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Autore: Kima    27/10/2008    0 recensioni
In una notte di neve, in una capitale di ghiaccio, Lisa, una cinica ragazza come tante, incontra qualcuno che la condurrà in uno strano labirinto...nel buio, il suo viaggio si infittisce di sensazioni e altri personaggi fanno il loro ingresso dalle notti
Genere: Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando si placò ero ormai esausta, incapace anche solo di dare voce al mio sdegno, al dolore. Lui mi sostenne con quelle sue mani di marmo come a capire, d’un tratto, la mia precarietà fisica. Lo guardai con occhi vacui per il troppo pianto, sulle labbra ancora fremiti di paura. Lui si tolse il cappotto di pelle e me lo appoggiò sulle spalle per coprire le mie nudità e la pancia martoriata. Mi guardò, mi sorrise per quella che riconobbi come la prima volta e mi sentii ancor più sua schiava. Mi intrufolai con forza disperata in un suo abbraccio cercando calore, conforto, utopia per lenire il vuoto di dentro ma il suo lasciarmi fare ne rese solo più aspri gli angoli.
Mi scrollai di dosso il mio bisogno di lui e fu come rinunciare alla mia droga, quella che mi rende la me dei giorni migliori. E urlai.
Urlai che se ne andasse da lì, da me. Urlai che mi lasciasse per l’ultima volta, urlai che morisse, urlai, urlai, urlai. O almeno credo. Lemures sembrò non accorgersi di nulla col suo sguardo traslucido di luce artificiale a me come a un qualsiasi oggetto semplicemente curioso.
Raggiunsi il letto lasciando il suo cappotto sui miei passi indifferenti. In una percezione temporale alterata dal mio umore basso e dai resti di quei fatti e gli spettri delle letizie, aspettai il sonno. Arrivò lento e smorfioso, facendosi bramare e rilevandosi così poco soddisfacente da lasciarmi in un dormiveglia abitato dai suoi movimenti indistinti, pregno della sua presenza invisibile ma certa. Era lì, era lì, mi guardava, sorrideva, magari rideva anche, un coro di risa nella sua testa, magari la fame gli stava nello stomaco…mi chiesi quando sarebbe finita. Questa domanda, in solitudine totale, mi abitava la mente standomene lì, riversa, in apatia. Non come, mi chiedevo, ma quando. Con una stanchezza che nessun riposo avrebbe eliminato…o forse uno sì, quello eterno…

Mi svegliai ansimante nella penombra che scoprii indotta alla meno peggio con coperte e mobili spostati davanti alle finestre. Il retrogusto torbido di un incubo vago mi stordiva, iniziai a concentrarmi per ricordarne i lineamenti quando realizzai che Lemures doveva essere ancora lì. Mormorai una serie infinita di “basta” con le mani sulle orecchie, con la volontà ferrea di far sparire tutto, di liberarmi da quelle tenebre dove lui poteva vivere col sorriso sulle labbra.
Mi tirai su dal letto sbattendo le mani a pugno sul materasso, l’autoconvincimento passava tra labbra e cervello, cervello e labbra, di continuo.
Arrivai in salotto, doveva essere sul divano, ma privo dell’aria di un simpatico amico sbronzo..e se ne stava proprio lì, impietrito nel suo sonno inumano, sul volto un’espressione senza spessore ma livida, gli occhi incavati, le guance vuote, la bocca un rigo storto. Ben diverso da come l’avevo ammirato nella sua cripta.. Immaginai che la sua fame doveva essere famelica, lo diceva quel suo aspetto stremato. Mi dissi che se solo si fosse svegliato avrei saputo quando sarebbe tutto finito: quell’esatto momento. Ebbi paura, un fremito che mi fece cercare la distanza di qualche passo. Una risata tesa, con nulla di divertente dentro, mi salì in bocca. Era giorno. Ero più forte, almeno in quel momento. Valeva la pena di compiacersi. Guardai la porta, un istinto innato, era sbarrata. Nulla di così laborioso da non poter fare nel tempo che mi separava dalla notte, ma..ma..dava un senso nuovo, prezioso, alla sua presenza lì, con me. Lemures non mi voleva lontana, non mi voleva altrove..ero la vittima che ne sognava le attenzioni, attenzioni di ogni tipo e lui mi accontentava..quale triste e meraviglioso rapporto era il nostro..ma..ma l’orgoglio si cela anche dietro alle forze che portano alla caccia eterna di una dimensione propria, un ruolo mai definito, mai totalmente ottenuto: avere quel che si desidera non è mai un traguardo, i desideri mutano con quel che siamo, come quel che siamo. Avevo il mio tutto eppure mi era costato: avevo perso quel che la strada fin lì seguita mi aveva reso. Colpa sua. Colpa dei suoi occhi, della sua natura notturna, del potere che gli avevo conferito..ma io avevo pagato. Il mio corpo ricordava bene e avrebbe ricordato ancora, per tanto e tanto tempo e lui? Lui era intatto.
