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Autore: Laylath    17/11/2014    1 recensioni
(spin off di Un anno per crescere)
Le loro vite sembravano così tranquille e delineate, i piccoli grandi problemi dell'adolescenza che si accompagnavano al clima tiepido di quella fine d'estate. Rientrando a scuola nessuno pensava che i loro destini si sarebbero intrecciati in maniera indissolubile e che gioie e dolori li avrebbero accompagnati nel difficile percorso della vita.
E dopo i Falman ecco le vicende dei genitori di Kain e di quelli di Heymans.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Heymas Breda, Jean Havoc, Kain Fury, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo XXXVI

1889. Educazione differente.



 

“Mamma, perché un bambino non può parlare con un altro bambino per colpa della sua famiglia?”
La domanda di Heymans fu così improvvisa che a Laura quasi cadde il piatto che stava prendendo dalla credenza. Il suo cuore per un attimo smise di battere mentre cercava di assumere l’aria più disinvolta possibile prima di girarsi verso suo figlio che, seduto a tavola, attendeva il pranzo assieme ad Henry.
“Perché mi chiedi una cosa simile, tesoro?”
“Sai, a scuola c’è un nuovo bambino e a quanto pare molte mamme non vogliono che parliamo con lui.”
“Ah! – lieta di scoprire che la questione non riguardava loro, la donna si fece più curiosa – e come mai dicono così?”
“Dicono che sta con una zia – spiegò lui con espressione confusa – e che quella zia sta in un posto brutto. Però non ho capito bene di che cosa si tratta… forse è come nelle favole, mamma? Però credevo che la strega cattiva che teneva chiusi i bambini era solo una storia… e poi non era stata uccisa dal cacciatore buono?”
Finalmente Laura ricollegò i pezzi della vicenda a diverse chiacchiere che aveva sentito negli ultimi giorni a proposito del nipote della proprietaria del bordello del paese. A quanto pareva era solo un bambino, non un ragazzo come aveva precedentemente capito.
“E in che classe sarebbe?”
“In terza elementare… sai, durante l’intervallo l’abbiamo guardato da lontano, però non mi è sembrato strano come tutti dicevano. Però se ne stava tutto da solo e nemmeno quando la sua maestra l’ha chiamato per giocare al girotondo con gli altri si è avvicinato. Bran ha detto che è un orfano, ma non so cosa vuol dire… è una cosa brutta?”
“Orfano vuol dire che non ha più la mamma ed il papà, caro – Laura gli accarezzò i capelli, provando tanta pena per quel nuovo bambino – ecco perché è andato a vivere con la zia.”
“Oh…” Heymans alzò lo sguardo su di lei, evidentemente sconvolto da quella rivelazione. Forse per la prima volta capì che avere una madre presente non era così scontato e fu dunque istintivo per lui allungare le mani per stringersi al petto di Laura.
“Stai tranquillo, caro – sorrise lei, abbracciandolo – la mamma è qui, non lascia te ed Henry.”
“Non voglio mai diventare orfano!”
“Ma quando mai, Heymans. Forza, non pensare a queste cose brutte: prima mi dicevi che oggi era il compleanno di Sofì e che le avete cantato la canzoncina in classe, vero?”
“Sì – annuì lui, lieto di farsi dirottare su discorsi più felici – e lei ha offerto i biscotti che le ha fatto la sua mamma, erano molto buoni, sai! E domani farà una bella festa a casa sua… però…”
“Però?” Laura lo vide incupirsi.
“Mi ha detto che io non posso andare perché la sua mamma non vuole…” ammise.
Il panico che Laura aveva creduto di aver superato tornò con violenza a quella dichiarazione: questo sì che era un qualcosa che coinvolgeva direttamente suo figlio e aveva solo dieci secondi per inventarsi qualcosa prima che lui iniziasse a diventare troppo sospettoso o peggio.
“Oh, le mamme a volte sono così, lo sai…”
“Così come?”
“Strane.”
