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Autore: Nitrogen    16/11/2014    2 recensioni
Tornai a guardare la porta di fronte a me poggiando la testa alla mano e chiusi gli occhi: avevo la nausea e le vertigini, in aggiunta al bel quadretto c’era un mal di testa che si placava solo se smettevo di pensare. Non era facile sopportare tutti quei fastidi che avrebbero messo qualcun altro al tappeto e contemporaneamente risultare acida come se nulla mi causasse troppi problemi.
«Non sembra affatto spaventata.»
«Non ho motivo per esserlo.»
«Devo ricordarle che attualmente è detenuta in un ospedale psichiatrico?»

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Avvertenze: L'autrice di questa originale non è sana di mente, ragion per cui ha scritto una storia non adatta a stomaci deboli; violenza gratuita, linguaggio scurrile e sangue la fanno da padrone nella maggior parte dei capitoli. Siete stati avvisati.
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo XI
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Bussarono alla porta che era ancora troppo presto anche per la colazione. Mi rigirai nel letto tastando alla cieca l’interno del cuscino in cerca del quadrante ricevuto da Jonathan: erano le cinque e quaranta del mattino, un orario decisamente insolito per ricevere qualsiasi tipo di visita gradita.
Sollevai la testa dal cuscino e nascosi il quadrante nel pugno, dopodiché mi trascinai fino alla porta. Pensai fosse una guardia in quanto capitava spesso queste facessero giri di ronda e bussassero per controllare se noi pazienti eravamo ancora nelle nostre stanze; ma di fronte ai miei occhi ancora assonnati si era materializzato il dottor Mayer, che rapidamente si infilò in camera e chiuse la porta alle sue spalle, senza perdersi in convenevoli o accennare al motivo della sua visita.
«Buongiorno, dottore.»
«Non ho molto tempo per parlarti, non dovrei nemmeno essere qui.»
«Allora parli in fretta e sparisca di nuovo.»
Joshua annuì e si sedette sul materasso; io scivolai al suo fianco, incrociando le gambe.
«Ho riflettuto su quanto mi hai detto qualche giorno fa e credo tu abbia ragione.»
A quelle parole mi tornò in mente Jonathan, sicuro che il dottore avrebbe cambiato idea. Quel ragazzo era formidabile.
«Cos’ha intenzione di fare esattamente?»
Joshua allungò un braccio e mi fece una carezza: «Non devi preoccupartene, Nebraska. Pensa solo che quando tutto questo sarà finito farò in modo di portare a casa anche te, ma solo ad una condizione.»
Storsi il naso. Capivo le buone intenzioni del dottor Mayer e il suo ottimismo, ma ero ben consapevole che farmi uscire da quell’ospedale era una cosa impossibile: la polizia mi aveva trovata con chiari segni di colluttazione sul corpo, ricoperta dal sangue delle vittime e con una pistola avente le mie impronte digitali sul manico, esattamente dove era stato consumato l’omicidio. Ma lui questo non lo sapeva ancora.
Sorrisi debolmente, puntando lo sguardo sul quadrante datomi da Jonathan.
«Non può portarmi via.»
«Nebraska, fidati di me. Ti prometto che se mi racconterai tutto su quell'uomo e l'omicidio, ti aiuterò ad uscire da questo posto. Non ho ancora un quadro completo della situazione, ma anche io credo tu sia innocente… Inoltre Jonathan insiste molto affinché tu non debba restare qui per il resto della tua vita e come ben avrai capito non è di certo il tipo di persona da far pressioni senza motivo. Non avrebbe mai regalato l’unico suo oggetto personale a un paziente qualsiasi.»
Alzai la testa di scatto, spalancando gli occhi: «Lei sa qualcosa di sua sorella?»
«Non posso parlarti della sua vita personale, o almeno non di un dato sensibile come questo.» Tentai di interromperlo, ma lui continuò prima che potessi farlo. «Niente ricatti questa volta. Sai già più del necessario sul suo conto.»
«Vorrei solo sapere se ha davvero ucciso sua sorella come si dice.»
Il dottor Mayer mi guardò torvo, dopodiché si alzò e si diresse verso la porta.
«Credo tu non abbia alcuna intenzione di rivelarmi le dinamiche esatte dell’omicidio dei Collins, dunque ti restituisco al tuo attuale letto – che non è di certo più confortevole di quello che avevi nella tua stanza. Con permesso.»
Mi fiondai sulla porta per impedirgli di aprirla.