Dentro e fuori e così sarebbe rimasto perché ben poco poteva toccarlo, toccarlo davvero..tornai a guardarlo con un misto di desiderio sessuale e necessità di fargli violenza che andava lievitando dentro: mi sarei saziata di vendetta, su di lui, su di me. Un senso di giustizia deviato il mio..
Mi accarezzai la fronte pensando che c’era qualcosa di mostruosamente perfetto nel mio modo così nuovo di pensare, così lucido, così deciso, mi sentii di una bellezza letale, una bellezza di sangue ardente e crudele, deturpata da cicatrici che sarebbero valse sangue, ancora più sangue..
Andai in cucina chiedendomi come Lemures e quelli come lui avessero sempre percepito la morte. Loro che l’avevano oltrepassata, vinta, che ne violavano le leggi a ogni notte e che la usavano..li invidiai. Per me la morte era stata, ben prima, una forma astratta e senza fascino. Mia madre parlava dei morti solo con apatico rispetto e di rado, come per non chiamarli tra di noi, come se avessero potuto portare qualcosa di peggiore dell’indifferenza che ci univa. E poi c’era Shon..lui sì che poteva incarnare la morte in un’immagine a me vicina..peccato che, dicevano i fatti, diveniva solo uno specchio che rifletteva splendore su Lemures..chissà se qualcuno avrebbe pensato quelle stesse, ciniche cose alla mia morte..mi strinsi nelle spalle afferrando un coltello: non l’avrei mai saputo, meglio così.
Tornai da lui. Uno sbuffo mi fermò un sorriso falso sulle labbra. Se ne stava ancora più livido di prima, il suo corpo doveva soffrire enormemente in un ambiente poco famigliare ed esposto al sole come quello. Una fitta di sadismo, una di lusinga: da che parte stare mi dava ancora confusione. Mi guardai le mani, nel mostrarmi i palmi il coltello si rivelò d’intralcio, scivolò trascinato dalla più pesante lama, rovinò a terra. Lui si mosse. Lo vidi, lo percepii, come se si fosse contratto nel sonno, dopo la morte. La pazzia assunse il potere in me: andava fatto. Dovevo, dovevo, volevo, dovevo. Raccolsi il coltello, lo impugnai nel modo che la mia totale inesperienza mi suggerì migliore e lo abbassai verso la sua gola. Vidi la scena anche da fuori. Me con i seni scoperti, i capelli rasati, gli short di pelle nera, un sex appeal latente e rilucente di quell’improvvisata arma bianca e lui lì, spento di forza dal giorno. Esaltata da tal visione, mi chinai su di lui, nessuna frase da dire, solo un bacio umido da lasciare su quella bocca gelida. Quel tocco insapore si rivelò portatore d’incertezze, ma anche di maggiore stanchezza: era necessaria una fine per noi. Era nelle mie mani, sarebbe stata rossa, sarebbe stata romantica. Puntai il coltello sulla sua carotide pronta ad affondarlo, giusto così. Bello così, tragico per rendere onore alla sua vita che di quel senso era stata attraversata e apice della mia. E poi la sua voce:
- No, non va...Ti ho legata a me con qualcosa di più potente del sangue…-
Era tardi. Il sangue già sgorgava dall’arteria contrariando ogni legge di meccanica umana. Io guardavo con occhi sgranati lui sorridere, ridere a me, forse di me, ancora, col coltello mal ficcato nella carne. Il rosso gli correva sulla pelle, scolando tra i capelli dello stesso colore, bagnandoli, rendendo le ciocche scure e appiccicose, tra le pieghe della stoffa pozze di più fogge e dimensioni andavano formandosi, fondendosi mentre il flusso non sembrava disposto a diminuire. Mi fissava, occhi nudi di rancore che mi fecero ancor più tremare l’anima di paura. Non saprei definire ora, come allora, il suo umore. Sembrava assente anche in quel momento, nel momento che io avevo scelto per dargli la morte. Come poteva essere? Se n’avessi avuto la forza, il coraggio, se avessi saputo che non mi sarebbe costato la vita glielo avrei chiesto..ma non potei. Il terrore mi possedeva il corpo e lui era ancora più temibile nella sua muta sopravvivenza.