“Mamma, ma tu non sei strana – scosse il capo il piccolo – e perché poi tutti meno che…”
“E’ che questa storia dei compleanni è così stressante, hai visto cosa succede sempre per il tuo, no?”
“Ma è papà che non vuole.”
“Ah – Laura guardò verso il tavolo con imbarazzo: non si immaginava che suo figlio fosse così perspicace – lo vedi che sono strani i genitori? L’importante è che Sofì ti voglia bene, no?”
“Sì, lei mi vuole bene, me l’ha detto!” sorrise Heymans, con orgoglio.
“E allora non ti deve importare di una festa, no? Pensa se andassi alla festa e poi lei non ti volesse bene tutti gli altri giorni di scuola, non sarebbe brutto?”
“Beh, hai ragione…”
Ovviamente c’era qualcosa che lasciava perplesso il bambino, era facile capirlo: Laura stessa sapeva bene che il suo ragionamento era un po’ campato in aria, ma era come se la morale finale fosse corretta e dunque non importava come ci si era arrivati. Per cui alla fine il piccolo le diede ragione ed il successivo approssimarsi del pranzo spostò la sua attenzione ad altri argomenti.
Qualche ora dopo, mentre osservava il figlio maggiore che faceva i compiti nel tavolo di cucina, Laura si sorprese nel vedere quanto fosse cresciuto: nemmeno tre mesi e avrebbe compiuto sette anni… ed ogni giorno che passava fisicamente diventava più simile a Gregor. Questo era davvero un peccato, considerato che sarebbe invece potuto assomigliare allo zio o comunque prendere dalla famiglia Hevans: sembrava quasi un perverso gioco del destino che nonostante questa palese parentela padre e figlio non avessero che un minimo rapporto e fatto quasi sempre di incontri casuali.
Ed invece l’attenzione di Gregor era tutta spostata su Henry: sul figlio che portava quel nome tanto temuto e che da grande sarebbe assomigliato tantissimo al defunto soldato, a Laura bastava guardarlo per capirlo.
E allora cambierà atteggiamento anche con lui?
Scosse il capo, preferendo non pensarci e d’istinto abbassò lo sguardo sul piccolino che, seduto sul pavimento faceva lottare due pupazzi tra di loro, con tanto di versi fatti con la bocca. Certo che il padre non gli insegnava giochi molto gentili, tutt’altro… ma era anche vero che con i figli maschi spesso funzionava così. Suo fratello ed Andrew erano state eccezioni: in fondo le loro famiglie appartenevano a quella parte alta della società che non vedeva di buon occhio baruffe e simili: sotto quel punto di vista avevano avuto un tipo di educazione e disciplina molto differente. Parolacce, botte con gli altri bambini, vestiti strappati o quanto altro volevano sempre dire una punizione e una predica sul comportarsi bene.
Forse dovrei dire a Gregor di andarci piano con il bambino – rifletté – non mi va che si abitui a determinati atteggiamenti e modi di dire. Ah, che diamine… adesso inizio anche a pensare come mia madre!
Scosse il capo con ostinazione, rifiutando con orgoglio di somigliare a quella donna anche solo in minima parte. Il ricordo di quanto era successo immediatamente dopo la nascita di Heymans la fece rabbrividire inconsapevolmente.
Non pensarci, stupida. Sono chissà dove e non possono più farti niente. Che marciscano pure nella loro dannata torre di orgoglio ferito!
“Mamma, cosa c’è?”
“Niente, caro – si girò subito verso Heymans che aveva posato la penna e la guardava perplesso – ti serve una mano con i compiti?”
“No, guarda li ho finiti. Sono stato bravo?”
“Ma certo: sono sicura che la maestra ti metterà un bel voto domani.”
“Speriamo.”
“Heymans…”
“Sì?”
“Tu sei bravo ed educato a scuola, vero?” le venne quasi d’impulso fare una domanda simile.
“Eh? Sì, mamma, perché?”
