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Autore: Black_Lily_13    16/11/2014    5 recensioni
C’erano molte leggende che venivano tramandate a Castlecross, la più famosa di tutte quella riguardante la figura che abitava il castello nel cuore della palude. C’era chi sosteneva che si trattasse di uno Spettro, chi di un Demone. Su una cosa però tutti concordavano: Sherlock era in grado di esaudire i desideri celati nel cuore di chi fosse disposto a rinunciare a qualcosa di prezioso. John Watson, dal canto suo, era un uomo di scienza, e non aveva la minima intenzione di farsi coinvolgere nello strano gusto per il soprannaturale che i suoi nuovi compaesani sembravano condividere. Questo, almeno, fino a quando il destino non decise di portargli via la cosa che più amava al mondo... e lui, impotente, non poté che affidare la sua unica possibilità di salvarla a chi non avrebbe mai creduto potesse esistere. Costretto in cambio a mettersi al servizio di Sherlock per un anno, John imparerà pian piano che il buono può celarsi anche laddove non dovrebbe esserci per antonomasia. E, forse, riuscirà a scoprire e salvare da una minaccia nascosta il cuore di chi credeva di avere il petto pieno di sola polvere.
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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IX.        No place like London

La Londra del diciannovesimo secolo non era molto lontana dalla città che, quasi cent’anni prima, aveva descritto William Blake nella sua famosissima poesia.

Nonostante la straordinaria opera ingegneristica di Bazalgette, che fornì la città di più di duemila chilometri di tubature, il sovraffollamento portato dal continuo sorgere e fiorire di nuove industrie metteva a dura prova il sistema fognario del luogo: le acque nere filtravano a più riprese attraverso la pavimentazione cittadina, riversandosi nelle strade e insozzando le acque già imputridite dai resti delle fabbriche del Tamigi. Il cielo era grigio per i fumi che fuoriuscivano costantemente dalle ciminiere, le persone viaggiavano a testa bassa per non leggere negli occhi dei passanti la stessa disperazione che albergava nei loro cuori, la povertà delle classi lavoratrici strideva in maniera sempre più evidente con l’opulenza delle classi più elevate.

Il cambiamento era nell’aria: Darwin stava aprendo gli occhi al mondo sull’origine dell’uomo con la sua opera; Dickens denunciava i mali dell’epoca. Il tasso di crimini violenti giunse picchi mai neppure immaginati, sfruttamento minorile e prostituzione appestavano la città… e Sherlock non avrebbe desiderato trovarsi in un posto diverso per niente al mondo.

Fu in uno dei vicoli più malfamati e corrotti della città che il Demone orbitò sé stesso e John quel giorno: un budello maleodorante incastrato tra due edifici alti, i cui mattoni erano neri e untuosi a causa delle esalazioni delle fabbriche vicine. Lo aveva selezionato accuratamente, sicuro in virtù delle sue proprietà che non sarebbe stato affollato da passanti tendenti a terrorizzarsi se posti davanti allo spettacolo di due uomini che comparivano dal nulla.

Sherlock e John si materializzarono insieme, il secondo ancorato al braccio del primo come se ne andasse della sua stessa vita. Lo aveva avvertito, il Demone, mentre disegnava con le dita gli strani simboli che avrebbero permesso loro di orbitare, che smaterializzare il proprio corpo poteva provocare un forte senso di nausea… oltre ad avere la fastidiosa controindicazione di arti che non si ri-materializzavano dove avrebbero dovuto. Quella volta John fu fortunato, e all’atterraggio ritrovò al suo posto tutto ciò che gli apparteneva. Per quanto riguardava la nausea, invece…

“Mentre tu finisci… quello…” gli disse Sherlock, gesticolando selvaggiamente nella vaga direzione in cui John, in ginocchio, stava svuotando il contenuto del suo stomaco nello sporco accumulato nel vicolo, “…io mi procurerò qualcosa che ci sarà utile. Non muoverti da qui.”

Un conato particolarmente forte impedì a John di sputar fuori un ‘E come dovrei fare a muovermi secondo voi?’. Il suono umido di cibo semi-digerito vide Sherlock portarsi una mano al volto, per proteggersi dal fetore acidulo che riempì l’aria. Il Demone si aggiustò la sciarpa attorno al collo, sollevando il colletto dello scenografico cappotto nero che aveva scelto di indossare per l’occasione. Sparì nelle strade di Londra, lasciando John solo nella sua miseria.

John Watson, sei sopravvissuto ad anni di studio disperato…” rifletteva amaramente, mentre gli spasmi del suo stomaco lo piegavano in due, “…sei sopravvissuto all’Afghanistan. Ma questo… questo è troppo anche per te.”

Espulse un’ultima, bruciante boccata di bile, prendendo un lungo respiro che gli fece cigolare i polmoni. Tastò con la mano destra le tasche di pantaloni e giacca, alla disperata ricerca di un fazzoletto con cui pulirsi la bocca: ne portava sempre uno con sé, non poteva mai sapere quando lui o Hamish ne avrebbero avuto bisogno.

Il problema in quel frangente era che quelli che aveva indosso decisamente non erano i suoi vestiti. Appartenevano a qualcun altro, a qualcuno con un fisico molto diverso dal suo: era chiaro dal modo in cui i pantaloni stringevano i suoi fianchi, o le maniche di giacca e camicia gli pendevano sulle mani senza speranza. Mrs. Hudson aveva certo fatto del suo meglio… ma, se come John pensava, quei vestiti erano una proprietà di Sherlock, ci sarebbe voluto un miracolo per farli calzare alla perfezione su di lui.