Si tirò a sedere, faceva fatica, era il giorno che riusciva a entrare grigiastro da oltre gli ingombri, perdeva sangue, il coltello cadde, lui lo prese. Il fiotto rosso cambiò tragitto inzuppando la camicia nera sul davanti, scivolando sui pantaloni di pelle senza quasi lasciare tracce, come fosse acqua tinta. Lui mi guardò. Il mio respirò si mozzò palesemente. Sorrise con quel frammento d’anima che, da qualche parte, doveva ancora pur risplendere. Il frammento d’anima più soddisfatto e furioso che avevo e avrei mai visto nella vita. Mi dissi: questa è stata la tua ultima stupida azione, è lui l’ultima cosa che vedrai, bellissima, ma non solo tua.
Lemures fissando il coltello sporco di lui, si coprì con fare scenico la ferita, credo che ne controllò la profondità con un dito perché poi se lo portò alla bocca e anche da lì scese un filo di sangue. Doveva essere ben strano per lui assaggiare il suo sangue, non lo desse a vedere, e anche il dolore doveva aver perso i punti di riferimento della natura umana.
E me ne stavo lì, immobile per quanto la paura me lo permettesse a guardarlo, pronta ad agire a ogni suo semplice input, trafitta dalla colpa e dell’incapacità: era ancora vivo, era ancora lì, a muoversi nell’oscurità che ormai aveva afferrato anche me.
Provai ad avvicinarmi, ad allungare le braccia verso di lui, a formulare scuse ma Lemures interruppe tutto con un semplice sguardo. Continuava a perdere sangue, un lento rivo scarlatto ormai impossibile da assorbire per la stoffa, per la pelle imbrattata. Si alzò in piedi, mi sovrastava con la sua altezza, per l’aria tremenda di mostro ferito, d’amante tradito: m’impietrì un pallido dejà-vu. Lemures mi fu addosso, il freddo del suo corpo, un odore di sangue nauseabondo, quasi il sapore in bocca, la paura più completa dei suoi occhi vuoti di tutto, ingoiati a bacchetto da ombre e tenebre, le sue mani, mai così forti, ad afferrarmi la testa, comprimendola fino a cavarne lacrime e gridolini stridenti, i suoi denti a premere sul collo, la ricerca dal punto più tenero e più soddisfacente e poi c’era stato..la mia mente aveva tentato di prepararsi al dolore che si doveva provare ma era rimasta spiazzata..non era dolore, era l’apice massimo del piacere che faceva soffrire perché lo si poteva appena sopportare e non c’era altro. Solo quello, solo quello e nelle sue spire la stanza si era smaterializzata in rettangoli scoppiati come bolle di sapone, solo quello e il corpo senza peso aveva l’unico ruolo di restare legato alla fonte del piacere, solo quello e che fosse infinito..ricordai, con quel poco di lucidità che ancora affiorava dal torpore stordente di quella lussuria, il racconto di Chester, la ragazza morta sotto il lampione al terzo incontro con Lemures..titubai però mi lasciai sprofondare: qualunque destino valeva quell’attimo..