«Le avrei già detto tutto se fosse servito a qualcosa. Ma lei mi creda, non può salvarmi.»
«Lasciami provare.»
«Ero lì con la pistola in mano e ricoperta di sangue quando è entrata la polizia. Non si può fare niente.»
«Nebraska, devi raccontarmi tutto con calma e dall’inizio, senza escludere nulla, nemmeno come hai conosciuto quella persona e cosa vi dicevate o facevate di solito.» Spostò la mano dalla maniglia e me la poggiò su una spalla, con fare rassicurante. «Se davvero sei innocente, non posso lasciarti in questo ospedale, va contro ogni mio principio.»
Abbassai lo sguardo e restai in silenzio per qualche istante, scuotendo la testa. Non sarei uscita da quel posto, lo sapevo e ci avevo perso le speranze da un pezzo, ma lui continuava a sperarci perché fin troppo ottimista. 
«Allora parliamone.», dissi sollevando la testa e incrociando le braccia al petto. «Tanto quando avrò finito ammetterà che c’è ben poco da fare.»
«Questo lascialo decidere a me.»
«Lo diceva sempre anche qualcun altro e sappiamo tutti com’è andata a finire.»
Il dottore si passò una mano tra i capelli, probabilmente al limite della pazienza: «Adesso devo andare. Verrò a cercarti tra qualche giorno, così tu avrai il tempo di decidere cosa fare e io di tenere lontano da noi Hijikata e i suoi seguaci. Sei d’accordo?»
«Solo se mi esonera da tutte le sedute da alcolisti anonimi di oggi e domani.»
Mayer sorrise e mi scompigliò i capelli, dopodiché la abbassò all’altezza del volto e mi accarezzò la guancia sinistra guardandomi dritto negli occhi. Mosse impercettibilmente le labbra come se si stesse trattenendo dal dire qualcosa; sospirò appena, interrompendo il contatto oculare quasi infastidito dai suoi stessi pensieri.
«Dottor Mayer?»
Mi diede una pacca sulla spalla e mi voltò verso il centro della stanza: «Forza, torna a letto adesso.»
«Non mi faccia tanto stupida. Non era questo che voleva dirmi.»
«Ti sbagli.»
«Non credo.»
«Quanto sai essere testarda.» E non ammise replica poiché mi spinse lievemente in avanti e abbassò la maniglia. «Non creare disastri prima che arrivi io a parlarti.»
«A Jonathan hanno dato ieri due settimane di isolamento per non so quale ragione. Non deve preoccuparsi, sarò un angioletto.»
«Vorrei crederti sulla parola, ma mi è piuttosto difficile.»
Mi sorrise e si chiuse la porta alle spalle.



«Herstal.»
«Ben tornato tra noi, Cannibale.»
Io e Jonathan ci sorridemmo per qualche istante: ero sorpresa di trovarlo in buono stato – anche se piuttosto pallido e con qualche livido a storpiargli il volto – soprattutto contando che era passata a stento una settimana da quando l’avevano chiuso in quella cella: mi era giunta voce avesse azzannato una delle guardie per un non ben precisato motivo, dunque farlo tornare in libertà così presto era insolito. E mi sarebbe piaciuto dire che la sua fosse stata autodifesa o qualcosa del genere, ma in molti sapevamo perfettamente che per Jonathan ogni occasione era buona pur di movi​mentare leggermente le giornate. Se il Destino non gli dava una mano, non ci voleva molto affinché escogitasse qualcosa per interrompere la quiete di tutte quelle persone che non ascoltavano la sua verità sull’omicidio della sorella.
«Come corrono in fretta le voci...», disse continuando a sorridere, «Ti va una partita a scacchi?»
Mi guardai intorno: mi piaceva molto giocarci, ma non potevo competere con Jonathan e per tal motivo io e Candice partecipavamo come un unico giocatore. Però lei sembrava non esserci.
«Dov'è Candie?»
«Vorrei saperlo anche io.»
Jonathan era sempre stato a conoscenza di qualsiasi cosa, dai turni di Mayer al passato di ogni paziente, e mi parve insolito avesse risposto in tal modo; ma lui sembrava abbastanza tranquillo, dunque non me ne preoccupai.
«Per una volta puoi anche provare a battermi da sola.»
«Non ci riuscirò.», dissi scuotendo la testa, «Sei molto più forte di me.»
«Intelligente, non forte.»
Pignolo.
