IX.
No place
like London
La Londra del diciannovesimo secolo non era
molto lontana dalla città che, quasi cent’anni prima, aveva descritto William
Blake nella sua famosissima poesia.
Nonostante la straordinaria opera
ingegneristica di Bazalgette, che fornì la città di
più di duemila chilometri di tubature, il sovraffollamento portato dal continuo
sorgere e fiorire di nuove industrie metteva a dura prova il sistema fognario
del luogo: le acque nere filtravano a più riprese attraverso la pavimentazione
cittadina, riversandosi nelle strade e insozzando le acque già imputridite dai
resti delle fabbriche del Tamigi. Il cielo era grigio per i fumi che
fuoriuscivano costantemente dalle ciminiere, le persone viaggiavano a testa
bassa per non leggere negli occhi dei passanti la stessa disperazione che
albergava nei loro cuori, la povertà delle classi lavoratrici strideva in
maniera sempre più evidente con l’opulenza delle classi più elevate.
Il cambiamento era nell’aria: Darwin stava
aprendo gli occhi al mondo sull’origine dell’uomo con la sua opera; Dickens denunciava
i mali dell’epoca. Il tasso di crimini violenti giunse picchi mai neppure
immaginati, sfruttamento minorile e prostituzione appestavano la città… e Sherlock
non avrebbe desiderato trovarsi in un posto diverso per niente al mondo.
Fu in uno dei vicoli più malfamati e corrotti
della città che il Demone orbitò sé stesso e John quel giorno: un budello
maleodorante incastrato tra due edifici alti, i cui mattoni erano neri e
untuosi a causa delle esalazioni delle fabbriche vicine. Lo aveva selezionato
accuratamente, sicuro in virtù delle sue proprietà che non sarebbe stato
affollato da passanti tendenti a terrorizzarsi se posti davanti allo spettacolo
di due uomini che comparivano dal nulla.
Sherlock e John si materializzarono insieme, il
secondo ancorato al braccio del primo come se ne andasse della sua stessa vita.
Lo aveva avvertito, il Demone, mentre disegnava con le dita gli strani simboli
che avrebbero permesso loro di orbitare, che smaterializzare il proprio corpo
poteva provocare un forte senso di nausea… oltre ad avere la fastidiosa
controindicazione di arti che non si ri-materializzavano
dove avrebbero dovuto. Quella volta John fu fortunato, e all’atterraggio
ritrovò al suo posto tutto ciò che gli apparteneva. Per quanto riguardava la
nausea, invece…
“Mentre tu finisci… quello…” gli disse Sherlock,
gesticolando selvaggiamente nella vaga direzione in cui John, in ginocchio,
stava svuotando il contenuto del suo stomaco nello sporco accumulato nel
vicolo, “…io mi procurerò qualcosa che ci sarà utile. Non muoverti da qui.”
Un conato particolarmente forte impedì a John
di sputar fuori un ‘E come dovrei fare a muovermi secondo voi?’. Il suono umido
di cibo semi-digerito vide Sherlock portarsi una mano al volto, per proteggersi
dal fetore acidulo che riempì l’aria. Il Demone si aggiustò la sciarpa attorno
al collo, sollevando il colletto dello scenografico cappotto nero che aveva
scelto di indossare per l’occasione. Sparì nelle strade di Londra, lasciando
John solo nella sua miseria.
“John
Watson, sei sopravvissuto ad anni di studio disperato…” rifletteva
amaramente, mentre gli spasmi del suo stomaco lo piegavano in due, “…sei sopravvissuto all’Afghanistan. Ma
questo… questo è troppo anche per te.”
Espulse un’ultima, bruciante boccata di bile,
prendendo un lungo respiro che gli fece cigolare i polmoni. Tastò con la mano
destra le tasche di pantaloni e giacca, alla disperata ricerca di un fazzoletto
con cui pulirsi la bocca: ne portava sempre uno con sé, non poteva mai sapere
quando lui o Hamish ne avrebbero avuto bisogno.
Il problema in quel frangente era che quelli che
aveva indosso decisamente non erano i suoi vestiti. Appartenevano a qualcun
altro, a qualcuno con un fisico molto diverso dal suo: era chiaro dal modo in
cui i pantaloni stringevano i suoi fianchi, o le maniche di giacca e camicia
gli pendevano sulle mani senza speranza. Mrs. Hudson aveva certo fatto del suo
meglio… ma, se come John pensava, quei vestiti erano una proprietà di Sherlock,
ci sarebbe voluto un miracolo per farli calzare alla perfezione su di lui.
Traditore, un intenso rossore si fece strada
sulle sue guance: John si rifiutò di attribuirlo all’idea di aver indosso gli
indumenti del Demone, convincendosi invece che fosse una reazione del suo corpo
al malessere di poco prima.
Proprio mentre si rassegnava all’idea di
detergersi la bocca con il dorso della mano, un fazzoletto rosa bordato in
pizzo invase la sua visione periferica. Un’ondata di gratitudine sommerse il
cuore dell’uomo, che allungò la mano verso il prezioso pezzo di stoffa,
sollevando al contempo gli occhi per vedere in faccia il suo angelo custode
personale. Il suo sguardo fu catturato dal volto impassibile di una splendida,
giovane donna dagli occhi verdi.
“Avete bisogno di una mano, signore?”
La voce della giovane era melodiosa, resa
esotica da un accento che John trovò impossibile collocare geograficamente; i
suoi capelli ricadevano in morbide onde castane sulle sue spalle sottili… e
John la stava decisamente fissando. Molto, molto male.
