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Autore: _Frame_    23/11/2014    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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13. Fiducia e Protezione

 

Ottobre 1939

 

“Ma perché non posso?”

“Smettila di insistere. La riposta è no, punto.” Inghilterra annodò le braccia al petto. Distolse lo sguardo imbronciato e abbassò gli occhi a terra. Le spalle contro il muro e una gamba accavallata all’altra. “Non farmi discutere ancora.”

America serrò i pugni sul bordo del tavolo. Si era alzato di scatto, e la sedia era scivolata dietro le sue gambe, facendo fischiare il pavimento. America si strinse le spalle. Arricciò il labbro inferiore e chinò lo sguardo sulla sua ombra che si allungava sul legno. Sollevò la testa di scatto e un profondo sospiro gli gonfiò la schiena. Il fascio di luce attraversò gli occhiali. Dietro le lenti, gli occhi erano in fiamme.

“E allora dammi una buona ragione.”

Inghilterra ruotò gli occhi al cielo. Inarcò un sopracciglio, tenendo lo sguardo alto, e l’espressione di rimprovero si affievolì lievemente.

“La tua presenza non è necessaria,” disse. Il tono di voce divenne più pacato. “Causeresti solo trambusto insensato, che è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno.”

Gli occhi di America guardarono i pugni ancora stretti sul tavolo. Le spalle tremarono per un istante. “Io non...” Scosse il capo, e lo sguardo saettò nuovamente su Inghilterra. “Io non voglio restarmene qui senza far niente.”

Gli occhi di Inghilterra si abbassarono. Il mento sempre alto, e le braccia conserte sul petto gonfio. America si allontanò dal tavolo spingendo la sedia ancora più indietro. Allargò le braccia e gli occhi fiammeggianti brillarono. Un sorriso da bambino emozionato si distese sulle sue labbra.

“Sarà facile per me, no?” Strinse i pugni davanti al petto e tenne un braccio alzato davanti al viso. Un angolo della bocca si piegò verso l'alto. “Arrivo, gli do una lezione e risolvo la faccenda. Sarà tutto come l’ultima volta.”

L’immagine di Inghilterra si riflesse nel vetro rettangolare delle lenti. I due sguardi si incrociarono. Inghilterra si vide proiettato negli occhi di America e girò di lato il capo. Aggrottò la fronte e si strinse le spalle.

“Infatti.” La luce del sole che entrava dalla finestra gli fece brillare la pelle del viso. Inghilterra sbatté le palpebre e il bagliore verde degli occhi si appannò. “È per questo che tu devi startene alla larga.”

Le braccia di America tornarono basse, e la scintilla di entusiasmo si spense come una fiammella morente. America fissò lo sguardo di Inghilterra che rimase girato verso la finestra. Una vena malinconica gli scurì il viso messo in ombra dalla frangia scompigliata sulla fronte. Le guance erano pallide, sciupate come la luce degli occhi.

America sollevò il mento e batté due volte la mano sul petto gonfio. “Salvare le persone in difficoltà è il mio mestiere.” La stoffa imbottita della giacca attutì i colpi.

America tese un piede all’indietro e raccolse con la punta la gamba della sedia. La trascinò in avanti. Al suono del legno che strideva sulle piastrelle, Inghilterra voltò lo sguardo.

“Come puoi chiedermi di starmene con le mani in mano...” America piegò un ginocchio e poggiò il piede sul bordo della sedia, affondando la suola della scarpa nell’imbottitura. Tenne le dita della mano premute sul petto gonfio e sollevò il mento. I raggi del sole gli illuminarono il profilo. Un lampo fece scintillare una delle lenti, abbagliando tutto il viso. Le palpebre si chiusero. “Quando le forze del male si stanno impadronendo del mondo e il pianeta ha bisogno di un eroe che venga a soccorrere gli innocenti?”

Inghilterra trattenne un piccolo e sarcastico sbuffo divertito chiudendo un pugno davanti alle labbra. Tornò a intrecciare le braccia al petto e inarcò le sopracciglia. Lo sguardo divenne serio, gli occhi in ombra.

“Perché è appunto solo per questo che lo faresti.” Tese il braccio verso America e aprì il palmo verso l’alto. “Per metterti in mostra.”

Le palpebre di America si sollevarono, ma la fiamma che volteggiava negli occhi si era estinta. America tornò con entrambi i piedi a terra e arricciò le labbra in una smorfia, le guance rosse e gonfie come quelle di un bimbo capriccioso. Fece un passo verso Inghilterra e allargò le braccia.

“Ma se...”

“America!”

La strillata di Inghilterra lo fece irrigidire. America chiuse gli occhi come se avesse appena ricevuto uno schiaffo, ma l’espressione imbronciata non si sgonfiò. Inghilterra scollò la schiena dal muro. Passò sotto la lama di luce che filtrava dalla finestra, tuffandosi nella nebbia di granelli di polvere, e avanzò verso America.

“La guerra non è un gioco.” Tese l’indice verso il suo petto e sollevò gli occhi. Il naso arricciato gli stropicciò le pieghe del viso. “Vedi di capirlo, una buona volta.”

America distolse lo sguardo. Le guance rimasero gonfie, spolverate di rosso. Gli occhi di Inghilterra lo puntavano come due lanterne accese.

La luce che entrava dalla finestra allungò l’ombra di un braccio che si sollevò lentamente sulla superficie del tavolo. Le dita della mano si raddrizzarono, puntando l’alto, e la loro sottile sagoma nera arrivò a sfiorare il bordo del tavolo.

“Posso dire una...”

“Lo so che non è un gioco.” America aggrottò la fronte e voltò gli occhi verso Inghilterra. Lo sguardo infantile gli rimase incollato al viso come una maschera. “Sei tu che devi smetterla di trattarmi come un bambino.”