Mi sedetti sulla mia sedia e iniziammo a disporre i pezzi sulla scacchiera; stranamente, lui prese i neri e lasciò a me quelli bianchi: da quando ero lì non l'avevo mai visto giocare con i pezzi neri e credevo che un giorno simile non sarebbe mai arrivato.
«Herstal, la tua Regina è nel posto sbagliato.»
Guardai la scacchiera, precisamente il pezzo da lui indicato. Jonathan aveva invertito il Re con la Regina, senza ombra di dubbio volutamente. Quando feci per prenderla, notai immediatamente che il pezzo presentava una linea orizzontale che faceva pensare potesse aprirsi, un po’ come una matriosca.
«Non adesso, Herstal. Aprila quando sarai sicura di essere sola, dopodiché falla sparire.»
Tirò fuori dalla tasca un’altra Regina Bianca e la posizionò nella mia casella vuota, sorridendo: avrei voluto controllarla in quel momento, ma l’ordine di Jonathan fu chiaro e io obbedii senza controbattere, nascondendo il pezzo nella tasca dei miei pantaloni.
Nebraska, cambia discorso.
«Sai, Mayer vuole aiutarci davvero.»
Jonathan ruotò la scacchiera per riprendere i bianchi e sorrise spostando il primo pezzo della partita: «Quando te ne ha dato conferma?»
«Qualche mattina fa, quattro o cinque, forse.
«E cosa ha intenzione di fare?»
Feci spallucce e mossi un pezzo anche io. «Ah, non lo so. Mi ha detto che non devo preoccuparmene: immagino però voglia coinvolgere anche qualcun altro nell’impresa.»
Jonathan rimase in silenzio, concentrato sulla scacchiera e la sua prossima mossa.
«...Merda.»
Lo guardai perplessa. Sentirlo imprecare per una partita a scacchi appena iniziata non sembrava avere molto senso.
«Qualcosa non va?»
«Mi serve Mayer. O meglio: mi servite tu e Mayer.»
«Perché?»
«Herstal, chiedi a Kline di portarci da lui o che come minimo lo faccia venire qui.»
Tentai con scarso successo di calmarlo: «Ho incontrato Mayer nel corridoio prima di venire qui. Mi ha detto che sarebbe passato per portarmi in infermeria, sarà qui a breve. Non – »
«Mai possibile io debba ogni volta dare di matto per ferirmi appositamente e risolvere i problemi altrui?»
Jonathan si guardò intorno alla ricerca di un qualcosa non ben precisato – che si rivelò essere Lacy – e sorrise compiaciuto. Non era una di quelle persone che faceva qualcosa senza un motivo più che valido seppur celato, ma permettergli di avvicinarsi a Lacy per dargli un pugno e riceverne qualcuno in cambio non era decisamente una buona idea considerato che il dottor Mayer era sempre stato di parola.
«Jo... Zedd, per favore, aspetta che arrivi da solo. Quel che vuoi fare non è necessario.»
«Herstal, non farti spaccare la faccia. Questo davvero non sarebbe necessario.» Roteò gli occhi nella mia direzione, accigliato come mai l'avevo visto prima di allora. «Se Mayer parla con la persona sbagliata, chiede consiglio o non so cos'altro, tu sei morta. Nel vero senso della parola. E non nego che sfrutto la mia intelligenza molto più di voi, ma non posso prevedere se deciderà di parlare anche con Broox o se ancor peggio l’abbia già fatto.»
Mi bloccai per qualche istante, ricordando il passato avvertimento di non fidarmi di Broox. Avevo già iniziato a sospettare di lei, ma ero giunta alla conclusione che potesse essere una pedina di poco conto sotto le direttive di Hijikata; però Jonathan se ne stava preoccupando, e questo non era un buon segno.
A quel punto fece un cenno a Lacy poco distante, e quest'ultimo si avvicinò annoiato, con le solite treccine ad adornargli i capelli. Jonathan sorrise sornione.
«Amico mio, mi servirebbe un piccolissimo favore.»
«Ogni volta che inizi una conversazione così, qualcuno finisce con il perdere grosse quantità di sangue.»
«E nemmeno in questo caso ci sarà un'eccezione.» Si alzò facendo strisciare rumorosamente la sedia sul pavimento e si stiracchiò. «Puoi darmi un pugno e fare lo stesso con lei?»
«Scordatelo. Non voglio finire nei casini con te e non ho alcuna intenzione di picchiare una donna.»