Si trovò a dover formulare una risposta
all’innocente domanda della bella sconosciuta al più presto, per evitare che si
accorgesse della tangente che avevano imboccato i suoi pensieri.
Purtroppo per lui, tutto quello che riuscì a
trapassare la barriera delle sue labbra fu un alquanto atono “Ahafahmmm.”
Si sarebbe preso volentieri a schiaffi da solo.
Il suo penoso exploit sembrò non turbare la
giovane più di tanto. Rispose all’evidente imbarazzo di John con un sorrisino
che in tanti avrebbero definito affilato, e che a lui sembrò soltanto adorabile;
con un grazioso movimento sventolò il fazzoletto davanti a John, che stavolta
lo afferrò senza esitazioni e se lo passò sulle labbra. Un delicato profumo di
zenzero gli attaccò le narici.
Sorrise riconoscente alla donna. “Non so come
ringraziarvi.” le disse, piegando il fazzoletto in quattro e stringendolo tra
le mani, “Mi dispiace soltanto di aver sciupato un così bel pezzo di stoffa…”
“Non temete, John Watson. Ne ho a bizzeffe, e di
egualmente graziosi.”
Sentendo quel nome sulle labbra di una donna
che non aveva mai incontrato in vita sua, John si congelò sul posto. Il suo
istinto scalciò con furore dentro di lui gridando ‘pericolo’, e un flusso
prepotente di adrenalina gli fece pulsare le tempie. Quando guardò di nuovo la
sconosciuta, lo fece in veste di soldato forgiato su campi di battaglia
sanguinosi.
“Come sapete il mio nome?” domandò autoritario,
le sue labbra ridotte a una severa fessura alla vista della lieve piega
divertita che presero gli occhi della sconosciuta alle sue parole.
La donna non gli rispose, ovviamente. Scosse
semplicemente la testa, estraendo un foglietto di carta dalla scollatura
dell’abito dal taglio severo che indossava. Lo porse a John, e per un attimo
l’uomo ebbe la tentazione di non prenderlo. La granitica impassibilità che
aveva assunto il volto della giovane che aveva di fronte lo informò che quella
non era un’opzione vagliabile.
Il foglietto di carta risultò essere un
biglietto a lui intestato, scritto in una calligrafia sì chiara, ma anche
alquanto antiquata. Faceva pensare a John agli antichi tomi copiati a mano da
un monaco amanuense, ai tempi in cui la parola scritta aveva ancora il valore
di un gioiello.
“Dottor Watson.
Mi trovo nella fastidiosa posizione di aver necessità di incontrarvi in prima
persona, e al più presto. La donna che vi ha consegnato questa nota vi
accompagnerà nel luogo previsto per tale, spiacevole incombenza. Confido in
quel minimo di intelletto che la vostra professione mi fa sperare che abbiate
affinché non opponiate resistenza e facciate come vi viene richiesto. Potrei
minacciarvi, ma sono certo che la situazione vi sia sufficientemente chiara.
M.H.” recitava, e nel
leggerlo John sentì la crescente pulsione di esplodere in un’amara risata. Chi
era questa persona che aveva bisogno di incontrarlo? Come sapeva che proprio
quel giorno John sarebbe stato in quell’esatto, nauseabondo vicolo di Londra? E
soprattutto… riteneva forse che sarebbero bastate quattro parole minacciose su
uno stupido pezzo di carta per intimidirlo?
Se sì, evidentemente non aveva la minima idea
di con chi avesse a che fare. Si alzò da terra con fare sprezzante, impugnando
il bastone a mo’ di spada. Quello che vide nel viso della giovane che fino a
qualche minuto fa aveva considerato attraente gli fece pensare, però, che
quelle intimidazioni non fossero poi così vuote.
Perché nessun essere umano, il Dottore ne era
certo, aveva occhi di quella minacciosa tonalità di carminio; perché le labbra
ritirate della donna mostravano una fila di denti aguzzi come rasoi.
“Un
Demone, anche lei…” concluse subito
John, non abbandonando la posizione difensiva che aveva assunto, “…e ora, che faccio?”
Per quanto ne sapeva, seguire quella
sconosciuta verso l’ignoto sarebbe potuto equivalere a marciare verso la
propria morte. Non si interrogò più di tanto riguardo il significato
dell’accelerazione che i battiti del suo cuore subirono al solo pensiero. Il Dottore
soppesò le sue opzioni per una decina di minuti… finché non si rese conto che
di opzioni, realmente, non ne aveva.
“Fate strada, dunque.” Esclamò distaccatamente,
accartocciando il biglietto e infilandolo nella tasca del panciotto.
La donna annuì gravemente, rinfoderando le
zanne e incamminandosi nel vicolo con andatura eterea. John si ricordò che Sherlock
gli aveva ordinato di non muoversi da quel luogo per nessuna ragione al mondo.
Sperò che non se la prendesse troppo per quella
sua disubbidienza.
***
Il luogo in cui la donna lo condusse aveva
tutto l’aspetto di un magazzino industriale abbandonato da tempo immemore. La
costruzione, costituita da un ammasso decadente di travi metalliche e mattoni
che sembrava stare in piedi per miracolo, era collocata al centro di un
quartiere periferico in cui John, nei suoi lunghi anni di vita Londinese, non
aveva mai avuto il dispiacere di mettere piede. Tutto, dalle bancarelle che
presentavano ai frettolosi passanti i loro unti cartocci di cibo fino ai
cenciosi capannelli di mendicanti che imploravano per qualche sterlina ai lati
della strada, trasmetteva un senso di disperazione che faceva torcere le
budella al giovane medico.