“Non dici parolacce o vieni messo in castigo, no?”
“No, mamma, quello è Jean te lo dico sempre – scosse il capo con sincerità – come oggi che ha spaventato Clara con i vermi di terra e l’ha fatta piangere. Perché? La maestra ti ha detto che non sono bravo?”
“No, lascia stare – sospirò Laura – ma ricordati che devi sempre fare il bravo bambino.”
“Certo, mamma.”
“Ottimo.”
E volle sentirsi estremamente fiera nell’essere riuscita a dare una buona educazione a suo figlio: in realtà sapeva bene di bearsi di un successo abbastanza facile, considerato che Heymans aveva sempre sentito solo la sua campana. Il vero successo come madre ed educatrice l’avrebbe avuto se fosse riuscita a far crescere degnamente Henry: sapeva benissimo che l’influenza paterna poteva essere molto negativa… era brutto da fare come discorso, ma la differenza di classe sociale si faceva sentire per determinate cose.
Te la sei cercata, Laura, te la sei… oh, basta! Ti sei già detta che non devi pensarla come tua madre, no? E’ solo questione di buonsenso che Henry capisca come comportarsi…
“Mami, quando torna papà?” chiese il bimbo, alzandosi in piedi sempre con i due pupazzi in mano.
“Forse all’ora di cena, caro.”
“Se vuoi giochiamo insieme!” propose subito Heymans scendendo dalla sedia con entusiasmo.
Henry lo fissò perplesso, come se stesse valutando attentamente la cosa: era strano vederlo esitare in un simile modo, del resto una proposta di gioco era sempre allettante per un bambino.
“No, papà non vuole.” scosse il capo alla fine, correndo subito via dalla cucina.
“Come, papà non vuole? – chiese Laura – Henry, torna subito qui, forza!”
Heymans la guardò in modo stranito: era raro che la mamma usasse un tono così autoritario. Ma effettivamente l’effetto fu quasi immediato ed il bambino di quattro anni rientrò in cucina con un broncio sul viso.
“Sì, mamma?”
“Che sarebbe questa storia che papà non vuole che tu giochi con tuo fratello?” chiese Laura guardandolo con attenzione.
“Dice così – ammise lui, fissando il pavimento, per nulla contento di quella che in fondo era una sgridata per colpe non oggettivamente sue – e non devo disobbedire al papà.”
“E nemmeno alla mamma, se è per questo: e la mamma vuole che tu adesso giochi con…”
“Mamma – Heymans le tirò la gonna – lascia stare, non mi va più.”
“Ma tesoro…”
“Non mi va più ho detto! Lasciami in pace!” dichiarò ancora, recuperando i suoi quaderni dal tavolo e andando via di corsa.
“Heymans! Aspetta! – lo richiamò Laura, mentre Henry approfittava di quel momento per scappare via verso la sua cameretta – No, Henry pure tu… oh, insomma!”
Ma nemmeno il tono di comando ebbe il potere di farli tornare: sentì le due porte chiudersi e lei rimase impotente in cucina. Sarebbe dovuta andare a prenderli e sgridarli per un simile atteggiamento… per un comportamento simile alla loro età persino Andrew sarebbe stato messo in punizione dai suoi calmi e pacati genitori.
Ma come posso metterli in punizione? Non è la loro reale volontà.
In quel momento odiò profondamente suo marito, ma odiò anche se stessa: come genitori non si stavano dimostrando all’altezza della situazione.
 
Mentre Laura rifletteva su queste problematiche di educazione, rendendosi conto che i suoi due figli stavano ricevendo delle basi completamente diverse, manco vivessero in case separate, Ellie ed Andrew si squadravano con quella che si poteva definire ostilità all’interno dello studio di lui.
“Non sono assolutamente d’accordo – ribadì Ellie a braccia conserte, fissando il marito con astio, come forse era successo solo per quel vecchissimo incidente dei biscotti al cioccolato – non ha ancora quattro anni e non è proprio il caso di punirlo.”