«Suvvia, ne hai uccise quattro prima di finire qui dentro…»
«Ma porca miseria, non le ho mica picchiate o violentate! Sono un assassino, non un mostro!»
Scossi la testa, ridendo per l’assurdità di quell’affermazione: aveva un insolito concetto di “mostro”, ma probabilmente non me ne sarei dovuta sorprendere più di tanto.
Jonathan tornò a sedersi e, dopo una smorfia, parlò ancora. «Se non vuoi picchiare me o Herstal, prendi di mira uno qualsiasi dei pazienti che è in questa stanza. Ovviamente sono disposto a darti un compenso per la prestazione, dunque più che un favore sarebbe uno scambio.»
Lacy parve non rifletterci nemmeno e mi indicò: «Sigarette, un accendino e un’oretta con la tua protetta in una cella di isolamento.»
Lo fulminai intenzionata a rispondergli, ma Jonathan lo guardò con un’espressione infastidita e l'evidente desiderio di rompergli un braccio.
«Accontentati di una rivista porno, Lacy.»
«Rischio l’isolamento per farti questo favore, lo sai?»
«Le riviste e le sigarette ti faranno compagnia.»
«Non sperare io accetti per così poco, cazzo!»
«La vorresti, in aggiunta, una foto della tua ex moglie?»
Lacy sgranò gli occhi, dopodiché si abbassò e strinse il volto di Jonathan in una mano, furioso.
«Lei è ancora mia moglie.»
«Non passa a trovarti da mesi, e l’ultima volta che è venuta portava addirittura la fede sulla mano sbagliata.»
«Queste non sono prove a conferma di quello che dici, Zedd.»
«Ma le carte della separazione arrivate tre giorni fa in direzione sì.»
Le qualità di Jonathan, per quanto fosse intelligente e poche altre belle cose, potevano benissimo contarsi sulle dita di una mano: era un abile giocatore di scacchi, fin troppo intelligente, il miglior casinista che avessi mai conosciuto e sicuramente il bugiardo più furbo e doppiogiochista presente sulla piazza; se voleva qualcosa la otteneva, che il metodo fosse immorale o meno, poi, non importava più di tanto.
Quando Lacy si allontanò, riservai uno sguardo accigliato all’artefice di tale menzogna. Sorrideva a stesso, probabilmente compiaciuto della sua menzogna.
«Ci cascano sempre.»
«Lo dici come se fosse una bella cosa.»
«Lo è a tutti gli effetti! Non puoi capire quanto sia micidiale un serial killer del suo rango quando si infuria!»
Inclinai la testa. Mi scappò un sorriso insolitamente sadico. «Sei consapevole che quando Lacy scoprirà di questa bella bugia tenterà di ucciderti?»
«Certo, ma prima che mi incontri di nuovo passerà almeno una settimana in isolamento, e per allora troverà un modo per non farmi ammazzare.»
«Ottimista!»
«Sì. Anche io ho qualche caratteristica in comune a un normale essere umano.»
Non ebbe quasi il tempo di terminare la frase che una sedia raggiunse le sue spalle e per un pelo non gli staccò la testa dal collo. Jonathan si voltò per vedere Lacy al fianco di un inserviente terrorizzato per l’accaduto. Passò nuovamente a guardarmi.
«Avevo previsto chiedesse a qualcuno se quel che avevo detto era vero, ma una sedia nelle spalle è più di quanto chiedessi per generare un po’ di caos qui dentro.»
«Jonathan, sta per arrivare un’altra sedia.»
«Sai com’è, la gente crede io cada due volte, per di più consecutive, nello stesso errore.»
Jonathan si alzò di scatto e io feci lo stesso poiché la traiettoria della sedia prevedeva di centrare due bersagli in un colpo solo. Le guardie bloccarono Lacy, che sbraitava perlopiù parole incomprensibili per l’eccessiva foga nello sputarle fuori.
«IO TI AMMAZZO!»
«Darei una A per l’intenzione, ma una F per l’incoscienza. Lascio a te il calcolo della media.»
«BASTARDO!»
Lacy si scrollò le guardie di dosso e iniziò a correre verso di noi. Eravamo in un bel guaio, e tutto a causa delle manie di protagonismo di quel pazzo.
«Tutto questo era davvero necessario?»
«Certo che no!»