A preoccuparlo più di ogni altra cosa era il
fatto che nonostante quel particolare luogo fosse attraversato da un flusso
continuo di persone, e la stessa natura deteriorata dell’edificio rendesse
impossibile non posarvi sopra lo sguardo, nessuno sembrava percepirne la
maestosa presenza.
Gli occhi di nessuna di loro indugiavano su
quello che restava delle sue pareti scure. Nessuno dei loro passi valicò
l’invisibile barriera che sembrava ergersi tra quella costruzione e il resto
del mondo.
L’interno, quando John vi fu condotto dalla sua
granitica guida, risultò se possibile ancor più fatiscente dell’esterno.
Constatava di una sola, immensa stanza, il cui pavimento ligneo era ricoperto
da uno strato di polvere così spesso che, ogni volta che i piedi della donna che
camminava davanti a lui vi si posavano, una leggera nuvoletta di quella
lanuggine si sollevava per posarsi strategicamente sul naso del Dottore, causando
una serie di starnuti. Ognuno di essi, così come ogni strascicato passo
dell’uomo sul pavimento irregolare, erano seguite dai grugniti infastiditi
della sconosciuta: quando lei si congedò, ordinandogli di attendere al centro
esatto della sala l’arrivo del fantomatico M. H. che lo aveva convocato, John
provò un incommensurabile sollievo…
“Dottor Watson.”
…destinato ahimè ad avere vita breve. John
irrigidì la schiena, puntò i piedi e serrò la mascella; per l’ennesima volta in
soli due giorni, le sue mani scattarono al suo fianco per poi stringersi a
pugno attorno all’assenza della sua rivoltella. Trattenendo il fiato, osservò
l’imponente uomo che, facendo dondolare con nonchalance uno scuro ombrello
dall’impugnatura a forma di teschio dorato, stava camminando verso di lui. E
che, a quanto pareva, conosceva il suo nome.
“Molto scenografico, tutto questo.” Non si poté
impedire di esclamare John, tagliente come il vetro, mentre percorreva con gli
occhi lo smisurato perimetro della sala, “Anche se non ho idea di quale motivo
vi abbia spinto a farmi venire fin qua.”
Lo sconosciuto si fermò a pochi passi da lui, e
John fu costretto ad alzare il mento per poterlo guardare negli occhi. C’era un
che di familiare, in quell’insolita tonalità di grigio, ma non abbastanza
familiare da far suonare un campanello nella mente del Dottore. John registrò i
tratti somatici dell’individuo, dal naso adunco all’incipiente stempiatura, e
decise che indipendentemente dal modo in cui si erano incontrati non avrebbe
mai potuto provare per lui e per l’altezzosità che emanava che antipatia e
fastidio.
Quando poi lo sguardo dell’uomo si posò sulla
gamba di John, e gli angoli della sua bocca scattarono appena verso l’alto, il
Dottore sentì la rabbia ribollire dentro di lui.
“La gamba deve farvi male.” lo sentì esclamare,
stringendosi nelle spalle al suono lievemente nasale della sua voce, “Sedetevi.”
L’uomo agitò elegantemente una mano, e proprio di
fronte a John si materializzò un imponente seggio di legno nero, sulla cui
superficie lucidi volti contorti in espressioni di angoscia e terrore si
alternavano a mani tese in una muta richiesta di soccorso congelata nel tempo.
Il Dottore lo osservò per trenta secondi buoni, incapace di staccare lo sguardo
da un oggetto che - a meno che improvvisamente John non avesse sviluppato problemi
di vista, e così non era - quando era arrivato non era in quel luogo.
Sospirò, passandosi una mano sulla faccia: una
vita intera passata a negare l’esistenza del sovrannaturale, e in due soli
giorni aveva incontrato più Demoni di quanti ne avesse descritti Dante
Alighieri nella sua opera. Nessuno avrebbe potuto convincerlo che qualcuno in
grado di far comparire una sedia dal nulla fosse un essere umano.
John rafforzò la stretta sull’impugnatura del
bastone. “Non voglio sedermi.” Affermò, sperando che la sua voce risuonasse
risoluta come lo era il suo spirito.
Il Demone sconosciuto inclinò appena la testa,
guardandolo con curiosità.
“Non sembrate molto spaventato.” osservò, e
John fu certo di sentire una punta di stupore nella sua voce,
“Non sembrate molto spaventoso.” ribatté
allora, gonfiando il petto per risultare minaccioso.
Non ottenne il risultato sperato: il suo
interlocutore infatti rovesciò la testa all’indietro, in una risata roca e
stentorea. Quando lo guardò di nuovo, nei suoi occhi bruciava una scintilla
beffarda.
“Non so se definirvi più coraggioso, o stupido.
Anche se francamente credo che il contorno tra le due cose sia tanto labile da
essere inesistente.” dichiarò, facendo scomparire la sedia in uno sbuffo di
fumo rosso.
John si morse la lingua, pronto a ribattere, ma
lo sconosciuto fu più rapido di lui nell’esclamare:
“Dovete stare il più lontano possibile da
Sherlock. Intesi?”
Per un attimo tutto ciò che fu possibile udire
fu il neppure troppo remoto brusio di strada che penetrava dai vetri rotti
delle finestre. Poi, John emerse dal suo stato di stupore e riuscì a
balbettare:
“Come, prego?”
