesso.”
dichiarò
l’umano.
La
lucertola
non capì. Poi la sua testa fu dilaniata di netto
all’altezza della mandibola
da
un disco
dietro di sé.
Lo
scudo
magico aveva cambiato direzione nel volo ripercorrendo quello stesso
tratto e
decapitando il mostro.
L’oggetto
collise inculcandosi al terreno.
“Rigenera questo!” commentò
sprezzante.
Aristomene
senza perdere tempo lo riprese, puntando il mostro volante che lo
bersagliava
dall’alto…Troppo in alto per essere colpito dalle
onde d’aria del suo scudo.
Agendo
d’istinto, l’uomo diresse lo scudo nella parte
opposta rispetto alla posizione
del suo avversario.
La
velocità
con cui venne sbalzato in aria fu così elevata che Dedalione
fu incapacitato a
reagire. Sbigottito… fu colpito in pieno da quel proiettile
umano, a venti
metri da terra.
Arrivato
al
culmine di quella salita, l’umano incominciò a
precipitare. Ammorbidì l’aria
col suo scudo per rallentare quella caduta.
“Tu
sei già morto.”
Metà
testa dell’uomo
falco scivolò dalla sua posizione. Poi il resto del corpo la
seguì, sopraffatto
dalla forza di gravità, sfracellandosi al suolo.
Parentesi
anacronistiche 8:
Armamentario
5: La coda di Cercione.
Un’installazione
composta di materiali nanorod (o
iperdiamante) che comprende un cinturone ricoperto nella parte
posteriore da
minuscoli aghi che attecchiscono alla spina dorsale per captare i
neurotrasmettitori attraverso cui la grossa coda può
muoversi e ruotare a
comando dell’utilizzatore come fosse un muscolo volontario
con articolazioni
mobili.