Mi afferrò il polso e, come suo solito, mi trascinò contro il mio volere verso l’uscita della sala mentre le guardie erano impiegate nuovamente a contenere Lacy; il bisogno viscerale di rendere ogni suo gesto teatrale poteva risultare assurdo e fastidioso, eppure era grazie a questo se non passavo la maggior parte del mio tempo in quell’ospedale ad annoiarmi e a pensare a casa. Non era completamente sano di mente, ma più di tanto non mi dispiaceva.
Jonathan si lanciò contro la porta dell’infermeria, aprendola e facendo saltare tutti i presenti per lo spavento.
«Mayer!»
«Ragazzo, non puoi entrare ogni volta in questo modo!»
«“Non puoi”, “Non devi”… Bla, bla, bla. Ci sono cose di cui dobbiamo discutere assolutamente, quindi al diavolo le buone maniere.»
Attraversò la stanza e raggiunse l’ufficio di Mayer dove si sedette poggiando i piedi sulla scrivania; l’infermiere mi guardò, sospirò e mi fece cenno di seguire l’esempio del mio compagno di sventure.
«Ho l’impressione Nebraska ti abbia detto qualcosa.»
«Io invece ho la brutta sensazione lei abbia parlato con qualcuno di quello che vuole fare per mandare via Hijikata e forse portare fuori Herstal.»
Mayer si limitò ad annuire; Jonathan esplose una frazione di secondi dopo, scattando dalla sedia.
«Non Broox, la prego, non Broox!»
«Jonathan, non giungere a conclusioni affrettate! Ne ho parlato solo con Kline, Crystal e la Dottoressa Lee.»
«Solo con loro? Broox…»
«Non dovrebbe sapere niente, ho chiesto anche a loro di evitarla. Adesso, però, sarebbe il caso tu mi spiegassi perché tutto questo mistero su di lei.»
Jonathan passò le mani tra i capelli e si sedette nuovamente, trattenendo per qualche attimo il respiro. Sospirò senza emettere suono, aveva lo sguardo perso nel vuoto come se qualche ricordo gli fosse appena passato davanti.
«Jonathan?»
«Qualcosa non torna. Dannazione, non ci capisco niente!»
I suoi pugni batterono contro la scrivania, facendomi arretrare leggermente con la sedia per timore di un ennesimo scoppio d’ira di Jonathan.
«Quella donna è venuta nella mia cella di isolamento insieme ad altri due uomini. Credevo fosse lì solo per controllare come stessi, verificare lo stato delle mie ferite… Dopotutto non si è mai comportata male nei confronti di nessuno, e che di lei non ci si potesse fidare era solo un mio sospetto dettato dall’istinto. Volevo togliermi al più presto questo pensiero dalla testa, Candie è la sua ombra per questo.»
Ripensai alla prima volta che avevo visto entrambe: sembravano così unite, ero convinta si volessero bene sul serio, ma dopo le parole di Jonathan tutti i miei ricordi con loro iniziavano ad avere una nota dal retrogusto amaro.
«Dunque Candie non tiene a Broox? È tutta una falsa?»
«La ragazzina non parla, è piccola, carina e in apparenza pare una delle persone più innocenti del mondo. Nessuno penserebbe mai che invece è perfettamente in grado di mentire e che ha falsato i risultati del proprio testi dell’intelligenza per risultare più stupida. Una “spia” perfetta.»
Jonathan storse il naso: «Così però le fai credere io usi Candie. Chiariamo: tengo a quella ragazza più della mia stessa vita e venderei la mia anima al diavolo pur di vederla in un posto migliore di questo. Le ho chiesto di fare questa cosa e lei ha accettato spontaneamente.»
«Sì, va bene, ma non è di Candie che dovevamo parlare.», dissi prima che la discussione si perdesse in precisazioni inutili, «Broox è passata per la B7, e poi?»
«E poi è accaduto quello che meno mi sarei aspettato da lei: mi ha fatto bloccare dai due inservienti e mi ha assestato diverse volte il tirapugni di Hijikata in faccia. Inizialmente non ho reagito, ero troppo… stupito per fare qualcosa. Quando ho compreso che aveva tutte le intenzioni di ridurmi a uno straccio ho iniziato a difendermi, ma con discreti risultati.» Passò una mano sul volto, dove era visibile ancora un livido, e lo sfiorò appena. «Ripeteva che è colpa mia, che sono un lurido verme e ho rovinato tutto, che l’avrei pagata cara. Quando mi hai detto delle intenzioni di Joshua ho pensato che Broox avesse saputo tutto e se la fosse presa con me in preda all’ira; ma se le cose non stanno così vuol dire che qualcuno di quelli che reputavo fidati non è dalla nostra parte.»