“Lontano. Da lui, dal Castello, da Castlecross.
Se foste d’accordo a emigrare in un altro Stato non mi opporrei di certo.”
John deglutì, sicuro di non aver compreso bene.
Fece rapidamente mente locale, il tutto con l’intento di pianificare al meglio
le sue prossime parole, la certezza di avere a che fare con un individuo che
non solo conosceva Sherlock, ma in qualche modo era anche a conoscenza del fatto
che lui e il Demone fossero in qualche modo legati che si faceva strada nella
sua coscienza.
“Perché?” fu la prima cosa che gli venne in
mente di chiedere, e anche lui in tutta sincerità era consapevole che non
avrebbe dovuto essere così; c’erano mille domande che avrebbero dovuto
balenargli in mente prima di quella, ma al momento la necessità di un suo
allontanamento era la questione che gli premeva di più.
L’espressione infastidita che sbocciò sul volto
del Demone di fronte a lui quando rispose - e che faceva sembrare che avesse
assaporato qualcosa di terribilmente aspro - fu impagabile.
“Sherlock tende ad affezionarsi ai suoi
giocattoli…” gli disse, accennando nella direzione di John con gli occhi e
provocando nell’uomo una scintilla di furia, “…e si inquieta sempre, quando
alla fine si rompono.”
Probabilmente non fu il contenuto di quel
discorso a far scattare John, quanto il tono pregno di supponenza e disgusto
con cui furono pronunciate quelle parole. Fatto sta che l’uomo coprì in pochi,
affrettati passi la distanza che lo separava dal Demone che incombeva su di
lui, per poi afferrare quel ridicolo fazzoletto di seta rossa che gli cingeva
il collo.
“Non sono un oggetto con cui giocare, e non mi
rompo così facilmente!” ringhiò, scoprendo i denti con fare minaccioso.
Non poté purtroppo assaporare troppo a lungo
l’espressione di amareggiato stupore che attraversò il volto del suo
oppositore, perché in un istante la donna che lo aveva accompagnato in quel
luogo si era parata davanti a lui, colpendolo al petto con forza tale da
spedirlo diversi metri indietro.
John si riparò con le mani, boccheggiando tutta
la sua sorpresa. Della bellezza che aveva ammirato la prima volta che aveva
posato gli occhi sulla sconosciuta, non restava che una pallida ombra celata
dietro una maschera fatta di zanne grondanti veleno e artigli affilati come
rasoi.
“Non fare un altro passo.” gli sibilò contro la
donna, mortale, e il Dottore era sicuro che lo avrebbe azzannato se non fosse
stato per la pallida mano che, prontamente, si era posata sulla sua spalla
sottile.
“Anthea. Calmati. Sono sicuro che il Dottor
Watson non aveva cattive intenzioni.” esclamò mellifluamente il Demone, la cui
calma strideva in maniera insopportabile con il caos che era appena scoppiato,
“Voleva intimidirti…” rispose la donna - Anthea
- debolmente, struggendosi nel tocco di quella mano con un miagolio,
“E sappiamo entrambi che oltre a tentare,
avrebbe potuto fare ben poco. Vero, en aziazor[1]?”
La donna annuì, lanciando a John un ultimo
sguardo di fuoco. Rinfoderò i canini, nascose le mani dietro la schiena, e con
fluidità si portò al fianco del possente Demone… il quale, intanto, indossava
un’espressione tanto soddisfatta da nauseare. John, dal canto suo, non poteva
fare altro che posare lo sguardo alternativamente su uno o sull’altra, pensando
che forse la situazione non era propriamente sotto il suo controllo.
“Ho un’offerta da farvi, Dottor Watson. E voi
l’ascolterete.”
Il tono di voce con cui il Demone parlò non
ammetteva repliche, né obiezioni. John si trovò suo malgrado ad annuire.
“So che Sherlock vi ha legato a lui in qualche
modo. Bene, questa è la mia offerta: qualunque cosa vi abbia concesso, io vi
offro lo stesso; solo, da parte mia non vi sarà alcun vincolo alla vostra
libertà, alcuna imposizione sulla vostra vita. Desidero semplicemente che ve ne
andiate da Castlecross e non vi facciate vedere mai più. Non è necessario che
Sherlock lo sappia, anzi, vi sconsiglio vivamente di incontrarlo di nuovo.”
Ad ogni sua parola, fu come se una scheggia
ghiacciata si conficcasse direttamente nel petto di John. Era il suo istinto,
che scalpitava dentro di lui con la foga di un cavallo imbizzarrito
avvertendolo di diffidare di chi gli offriva una pentola d’oro senza che
dovesse neppure fare lo sforzo di dissotterrarla per conto suo. E chi era, lui,
per fare orecchie da mercante allo stesso istinto che tante volte gli aveva
salvato la pelle in Afghanistan?
“Chi siete? Qual è il vostro rapporto con
Sherlock?” domandò debolmente, sentendo per la seconda volta in quel giorno la
nausea attanagliargli lo stomaco.
Il suo interlocutore sembrò riflettere a lungo,
prima di dargli una risposta. Come se non sapesse decidere se valesse la pena prendersi
il disturbo di fornire informazioni non necessarie a un essere che avrebbe
potuto tranquillamente schiacciare come una formica. Sentendosi particolarmente
generoso, decise che un piccolo indizio non avrebbe potuto fare troppi danni.
“Qualcuno che si preoccupa per lui.
Costantemente.” disse dunque a John, enfatizzando la sua esclamazione con una
roteazione vistosa dell’ombrello.