L’indice di Inghilterra si abbassò lentamente. Inghilterra voltò il capo di profilo, ma gli occhi rimasero fissi su quelli di America. Il fascio di sole attraversò le ciocche bionde. “Bene.” Incrociò di nuovo le braccia al petto. Si voltò con una piccola piroetta, dandogli le spalle. Un angolo delle labbra si inarcò verso l’alto, un cinico sorriso gli piegò la bocca. “Il giorno in cui meriterai di essere trattato come un adulto ne riparleremo.”

America fece un piccolo sbuffo, e il gonfiore delle guance si ammosciò insieme al rosso del viso. Si voltò verso il tavolo e uscì dal raggio di luce che attraversava la stanza. Riprese la sedia che aveva spostato e si lasciò cadere a peso morto. Schiacciò il petto sul tavolo, tenendosi appoggiato con il mento. Le braccia ciondolavano verso il basso, distese sui fianchi.

La piccola ombra era sparita.

America sollevò un sopracciglio. Si strinse le spalle, fino a nascondere il piccolo ghigno nel colletto della giacca. Una scintilla attraversò gli occhi.

“Non è che mi stai tenendo fuori solo per proteggermi, vero?”

Inghilterra fece un balzo e si lasciò scappare un singhiozzo di esclamazione. Fu come se America gli avesse passato la scossa. Inghilterra si voltò di scatto e strinse i pugni sui fianchi. Il viso s’infiammò. Una vampata di rosso gli tinse la pelle fino alla punta delle orecchie.

“I-idiota! Te...” Balbettò a denti stretti, e le dita delle mani si arricciarono, tornando subito serrate a pugno. Inghilterra si spostò verso la finestra, chiuso tra le spalle. I passi pesanti lo trascinarono verso la parete, e la sua ombra si allungò fino a toccare il fondo della stanza. Le braccia si annodarono al petto, le dita tamburellarono sulle spalle. Gli occhi di Inghilterra puntarono il cielo fuori dalla finestra, messi in ombra dalle sopracciglia aggrottate. “Te l’ho già detto che ti sto tenendo al di fuori dalla faccenda per evitare che tu faccia più danni di quelli che sta causando Germania.”

America voltò il capo e la guancia premette sulla superficie del tavolo. Il legno era tiepido, carezzato dal calore del sole. America emise un piccolo sbuffo e la ventata di fiato sollevò il ciuffo di capelli davanti alla fronte. “Uffa.” Tornò a raddrizzare il viso, poggiandosi sulla punta del mento. Sbatté lentamente le palpebre e sospirò. “Non sopporto di essere escluso. Mi sento così inutile.”

“Ehm.” La piccola ombra ricomparve vicino alla figura di America. Le punte delle dita tremanti si sollevarono verso il soffitto. “I-io penso che...”

“Tu non l’hai visto.”

La voce di Inghilterra fece tornare bassa la mano.

America ruotò gli occhi verso l’altro. Sollevò le sopracciglia, e il petto rimase spremuto contro il tavolo. Inghilterra appoggiò una spalla contro il muro. Si prese la fronte con una mano e tuffò le dita nella frangia.

“Non hai visto com’era ridotto Polonia.” I polpastrelli massaggiarono le tempie e corsero tra le ciocche di capelli. “Lo so che era una nazione debole in confronto a Germania o a Russia. Ma arrivare fino a quel punto...” La mano giunse fino al collo. Le dita sfregarono i capelli sulla nuca e il braccio rimase immobile. Inghilterra serrò i denti. Le dita strinsero le ciocche spettinate. “Che diavolo gli è preso?”

Gli occhi di America si abbassarono, guardarono la sua stessa ombra riflessa sul tavolo. America sollevò il petto. Incrociò le braccia sul bordo e tuffò il mento tra le pieghe dei gomiti.

“Se mi facessi combattere, io saprei risolvere la faccenda,” disse. La voce era soffocata dall’imbottitura della giacca.

Inghilterra scosse la testa. La mano scivolò giù dalla nuca. “Smettila.” Tolse il peso dalla spalla e appoggiò la schiena al muro. Accavallò una gamba sull’altra, e volse lo sguardo a terra. Le braccia conserte, e il viso scuro. “Io e Francia ci stiamo già mobilitando per sedare i loro spostamenti. Dobbiamo mantenere il conflitto a livello europeo, capisci?” Inghilterra sollevò lo sguardo e mostrò un palmo aperto al soffitto. “Un tuo intervento finirebbe per estendere la guerra a dimensioni globali, e a quel punto...”

Lo sguardo di Inghilterra si stropicciò, come attraversato da una piega di dolore. Inghilterra distolse gli occhi e tornò a prendersi la fronte. Il pollice e l’indice premettero sulle palpebre chiuse.

“A quel punto non so nemmeno io come potrebbe andare a finire.”

America alzò il capo. Sollevò le sopracciglia e le palpebre si allargarono. Il raggio di luce gli abbagliò le lenti. “Guerra?”

Inghilterra non rispose.

America sbatté le palpebre e guardò fuori dalla finestra. L’azzurro del cielo si fuse con il colore dei suoi occhi. “Non pensavo che potessimo già chiamarla così.”

Un uccellino sfrecciò davanti al vetro. Il frullare delle ali coprì il silenzio ovattato della stanza.

Una vocina sussurrò una sillaba, come soffiata dal vento. “Po...” L’ombra della mano tornò ad allungarsi. “Potrei...”

“Aaah!” America tuffò il viso tra le braccia incrociate. Il suo lamento finì inghiottito nella stoffa. Voltò il capo e spremette la guancia contro il braccio piegato, il viso era tornato rosso e paonazzo. “Starmene a guardare senza far niente è decisamente poco eroico.”

Inghilterra sbuffò. Con un gesto della mano si tolse i capelli dalla fronte e fece un passo lontano dalla parete. “Avrai ben poco da sopportare.” Un sorrisetto di soddisfazione gli inarcò le labbra. “Li fermeremo in meno di un anno.”