Traditore, un intenso rossore si fece strada sulle sue guance: John si rifiutò di attribuirlo all’idea di aver indosso gli indumenti del Demone, convincendosi invece che fosse una reazione del suo corpo al malessere di poco prima.

Proprio mentre si rassegnava all’idea di detergersi la bocca con il dorso della mano, un fazzoletto rosa bordato in pizzo invase la sua visione periferica. Un’ondata di gratitudine sommerse il cuore dell’uomo, che allungò la mano verso il prezioso pezzo di stoffa, sollevando al contempo gli occhi per vedere in faccia il suo angelo custode personale. Il suo sguardo fu catturato dal volto impassibile di una splendida, giovane donna dagli occhi verdi.

“Avete bisogno di una mano, signore?”

La voce della giovane era melodiosa, resa esotica da un accento che John trovò impossibile collocare geograficamente; i suoi capelli ricadevano in morbide onde castane sulle sue spalle sottili… e John la stava decisamente fissando. Molto, molto male.

Si trovò a dover formulare una risposta all’innocente domanda della bella sconosciuta al più presto, per evitare che si accorgesse della tangente che avevano imboccato i suoi pensieri.

Purtroppo per lui, tutto quello che riuscì a trapassare la barriera delle sue labbra fu un alquanto atono “Ahafahmmm.”

Si sarebbe preso volentieri a schiaffi da solo.

Il suo penoso exploit sembrò non turbare la giovane più di tanto. Rispose all’evidente imbarazzo di John con un sorrisino che in tanti avrebbero definito affilato, e che a lui sembrò soltanto adorabile; con un grazioso movimento sventolò il fazzoletto davanti a John, che stavolta lo afferrò senza esitazioni e se lo passò sulle labbra. Un delicato profumo di zenzero gli attaccò le narici.

Sorrise riconoscente alla donna. “Non so come ringraziarvi.” le disse, piegando il fazzoletto in quattro e stringendolo tra le mani, “Mi dispiace soltanto di aver sciupato un così bel pezzo di stoffa…”

“Non temete, John Watson. Ne ho a bizzeffe, e di egualmente graziosi.”

Sentendo quel nome sulle labbra di una donna che non aveva mai incontrato in vita sua, John si congelò sul posto. Il suo istinto scalciò con furore dentro di lui gridando ‘pericolo’, e un flusso prepotente di adrenalina gli fece pulsare le tempie. Quando guardò di nuovo la sconosciuta, lo fece in veste di soldato forgiato su campi di battaglia sanguinosi.

“Come sapete il mio nome?” domandò autoritario, le sue labbra ridotte a una severa fessura alla vista della lieve piega divertita che presero gli occhi della sconosciuta alle sue parole.

La donna non gli rispose, ovviamente. Scosse semplicemente la testa, estraendo un foglietto di carta dalla scollatura dell’abito dal taglio severo che indossava. Lo porse a John, e per un attimo l’uomo ebbe la tentazione di non prenderlo. La granitica impassibilità che aveva assunto il volto della giovane che aveva di fronte lo informò che quella non era un’opzione vagliabile.

Il foglietto di carta risultò essere un biglietto a lui intestato, scritto in una calligrafia sì chiara, ma anche alquanto antiquata. Faceva pensare a John agli antichi tomi copiati a mano da un monaco amanuense, ai tempi in cui la parola scritta aveva ancora il valore di un gioiello.

Dottor Watson. Mi trovo nella fastidiosa posizione di aver necessità di incontrarvi in prima persona, e al più presto. La donna che vi ha consegnato questa nota vi accompagnerà nel luogo previsto per tale, spiacevole incombenza. Confido in quel minimo di intelletto che la vostra professione mi fa sperare che abbiate affinché non opponiate resistenza e facciate come vi viene richiesto. Potrei minacciarvi, ma sono certo che la situazione vi sia sufficientemente chiara.

M.H.” recitava, e nel leggerlo John sentì la crescente pulsione di esplodere in un’amara risata. Chi era questa persona che aveva bisogno di incontrarlo? Come sapeva che proprio quel giorno John sarebbe stato in quell’esatto, nauseabondo vicolo di Londra? E soprattutto… riteneva forse che sarebbero bastate quattro parole minacciose su uno stupido pezzo di carta per intimidirlo?

Se sì, evidentemente non aveva la minima idea di con chi avesse a che fare. Si alzò da terra con fare sprezzante, impugnando il bastone a mo’ di spada. Quello che vide nel viso della giovane che fino a qualche minuto fa aveva considerato attraente gli fece pensare, però, che quelle intimidazioni non fossero poi così vuote.

Perché nessun essere umano, il Dottore ne era certo, aveva occhi di quella minacciosa tonalità di carminio; perché le labbra ritirate della donna mostravano una fila di denti aguzzi come rasoi.

Un Demone, anche lei…”  concluse subito John, non abbandonando la posizione difensiva che aveva assunto, “…e ora, che faccio?”

Per quanto ne sapeva, seguire quella sconosciuta verso l’ignoto sarebbe potuto equivalere a marciare verso la propria morte. Non si interrogò più di tanto riguardo il significato dell’accelerazione che i battiti del suo cuore subirono al solo pensiero. Il Dottore soppesò le sue opzioni per una decina di minuti… finché non si rese conto che di opzioni, realmente, non ne aveva.

“Fate strada, dunque.” Esclamò distaccatamente, accartocciando il biglietto e infilandolo nella tasca del panciotto.