“Alla sua età certe cose è perfettamente in grado di capirle – scosse il capo Andrew, assumendo la medesima posa – che c’è? Tuo padre non ti ha mai messo in punizione alla sua età? Oh no, aspetta, non sia mai che lui punisse la sua fanciullina…”
“Per tua norma e regola mio padre non si è mai fatto problemi a punirmi, lo stai accusando di indulgenza? O forse vogliamo ricordare che sei dovuto venire a salvarmi perché ero imprigionata in casa per colpa tua, vorrei specificare?”
“Colpa mia? Ellie Lyod, non rigirare la frittata! Se non sbaglio fu una folle ragazzina di quattordici anni a tenere nascosta ai suoi genitori tutta la relazione che intratteneva con me.”
“E’… è stata una cosa completamente diversa! – arrossì lei con violenza – E comunque per Kain simili cose non sono nemmeno da pensare… insomma è così piccolo e fragile, non si può punirlo.”
“Ellie – scosse il capo Andrew – non ho nessuna intenzione di fargli qualcosa di tremendo, che scene stai andando ad immaginare?”
“Stava solo giocando con i gessetti colorati, perché dobbiamo farne un dramma? Tanto ho pulito tutto in un secondo!”
“Ah, e solo perché pulisci tutto senza problemi lui si deve sentire autorizzato a disegnare ogni volta sul pavimento? Scusa tanto, ma non permetterò che mio figlio cresca male per un tuo eccesso di indulgenza.”
“No, sono io che non permetterò che rimanga traumatizzato per una tua eccessiva severità!”
“Diamine lo devo solo mettere in castigo nell’angolo per dieci, dannatissimi, minuti!”
“Perché gli devi far passare i dieci minuti peggiori della sua vita adesso che è tranquillo da un paio di settimane? Vuoi forse far riniziare la febbre?”
Come se si fosse concluso un primo round di quello scontro, i due si voltarono in modo da darsi le spalle.
Era la prima volta che si trovavano in palese disaccordo su qualcosa ed il fatto che riguardasse Kain li rendeva più combattivi che mai. Nessuno l’avrebbe mai sospettato quella mattina, quando si erano svegliati e sembrava una giornata come le altre.
Le cose procedevano abbastanza bene ed era da una ventina di giorni che Kain godeva di buona salute, tanto che stava riuscendo a mangiare senza troppi problemi quasi tutti i giorni. Forse era proprio per questo motivo che Ellie era più apprensiva che mai: non le sembrava vero che tutto stesse andando per il meglio e voleva evitare che il minimo turbamento facesse riammalare il suo bambino.
“Sei stato tu a regalargli quei gessetti colorati! Io nemmeno volevo per paura che se li mettesse in bocca!” sbottò la donna, tornando alla carica.
“I gessetti colorati li abbiamo avuti tutti alla sua età, con tanto di album da disegno… il pavimento non è contemplato come superficie da colorare. Diamine, Ellie, ma perché stiamo qui a litigare? Ti rendi conto che è una sciocchezza?”
“No che non lo è – scosse il capo lei – è così piccolo ed indifeso… perché devi spaventarlo con una sgridata, me lo spieghi?”
“Ellie, tutti siamo stati sgridati dai nostri genitori: ha tre anni e mezza, suvvia. Non ho intenzione di fare niente di grave: lo rimprovero, lo metto in castigo per dieci minuti e poi finisce tutto… sarò io stesso ad andare ad abbracciarlo appena termina il castigo, se ti può tranquillizzare.”
Andrew sospirò quando vide sua moglie iniziare persino a piangere: non riusciva a credere che si stesse arrivando a tutto questo per una cosa normalissima. Era assurdo che Ellie trasponesse le sue apprensioni per la salute di Kain in questioni puramente educative.
Suvvia, è perfettamente in grado di assimilare un castigo! – se lo disse con forza, cercando di convincersi ed eliminare quella piccola scintilla di dubbio che le lacrime della donna stavano accendendo in lui.