La vocina tossicchiò. L’ombra del braccio piegato tentennò e la mano si mosse verso l’alto. “Io avrei una cosa da...”

“Se...” America strinse i pugni. La voce squillante fece piombare di nuovo il silenzio nella stanza.

America serrò i denti. Tenne i pugni stretti e annuì a se stesso. Si alzò di scatto, spingendo all’indietro la sedia. Una mano si aggrappò al bordo del tavolo, l’altra si sollevò verso il viso. Le dita premettero sulla montatura degli occhiali, spingendoli verso la radice del naso. La luce del sole gli carezzava il profilo, gli occhi brillavano di una luce viva che rischiarava il viso.

“Se sarete in pericolo, verrò a salvarvi tutti.” Gonfiò il petto. La mano scese dalla montatura degli occhiali, le dita si strinsero a pugno e batterono sul petto gonfio, sopra il cuore. “Ve lo prometto.”

L’espressione di Inghilterra si distese. Le sopracciglia aggrottate si sollevarono, lasciando passare una luce attraverso gli occhi usciti dall’ombra. Le guance si spolverarono di rosa, coprendo il pallore che gli sciupava il viso.

Inghilterra separò le labbra, e lasciò che un filo d’aria uscisse come un sospiro. “America...”

Lo sguardo di America bruciava dietro le lenti degli occhiali. Il battito del cuore rimbombò, passando la scarica al pugno ancora stretto sul petto. America strizzò una palpebra. Allungò la punta del pollice che premette proprio sopra la stella rattoppata sulla giacca. Il sorriso si distese, infossandosi nelle guance.

“Poi però mi prenderò io tutto il merito di salvatore del mondo.”

Le vene sulla fronte di Inghilterra pulsarono, ramificandosi fino alle tempie. Una scoppiò, facendo esplodere Inghilterra stesso.

Inghilterra strinse i pugni sui fianchi e la vampata di rabbia gli abbrustolì il viso. “Tu, idiota di un moccioso!”

America scoppiò a ridere e scappò verso l’uscita della stanza. Inghilterra grugnì di rabbia. Sollevò le maniche della giacca fino ai gomiti e i bollori di rabbia lo fecero rabbrividire.

“Ti faccio vedere io...”

Inseguì la risata, e l’eco della sua corsa si perse fuori dalla stanza. La porta rimase aperta. Il brusio dei passi e l’ultimo singhiozzo della risata di America si dissolsero, il silenzio ovattato tornò a riempire la stanzina come all’interno di una bolla. I granelli di polvere che aleggiavano all’interno della lama di luce smisero di vorticare, e formarono un sottile strato argenteo che rifletteva i raggi di sole. Dentro a quell’aria piatta e stagnante, un debole sospiro scosse il silenzio.

Canada avvolse le braccia attorno al pancino di Kumajiro, e le dita sfregarono la pelliccia. Piegò la testa di lato, a palpebre abbassate. Un dolce sorriso sconsolato dipinto sulle labbra.

“Ancora una volta non ho potuto dire la mia.”

L’orsacchiotto sollevò il musino. Il naso sfiorò il viso di Canada e le zampette si strinsero attorno alle braccia che gli avvolgevano il busto.

“Chi sei?”

Il sorriso di Canada tremò. “Sono Canada, il tuo padrone.”

Canada chiuse le spalle. Piegò la schiena in avanti e appoggiò le labbra tra le orecchie di Kumajiro. La pelliccia dell’orsacchiotto gli fece solletico al naso.

“Forse un giorno arriverà anche il mio momento di far vedere quello che valgo.” Le braccia di Canada strinsero delicatamente il soffice corpicino dell’orso. Il tenero sorriso rimase fermo. “Almeno ci sei tu ad ascoltarmi.”

Kumajiro sollevò una zampina. Le unghiette batterono sulla guancia di Canada. “Ho fame, dammi da mangiare.”

Canada esalò un sospiro – il fiato caldo venne assorbito dalla pelliccia di Kumajiro – e annuì.

 

♦♦♦

 

Le ginocchia di Italia traballarono, le gambe si piegarono, assalite da piccoli spasmi che contrassero i muscoli dei polpacci. Il piede si allungò sul manto d’erba, toccò terra, e il ginocchio si piegò in avanti. La gamba cedette. Il piede rimasto indietro si trascinò sul prato e non si raddrizzò. Italia tuffò le mani tra i ciuffi d’erba per attutire la caduta, le ginocchia nude grattarono sul prato e si sporcarono di terra e di sbavature d’erba. Gettò il capo in avanti e le punte dei capelli sfiorarono gli steli. Il fiatone li faceva ondeggiare. Le braccia tremarono come le gambe e i muscoli si rilassarono. Italia cadde di petto. L’erba prudeva a contatto con la pelle bagnata di sudore, e gli steli gli fecero il solletico sulle orecchie e sulle guance.

Italia prese un profondo respiro e continuò a boccheggiare per la fatica. Il profumo dell’erba e della terra umida gli riempì le narici e la gola. Strofinò una guancia sul prato e ruotò gli occhi verso l’alto. Sollevò una mano per togliersi i capelli dalla fronte intrisa di sudore e tenne aperte le dita umide per ripararsi dal sole. I raggi rossi del tramonto incorniciavano la sagoma rannicchiata di Giappone.

“Quanti giri ho fatto?” chiese Italia. Inalò un altro profondo respiro e riprese ad ansimare.

Giappone strinse le braccia attorno alle ginocchia premute sul petto. Sbatté lentamente le palpebre e voltò il capo di fianco. Gli occhi si abbassarono sui piccoli ciottoli posati uno di fianco all’altro in mezzo all’erba. Due macchie bianche nella distesa verde. Giappone sbatté di nuovo le palpebre. I grandi occhi neri tornarono a incrociare lo sguardo di Italia.

“Due.”