La donna annuì gravemente, rinfoderando le zanne e incamminandosi nel vicolo con andatura eterea. John si ricordò che Sherlock gli aveva ordinato di non muoversi da quel luogo per nessuna ragione al mondo.

Sperò che non se la prendesse troppo per quella sua disubbidienza.

***

Il luogo in cui la donna lo condusse aveva tutto l’aspetto di un magazzino industriale abbandonato da tempo immemore. La costruzione, costituita da un ammasso decadente di travi metalliche e mattoni che sembrava stare in piedi per miracolo, era collocata al centro di un quartiere periferico in cui John, nei suoi lunghi anni di vita Londinese, non aveva mai avuto il dispiacere di mettere piede. Tutto, dalle bancarelle che presentavano ai frettolosi passanti i loro unti cartocci di cibo fino ai cenciosi capannelli di mendicanti che imploravano per qualche sterlina ai lati della strada, trasmetteva un senso di disperazione che faceva torcere le budella al giovane medico.

A preoccuparlo più di ogni altra cosa era il fatto che nonostante quel particolare luogo fosse attraversato da un flusso continuo di persone, e la stessa natura deteriorata dell’edificio rendesse impossibile non posarvi sopra lo sguardo, nessuno sembrava percepirne la maestosa presenza.

Gli occhi di nessuna di loro indugiavano su quello che restava delle sue pareti scure. Nessuno dei loro passi valicò l’invisibile barriera che sembrava ergersi tra quella costruzione e il resto del mondo.

L’interno, quando John vi fu condotto dalla sua granitica guida, risultò se possibile ancor più fatiscente dell’esterno. Constatava di una sola, immensa stanza, il cui pavimento ligneo era ricoperto da uno strato di polvere così spesso che, ogni volta che i piedi della donna che camminava davanti a lui vi si posavano, una leggera nuvoletta di quella lanuggine si sollevava per posarsi strategicamente sul naso del Dottore, causando una serie di starnuti. Ognuno di essi, così come ogni strascicato passo dell’uomo sul pavimento irregolare, erano seguite dai grugniti infastiditi della sconosciuta: quando lei si congedò, ordinandogli di attendere al centro esatto della sala l’arrivo del fantomatico M. H. che lo aveva convocato, John provò un incommensurabile sollievo…

“Dottor Watson.”

…destinato ahimè ad avere vita breve. John irrigidì la schiena, puntò i piedi e serrò la mascella; per l’ennesima volta in soli due giorni, le sue mani scattarono al suo fianco per poi stringersi a pugno attorno all’assenza della sua rivoltella. Trattenendo il fiato, osservò l’imponente uomo che, facendo dondolare con nonchalance uno scuro ombrello dall’impugnatura a forma di teschio dorato, stava camminando verso di lui. E che, a quanto pareva, conosceva il suo nome.

“Molto scenografico, tutto questo.” Non si poté impedire di esclamare John, tagliente come il vetro, mentre percorreva con gli occhi lo smisurato perimetro della sala, “Anche se non ho idea di quale motivo vi abbia spinto a farmi venire fin qua.”

Lo sconosciuto si fermò a pochi passi da lui, e John fu costretto ad alzare il mento per poterlo guardare negli occhi. C’era un che di familiare, in quell’insolita tonalità di grigio, ma non abbastanza familiare da far suonare un campanello nella mente del Dottore. John registrò i tratti somatici dell’individuo, dal naso adunco all’incipiente stempiatura, e decise che indipendentemente dal modo in cui si erano incontrati non avrebbe mai potuto provare per lui e per l’altezzosità che emanava che antipatia e fastidio.

Quando poi lo sguardo dell’uomo si posò sulla gamba di John, e gli angoli della sua bocca scattarono appena verso l’alto, il Dottore sentì la rabbia ribollire dentro di lui.

“La gamba deve farvi male.” lo sentì esclamare, stringendosi nelle spalle al suono lievemente nasale della sua voce, “Sedetevi.”

L’uomo agitò elegantemente una mano, e proprio di fronte a John si materializzò un imponente seggio di legno nero, sulla cui superficie lucidi volti contorti in espressioni di angoscia e terrore si alternavano a mani tese in una muta richiesta di soccorso congelata nel tempo. Il Dottore lo osservò per trenta secondi buoni, incapace di staccare lo sguardo da un oggetto che - a meno che improvvisamente John non avesse sviluppato problemi di vista, e così non era - quando era arrivato non era in quel luogo.

Sospirò, passandosi una mano sulla faccia: una vita intera passata a negare l’esistenza del sovrannaturale, e in due soli giorni aveva incontrato più Demoni di quanti ne avesse descritti Dante Alighieri nella sua opera. Nessuno avrebbe potuto convincerlo che qualcuno in grado di far comparire una sedia dal nulla fosse un essere umano.

John rafforzò la stretta sull’impugnatura del bastone. “Non voglio sedermi.” Affermò, sperando che la sua voce risuonasse risoluta come lo era il suo spirito.

Il Demone sconosciuto inclinò appena la testa, guardandolo con curiosità.

“Non sembrate molto spaventato.” osservò, e John fu certo di sentire una punta di stupore nella sua voce,

“Non sembrate molto spaventoso.” ribatté allora, gonfiando il petto per risultare minaccioso.

Non ottenne il risultato sperato: il suo interlocutore infatti rovesciò la testa all’indietro, in una risata roca e stentorea. Quando lo guardò di nuovo, nei suoi occhi bruciava una scintilla beffarda.