Il Dottore deglutì. Le parole che il Demone di
fronte a lui aveva pronunciato sembravano implicare che John rappresentasse per
Sherlock una qualche sorta di pericolo. Il che, per il Dottore, era un’assurdità
bella e buona. Che pericolo avrebbe mai potuto presentare a un Demone
onnipotente un misero Dottore, fra l’altro veterano di una guerra che lo aveva
segnato nel corpo e nell’anima?
Non che l’offerta dello sconosciuto non fosse,
nella sua essenza, estremamente allettante: potersene andare da quel luogo e
tornarsene a casa da Hamish, fingendo che niente fosse accaduto, gli sembrava
quasi troppo bello per essere vero. Nonostante il sospetto che quell’offerta
nascondesse dei cavilli che lo avrebbero portato a rimpiangere amaramente
d’averla accettata, la tentazione era così forte…
All’improvviso, e senza motivo apparente, un
paio di occhi selvaggi come un uragano si materializzarono nella sua mente.
Mordendosi le labbra fino a farle sanguinare, John prese la sua decisione:
“No.” esclamò, usando per parlare un filo di
voce appena sufficiente a farsi udire, “No!” ripeté, più forte, assaporando il
modo in cui quella parola si amplificò nel vuoto della stanza. Se lo avesse
detto rivolgendosi a sé stesso, o al Demone che lo osservava con sufficienza,
nessuno lo seppe mai.
“No?” gli fece eco quest’ultimo, scurendosi in
volto,
“Già. No. Ho un debito immenso nei confronti di
Mr. Sherlock. Il minimo che possa fare è ripagarlo alle sue condizioni.”
Fece per voltarsi, ripensando alla strada che
lui e Miss Anthea avevano seguito per giungere in quel luogo e chiedendosi
quanto Sherlock fosse adirato con lui per avergli disubbidito. Rapida, una mano
si posò sulla sua spalla malata, gelandolo sul posto.
“Ci sono altre cose che potrei offrirvi,
sapete? Non c’è niente che sia impossibile a uno del mio rango. Ciò che il
vostro cuore brama più di ogni altra cosa? Chiedete, e vi sarà concesso.”
C’era una minacciosità malamente celata, dietro
alle parole che il Demone pronunciò con solennità. Un ‘non costringetemi a chiedervelo di nuovo’ che fece sorridere John
amaramente. L’uomo sospirò, afferrando il polsino del Demone fra pollice e
indice dalla mano destra e facendo così
venir meno la sua presa:
“Non mi interessa. Spiacente.”
E senza dire altro, né guardarsi una sola volta
indietro, il giovane medico lasciò quel luogo decadente, deciso a tornare
indipendentemente da tutto dove, sperava, Sherlock lo stava già attendendo.
Alle sue spalle, un decisamente stupito Mycroft
tentava in tutti i modi di afferrare quando e come avesse perso le sue innate
capacità persuasive.
“Lo lascerai andar via così?” gli chiese
Anthea, solleticandogli l’udito con quella sua voce di seta e facendo
dissolvere immediatamente gli amari pensieri che si stavano affollando nella
sua mente.
Mycroft sospirò,
sfiorando con le labbra il morbido palmo che la donna gli tendeva. “Sì. Almeno
per adesso.” disse, sorridendo lievemente all’espressione interrogativa che
attraversò il volto della sua compagna mentre le stringeva la mano.
“E perché mai?”
“Perché purtroppo anche io, come mio fratello,
sono sensibile ai misteri. E un essere umano capace di essere tanto leale in
così poco tempo è una chicca che non vorrei proprio perdermi.”
La donna rise di gusto, scuotendo la testa
bonariamente. “Quindi farai anche tu di lui uno dei tuoi piccoli esperimenti?”
“No… mi limiterò ad osservarlo. E ad
assicurarmi che non rappresenti una minaccia per quel testone di Sherlock.”
Anthea annuì, allontanandosi e mordendosi uno
dei polpastrelli per farne spillare il sangue con cui abbozzare i simboli
runici del portale che avrebbe ricondotto lei e Mycroft negli Inferi. Mycroft
la osservò, lasciando che sul suo volto, adesso che non era osservato,
trapassasse tutta la preoccupazione che gli faceva ribollire le viscere. Perché
il vero timore che nutriva, e che lo aveva spinto a recarsi in quel luogo, non
era che l’ex soldato ferisse Sherlock in qualche modo… era che quel John Watson
- per il quale suo fratello sembrava nutrire un qualche insano interesse che
solo in parte lui era in grado di giustificare - finisse per rappresentare per
Sherlock un’ancora a quel mondo che lo stava uccidendo e da cui lui stava
cercava di salvarlo.
Ma di questo, il Demone non avrebbe mai fatto
parola con anima viva.
***
“Mi sembrava di averti detto di aspettarmi
qui.” esclamò Sherlock, fronteggiando John con il mento alto e le braccia
strette minacciosamente al petto.
Era arrabbiato. Anzi, arrabbiato non cominciava
neppure a coprire quello che il Demone provava in quel momento: era furioso, sì,
perché il Dottore aveva disubbidito a un suo ordine espresso, venendo per
giunta meno a una delle clausole del loro Patto… ma quello non era tutto. Era
anche deluso, perché stoltamente aveva pensato che John gli avrebbe dato ascolto,
perché si era illuso di non aver bisogno di controllarlo per mezzo del timore,
e come gli accadeva fin troppo spesso quando si trattava di relazionarsi con un
altro essere vivente che non consistesse solo in un teschio legato ad un’anima
si era sbagliato. Soprattutto, era irritato a tal punto da avere i capelli
ritti sulla testa, perché John aveva di nuovo quell’espressione da cane
bastonato che Sherlock tanto detestava.