“Per favore…è già così spaventato!” supplicò ancora lei.
“Ti fidi di me?” chiese, prendendola per le spalle e cercando di chiudere definitivamente la questione .
“Non è questo che…”
“Ripeto – sorrise leggermente, capendo che stava per cedere – ti fidi di me come genitore di Kain?”
“Giurami che non alzi troppo la voce…” concesse.
“Non una nota più del necessario – annuì baciandola in fronte – e asciugati queste lacrime, meraviglia, fammi il favore, va bene?”
Lieto di aver vinto quella piccola battaglia, Andrew uscì fuori dallo studio, cercando di assumere un’espressione credibile per poter mettere in punizione Kain. A dire il vero pure lui era leggermente stranito da quella situazione: non gli era mai capitato di dover prendere dei provvedimenti nei confronti di suo figlio e la cosa lo spiazzava leggermente. Per quanto sapesse che era una dinamica del tutto normale nell’ambito familiare, c’era il timore che per il proprio fragile bambino fosse un qualcosa che andava trattata in maniera differente.
Oh, finiscila, Andrew… l’hai appena convinta e ora sei tu ad avere dubbi?
“Kain – chiamò, entrando in camera del bambino – dobbiamo parlare.”
A quel richiamo fatto con voce tranquilla ma severa il bambino si alzò in piedi dal letto dove era seduto e fissò il padre con aria timorosa. Ovviamente sapeva di aver sbagliato e niente lo spaventava di più sapere che tra lui ed i suoi genitori c’era un nuovo e strano ostacolo di cui non capiva ancora il senso: non c’era più il classico “no, non si fa”, ma qualcosa che andava oltre.
D’istinto le sue braccia si strinsero attorno al cavallino di pezza.
“A proposito di quanto hai combinato oggi, signorino – iniziò Andrew, mettendosi a braccia conserte – voglio che ti sia ben chiaro che i gessetti colo… no… no, no, aspetta! Non piangere…”
Ma era stato come aprire un rubinetto, proprio come era successo con Ellie, e il bambino era scoppiato in singhiozzi, con lacrimoni enormi che iniziavano a colare sulle guancie arrossate.
Che faccio? – pensò Andrew – Se lo abbraccio e lo consolo addio punizione… ma se non faccio qualcosa la disciplina andrà a farsi benedire. Dannazione, ma perché è in grado di piangere in modo così straziante?
“Non odiare Kain!” singhiozzò il bambino, correndogli incontro e aggrappandosi ai suoi pantaloni.
“Odiare? Oh, no, no… no, piccolino, ma che cosa dici? – fu costretto ad inginocchiarsi ed abbracciarlo – Ma quando mai papà ti odia? Senti, perché non ti calmi e ne parliamo?”
“Mai più gessetti! Mai più!” strillo lui.
“Non è così che funziona, Kain – lo sollevò da terra – coraggio, non piangere più…”
“Nasino…”
“Devi soffiare il nasino? – armeggiò nella tasca per prendere un fazzoletto – ecco qua, andiamo soffia forte, da bravo…”
Ci vollero svariati minuti, ma alla fine il bambino parve calmarsi. Peccato che era così esausto dal gran piangere che si appellicciò alla spalla del padre con tutto l’intento di addormentarsi seduta stante.
“Senti, Kain – Andrew scosse il capo e si accomodò nel letto, facendogli assumere una posizione seduta sulle sue ginocchia in modo da evitare quel sonnellino improvvisato – adesso che ti sei calmato ne possiamo parlare?”
“Kain buono…” pigolò il piccolo, guardandolo con aria triste.
“Sì lo so che sei buono, ma hai fatto una cosa sbagliata – spiegò l’uomo accarezzandogli i capelli corvini – e papà non ti odia, va bene? Ma non vuole che tu faccia di nuovo quella cosa va bene? I gessetti colorati si usano solo sull’album da disegno, intesi?”