Una smorfia di sofferenza attraversò il viso di Italia. Lui tese il collo verso Giappone e sollevò le sopracciglia, con aria implorante.

“Qua... quanti ne mancano?”

Gli occhi di Giappone ruotarono verso l’alto. I raggi dietro di lui brillarono sui capelli corvini, una sottile linea rossa gli contornava le ciocche.

Giappone sbatté lentamente gli occhi. “Quarantotto.”

Italia si lasciò scappare un lamento trascinato. Distese le braccia sul prato e tuffò il viso nell’erba pizzicante. Le dita delle mani strinsero sugli steli, ma i fili d’erba rimasero intatti.

“Sono già stanco, non ho voglia di correre.”

Italia rotolò su un fianco e rimase disteso. Gambe divaricate e braccia spalancate. Le dita intrecciate agli steli carezzarono il manto soffice e umido. Italia afferrò la stoffa della maglia da corsa e la sollevò, facendo prendere aria al petto e al collo. Il vento frizzante della sera gli rinfrescò la pelle zuppa di sudore. Italia sventolò la stoffa, facendo passare più aria, e arricciò le labbra in una smorfia.

“Gli allenamenti di Germania sono così faticosi,” si lamentò. Il respiro aveva rallentato. Il viso rosso di fatica stava tornando roseo, e le goccioline di sudore che imperlavano la fronte si erano asciugate.

“Metticela tutta, Italia-kun.”

Italia sospirò. Lasciò andare la maglia che tornò piatta sul petto, e stese sul prato il braccio nudo. Italia inarcò il collo all’indietro e gli occhi si girarono verso Giappone, guardandolo dal basso. La sua ombra allungata copriva la figura di Italia.

“Non corri insieme a me, Giappone?”

Giappone fece di no con il capo. I capelli si scossero contro le guance. “Io ho il compito di sorvegliarti.”

Dalle labbra di Italia uscì un altro lamento. Italia si rigirò su un fianco, e il viso affondò tra i fili d’erba che profumavano di campo. Italia premette i palmi a terra, piegò i gomiti, e fece leva sulle braccia. Gonfiò le spalle, strinse i denti, e il petto si sollevò lentamente dal prato. Le braccia tremarono. Italia buttò fuori una soffiata d’aria dalla bocca e ricadde a terra come una bambola a cui hanno tolto le batterie. I capelli caduti davanti alla fronte gli nascosero il viso.

“Non ce la faccio.”

Un brontolio gli fece vibrare lo stomaco. Italia fece scorrere le braccia fino alla pancia e si avvolse il busto. Il viso scivolò sul prato e gli occhi si sollevarono verso Giappone. Le labbra tremarono in un sorrisetto.

“Forse se prima mangiassi un po’ potrei correre meglio.”

Giappone scosse il capo. L’espressione impassibile. “Niente cibo fino alla fine dell’allenamento.” Sciolse il braccio dalla stretta che avvolgeva il ginocchio e alzò la punta dell’indice di fianco alla guancia. “Ti farebbe male allo stomaco, Italia-kun.”

Italia sollevò le sopracciglia. Il labbro inferiore tremò, le palpebre si spalancarono esibendo gli occhioni imploranti. “Allora possiamo finire qui per oggi?”

“No.”

Italia frignò di nuovo. Strinse le dita attorno ai ciuffi d’erba e si trascinò di fianco a Giappone. Le gambe lo seguivano a peso morto. Italia rotolò di lato. Tese le gambe e le punte dei piedi si sollevarono. Le braccia allungate dietro la schiena inarcata, e le mani affondate tra l’erba. Italia piegò il collo all’indietro. La frangia si scostò dalla fronte già asciutta, e la ciocca arricciata scivolò dietro la spalla. Italia si grattò un braccio. Qualche filo d’erba si scollò dalla stoffa della maglietta e il prurito svanì. Le palpebre si abbassarono lentamente, la luce rossa del sole gli carezzava il viso, intiepidiva la pelle. Un dolce tepore lo avvolse, e il respiro rallentò.

Italia scoccò un’occhiata a Giappone. “Ehi, Giappone, posso chiederti un favore?”

Giappone ricambiò lo sguardo. Sbatté le palpebre, e il viso assunse una lieve piega interrogativa.

Italia strisciò sul prato, avvicinandosi al suo fianco. Aprì una mano vicino alla guancia e tese il collo verso Giappone. “Se io faccio un pisolino, potresti non fare la spia a Germania?” Italia giunse le mani davanti alla punta del naso e chiuse un occhio. “Ti prego.”

Giappone separò lievemente le labbra. Passò un sottile alito di vento che gli mosse i capelli sulle guance. La luce del tramonto gli illuminava di rosso la pelle, faceva brillare le ciocche come pennellate di petrolio. Gli occhi di Giappone fissarono l’orizzonte.

“Non posso tradire la fiducia che Germania-san ha riposto in me.” Gli occhi tornarono su Italia. I raggi scarlatti accerchiarono le pupille, grandi e nere come pozzi. “Anche Italia-kun dovrebbe fare lo stesso e completare l’allenamento.”

Il capo di Italia ciondolò tra le spalle. Un debole sospiro uscì dalla bocca. Italia richiamò un ginocchio al petto e lo avvolse con il braccio. Spolverò la pelle dai grani di terra e poggiò il mento sulla gamba piegata. Voltò lo sguardo, e la guancia premette sul ginocchio.

“Germania conta molto su di me?” chiese.

Giappone fece un piccolo sospiro. Il viso rigido come una maschera si ammorbidì. Le sottili labbra si piegarono di poco verso l’alto, quasi a formare un sorriso.

“Germania-san ripone molta fiducia in te, Italia-kun.”

Gli occhi di Italia si illuminarono. “Davvero?”

Giappone annuì. Strinse le ginocchia al petto, ma il suo mento rimase alto, la sua schiena dritta e rigida.