“Non so se definirvi più coraggioso, o stupido. Anche se francamente credo che il contorno tra le due cose sia tanto labile da essere inesistente.” dichiarò, facendo scomparire la sedia in uno sbuffo di fumo rosso.

John si morse la lingua, pronto a ribattere, ma lo sconosciuto fu più rapido di lui nell’esclamare:

“Dovete stare il più lontano possibile da Sherlock. Intesi?”

Per un attimo tutto ciò che fu possibile udire fu il neppure troppo remoto brusio di strada che penetrava dai vetri rotti delle finestre. Poi, John emerse dal suo stato di stupore e riuscì a balbettare:

“Come, prego?”

“Lontano. Da lui, dal Castello, da Castlecross. Se foste d’accordo a emigrare in un altro Stato non mi opporrei di certo.”

John deglutì, sicuro di non aver compreso bene. Fece rapidamente mente locale, il tutto con l’intento di pianificare al meglio le sue prossime parole, la certezza di avere a che fare con un individuo che non solo conosceva Sherlock, ma in qualche modo era anche a conoscenza del fatto che lui e il Demone fossero in qualche modo legati che si faceva strada nella sua coscienza.

“Perché?” fu la prima cosa che gli venne in mente di chiedere, e anche lui in tutta sincerità era consapevole che non avrebbe dovuto essere così; c’erano mille domande che avrebbero dovuto balenargli in mente prima di quella, ma al momento la necessità di un suo allontanamento era la questione che gli premeva di più.

L’espressione infastidita che sbocciò sul volto del Demone di fronte a lui quando rispose - e che faceva sembrare che avesse assaporato qualcosa di terribilmente aspro - fu impagabile.

“Sherlock tende ad affezionarsi ai suoi giocattoli…” gli disse, accennando nella direzione di John con gli occhi e provocando nell’uomo una scintilla di furia, “…e si inquieta sempre, quando alla fine si rompono.”

Probabilmente non fu il contenuto di quel discorso a far scattare John, quanto il tono pregno di supponenza e disgusto con cui furono pronunciate quelle parole. Fatto sta che l’uomo coprì in pochi, affrettati passi la distanza che lo separava dal Demone che incombeva su di lui, per poi afferrare quel ridicolo fazzoletto di seta rossa che gli cingeva il collo.

“Non sono un oggetto con cui giocare, e non mi rompo così facilmente!” ringhiò, scoprendo i denti con fare minaccioso.

Non poté purtroppo assaporare troppo a lungo l’espressione di amareggiato stupore che attraversò il volto del suo oppositore, perché in un istante la donna che lo aveva accompagnato in quel luogo si era parata davanti a lui, colpendolo al petto con forza tale da spedirlo diversi metri indietro.

John si riparò con le mani, boccheggiando tutta la sua sorpresa. Della bellezza che aveva ammirato la prima volta che aveva posato gli occhi sulla sconosciuta, non restava che una pallida ombra celata dietro una maschera fatta di zanne grondanti veleno e artigli affilati come rasoi.

“Non fare un altro passo.” gli sibilò contro la donna, mortale, e il Dottore era sicuro che lo avrebbe azzannato se non fosse stato per la pallida mano che, prontamente, si era posata sulla sua spalla sottile.

“Anthea. Calmati. Sono sicuro che il Dottor Watson non aveva cattive intenzioni.” esclamò mellifluamente il Demone, la cui calma strideva in maniera insopportabile con il caos che era appena scoppiato,

“Voleva intimidirti…” rispose la donna - Anthea - debolmente, struggendosi nel tocco di quella mano con un miagolio,

“E sappiamo entrambi che oltre a tentare, avrebbe potuto fare ben poco. Vero, en aziazor[1]?”

La donna annuì, lanciando a John un ultimo sguardo di fuoco. Rinfoderò i canini, nascose le mani dietro la schiena, e con fluidità si portò al fianco del possente Demone… il quale, intanto, indossava un’espressione tanto soddisfatta da nauseare. John, dal canto suo, non poteva fare altro che posare lo sguardo alternativamente su uno o sull’altra, pensando che forse la situazione non era propriamente sotto il suo controllo.

“Ho un’offerta da farvi, Dottor Watson. E voi l’ascolterete.”

Il tono di voce con cui il Demone parlò non ammetteva repliche, né obiezioni. John si trovò suo malgrado ad annuire.

“So che Sherlock vi ha legato a lui in qualche modo. Bene, questa è la mia offerta: qualunque cosa vi abbia concesso, io vi offro lo stesso; solo, da parte mia non vi sarà alcun vincolo alla vostra libertà, alcuna imposizione sulla vostra vita. Desidero semplicemente che ve ne andiate da Castlecross e non vi facciate vedere mai più. Non è necessario che Sherlock lo sappia, anzi, vi sconsiglio vivamente di incontrarlo di nuovo.”

Ad ogni sua parola, fu come se una scheggia ghiacciata si conficcasse direttamente nel petto di John. Era il suo istinto, che scalpitava dentro di lui con la foga di un cavallo imbizzarrito avvertendolo di diffidare di chi gli offriva una pentola d’oro senza che dovesse neppure fare lo sforzo di dissotterrarla per conto suo. E chi era, lui, per fare orecchie da mercante allo stesso istinto che tante volte gli aveva salvato la pelle in Afghanistan?

“Chi siete? Qual è il vostro rapporto con Sherlock?” domandò debolmente, sentendo per la seconda volta in quel giorno la nausea attanagliargli lo stomaco.