Era successo qualcosa mentre me ne stavo a godere tra le braccia di Lemures. Era successo nel momento esatto in cui una sonnolenza pericolosa si era introdotta e aveva iniziato a trascinarmi via le forze, l’avevo avvertita chiaramente ma il piacere era ben più inebriante. Era successo qualcosa, ma cosa? Continuavo a chiedermelo, la testa in giù, stesa sul letto, fumando le sigarette di mio padre, le gambe accavallate. Mi ero ritrovata lì, ormai un’abitudine. La debolezza del risveglio era quasi del tutto svanita, restava una lieve sensazione di stordimento. Avevo deciso di aspettarlo senza muovermi ma si faceva sempre più difficile, velatamente inutile..
Era notte, la lampada riscaldava la mia stanza di una luce arancio in netto contrasto col fuori blu della finestra che avevo aperto. Faceva freddo. Volevo averne conferma, volevo sentirlo ancora addosso. Anche dalla porta entrava l’aria gelida, era chiusa a metà: il disordine le proibiva di separarmi totalmente dal resto della casa. Cerchi di fumo ondeggiavano di fronte a me per poi sparire, sbadigli e motivetti incompiuti si contendevano la mia bocca.
Sentii delle voci provenire dal salotto, voci maschili bofonchianti, camuffate inutilmente nel silenzio della sera.
Mi alzai per avvicinarmi alla porta, i due sembravano parlare concitati: il timbro dolce di uno mi sembrava proprio quello di Chester, l’altro non mi suggeriva nulla.
M’infilai un paio di jeans a sigaretta stinti e un bustino di pizzo nero, al collo quattro giri di perle false probabile dono di uno dei miei uomini: notai il morso. Due forellini profondi che davano accennata visibilità alla mia carne, li avevo visti su Shon, li avevo visti sulla ragazza morta, mi potevo ritenere infinitamente fortunata..L’attenzione tornò a sintonizzarsi su di loro per curiosa necessità di sapere. Lo specchio mi rimandava una davvero grottesca versione di me..avevo distrutto la mia femminilità a colpi di forbici, restava un maschiaccio rasato travestito da donna..mi ignorai scivolando in scarpe di vernice con tacco a spillo, rinunciai però al rossetto rosso ciliegia per non dovermi guardare riflessa..
Neppure sulla porta mi si chiarì l’identità degli interlocutori sebbene le voci arrivassero più chiare. Con noncuranza entrai nella stanza accendendo la luce. Davanti a me stavano Chester e il motociclista: l’uno seduto, in viso la stanchezza, e l’altro in piedi, sulla difensiva.
Cercai Lemures per la stanza: il divano lo ospitava ancora, seduto, il corpo però abbandonato, dormiva, un’espressione anonima.
- Buona sera..-scandii per i due vampiri coscienti, i loro occhi, per un attimo sgranati, mi resero regina della scena.
Il moro fece un passo avanti, aggressivo, Chester lo trattenne per la mano e, con voce assottigliata d’ansia, chiese:
- Stai bene?- non mi guardava, come suo solito, restava seduto con lo sguardo basso, era debole, ne fui lievemente felice.
Trattenei a malapena una risposta cinica che rimase incisa nella smorfia con cui dissi di sì.
Sembrò sollevato in un modo greve che non afferrai, probabilmente non mi riguardava per nulla..
Il motociclista continuava a fissarmi torvo, guardava per un po’ Chester e tornava a me, furente, gli sorrisi con fare innocente, nei suoi occhi si addensò una luce di rabbia pura.
Chester era disposto a controllarlo in ogni modo anche se le sue forze non sembravano intenzionate ad assisterlo ancora a lungo, era ben più pallido di sempre, si teneva una mano premuta sul collo, la fronte corrucciata parlava di un’elevata e faticosa attività celebrale.
- Mangia qualcosa, ora- mi ordinò, feci spallucce: nulla di commestibile c’era, almeno per me, in quella casa.
- Non ho la minima voglia di mangiare..- risposi come parlando tra me tenendomi le mani, l’una con l’altra, dietro alla schiena. Mi avvicinai a Lemures, l’ambiente si fece gelido di tensione, sentii lo sguardo del moro ancora più tagliente contro, sorrisi desiderosa di provocare reazioni a catena: mi sembrava di avere Discordia in corpo..