Schioccò la lingua, facendo sobbalzare l’uomo
davanti a lui, che stringendo i denti mormorò un “Mi dispiace…” non troppo
credibile.
In quel momento, con il buon umore che lo aveva
alimentato quel giorno spazzato via a causa di uno stupido imprevisto, pensò
che forse prendere a pugni il bel faccino che John si ritrovava non sarebbe stata
poi un’idea così pessima: se non altro, avrebbe risvegliato l’orgoglio sopito
che faceva tante volte gonfiare il petto al Dottore, spingendolo a una
qualsiasi reazione che non consistesse in occhi bassi e pugni serrati.
Comunque, John non gli lasciò il tempo di
crogiolarsi a sufficienza in quel pensiero. Si guardò rapidamente alle spalle,
come se temesse di essere stato seguito da qualcuno: gesto, quello, che
trascinò Sherlock fuori dal suo burbero bozzolo di collera e lo spinse ad
osservare meglio l’uomo di fronte a lui. Che sembrava trafelato, come se avesse
corso, con guance lievemente arrossate, fiato corto e tutto il resto (e come
aveva potuto Sherlock non accorgersene prima?). Che si guardava attorno,
spaventato - no, non spaventato, ma a in guardia, come un soldato che attende
un attacco nemico da un momento all’altro, ed è pronto a combattere con le
unghie e con i denti. Sherlock si diede uno schiaffo mentale, per aver lasciato
che il suo cervello fosse offuscato dalla frustrazione e non aver usato
propriamente le sue capacità di deduzione.
Emise un sibilo insoddisfatto, che fece
scattare verso l’alto la testa di John.
Sherlock si piegò appena in avanti, fino a che
il suo naso non fu a pochi millimetri da quello dell’uomo davanti a lui. Per un
secondo, il ritmo accelerato del respiro di John, che gli solleticava il viso
portando con sé il profumo dolce del tè che aveva bevuto quella mattina, lo
distrasse dal suo scopo; scosse la testa più volte, schiarendosi la voce.
“Hai incontrato qualcuno, prima. Parla.”
John deglutì, chiudendo gli occhi. Non si
chiese come fosse possibile che Sherlock sapesse del suo incontro con i due
Demoni che parevano conoscerlo - nonostante avesse speso con lui poco tempo, aveva
già accettato come verità insindacabile il fatto che ai suoi occhi pallidi non
sfuggisse niente; scelse invece con molta cura il modo con cui descrivergli lo
strano incontro che aveva avuto, per non provocare un’ulteriore picco d’ira in
quel Demone emotivamente instabile (sì, anche in questo caso non gli ci era
voluto molto per cogliere quella sfumatura del carattere del bel moro). Optando
per l’approccio più diretto, si frugò nelle tasche, estraendone l’accartocciato
bigliettino che gli aveva consegnato Miss Anthea e stendendone meticolosamente
le pieghe. Sherlock lo osservò nel processo, curioso e ansioso insieme; quando John
gli sembrò sufficientemente soddisfatto di aver ripristinato l’integrità
originaria di quell’insulso pezzettino di carta, senza attendere che l’uomo
glielo porgesse se ne appropriò con un rapido gesto delle dita.
Mentre lo leggeva, iniziò a ringhiare.
“Mycroft…” sibilò, arricciando le labbra
intorno a quella parola come se avesse un sapore particolarmente amaro. Il suo
tono di voce era caustico, la rombante promessa di una tempesta che sarebbe
scoppiata di lì a poco, travolgendo nella sua furia imperdonabile chiunque si
fosse permesso di contrariarlo… e risuonava nel corpo di John, facendolo
vibrare dalla testa ai piedi. Sherlock non si accorse dell’effetto che la sua
voce ebbe sul Dottore, no. Era troppo preso a controllare che quel ficcanaso di
suo fratello non avesse posato neppure un dito su John per curarsi di altro: a
sue spese aveva sperimentato le doti persuasive di Mycroft, e benché alla fine
fosse sempre riuscito a fare ciò che voleva ne portava ancora segni ben
visibili.
“Che ti ha fatto? Ti ha ferito? Maledetto?” chiese
concitatamente, gettandosi il biglietto alle spalle e percorrendo con il palmo
delle mani il torso e le braccia di John alla ricerca di qualcosa che fosse fuori
posto,
“No… davvero non mi ha fatto nulla, signore.” gli
rispose l’altro, cercando di allontanare quelle mani indiscrete da sé e al
contempo di non prendere fuoco spontaneamente per l’imbarazzo.
Sherlock lo guardò in faccia, sollevando un
sopracciglio con fare poco convinto. Non c’era proprio modo che suo fratello
avesse convocato John per una chiacchiera amichevole di fronte a un tè caldo,
non senza avergli staccato un paio di dita per usarle come cucchiaini. A meno
che…
“Ti ha fatto un qualche tipo di richiesta, non
è così?” chiese a John, non attendendo neppure la sua risposta prima di gettare
le braccia al cielo e iniziare a percorrere il vicolo ad ampie falcate,
gesticolando furiosamente. “Quel pomposo trippone non ha proprio potuto fare a
meno di ficcare quel suo nasone nei miei affari, eh? Mi lascia in pace per
duecento anni e ora tutto d’un tratto non può astenersi dallo starmi
costantemente tra i piedi! Cosa voleva da te? Sentiamo!”