Il suo interlocutore sembrò riflettere a lungo, prima di dargli una risposta. Come se non sapesse decidere se valesse la pena prendersi il disturbo di fornire informazioni non necessarie a un essere che avrebbe potuto tranquillamente schiacciare come una formica. Sentendosi particolarmente generoso, decise che un piccolo indizio non avrebbe potuto fare troppi danni.

“Qualcuno che si preoccupa per lui. Costantemente.” disse dunque a John, enfatizzando la sua esclamazione con una roteazione vistosa dell’ombrello.

Il Dottore deglutì. Le parole che il Demone di fronte a lui aveva pronunciato sembravano implicare che John rappresentasse per Sherlock una qualche sorta di pericolo. Il che, per il Dottore, era un’assurdità bella e buona. Che pericolo avrebbe mai potuto presentare a un Demone onnipotente un misero Dottore, fra l’altro veterano di una guerra che lo aveva segnato nel corpo e nell’anima?

Non che l’offerta dello sconosciuto non fosse, nella sua essenza, estremamente allettante: potersene andare da quel luogo e tornarsene a casa da Hamish, fingendo che niente fosse accaduto, gli sembrava quasi troppo bello per essere vero. Nonostante il sospetto che quell’offerta nascondesse dei cavilli che lo avrebbero portato a rimpiangere amaramente d’averla accettata, la tentazione era così forte…

All’improvviso, e senza motivo apparente, un paio di occhi selvaggi come un uragano si materializzarono nella sua mente. Mordendosi le labbra fino a farle sanguinare, John prese la sua decisione:

“No.” esclamò, usando per parlare un filo di voce appena sufficiente a farsi udire, “No!” ripeté, più forte, assaporando il modo in cui quella parola si amplificò nel vuoto della stanza. Se lo avesse detto rivolgendosi a sé stesso, o al Demone che lo osservava con sufficienza, nessuno lo seppe mai.

“No?” gli fece eco quest’ultimo, scurendosi in volto,

“Già. No. Ho un debito immenso nei confronti di Mr. Sherlock. Il minimo che possa fare è ripagarlo alle sue condizioni.”

Fece per voltarsi, ripensando alla strada che lui e Miss Anthea avevano seguito per giungere in quel luogo e chiedendosi quanto Sherlock fosse adirato con lui per avergli disubbidito. Rapida, una mano si posò sulla sua spalla malata, gelandolo sul posto.

“Ci sono altre cose che potrei offrirvi, sapete? Non c’è niente che sia impossibile a uno del mio rango. Ciò che il vostro cuore brama più di ogni altra cosa? Chiedete, e vi sarà concesso.”

C’era una minacciosità malamente celata, dietro alle parole che il Demone pronunciò con solennità. Un ‘non costringetemi a chiedervelo di nuovo’ che fece sorridere John amaramente. L’uomo sospirò, afferrando il polsino del Demone fra pollice e indice dalla mano destra e  facendo così venir meno la sua presa:

“Non mi interessa. Spiacente.”

E senza dire altro, né guardarsi una sola volta indietro, il giovane medico lasciò quel luogo decadente, deciso a tornare indipendentemente da tutto dove, sperava, Sherlock lo stava già attendendo.

Alle sue spalle, un decisamente stupito Mycroft tentava in tutti i modi di afferrare quando e come avesse perso le sue innate capacità persuasive.

“Lo lascerai andar via così?” gli chiese Anthea, solleticandogli l’udito con quella sua voce di seta e facendo dissolvere immediatamente gli amari pensieri che si stavano affollando nella sua mente.

Mycroft  sospirò, sfiorando con le labbra il morbido palmo che la donna gli tendeva. “Sì. Almeno per adesso.” disse, sorridendo lievemente all’espressione interrogativa che attraversò il volto della sua compagna mentre le stringeva la mano.

“E perché mai?”

“Perché purtroppo anche io, come mio fratello, sono sensibile ai misteri. E un essere umano capace di essere tanto leale in così poco tempo è una chicca che non vorrei proprio perdermi.”

La donna rise di gusto, scuotendo la testa bonariamente. “Quindi farai anche tu di lui uno dei tuoi piccoli esperimenti?”

“No… mi limiterò ad osservarlo. E ad assicurarmi che non rappresenti una minaccia per quel testone di Sherlock.”

Anthea annuì, allontanandosi e mordendosi uno dei polpastrelli per farne spillare il sangue con cui abbozzare i simboli runici del portale che avrebbe ricondotto lei e Mycroft negli Inferi. Mycroft la osservò, lasciando che sul suo volto, adesso che non era osservato, trapassasse tutta la preoccupazione che gli faceva ribollire le viscere. Perché il vero timore che nutriva, e che lo aveva spinto a recarsi in quel luogo, non era che l’ex soldato ferisse Sherlock in qualche modo… era che quel John Watson - per il quale suo fratello sembrava nutrire un qualche insano interesse che solo in parte lui era in grado di giustificare - finisse per rappresentare per Sherlock un’ancora a quel mondo che lo stava uccidendo e da cui lui stava cercava di salvarlo.

Ma di questo, il Demone non avrebbe mai fatto parola con anima viva.

***

“Mi sembrava di averti detto di aspettarmi qui.” esclamò Sherlock, fronteggiando John con il mento alto e le braccia strette minacciosamente al petto.