Italia sbatté piano le palpebre. Ruotò gli occhi all’orizzonte, verso la linea d’erba colorata di rosso, e la sua espressione si intristì. Posò la bocca sul ginocchio piegato, gli occhi si abbassarono sul prato. Italia attorcigliò un filo d’erba attorno all’indice e iniziò a giocherellarci.

“Però non mi ha fatto partecipare alla campagna di Polonia.”

Una folata di vento scosse il lenzuolo d’erba. Grandi onde di un verde pallido attraversarono la distesa scura. Italia si strinse le spalle. L’unghia premette sul filo d’erba.

“Io... io so che non avrei potuto fare molto e che sarei stato solo un peso per Germania, ma...” Piegò il capo di lato e fece un piccolo sospiro. “Ma mi sento un po’ messo in disparte.”

Gli occhi di Giappone cercarono il suo sguardo. Lo stelo d’erba avvolse completamente l’indice di Italia. Italia sollevò il pollice e carezzò la sottile fibra verde con il polpastrello.

Giappone sbatté le palpebre. “Italia-kun...”

La sottile bava di vento li avvolse. Italia sollevò il capo e simulò un’espressione interrogativa. L’aria fresca contro la sua maglietta bagnata di sudore lo fece rabbrividire.

“Se Germania-san non ha richiesto il tuo aiuto è stato solo per proteggerti,” disse Giappone.

Italia sgranò gli occhi. I brividi sulla schiena si placarono. “Da... davvero?”

Giappone annuì. L’espressione di nuovo morbida. “Ed è per questo che desidera che tu faccia i tuoi allenamenti.”

Un mugugno di delusione fece di nuovo intristire Italia.

“Se Italia-kun diventerà più forte, poi potrà combattere di fianco a Germania-san.”

“Oh.” Italia sollevò lo sguardo. I capelli si agitarono sulla fronte, mossi dal vento. Il cielo rosso si riflesse nei suoi occhi. “Combattere anch’io?”

 

Le mani stringevano sul calcio del fucile, la sensazione liscia e fredda del metallo correva sulla pelle, l’odore della polvere da sparo che penetrava le narici e gli bruciava la gola. L’elmetto schiacciava la testa, il laccio pungente stringeva la gola e grattava la pelle del collo. Lo zaino pesava sulla schiena, faceva male alle spalle e lo schiacciava verso il basso. Italia abbassava gli occhi. La sua piccola ombra si allungava a partire dai piedi, goffa e rannicchiata sotto lo zaino più grande di lui.

Un’altra sagoma scura si distendeva al suo fianco. La mano libera che non stringeva il fucile si stendeva di lato. Le dita si agitavano, come cercando di aggrapparsi a qualcosa nell’aria. La mano incontrava la pelle di un guanto. Le sottili e piccole dita si arrampicavano sulla grande e forte mano coperta dal tessuto lucido e liscio. La presa si stringeva. Una scossa di calore gli attraversava il braccio, arrivando fino alla spalla.

Lo zaino non pesava più, l’elmetto aveva smesso di stringere e di premere. La puzza di polvere da sparo era svanita.

 

Italia strinse i pugni sul prato e annuì, deciso. “Sì, hai ragione.”

Si diede una piccola spinta, sbilanciandosi all’indietro, e saltò in piedi con un solo scatto. Le braccia si sollevarono, portando i pugni davanti al petto.

“Ce la metterò tutta e farò felice Germania con i miei miglioramenti, così alla fine sarà orgoglioso di me.”

Lo sguardo di Giappone era alto verso la figura di Italia, tuffata nella luce del sole. Giappone annuì.

Quando Italia si voltò verso di lui, un raggio di sole gli colpì il fianco, schizzando i fasci di luce verso l’esterno. Italia chiuse gli occhi. Un sorriso di soddisfazione gli piegò le labbra. “Però prima faccio una pausa.”

Giappone sgranò le palpebre.

Italia distese le braccia e si abbandonò di nuovo sul prato. Ricadde tra l’erba con un sospiro, e si lasciò avvolgere dai morbidi e tiepidi fili che tappezzavano la distesa. Chiuse gli occhi e si raggomitolò su un fianco. I palmi giunti sotto la guancia.

Giappone sollevò le sopracciglia. Emise un sospiro sconsolato e scosse il capo. “Italia-kun...”

Italia!

Tutti e due saltarono come fosse esplosa una bomba alle loro spalle. L’ombra che scendeva sul prato si allungò fino a seppellirli dentro il nero.

Giappone voltò il busto e scattò sulle ginocchia. Schiena rigida e braccia sui fianchi. “G...Germania-san.”

Germania inarcò le sopracciglia. Le dita strinsero sulle braccia annodate al petto gonfio. Gli occhi scuri di rabbia si abbassarono sul prato.

“Ti sei messo a poltrire?”

Italia scattò in piedi come una molla. “Ahw!” Passò una mano sulla stoffa stropicciata della maglietta e lasciò cadere qualche briciola di terra. Il palmo rigido della mano sinistra batté sulla fronte. “Ca-capitano!”

Giappone si mise in piedi di fianco a lui. Sollevò i palmi al cielo e inclinò la schiena in avanti. Il capo basso, il viso in ombra. “È colpa mia, Germania-san, non ho...”

“Non ti posso lasciare solo un minuto,” sbottò Germania.

Lo sguardo di Italia vacillò. I tremori si espansero dalle punte dei piedi fino alla cima del capo. Germania abbassò le palpebre. Prese un profondo respiro e il viso si distese. Sollevò un braccio, e le dita dell’altra mano raccolsero la stoffa della manica fino al gomito. Fece lo stesso con l’altro braccio. Germania riaprì gli occhi e due lampi azzurri saettarono verso Italia. A spalle dritte e petto gonfio, caricò la corsa e sfrecciò verso di lui. La sua ombra si ingrandì sul prato. Quando passò sotto i raggi del sole, la croce di ferro brillò.