John, che intanto aveva fatto diversi passi
indietro per non rischiare di trovarsi nel mezzo di quella sfuriata, lo osservò
basito. Si inumidì le labbra con la punta della lingua: “Che rompessi il Patto
con voi, e me ne andassi per sempre.” disse, trovandosi suo malgrado ad
abbassare gli occhi a terra.
Sherlock, a quelle parole, si congelò sul
posto, mentre una strana inquietudine strisciava dentro le sue vene.
Contrastando in maniera quasi dolorosa con il focolaio di attività che lo aveva
animato poco prima, quell’immobilità per qualche motivo fece stringere la gola di
John, che tossicchiò goffamente nella speranza di allentare quell’invisibile
presa.
“La tua risposta?” domandò Sherlock, detestando
la nota quasi supplichevole che aveva assunto la sua voce.
Non lo capiva, perché gli importasse tanto.
Anzi, non comprendeva proprio perché gli importasse anche solo un poco. Fatto
sta che così era, e Sherlock odiava la situazione con tutto il cuore.
John percepì un cambiamento nella figura del
Demone, ma anche lui non fu in grado di capire a che cosa fosse dovuto. Solo,
percepì l’urgenza di rispondere a quella sua domanda in maniera tale da
sollevare la cappa di desolazione che la staticità di Sherlock aveva fatto
piombare sul vicolo:
“Gli ho detto che non ero interessato.”
Occhi di fuoco freddo si posarono
improvvisamente nei suoi, cogliendolo di sorpresa a causa della rapidità con
cui il loro possessore si era mosso per fronteggiarlo.
“Gli hai detto no?” gli chiese il Demone, le sopracciglia aggrottate in un moto di
stupore.
John annuì. “Esattamente.”
“Hai detto no
a Mycroft.”
“Sarebbe il suo nome? Non si è esattamente
presentato. Ciò nondimeno, sì, ho rifiutato le sue offerte.”
E nel volto del Demone si palesò qualcosa di
nuovo, qualcosa a cui i suoi lineamenti reagirono contraendosi, come a
sottolinearne tutta l’alienità: era come se Sherlock, al cui occhio mai niente
sfuggiva… si stesse sforzando di capire.
“Perché.” Sussurrò, dopo lunghi istanti di
contemplazione. E non era neppure una vera domanda, quella; non una domanda
rivolta a John, per lo meno: era più come se il Demone stesse indagando sé
stesso, alla ricerca della spiegazione
più probabile a un tale comportamento da parte del Dottore.
Nonostante fosse consapevole di ciò, John
rispose:
“Perché sono un uomo di parola. E poi, mi ha
suscitato subito una grande antipatia.”
Il Dottore non poté fare a meno di sorridere,
ricordando l’espressione sconvolta del Demone chiamato Mycroft quando gli aveva
risposto con un secco ‘no’. E il suo sorriso dovette essere particolarmente
contagioso, perché di lì a poco uno di eguale ampiezza sbocciò sul viso di
Sherlock, illuminando i suoi occhi. Il Demone annuì, unico riconoscimento che
John avrebbe avuto di aver compiuto la scelta giusta…
“Bene. Ma se avesti chiesto del denaro, o
qualcosa di interessante, avremmo potuto dividercelo.”
…o forse no. John osservò Sherlock balzare
indietro, battendo le mani con espressione soddisfatta, per poi sollevare
teatralmente il colletto del suo cappotto, che doveva essersi afflosciato
mentre si sbracciava per mostrare tutta la sua irritazione. Il Demone estrasse
da una tasca interna del cappotto un involto di stoffa nera, lanciandolo a John
- che solo per un pelo non lo lasciò cadere a terra, mollando invece la presa
sul suo bastone che ricadde sulla pavimentazione sudicia del vicolo con un
suono umido.
“Aprilo. Ci servirà per il caso.”
John annuì, cominciando a scartare
quell’insolito regalo. “Caso?” domandò, rimuovendo il primo strato di stoffa,
“Sì. Indagheremo su una serie di omicidi che
sono avvenuti qui a Londra anni fa, e che non sono mai stati risolti. O meglio,
io indagherò… tu mi farai da spalla.”
John si lasciò sfuggire una risata, spostando
per un istante gli occhi su Sherlock, che intanto si stava infilando con meticolosa
attenzione un rigido paio di guanti di pelle.
“E di che omicidi si tratterebbe, signore?”
domandò, estraendo dalla stoffa nera un cofanetto di legno dall’aria logora. Osservò
per lunghi istanti gli intarsi che lo rivestivano, rappresentando varie scene
di caccia minuziosamente riprodotte in tutti i loro dettagli. Aveva un aspetto
molto antico - e costoso- e John si chiese cosa mai potesse contenere. Prima che
potesse anche solo scalzare la serratura di quello scrigno, per dare uno
sguardo a ciò che celava, Sherlock glielo tolse dalle mani senza troppe
cerimonie.
“Primo, smettila con questa storia del signore, e con l’uso del plurale
maiestatis.” Gli disse a denti stretti, scandendo ogni sillaba perché il suo
messaggio fosse ben chiaro, “Detesto etichetta e formalismi, non li rispetto e
non desidero che siano utilizzati rivolgendosi a me. Mi chiamo Sherlock, e tu
mi chiamerai solo Sherlock. Intesi?”
Il Dottore, sentendo un lieve rossore tingergli
le guance, annuì. “Intesi... Sherlock.”