«Oppure che l’ha origliato in qualche modo.», intervenni.
«Qualche mattina fa sono finalmente riuscito a parlare con il nuovo direttore di questa assurda situazione. Avevo chiesto di non rendere il tutto una questione di stato, ma è probabile che qualcosa sia già trapelato sulle future mosse del Direttore. Broox avrà capito che ormai è tutto finito e non sapendo con chi prendersela si sarà sfogata su di te.»
Io e Jonathan ci guardammo: entrambi eravamo certi di aver sentito bene, di aver capito con esattezza quel che Mayer aveva detto, eppure per qualche istante dubitammo di noi stessi.
«Mi faccia capire bene: lei è riuscito a – »
«Non volevo ancora dirvelo perché non sono stati nemmeno ancora sospesi dal servizio, ma il nuovo direttore è una brava persona, Nebraska… È quasi sicuramente tutto finito. Né Hijikata né chiunque altro a breve potrà più farvi del male. Non sono stati abbastanza accorti da eliminare ogni traccia delle loro malefatte e Kline mi ha detto che alcune delle videocamere di sorveglianza possono dimostrare quanto c’è di marcio in quest’ospedale.»
Sono cosciente che quella non era la soluzione a tutti i miei problemi, ma era comunque una piccola vittoria che ci avrebbe permesso, nel migliore dei casi, di avere una permanenza nell’ospedale di certo migliore di quella che avevamo avuto fino a quel momento, e lo stesso pensava anche Jonathan. Sorrideva appena, ma i suoi occhi erano pieni di gioia ed era chiaro stesse cercando di restare calmo dopo quella bella notizia.
«Appena lo diremo a Candice farà i salti di gio– »
Le parole di Jonathan furono brutalmente interrotte dalla suoneria del cellulare di Mayer, fino a quel momento rimasto indisturbato sulla scrivania.
Il dottore guardò l’aggeggio elettronico, ne lesse il nome sul display e ci fece cenno di far silenzio. Non disse nulla per far comprendere a chiunque fosse dall’altro lato del cellulare che stava ascoltando, premette solo il verde e attese. Si sentì qualche fruscio provenire dal cellulare, indecifrabile per me e Jonathan a causa della distanza, dopodiché un urlo costrinse il dottore ad allontanare il cellulare dall’orecchio.
Mi alzai, avvicinandomi a Mayer per origliare quanto ancora restava da dire alla persona dall’altro lato del telefono: «…un accordo che tu non hai rispettato. Non te ne meravigliare, Joshua. È quello che meritate.»
Hijikata attaccò il telefono e Mayer iniziò a muovere rapidamente gli occhi nel vuoto, con il respiro mozzato e i pensieri persi a recepire, probabilmente, le parole dette da quel mostro.
«Voi due restate qui, mi sono spiegato?»
«Cosa sta succedendo, dottore?»
«Non adesso. Resta qui e non far uscire Jonathan.»
Tirato in causa, si alzò di scatto e intervenne: «Ah, no, se vuole che resti buono qui dentro dovrà darmi delle valide motivazioni.»
«Se ti spiegassi perché preferirei non mi seguissi, faresti il possibile per fare l’esatto contrario. Per favore, Jonathan, non uscire dal mio ufficio.»
Jonathan tornò a sedersi come apparente segno di resa, ma sia io che il dottore lo conoscevamo abbastanza da sapere che nel giro di qualche minuto avrebbe cambiato idea; per tale motivo, uscendo, Mayer fece in modo di chiuderci dentro.
«Figlio di puttana!», urlò sbattendo i pugni contro la porta. Aveva messo a soqquadro la stanza, ma di altre chiavi non ce n’era nemmeno l’ombra. «Per quanto è vero che non ho ucciso mia sorella, gliela farò pagare non appena uscito da qui.» 
«Prendersela con la porta non servirà a farci uscire, a meno che tu non sia davvero abbastanza forte da sfondarla.»
«Io, a differenza tua che ti sei comodamente seduta dietro la scrivania, sto almeno cercando una soluzione.»
«Se invece di dar libero sfogo al tuo istinto animale usassi il bel quoziente intellettivo da 132 che ti ritrovi, avresti già pensato di contattare qualcuno con il cellulare di Mayer.»