Mi accomodai sulle ginocchia di Lemures, la sua camicia era intinta di sangue rappreso che la rendeva rigida, l’odore insopportabile non si era ancora attenuato, appoggiai la testa sulla sua spalla in precisa prospettiva per vedere al meglio la ferita che gli avevo inferto: la guarigione era già avanzata, sarebbe diventata presto una lattea cicatrice e poi un bel niente..la sua bellezza, sebbene opacizzata da quel che era successo, sebbene inerme, tornava a stregarmi, a rapirmi..non era poi cambiato molto..
Gli altri due vampiri erano ancora lì, quasi invisibili, totalmente inutili, distanti infinitamente da me e lui. Il motociclista mi fu vicino in un attimo, una furia, mi prese i polsi tirandomi in piedi stringendo così forte che temetti fratture e così di sorpresa che non mi ritrovai neppure a urlare.
- A che gioco vorresti giocare, eh?! – sibilò con disprezzo e insofferenza pericolosa. Non riuscivo a guardargli il viso, gli occhi vitrei su un punto non definito del suo petto in una t-shirt nera, la morsa si faceva sempre più forte, le dita non si muovevano più ed ero attraversata da fremiti vili.
- Claude! Lasciala!- quasi urlò Chester con autorità senza muoversi dalla sua sedia. Il moro ubbidì come non sognavo e si allontanò riluttante da me con uno sguardo che prometteva lacerante vendetta..
Chester lo schernì di silenzio eloquente e gli disse:
- Aspettami fuori- con un tono che non permetteva repliche.
Lui obbedì a denti stretti continuando a fissarmi finché la porta non lo celò con fragore. Mi massaggiavo i polsi dolenti quando Chester si alzò e si spostò sul divano, al fianco di un Lemures splendido e incosciente con mio sommo disappunto.
- Ti consiglio di star lontana da Claude..il suo temperamento incenerisce- nella sua voce dolcezza mal celata e apprensione, divertimento, era e non era colui che mi aveva raccontato la sua storia tra candele, più stanco, forse, deluso. Come sempre invidiai il suo visino pulito, il suo essere pratico, lineare nei pensieri e nelle azioni, una sorta di coscienza che non si stanca mai di dare il più fulgido esempio di buon senso: dannatamente fastidioso..
Allungò le braccia su Lemures come se dovesse inglobarlo nel suo corpo, la gelosia più cocente cominciò ad aprire i suoi piccoli, lucidi occhi verdi: si era svegliata nella mia mente. Il ragazzino accarezzava il volto dell’altro con un trasporto impossibile da non notare, lo trasfigurava, rendeva i suoi occhi ancora più lucidi e fragili..Sapevo come colpirlo, come dargli tormento e sorrisi senza ritegno per questo, un punto decisamente a mio favore sempre e comunque, ma il sorriso si sfaldò: non sarebbe servito allora, quel briciolo di soddisfazione si sarebbe tirato dietro una valanga..respirai a fondo, i giri di perle mi sembrarono improvvisamente troppo stretti, il morso avvampava mentre mi richiamavo alla calma.
Sentii il suo sguardo vagamente addosso, sapevo che non voleva davvero guardarmi, curiosava nella mia direzione sempre più ostile per me.
- Non ti dirò di stare lontana anche dal signor Lemures, non servirebbe..ma ricorda bene che solo il caso e il mio senso di protezione ti hanno voluto ancora viva..- lo disse senza l’aria saccente che chiunque altro avrebbe usato e questo mi rese quelle parole ancora più ostiche, lui ancora più odioso.
Non lo degnai di una risposta, non ne avevo, non sarebbe servita mi voltai verso la cucina in cerca di qualcosa da bere con urgenza: i nervi a pezzi pregavano per un goccio forte..mi chiesi come avrei dovuto salutarlo, “addio” mi sembrò arcaico e melodrammatico e soprattutto falso, non che tenessi a lui in particolare, ma l’idea di non vedere più nessuno di loro mi apparve improvvisamente terribilmente surreale..non vedere più Lemures..inconcepibile..nonostante la fuga, i segni su entrambi, assurdo..assurdo..
- Spero tu sia pronta per tornare a casa..- mi voltai interdetta, Chester mi sorrideva a occhi chiusi porgendomi la sua mano pallida..nessun addio..mi ritrovai stretta tra i due vampiri in un abbraccio di non-vita..
  
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