Era arrabbiato. Anzi, arrabbiato non cominciava neppure a coprire quello che il Demone provava in quel momento: era furioso, sì, perché il Dottore aveva disubbidito a un suo ordine espresso, venendo per giunta meno a una delle clausole del loro Patto… ma quello non era tutto. Era anche deluso, perché stoltamente aveva pensato che John gli avrebbe dato ascolto, perché si era illuso di non aver bisogno di controllarlo per mezzo del timore, e come gli accadeva fin troppo spesso quando si trattava di relazionarsi con un altro essere vivente che non consistesse solo in un teschio legato ad un’anima si era sbagliato. Soprattutto, era irritato a tal punto da avere i capelli ritti sulla testa, perché John aveva di nuovo quell’espressione da cane bastonato che Sherlock tanto detestava.

Schioccò la lingua, facendo sobbalzare l’uomo davanti a lui, che stringendo i denti mormorò un “Mi dispiace…” non troppo credibile.

In quel momento, con il buon umore che lo aveva alimentato quel giorno spazzato via a causa di uno stupido imprevisto, pensò che forse prendere a pugni il bel faccino che John si ritrovava non sarebbe stata poi un’idea così pessima: se non altro, avrebbe risvegliato l’orgoglio sopito che faceva tante volte gonfiare il petto al Dottore, spingendolo a una qualsiasi reazione che non consistesse in occhi bassi e pugni serrati.

Comunque, John non gli lasciò il tempo di crogiolarsi a sufficienza in quel pensiero. Si guardò rapidamente alle spalle, come se temesse di essere stato seguito da qualcuno: gesto, quello, che trascinò Sherlock fuori dal suo burbero bozzolo di collera e lo spinse ad osservare meglio l’uomo di fronte a lui. Che sembrava trafelato, come se avesse corso, con guance lievemente arrossate, fiato corto e tutto il resto (e come aveva potuto Sherlock non accorgersene prima?). Che si guardava attorno, spaventato - no, non spaventato, ma a in guardia, come un soldato che attende un attacco nemico da un momento all’altro, ed è pronto a combattere con le unghie e con i denti. Sherlock si diede uno schiaffo mentale, per aver lasciato che il suo cervello fosse offuscato dalla frustrazione e non aver usato propriamente le sue capacità di deduzione.

Emise un sibilo insoddisfatto, che fece scattare verso l’alto la testa di John.

Sherlock si piegò appena in avanti, fino a che il suo naso non fu a pochi millimetri da quello dell’uomo davanti a lui. Per un secondo, il ritmo accelerato del respiro di John, che gli solleticava il viso portando con sé il profumo dolce del tè che aveva bevuto quella mattina, lo distrasse dal suo scopo; scosse la testa più volte, schiarendosi la voce.

“Hai incontrato qualcuno, prima. Parla.”

John deglutì, chiudendo gli occhi. Non si chiese come fosse possibile che Sherlock sapesse del suo incontro con i due Demoni che parevano conoscerlo - nonostante avesse speso con lui poco tempo, aveva già accettato come verità insindacabile il fatto che ai suoi occhi pallidi non sfuggisse niente; scelse invece con molta cura il modo con cui descrivergli lo strano incontro che aveva avuto, per non provocare un’ulteriore picco d’ira in quel Demone emotivamente instabile (sì, anche in questo caso non gli ci era voluto molto per cogliere quella sfumatura del carattere del bel moro). Optando per l’approccio più diretto, si frugò nelle tasche, estraendone l’accartocciato bigliettino che gli aveva consegnato Miss Anthea e stendendone meticolosamente le pieghe. Sherlock lo osservò nel processo, curioso e ansioso insieme; quando John gli sembrò sufficientemente soddisfatto di aver ripristinato l’integrità originaria di quell’insulso pezzettino di carta, senza attendere che l’uomo glielo porgesse se ne appropriò con un rapido gesto delle dita.

Mentre lo leggeva, iniziò a ringhiare.

“Mycroft…” sibilò, arricciando le labbra intorno a quella parola come se avesse un sapore particolarmente amaro. Il suo tono di voce era caustico, la rombante promessa di una tempesta che sarebbe scoppiata di lì a poco, travolgendo nella sua furia imperdonabile chiunque si fosse permesso di contrariarlo… e risuonava nel corpo di John, facendolo vibrare dalla testa ai piedi. Sherlock non si accorse dell’effetto che la sua voce ebbe sul Dottore, no. Era troppo preso a controllare che quel ficcanaso di suo fratello non avesse posato neppure un dito su John per curarsi di altro: a sue spese aveva sperimentato le doti persuasive di Mycroft, e benché alla fine fosse sempre riuscito a fare ciò che voleva ne portava ancora segni ben visibili.

“Che ti ha fatto? Ti ha ferito? Maledetto?” chiese concitatamente, gettandosi il biglietto alle spalle e percorrendo con il palmo delle mani il torso e le braccia di John alla ricerca di qualcosa che fosse fuori posto,

“No… davvero non mi ha fatto nulla, signore.” gli rispose l’altro, cercando di allontanare quelle mani indiscrete da sé e al contempo di non prendere fuoco spontaneamente per l’imbarazzo.

Sherlock lo guardò in faccia, sollevando un sopracciglio con fare poco convinto. Non c’era proprio modo che suo fratello avesse convocato John per una chiacchiera amichevole di fronte a un tè caldo, non senza avergli staccato un paio di dita per usarle come cucchiaini. A meno che…

“Ti ha fatto un qualche tipo di richiesta, non è così?” chiese a John, non attendendo neppure la sua risposta prima di gettare le braccia al cielo e iniziare a percorrere il vicolo ad ampie falcate, gesticolando furiosamente. “Quel pomposo trippone non ha proprio potuto fare a meno di ficcare quel suo nasone nei miei affari, eh? Mi lascia in pace per duecento anni e ora tutto d’un tratto non può astenersi dallo starmi costantemente tra i piedi! Cosa voleva da te? Sentiamo!”