Il Demone lo ripagò con un sorriso storto,
aprendo con un sonoro CLICK il cofanetto.
“Per quanto riguarda la tua domanda… mai
sentito parlare del serial killer noto come Jack lo Squartatore?”
Certo che ne aveva sentito parlare. Si sarebbe
dovuti esseri ciechi e sordi per aver vissuto a Londra negli anni in cui quel
killer sanguinario aveva scatenato la sua furia e non aver mai sentito
mormorare il suo nome con paura. Anzi, John aveva il vantaggio di aver fatto il
suo apprendistato sotto la sapiente ala del medico che più di tutti aveva contribuito
alla definizione del probabile profilo di quello sfuggente assassino, il suo
caro amico e collega, il Dottor Bond - il quale, su sua esplicita richiesta, lo
aveva tenuto aggiornato sui più importanti risvolti del caso fino al suo
esaurirsi. Era così che era venuto a sapere, qualche anno addietro, che il
famigerato killer era improvvisamente sparito senza lasciare nessuna traccia,
probabilmente perché morto o arrestato per qualche crimine minore. Avrebbe
voluto dire a Sherlock tutto questo - aggiungendo magari un quesito su come lui sapesse di Jack lo Squartatore - ma
non fece in tempo: qualcosa di pesante e freddo gli atterrò sul naso,
facendogli perdere parzialmente l’equilibrio e cancellando tutti i pensieri che
aveva formato in quel momento.
Con un’esclamazione di sorpresa e dolore,
afferrò l’oggetto al volo, ritrovandosi tra le mani niente meno che una Colt Army .45, antica ma in perfette condizioni, con un manico
in avorio che era una vera e propria opera d’arte e un grilletto che pregava di
essere premuto. Incapace di formulare pensieri razionali, John si rigirò la
splendida pistola tra le mani, gustando la familiarità del suo peso, e il modo
perfetto con cui l’impugnatura si adattava alla sua presa.
“Dove l’avete… voglio dire, dove l’hai presa?”
chiese trasognato, senza staccare gli occhi dal lucido metallo dell’arma.
Così distratto, non poté vedere il modo in cui,
fiero di sé, Sherlock sorrideva. “Non conta dove o come l’abbia ottenuta, conta
solo che adesso ti appartenga. Non possiamo inseguire per Londra un assassino
completamente disarmati, no?”
John mormorò in assenso, facendo scattare il
grilletto e rabbrividendo di piacere al suono nuovo eppure familiare che
quell’azione produsse.
“Jack lo Squartatore non uccide più da almeno
due anni, lo sai vero?” riuscì infine a dire, non senza arricciare il naso alla
stranezza di rivolgersi in maniera confidenziale a una persona incontrata solo
il giorno prima,
“Il fatto che abbia smesso di uccidere non
significa che stia marcendo in una cella, né tantomeno che non ucciderà di
nuovo in futuro.” gli rispose Sherlock, sbuffando impazientemente per poi
voltarsi di scatto e incamminarsi verso l’uscita del vicolo a passo svelto, il
cappotto che svolazzava dietro di lui come una scia di piume nere.
“Allora, vieni o no? Potrebbe essere
pericoloso!” gridò, senza smettere di camminare, gettando solo un’occhiata a
John da sopra la spalla. E John, da bravo soldato che il pericolo non lo teme,
ma segretamente lo brama, non poté fare altro che seguirlo verso l’ignoto…
lasciandosi alle spalle il bastone che gli era di solito tanto indispensabile.
***
“Quindi… Mycroft.”
“Già…”
“Nome particolare.”
“Mhh.”
“Mi pare che nel biglietto si fosse firmato con
una H… che starebbe per…?”
“Holmes. Il nome del nostro clan.”
“…Aspetta un istante. Nostro?”
“Oh, sì. Mycroft è mio fratello.”
“Ah…”
“Già. Immagina cos’erano le riunioni di
famiglia.”
“…Beh, in effetti un po’ vi assomigliate.”
“Dì ancora un’idiozia del genere… e vedi che
succede.”
Due risate cristalline si alzarono, gemelle,
nel plumbeo cielo Londinese.
Note dell’autrice:
Questo capitolo è il
preludio di quella che sarà, per me, una delle imprese più complesse nella
stesura di questa storia. D’altronde, però, non potevo scrivere di Sherlock
senza fargli risolvere un crimine, no? (Anche se, devo ammetterlo, non so
proprio da che parte cominciare -_- )
Se vi state chiedendo
perché proprio il caso di Jack lo Squartatore, recentemente mi è capitato sotto
le mani un libro molto interessante che avanza ipotesi sull’identità di questo
assassino… diciamo che non ho potuto resistere, che ho dovuto inserire
l’ipotesi che più mi ha colpito in questa storia. Siamo a Londra, gli anni sono
quelli… già, non potevo fare altrimenti ;)
A proposito, la prossima settimana probabilmente non
ci sarà alcun aggiornamento. Sarò via praticamente ogni giorno per motivi di
famiglia, e non avrò tempo da dedicare alla stesura del capitolo :(
Mi dispiace, ma la domenica successiva gli
aggiornamenti riprenderanno come da programma :) promesso! Mandatemi le vostre
vibrazioni positive, se potete ;) Ne avrò un gran bisogno.
Vi ringrazio tanto per
tutto il sostegno che mi date, e per le belle parole che tanto mi fanno
sorridere. Grazie, un milione di volte grazie :*
A presto, un bacio! :D