“Non ci gioco più coi gessetti, promesso.”
“No, Kain, non è che non ci devi più giocare – sospirò – solo non nel pavimento, va bene?”
“Va bene…”
“Oh, vedi? Non c’era niente di tragico – sorrise ancora Andrew, lieto che almeno quella parte fosse andata a buon fine – Adesso vai nell’angolo per dieci minuti e poi è tutto finito.”
“Perché?” chiese Kain perplesso.
“Ecco… perché quando succede che fai qualcosa che non va è bene che ci pensi su, così non lo ripeti.”
“Ma io non lo faccio più, l’ho detto… non credi a Kain? – supplicò lui aggrappandosi alla camicia del padre con gli occhi pericolosamente lucidi per nuove lacrime – no?”
“Sì che ci credo, tranquillo! E’… è solo per ricordare meglio, va bene?”
“Mh – Kain annuì con ansia, asciugandosi gli occhi con i pugnetti chiusi – va bene. Nell’angolo…”
“Bravo, ometto – sorrise Andrew, mettendolo a terra – papà è fiero di te: ora vai e… che c’è?”
“Vieni con Kain, papi – tese la mano il bambino – insieme…”
“No… no, Kain, non funziona così: devi andare tu a riflettere nell’angolo.”
“Con te – sorrise lui speranzoso – con papi Kain impara sempre!”
“Senti – lo prese per mano, profondamente imbarazzato ed interdetto da come stava andando male quel momento genitoriale che si era ripromesso di condurre con fermezza – papà ti accompagna nell’angolo, va bene? Però è necessario che resti da solo a riflettere, capisci?”
“Non resti con me?” mise il broncio.
“Mi siedo nel letto e aspetto – concesse Andrew – ma chi deve riflettere sei tu… no, faccia contro il muro.”
“Perché?”
“Perché funziona così, fidati. Adesso rifletti per dieci minuti: te lo dice papà quando puoi smettere. E per tutto questo tempo devi stare zitto, chiaro?”
“Va bene, papi! – sorrise Kain, felice di obbedirgli – Kain buono e fa come dici tu!”
“Sì, ecco bravo!” annuì Andrew, risedendosi nel letto e convincendosi di essere riuscito almeno in parte a salvare la situazione.
Rimase un minuto in assoluto silenzio prima di arrischiarsi a guardare suo figlio.
Se ne stava in piedi, composto, proprio come ci si aspettava da un bambino in punizione: peccato che non avesse minimamente lo sguardo contrito ma anzi fosse estremamente felice di fare quello che suo padre gli aveva detto. In qualche strano e assurdo modo Kain aveva ribaltato il suo castigo.
Oh dai, il pentimento per il pavimento colorato c’è stato… bisognerà lavorare sul resto.
Ma non poté far a meno di sorridere nel vedere come le gambette che fuoriuscivano dai pantaloncini corti fossero decisamente più robuste e finalmente prive di quei gonfiori per la febbre reumatica. E anche le braccia erano più in carne, così come il viso.
Ti prego, sarebbe un miracolo meraviglioso… ti amo, piccolo mio, non ne hai idea. Voglio solo che tu stia finalmente bene… proprio come in questi giorni.
“Andrew…” sussurrò Ellie sedendosi accanto a lui.
“Sssh!” la bloccò facendogli un cenno eloquente.
“No, mamma, fai silenzio – si girò Kain con aria importante – devo riflette come dice papi!”
“Oh, scusa tanto, pulcino!” annuì lei, ma come il piccolo si rigirò dovette mettersi una mano davanti alla bocca per trattenere la risata.
Però, come si vantò Andrew poco dopo, i dieci minuti nell’angolo Kain li fece tutti quanti.
E di certo non avrebbe più usato i gessetti colorati nel pavimento.
 
Quella sera, dopo cena, Laura si mise a guardare Gregor che giocava con Henry.
“Avanti, ragazzino, picchia duro, coraggio! – lo incitava l’uomo, mettendo i palmi delle sue grosse mani per parare i piccoli pugni – Forza così!”