John, che intanto aveva fatto diversi passi indietro per non rischiare di trovarsi nel mezzo di quella sfuriata, lo osservò basito. Si inumidì le labbra con la punta della lingua: “Che rompessi il Patto con voi, e me ne andassi per sempre.” disse, trovandosi suo malgrado ad abbassare gli occhi a terra.

Sherlock, a quelle parole, si congelò sul posto, mentre una strana inquietudine strisciava dentro le sue vene. Contrastando in maniera quasi dolorosa con il focolaio di attività che lo aveva animato poco prima, quell’immobilità per qualche motivo fece stringere la gola di John, che tossicchiò goffamente nella speranza di allentare quell’invisibile presa.

“La tua risposta?” domandò Sherlock, detestando la nota quasi supplichevole che aveva assunto la sua voce.

Non lo capiva, perché gli importasse tanto. Anzi, non comprendeva proprio perché gli importasse anche solo un poco. Fatto sta che così era, e Sherlock odiava la situazione con tutto il cuore.

John percepì un cambiamento nella figura del Demone, ma anche lui non fu in grado di capire a che cosa fosse dovuto. Solo, percepì l’urgenza di rispondere a quella sua domanda in maniera tale da sollevare la cappa di desolazione che la staticità di Sherlock aveva fatto piombare sul vicolo:

“Gli ho detto che non ero interessato.”

Occhi di fuoco freddo si posarono improvvisamente nei suoi, cogliendolo di sorpresa a causa della rapidità con cui il loro possessore si era mosso per fronteggiarlo.

“Gli hai detto no?” gli chiese il Demone, le sopracciglia aggrottate in un moto di stupore.

John annuì. “Esattamente.”

“Hai detto no a Mycroft.”

“Sarebbe il suo nome? Non si è esattamente presentato. Ciò nondimeno, sì, ho rifiutato le sue offerte.”

E nel volto del Demone si palesò qualcosa di nuovo, qualcosa a cui i suoi lineamenti reagirono contraendosi, come a sottolinearne tutta l’alienità: era come se Sherlock, al cui occhio mai niente sfuggiva… si stesse sforzando di capire.

“Perché.” Sussurrò, dopo lunghi istanti di contemplazione. E non era neppure una vera domanda, quella; non una domanda rivolta a John, per lo meno: era più come se il Demone stesse indagando sé stesso, alla ricerca  della spiegazione più probabile a un tale comportamento da parte del Dottore.

Nonostante fosse consapevole di ciò, John rispose:

“Perché sono un uomo di parola. E poi, mi ha suscitato subito una grande antipatia.”

Il Dottore non poté fare a meno di sorridere, ricordando l’espressione sconvolta del Demone chiamato Mycroft quando gli aveva risposto con un secco ‘no’. E il suo sorriso dovette essere particolarmente contagioso, perché di lì a poco uno di eguale ampiezza sbocciò sul viso di Sherlock, illuminando i suoi occhi. Il Demone annuì, unico riconoscimento che John avrebbe avuto di aver compiuto la scelta giusta…

“Bene. Ma se avesti chiesto del denaro, o qualcosa di interessante, avremmo potuto dividercelo.”

…o forse no. John osservò Sherlock balzare indietro, battendo le mani con espressione soddisfatta, per poi sollevare teatralmente il colletto del suo cappotto, che doveva essersi afflosciato mentre si sbracciava per mostrare tutta la sua irritazione. Il Demone estrasse da una tasca interna del cappotto un involto di stoffa nera, lanciandolo a John - che solo per un pelo non lo lasciò cadere a terra, mollando invece la presa sul suo bastone che ricadde sulla pavimentazione sudicia del vicolo con un suono umido.

“Aprilo. Ci servirà per il caso.”

John annuì, cominciando a scartare quell’insolito regalo. “Caso?” domandò, rimuovendo il primo strato di stoffa,

“Sì. Indagheremo su una serie di omicidi che sono avvenuti qui a Londra anni fa, e che non sono mai stati risolti. O meglio, io indagherò… tu mi farai da spalla.”

John si lasciò sfuggire una risata, spostando per un istante gli occhi su Sherlock, che intanto si stava infilando con meticolosa attenzione un rigido paio di guanti di pelle.

“E di che omicidi si tratterebbe, signore?” domandò, estraendo dalla stoffa nera un cofanetto di legno dall’aria logora. Osservò per lunghi istanti gli intarsi che lo rivestivano, rappresentando varie scene di caccia minuziosamente riprodotte in tutti i loro dettagli. Aveva un aspetto molto antico - e costoso- e John si chiese cosa mai potesse contenere. Prima che potesse anche solo scalzare la serratura di quello scrigno, per dare uno sguardo a ciò che celava, Sherlock glielo tolse dalle mani senza troppe cerimonie.

“Primo, smettila con questa storia del signore, e con l’uso del plurale maiestatis.” Gli disse a denti stretti, scandendo ogni sillaba perché il suo messaggio fosse ben chiaro, “Detesto etichetta e formalismi, non li rispetto e non desidero che siano utilizzati rivolgendosi a me. Mi chiamo Sherlock, e tu mi chiamerai solo Sherlock. Intesi?”