Italia scattò sul posto. Si irrigidì come prima e si voltò con una piroetta. Piegò i gomiti sui fianchi e fuggì dalla carica, correndo per tutta la distesa di prato.

“Scusaaa!”

Italia!

I due schizzarono davanti a Giappone, ancora immobile nel piccolo inchino. Giappone si voltò. Portò il pugno tremolante davanti alla bocca e seguì con lo sguardo la corsa dei due.

“Tu... tutti corrono?”

Italia aveva alzato le braccia al cielo. Le sue urla si stavano perdendo nell’aria.

Giappone scosse il capo. “De... devo correre anch’io.” Si rimboccò le maniche e si buttò verso le ombre dei compagni. Dopo sole tre falcate, il fiatone cominciò a gonfiargli il petto e ad appesantirgli il respiro. “Vi prego, aspettate.”

 

.

 

Le braccia di Giappone molleggiavano sui fianchi a ogni balzo. I piedi si trascinavano tra l’erba, scalfendo una scia più scura sulla distesa di verde. Il fiato pesante passava attraverso le labbra semichiuse, il sudore gocciolava dalla fronte sulle guance, per poi rotolare fino al mento. I capelli corvini si erano appiccicati a grandi ciocche sul viso. Gli occhi perplessi inseguivano le ombre di Germania e Italia, proiettate dalla luce rossa. Italia frenò la corsa e allargò le braccia per non cadere. Si tenne in equilibrio su un piede solo e si voltò all’indietro. Le braccia sempre larghe. Un raggio di sole gli illuminò il viso e l’onda dorata corse sulla chioma castana. Si perse in una scintilla che morì sulla punta del ciuffo arricciato. Quando Germania gli finì addosso, le mani lo strinsero dietro le spalle. Le gambe dei due si intrecciarono ed entrambi persero l’equilibrio. Italia saltellò di due passi all’indietro e le ginocchia si piegarono. Cadde tenendosi aggrappato alla schiena di Germania, con le braccia annodate attorno al collo. Si tuffarono tra l’erba e Germania rotolò su un fianco. Le mani di Italia allacciate dietro la sua nuca. Italia scoppiò a ridere e gli poggiò i gomiti sul petto. Germania aggrottò la fronte e il viso raggelò. Le guance divennero ancora più rosse. L’ombra di Giappone li raggiunse. Le gambe si ammosciarono e il suo corpicino affaticato si abbandonò sul prato, di fianco agli altri due. Le braccia larghe sui fianchi, e il viso rivolto al cielo. Il petto che si alzava e si abbassava, riempiendosi dell’aria della sera.

Il riflesso di Prussia si rispecchiò sul vetro della finestra. Prussia strinse un pugno sulla superficie e spinse le unghie dentro il palmo fino a che la mano non tremò. Affondò un canino nel labbro inferiore e rantolò un ringhio in fondo alla gola.

“Ghn, guarda quei bastardi come si divertono senza il sottoscritto.”

Germania si mise a sedere sull’erba e Italia si impennò sulle ginocchia. L’indice di Germania gli puntò il petto. Il viso paonazzo di rabbia e imbarazzo andava a fuoco. Le labbra dei due si muovevano, quelle di Germania balbettarono. Il dito teso si sollevò, si aggrappò al ciuffo di Italia e lo attorcigliò su tutto il palmo della mano. Germania piegò il gomito e glielo tirò verso il basso. Gli occhi di Italia brillarono, le sopracciglia sollevate gli fecero arricciare il naso. Una spolverata di rosso gli tinse le guance. Giappone sollevò entrambe le braccia e spinse l’aria, facendo cenno a entrambi di calmarsi. Le sue labbra dissero qualcosa che Prussia non udì.

Prussia schioccò la lingua. Staccò il pugno dalla finestra e il suo riflesso svanì dal vetro.

“Mi fa proprio incazzare vederli là fuori mentre io sono costretto a starmene ingabbiato qui.”

Un tintinnio alle sue spalle gli fece vibrare l’orecchio. Prussia non si voltò. Altro tintinnio, come di una posata di metallo che si scontrava contro una superficie di porcellana.

“Puoi anche uscire, se vuoi.”

La morbida voce che attraversò la stanza gli fece salire un brivido lungo tutta la schiena. Prussia sollevò un angolo delle labbra e inarcò un sopracciglio. Si voltò di scatto, e le scintille emanate dai suoi occhi puntarono il fondo della sala come due fari accesi. Austria posò il cucchiaino sul bordo del piattino da tè e sollevò le dita fino alla fronte. Passò il tocco tra i capelli e se li sistemò dietro l’orecchia. I polpastrelli scesero e sfiorarono le carte strette dall’altra mano. Austria sollevò gli occhi violacei dai fogli e il suo sguardo incrociò quello di Prussia.

“Non sentirò la tua mancanza,” disse.

Prussia strinse la mano su un fianco. Fece uno sbuffo e gettò lo sguardo di lato. Il ghigno sempre lì. “Umpf, allora resterò qui solo per darti sui nervi.”

Austria abbassò le palpebre e sospirò. Una leggera piega infastidita gli contorse le sopracciglia. “Molto maturo.” Tolse la mano dai fogli e allungò il braccio teso verso la tazzina di tè. Le spalle premettero sullo schienale della sedia, una gamba piegata si accavallò all’altra. Mentre il braccio di Austria portava la tazza vicino alle labbra, gli occhi corsero sulle pagine sorrette davanti al suo viso. I vapori del tè gli stesero un leggero strato di vapore sugli occhiali. Il bordo di porcellana sfiorò la bocca, e Austria prese un piccolo sorso.

Prussia lanciò un’ultima occhiata fuori dalla finestra.

I tre erano ancora distesi sull’erba. Italia teneva le braccia premute contro il petto di Germania, e ridacchiava. Lo sguardo sorridente rivolto verso Giappone.