Sollevai il telefono, sorridendo sorniona, e lo sentii imprecare sottovoce prima di avvicinarsi.
«Chi hai chiamato?»
«Kline, che però non ha risposto e mi ha inviato un messaggio chiedendomi cosa volessi. Gli ho scritto che Hijikata ha chiuso Mayer nell’ufficio. Arriverà a momenti.»
Jonathan imprecò ancora, dopodiché aspettò con ben poca pazienza che l’unica nostra speranza arrivasse per tirarci fuori da quell’ufficio. Era in ansia, divorava le unghie già distrutte a dovere agitando la gamba destra; stava valutando ogni possibile motivo di quella telefonata, eppure nulla di quello che aveva pensato era ciò che effettivamente stava accadendo oltre quelle quattro mura.
«Avrei dovuto immaginare che eravate voi due!»
«Kline! Scusaci, ma dovevamo assolutamente uscire da qui.»
«Scommetto che non è nemmeno stato Hijikata a – »
«Herstal, non perdiamo tempo!»
Jonathan uscì di corsa dell’ufficio, scostando malamente Kline dall’uscio della porta. Avrei voluto non risultare tanto ingrata da seguire Jonathan senza spiegare nulla, ma avevamo già perso troppo tempo e non sapevamo ancora cosa stesse accadendo. Una sola cosa era certa: se Mayer aveva deciso di bloccarci lontano dai guai, probabilmente era diretto nell’unico posto dove sia io che Jonathan entravamo malvolentieri.
Aprii la porta dell’ufficio di Hijikata, trovando lui e Mayer in preda a una discussione accesa.
«Guarda un po’ chi si rivede…»
«Andate subito via!», urlò il dottore, «Non è qui che dovreste essere!»
«Anche voi come Joshua vorreste sapere chi urlava dal mio lato del telefono, non è così?»
Digrignai i denti: il suo falso sorriso nascondeva del sadico divertimento e mi irritava più della soda caustica a contatto con gli occhi.
«Non resterai in quest’ospedale ancora per molto.», biascicai.
«Questo non vuol dire che io non possa andarmene senza togliermi qualche piccola pietra dalla scarpa. Se devo finire in carcere per il resto della mia vita, vorrei almeno fosse per un motivo che reputo valido… Non per un video di sorveglianza che mi riprende mentre taglio la lingua a qualcuno.»
A quel punto Hijikata tentò di avvicinarsi alla sottoscritta, ma Jonathan si contrappose tra di noi come a volermi proteggere: «Tu sei pazzo, completamente pazzo. Che cosa stai architettando?»
«È troppo tardi per fare qualcosa. Avete già perso.»
Scossi la testa, spostando Jonathan per vedere in faccia quel mostro: «Perso a cosa?»
«Mi dispiace doverlo annunciare in tal modo, ma una vostra pedina è appena stata mangiata.»
E non guardò me che gli avevo posto la domanda, ma Jonathan: sembrava lo stesse penetrando da parte a parte con lo sguardo, che godesse nel vedere l’espressione di rabbia del mio più fedele amico in quell’ospedale mutare in una di puro terrore, in una sottospecie di panico forzatamente contenuto.
«No, no, no. Tu… Tu non puoi davvero averlo fatto… Nessuno riuscirebbe a fare una cosa simile a – »
«Ti consiglio di controllare la sua stanza, Jonathan, ma non ti assicuro riuscirai a salutarla prima che esali il suo ultimo respiro.»
Lanciai un fugace sguardo a Mayer per fargli comprendere le mie intenzioni e trascinai Jonathan fuori da quell’ufficio; era rimasto paralizzato al suo posto, incapace anche solo di muovere un muscolo, e senza la mia iniziativa non avrebbe avuto la forza nemmeno di raggiungere quella minuscola camera d’ospedale.
Come tante altre, nemmeno quella differiva molto dalla mia, eppure il disordine presente in essa lasciava chiaramente intendere che vi fosse stata una lunga lotta tra due o più individui e che il risultato finale non era stato dei migliori: i diversi disegni appesi in precedenza alle pareti erano stati strappati, i pochi oggetti che era concesso tenere ad ognuno di noi abbandonati al suolo quasi distrutti, il letto sfatto mostrava le vecchie lenzuola irrimediabilmente macchiate dell’unico colore che fossi mai riuscita ad odiare. Al centro della stanza, poi, vi era raggomitolato un piccolo, esile e pallido corpo, disteso in una pozza di sangue fin troppo ampia per far sperare che tutto potesse risolversi nel modo migliore.