Ed Henry ci metteva tutto il suo impegno possibile, con un sorriso soddisfatto. Del resto quale bambino non sarebbe stato felice di vedere il proprio padre così compiaciuto? E anche se non c’era niente di male che padre e figlio giocassero alla lotta, Laura non poteva far a meno di vederci qualcosa di sbagliato.
Non è così che mio padre ed il padre di Andrew hanno educato lui ed Henry. Mai e poi mai li ho visti fare una cosa simile…
“Henry, Gregor, perché non giocate a qualcos’altro che non sia la lotta? – chiese con calma posando sul grembo la maglietta che stava rammendando – Così evitate anche di stancarvi troppo… perché invece non giocate assieme ad Heymans a qualcosa che si può fare in tre?”
A quelle parole, Heymans, che si trovava sul primo gradino delle scale a sistemare i suoi animaletti di legno, ebbe un sussulto e si girò a guardarla con aria stranita. Un po’ tutti lo fecero, come se avesse appena proposto una cosa veramente assurda.
“Finiscila di dire sciocchezze, donna – sbottò Gregor – il ragazzo mica si stanca, vero Hen? Forza, colpisci di nuovo!”
A quel segnale il bimbo si riscosse e con un sorriso riprese il gioco interrotto, mettendoci una foga tutta nuova in quei piccoli pugni. Heymans, dal canto suo, mise con diligenza i suoi giochi nella piccola scatola di cartone e salì al piano di sopra.
Brava, Laura, complimenti! Un ottimo tentativo… che ha reso la situazione ancora più difficile.
Con un sospiro terminò di rammendare la maglietta e prendendola in mano si avviò al piano di sopra.
“Ehi, tesoro – sorrise, entrando in camera del figlio maggiore – la tua maglietta è di nuovo a posto. La puoi mettere anche domani per andare a scuola. Te la sistemo dentro il cassetto, va bene?”
“Grazie, mamma.” annuì lui seduto per terra, mentre disponeva di nuovo gli animali sul pavimento. E Laura notò che lo faceva con ordine: un piccolo esercito schierato a cuneo. Aspettò qualche secondo che le rivolgesse la parola di sua spontanea volontà, ma poi vedendo che quell’ostinato silenzio continuava, decise di essere lei a rompere il ghiaccio.
“Vuoi giocare con me? – chiese, sedendosi accanto a lui – A quello che vuoi, tesoro.”
“Non serve – scosse il capo il bambino – mamma, sono io quello sbagliato, vero?”
“Sbagliato? Oh no, amore…”
“E’ per qualcosa che ho fatto che papà non vuole stare con me e non vuole che stia con Henry, vero? E’ forse è la stessa cosa per cui Sofì non mi può invitare al suo compleanno… mamma, sono un orfano come quel bambino nuovo?” non c’erano lacrime negli occhi grigi, solo una disperata necessità di riuscire a capire, trovare finalmente una spiegazione ai dubbi che lo laceravano.
“No, amore mio – sospirò Laura, abbracciandolo – tu non hai niente che non va, e non sei orfano. E’ una cosa che sei ancora troppo piccolo per capire, credimi. E alla mamma dispiace tanto che tu sia triste… si sente così in colpa per tutto questo.”
“Oh no, mamma, non dire così! – immediatamente restituì l’abbraccio – Tu non c’entri! Tu sei buona e bella, sei la miglior mamma del mondo… sono io che non vado bene, dev’essere così. Ma tu no! Aspetta! Aspetta… giochiamo, dai! Voglio fare una casetta per gli animali del bosco con le costruzioni – annaspò disperato a prendere la scatola con i piccoli cubetti di legno – vuoi? Ti prego dimmi che vuoi…”
“Ma certo, amore mio – Laura si obbligò a cacciare indietro le lacrime e sorridere – facciamo una bella casetta per i tuoi amici animali.”