Prussia si tolse dalla parete e la sua immagine svanì dal vetro. Prese una delle sedie e si tuffò sullo schienale. Annodò le braccia al petto e sollevò le gambe, accavallando i piedi sul bordo del tavolo. Stropicciò gli angoli dei fogli sparpagliati vicino al vassoio del tè, e Austria fece una smorfia di disapprovazione. Prussia piegò il collo all’indietro e puntò il soffitto.

Tintinnio di posata. Austria aveva poggiato la tazzina sul piatto.

“Puntate anche a occidente, adesso?” disse Austria.

Prussia inarcò un sopracciglio e abbassò lo sguardo. Austria gli scoccò un’occhiata da dietro le lenti e reclinò lievemente i fogli che teneva in mano. Prussia espose un canino e infossò il ghigno nella guancia.

“Dire che puntiamo a occidente è riduttivo nei confronti della nostra magnificenza.” Fece scivolare i piedi dal tavolo e trascinò a terra uno dei fogli. Prussia premette i gomiti sul legno e divaricò le dita delle mani come a voler disegnare un arco invisibile. Gli occhi si spalancarono. “Noi puntiamo a tutto.”

Austria piegò un sopracciglio. “Tutto?” Dalle labbra gli uscì una sottile risata. Austria abbassò le palpebre e sollevò la punta del naso. “Non montarti la testa.”

Il ghigno di Prussia si capovolse. Una ragnatela di pieghe aggrottò la fronte, scurendolo in volto.

Austria poggiò la nocca dell’indice in mezzo alle lenti e spinse gli occhiali all’indietro. Quando riaprì gli occhi, le labbra smisero di sorridere.

“Riuscire ad abbattere un poveretto che teneva il fucile in mano preoccupandosi solo di non spezzarsi un’unghia non è un vanto.”

Prussia emise un sottile ringhio. Un nodo di rabbia gli strinse lo stomaco. Austria sfilò un foglio da quelli che teneva in mano e lo posò assieme alle altre carte sul tavolo.

“Adesso che avete svegliato Francia e Inghilterra non avrete vita facile,” disse.

Prussia gorgogliò una risata che gli fece vibrare la schiena. Premette un gomito sul tavolo e la voce s’inacidì. “Non dovresti dirlo con così tanta leggerezza.” Spinse il braccio in avanti, poggiando tutto il peso sulla spalla, e trascinò il petto sulla superficie del tavolo, tra le carte spiegazzate. Il collo si tese verso Austria. “Devo ricordarti da che parte stai, principessina?”

Austria distolse lo sguardo. La piega infastidita continuò a stropicciargli il viso. “Ho già spiegato a tuo fratello che sono dalla vostra parte solo di fatto.”

“E speri di startene con il culo sulla poltrona per tutto il tempo?” La voce di Prussia non rideva più.

Austria strinse le dita sui bordi dei fogli. Voltò lentamente il capo verso Prussia e sollevò le sopracciglia. Un fascio di luce gli abbagliò gli occhiali. “Siete stati voi a dire che durerà poco.”

Prussia sobbalzò. Il pugno steso sul tavolo si strinse fino a che la pelle umida non gemette sotto la pressione delle unghie. Prussia schioccò la lingua. Gettò il capo di lato e si spinse contro lo schienale della sedia. Il braccio arretrò e le dita agguantarono i fogli stropicciati. Sollevò la manciata di carte davanti al viso imbronciato. Due fogli erano al contrario, le scritte rivolte verso Austria. Prussia li ribaltò borbottando tra i denti.

Austria tese un braccio verso il tavolo. Strinse l’indice sul manico di porcellana della tazzina e portò i vapori del tè davanti al viso. Prese due sorsi, ma gli occhiali non si appannarono. Austria riappoggiò la tazza sul piattino e il rumore della ceramica che si toccava ruppe il silenzio. Assottigliò lo sguardo e le sopracciglia si aggrottarono lievemente. Le scritte battute a macchina si riflessero sulle lenti rettangolari.

“Siete sicuri di essere abbastanza preparati per un’invasione diretta a Francia?”

Prussia sbuffò una risata acida. Abbassò le carte davanti al viso e premette una mano sul petto gonfio. “Noi siamo sempre preparati.” Tolse le dita dalla croce di ferro e ruotò il polso, sventolando la mano per aria. “Per il momento, però, West ha deciso di lasciare la situazione in stallo, per quanto riguarda il fronte occidentale.”

Arricciò le labbra e gli occhi puntarono la luce della finestra. I raggi scarlatti del sole si mescolarono ai riflessi delle sue iridi.

“Sulla linea Maginot non si sente l’eco di uno sparo. C’è addirittura chi ha iniziato a chiamarla ‘La strana guerra’.” Prussia si scollò dallo schienale. Batté le carte sul tavolo e tornò a gonfiare il petto. “Diamogli tempo di abbassare la guardia e poi li conquisteremo in un battito di ciglia.”

Austria fece roteare gli occhi e un piccolo sospiro uscì dalle sue labbra. Poggiò le carte lasciandole cadere sul tavolo. I fogli scivolarono di poco verso Prussia.

“Decidere di invadere una nazione belligerante sfruttando due paesi che si sono dichiarati neutrali...” Abbassò lo sguardo e si tenne gli occhiali con la punta dell’indice. I disegni sulla carta geografica si riflessero sulle lenti. Tre linee scure partivano dai confini tedeschi, entravano nel Lussemburgo fino a penetrare in Olanda e Belgio. Le ramificazioni si moltiplicavano e schizzavano verso i confini della Francia, racchiudendo la regione come in un abbraccio di artigli. Il viso di Austria divenne scuro. “È semplicemente meschino.”

“Ohi.” Prussia lo fulminò con un’occhiataccia.

I due sguardi si incrociarono e i denti di Prussia stridettero.

“Siamo in guerra. Non esiste la meschinità, non esistono tiri mancini, o colpi bassi.” Prussia raddrizzò la schiena e annodò le braccia al petto. Gli occhi si allontanarono da quelli di Austria. “Esiste la guerra e basta.”