Il Dottore, sentendo un lieve rossore tingergli le guance, annuì. “Intesi... Sherlock.”

Il Demone lo ripagò con un sorriso storto, aprendo con un sonoro CLICK il cofanetto.

“Per quanto riguarda la tua domanda… mai sentito parlare del serial killer noto come Jack lo Squartatore?”

Certo che ne aveva sentito parlare. Si sarebbe dovuti esseri ciechi e sordi per aver vissuto a Londra negli anni in cui quel killer sanguinario aveva scatenato la sua furia e non aver mai sentito mormorare il suo nome con paura. Anzi, John aveva il vantaggio di aver fatto il suo apprendistato sotto la sapiente ala del medico che più di tutti aveva contribuito alla definizione del probabile profilo di quello sfuggente assassino, il suo caro amico e collega, il Dottor Bond - il quale, su sua esplicita richiesta, lo aveva tenuto aggiornato sui più importanti risvolti del caso fino al suo esaurirsi. Era così che era venuto a sapere, qualche anno addietro, che il famigerato killer era improvvisamente sparito senza lasciare nessuna traccia, probabilmente perché morto o arrestato per qualche crimine minore. Avrebbe voluto dire a Sherlock tutto questo - aggiungendo magari un quesito su come lui sapesse di Jack lo Squartatore - ma non fece in tempo: qualcosa di pesante e freddo gli atterrò sul naso, facendogli perdere parzialmente l’equilibrio e cancellando tutti i pensieri che aveva formato in quel momento.

Con un’esclamazione di sorpresa e dolore, afferrò l’oggetto al volo, ritrovandosi tra le mani niente meno che una Colt Army .45, antica ma in perfette condizioni, con un manico in avorio che era una vera e propria opera d’arte e un grilletto che pregava di essere premuto. Incapace di formulare pensieri razionali, John si rigirò la splendida pistola tra le mani, gustando la familiarità del suo peso, e il modo perfetto con cui l’impugnatura si adattava alla sua presa.

“Dove l’avete… voglio dire, dove l’hai presa?” chiese trasognato, senza staccare gli occhi dal lucido metallo dell’arma.

Così distratto, non poté vedere il modo in cui, fiero di sé, Sherlock sorrideva. “Non conta dove o come l’abbia ottenuta, conta solo che adesso ti appartenga. Non possiamo inseguire per Londra un assassino completamente disarmati, no?”

John mormorò in assenso, facendo scattare il grilletto e rabbrividendo di piacere al suono nuovo eppure familiare che quell’azione produsse.

“Jack lo Squartatore non uccide più da almeno due anni, lo sai vero?” riuscì infine a dire, non senza arricciare il naso alla stranezza di rivolgersi in maniera confidenziale a una persona incontrata solo il giorno prima,

“Il fatto che abbia smesso di uccidere non significa che stia marcendo in una cella, né tantomeno che non ucciderà di nuovo in futuro.” gli rispose Sherlock, sbuffando impazientemente per poi voltarsi di scatto e incamminarsi verso l’uscita del vicolo a passo svelto, il cappotto che svolazzava dietro di lui come una scia di piume nere.

“Allora, vieni o no? Potrebbe essere pericoloso!” gridò, senza smettere di camminare, gettando solo un’occhiata a John da sopra la spalla. E John, da bravo soldato che il pericolo non lo teme, ma segretamente lo brama, non poté fare altro che seguirlo verso l’ignoto… lasciandosi alle spalle il bastone che gli era di solito tanto indispensabile.

***

“Quindi… Mycroft.”

“Già…”

“Nome particolare.”

Mhh.”

“Mi pare che nel biglietto si fosse firmato con una H… che starebbe per…?”

“Holmes. Il nome del nostro clan.”

“…Aspetta un istante. Nostro?”

“Oh, sì. Mycroft è mio fratello.”

“Ah…”

“Già. Immagina cos’erano le riunioni di famiglia.”

“…Beh, in effetti un po’ vi assomigliate.”

“Dì ancora un’idiozia del genere… e vedi che succede.”

Due risate cristalline si alzarono, gemelle, nel plumbeo cielo Londinese.

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

Questo capitolo è il preludio di quella che sarà, per me, una delle imprese più complesse nella stesura di questa storia. D’altronde, però, non potevo scrivere di Sherlock senza fargli risolvere un crimine, no? (Anche se, devo ammetterlo, non so proprio da che parte cominciare -_- )

Se vi state chiedendo perché proprio il caso di Jack lo Squartatore, recentemente mi è capitato sotto le mani un libro molto interessante che avanza ipotesi sull’identità di questo assassino… diciamo che non ho potuto resistere, che ho dovuto inserire l’ipotesi che più mi ha colpito in questa storia. Siamo a Londra, gli anni sono quelli… già, non potevo fare altrimenti ;)

A proposito, la prossima settimana probabilmente non ci sarà alcun aggiornamento. Sarò via praticamente ogni giorno per motivi di famiglia, e non avrò tempo da dedicare alla stesura del capitolo :(

Mi dispiace, ma la domenica successiva gli aggiornamenti riprenderanno come da programma :) promesso! Mandatemi le vostre vibrazioni positive, se potete ;) Ne avrò un gran bisogno.

Vi ringrazio tanto per tutto il sostegno che mi date, e per le belle parole che tanto mi fanno sorridere. Grazie, un milione di volte grazie :*

A presto, un bacio! :D

 



[1] En aziazor: amore mio.

   
 
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