“Bene! – annuì Heymans, come se fosse sollevato da un grande peso – A me importa solo di te, mamma, sul serio: voglio che tu sia sempre felice con me, sempre sempre!”
“Sempre sempre, patatone, promesso!” giurò lei, baciandolo sulla chioma rossa.
 
“Ma che bravo, pulcino – sorrise Ellie, mentre Kain mostrava con un sorriso il piattino vuoto – hai mangiato tutta la tua carne.”
“Era buona, mamma, tanto.” dichiarò il bambino, mentre Andrew gli passava il bavaglino sul mento.
Anche per quella cena aveva mangiato senza alcun problema, una cosa che come sempre rendeva felicissimi entrambi i genitori. Su consiglio del medico avevano provato a dargli anche cibi più complessi rispetto ai soliti omogeneizzati e minestrine e sembrava che non ne risentisse assolutamente.
“Bravo, ometto – annuì il padre – la carne ti fa tanto bene. Adesso, se hai pazienza, mamma e papà terminano di cenare e poi ci possiamo spostare in salotto, va bene?”
“Sì, papi – sorrise Kain con diligenza posando le manine sul piano del seggiolone ormai libero e pulito – Kain aspetta.”
“Tanto manca solo il dolce – spiegò Ellie portando in tavola i piattini con la torta al cioccolato – ecco qua, caro: uscita dal forno nemmeno un’ora fa.”
Mentre Andrew gustava il primo boccone, riconoscendo ancora una volta che Ellie con i dolci era davvero insuperabile, si accorse di essere osservato. Alzando il viso notò che Kain aveva gli occhi sgranati e brillanti di aspettativa, la piccola bocca semiaperta quasi a richiedere un assaggio.
“Secondo te lo può mangiare un po’ di cioccolato?” chiese all’improvviso.
Ellie alzò lo sguardo e rimase dubbiosa.
Certo, negli ultimi tempi lo stomaco di Kain aveva dimostrato di poter assimilare meglio i cibi ed era ovvio che, iniziando a gustare i propri pasti, volesse provare anche nuove pietanze, specie quelle con un odore piacevole come la torta al cioccolato. Ma era anche vero che gli zuccheri dei dolci erano più pesanti rispetto alle proteine della carne o simili.
Però… un bambino che non mangia dolci fa così tristezza…
Per la prima volta mise da parte tutte le sue apprensioni e disse.
“Oh beh, se può stare in castigo per dieci minuti direi che un cucchiaino di cioccolato lo può mangiare.”
Capendo di aver ottenuto la concessione Kain batté le manine deliziato e poi iniziò a guardare prima l’uno e poi l’altro genitore, indeciso su chi gli avrebbe dato quella pietanza che aveva quell’odore così piacevole.
“Coraggio, ometto – disse infine Andrew, porgendo il cucchiaino con il pezzetto di torta – apri bene la bocca e attento a non far cedere le briciole.”
“Aaaaaaaaaaah!”  Kain addirittura si sporse dal seggiolone davanti a quell’offerta.
Andrew ed Ellie lo osservarono masticare la torta come se fosse un cuoco esperto che valuta una pietanza di un dilettante. La tenne in bocca per diverso tempo, tanto che ad un certo punto furono sicuri che l’avrebbe sputata, ma poi, dopo qualche secondo, ingoiò il boccone.
“Cos’è, mamma?”
“Cioccolato, pulcino… ti è piac…”
“Ancora! – esclamò gioioso battendo le manine sul seggiolone – Ancora coccolato! Coccolato!”
“Non coccolato, cioccolato – lo corresse Andrew, allungando un'altra cucchiaiata – però non esageriamo, va bene? Questa e basta… e ripetilo bene: cioccolato.”
“Cioccolato!” esultò il bimbo, sentendosi estremamente felice per quella scoperta.
“Gli piacciono i dolci…” costatò Ellie, con un sorriso incredulo.
Suo figlio non le era mai sembrato così normale.




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