Jonathan si inginocchiò nella pozza di sangue di Candice, stringendola a sé e chiamando il suo nome più e più volte. Tentava, in un gesto disperato e dettato dall’istinto, di bloccare la fuoriuscita di sangue dallo stomaco della ragazza premendogli una mano contro, spingendo il liquido cremisi dentro come se potesse servire a qualcosa.
Candice riuscì appena ad aprire gli occhi per rivolgerli a Jonathan; sorrideva ancora seppur debolmente, e una lacrima le rigò il volto.
«Candie, perdonami…»
Lei sorrise e un flebile sussurro si fece largo nella stanza: “Non è colpa tua”.
«Io… Dovevo proteggerti, te l’avevo promesso. Almeno te, dovevo salvare almeno te…»
Candie tentò di stringersi ancora di più a Jonathan, di raggiungere il suo orecchio per bisbigliare qualcosa che non mi fu mai detto e che io non chiesi nemmeno.
La morte di Candice fu uno dei momenti peggiori della mia vita: rivedevo me stessa in Jonathan, sovrapponevo quello che avevo vissuto con Christian e il resto dei Collins alla sua immagine.
Cullava Candice dolcemente, l’accompagnava verso la fine come avrebbe fatto un qualunque buon fratello con sua sorella. Le parlò, seppur in lacrime e completamente distrutto da quanto stava vivendo, fino a quando non esalò il suo ultimo respiro e la dondolò ancora tra le sue braccia.
Per quanto avrei voluto farlo, non mi avvicinai nemmeno per un attimo a loro: restai sull’uscio della porta ad assistere a quella scena per i pochi minuti che servirono affinché Candice smettesse di soffrire. Amavo quella ragazzina, ma sapevo che Jonathan teneva a lei molto più di me e cercai di contenere la mia sofferenza che lentamente si tramutava in quella che mi parve rabbia e che, tutto d’un tratto, mi resi conto fosse un sentimento provato ben poche volte in tutta la mia vita.



 

«C’è una sola cosa che non farei mai.»
«E sarebbe?»
«Vendicarmi. La vendetta sembra non portare mai a nulla di buono.»
 «Non ti sbagli, Nebraska, ma per alcune persone la vendetta è l’unica cosa che può farli sentire ancora vivi.»
«Ma la vendetta non fa altro che distruggere, come può far star bene una persona?»
Lui sospira.
«Un giorno lo capirai da sola.»




Sentii la voce di Jonathan entrare in quel ricordo, distruggendo l’immagine di Lui che avevo figurato davanti ai miei occhi.
«Herstal! Dietro di – »
Poi, il vuoto.



 




──Note dell'autore──
Lo so, lo so, è di nuovo passato un mese o più dall'ultimo aggiornamento. Ho il capitolo pronto da un pezzo, ma non avendo Internet a casa al momento ho dovuto aspettare che qualcuno mi concedesse di utilizzare la sua connessione (e anche il pc).
Sì, è passato un mese e io vi ringrazio per la pazienza con un capitolo del genere, facendo morire ancora una volta qualcuno: vi può sembrare cattivo da parte mia far fare una brutta fine a uno scricciolo tanto carino come Candice, ma era una cosa in programma fin dalla creazione del suo personaggio, e penso che i più ci saranno anche arrivati da un po'.
Per quelli che non comprendono il mio gesto (e restando in tema) rispondo solo dicendo che sì, era necessario al fine della storia. Spero solo possiate perdonare questa mia azione (anche se in realtà sarebbe di Hijikata): mancano solo due/tre capitoli al termine di Mental Disorder, pazientate ancora un po' e dopo potrete riservarmi lo stesso destino di Candie.

Dimenticavo: volevo davvero ringraziare di cuore tutte le persone che mi seguono e mi supportano (specialmente una delle mie fan più sfegatate nonché mia carissima amica Giulia), perché se non fosse per loro probabilmente la stesura di Mental Disorder andrebba a rilento. Incrocio le dita nella speranza di terminare la storia entro la fine di Dicembre affinché possa iscriverla agli Oscar EFPiani, anche se dubito fortemente di vincere in quanto quello che scrivo non piace più di tanto alle persone.
Grazie comunque per quello che fate. Vi sono debitrice.


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「Nitrogen」
   
 
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