“Perché non state attaccando l’obiettivo fin da subito, allora?” domandò Austria. “Più tempo scorre, e più Inghilterra avrà occasione di rafforzarsi e di resistervi.” Austria sollevò il mento e il suo sguardo si intensificò. La soffice luce sottile divenne più cupa. “Occupare Francia è solo un pretesto per arrivare a lui, no?”

“Attaccarlo era nei piani.” Prussia poggiò un gomito sul ginocchio accavallato. Il pugno chiuso sprofondò nella guancia e lui scosse le spalle. “Ma West ha fatto ritirare l’ordine. Credo sia per il fatto che vuole sistemare le faccende al nord, prima di occuparsi di questioni più difficili. Se l’occidente può aspettare, la Scandinavia è da sistemare il prima possibile.”

Gli occhi ruotarono verso i fogli che aveva lasciato cadere sul tavolo. Un doppio cerchio racchiudeva la regione finlandese. Pesanti frecce rosse vi affondavano a partire dal territorio sovietico.

Lo sguardo di Prussia si accese. Il sorriso fece brillare l’arcata dentale. “Non dobbiamo rischiare di rimanere a corto di carburante.”

 

♦♦♦

 

30 novembre 1939

 

Russia abbassò lentamente le palpebre. Prese un piccolo sospiro e lasciò uscire l’aria. “Capisco, rispetto la tua scelta.”

Riaprì gli occhi, e un arco di luce viola brillò attorno alle pupille. Il riflesso inquadrò davanti a lui. Russia chinò il capo di lato e sorrise. “In fondo, credo che dopo un mese di trattative andate a vuoto tu non abbia intenzione di cambiare la tua posizione.”

Finlandia strinse i pugni sulle ginocchia. Le braccia rabbrividirono, e il respiro passò a fatica attraverso le labbra tremanti. Chinò il capo in avanti, mandò giù un groppo di saliva amara e scosse il capo. La mano del generale seduto di fianco a lui gli toccò la spalla.

Russia si strinse le spalle e il sorriso gli illuminò il volto. “Spero solo che tu ora abbia la forza di accettare le conseguenze della tua scelta, Finlandia,” disse.

Finlandia prese un respiro. Il palmo del generale scivolò giù dalla sua schiena e i brividi smisero di attraversarla. Finlandia raddrizzò le spalle, gli occhi lucidi vacillavano.

“Io...” Scosse il capo e il tono di voce tornò limpido. Finlandia inarcò le sopracciglia e lo sguardo s’indurì. “Io sono pronto a combattere fin da subito per difendere il mio paese.”

Russia annuì. La stoffa della sciarpa si abbassò e gli scoprì le labbra sorridenti. “Bene.” Si alzò dalla sedia e i bordi della giacca scivolarono fino alle caviglie. Russia lanciò un lembo della sciarpa dietro le spalle e ricambiò lo sguardo di Finlandia. “Questo era quello che volevo sentirmi dire.”

Russia si voltò e imboccò l’uscita. Il generale sovietico si sciolse dalla rigida posizione di guardia e si incamminò alle sue spalle, nascosto nell’ombra. Russia sollevò una mano.

“Allora ci vedremo presto, Finlandia.”

Si fermò. Il generale di fianco a lui. Russia voltò il capo e scoccò un’occhiata a Finlandia. Al piccolino salirono i brividi fino alla punta dei capelli.

Russia restrinse le palpebre. “Mi auguro che tu non ti faccia trovare impreparato.”

Finlandia si morse il labbro inferiore e la luce degli occhi traballò. Chinò il capo e lo sguardo vuoto puntò i fogli pinzati e raccolti sul tavolo. Sotto i muri di inchiostro battuti a macchina, le linee tracciate per le firme erano vuote. Le penne ancora tappate abbandonate sui bordi del tavolo.

Russia strinse le mani dietro la schiena. Marciò a mento alto lungo tutto il corridoio, con i passi del generale che gli facevano l’eco alle sue spalle. Il tenero sorriso continuò a tenergli piegate le labbra.

“Mobilitiamo subito le truppe, generale.”

“Signore.” Il generale infilò due dita nel colletto dell’uniforme e allargò la stoffa. Il sudore impregnava la pelle dietro la nuca e sotto la gola. L’uomo si schiarì la voce. “Comprendo il fatto che impadronirsi del territorio scandinavo costerebbe un taglio di materie prime agli Alleati, e che garantirebbe un’ottima posizione strategica, ma...”

Russia chinò gli occhi e sollevò le sopracciglia. Il generale ebbe un sussulto e distese lo sguardo. Strinse anche lui le dita dietro la schiena e irrigidì le spalle.

“Ecco, è sicuro di riuscire a tenergli testa?” chiese. “Una coalizione nordica potrebbe risultare difficile da infrangere, e...” Il generale si mangiò le parole. Sciolse la presa e si strofinò una mano dietro la nuca, tra i capelli sudaticci. “E il fatto che lei ora sia stato escluso dalla Società delle Nazioni...”

“Non c’è pericolo, generale.” Russia riprese a sorridere e chiuse le palpebre. “Armi, soldati e forza non ci mancano. Ora è arrivato il momento di far vedere a Germania di cosa siamo capaci.”

Riaprì un occhio, e la scintilla viola saettò in direzione del generale. La voce divenne più profonda e si mescolò al rumore secco dei passi che pestavano il pavimento.

“È un dovere verso il prezioso alleato che conta su di noi, no?”

Il generale annuì, ma la sua espressione vacillò. “C-certo, signore.”

L’ufficiale infilò la mano nella tasca della divisa ed estrasse un taccuino insieme a una penna. Mise il tappo tra i denti e la chiusura saltò. Il tappo rimase infilato in un angolo delle labbra. Il generale sfogliò il blocco fino a che non arrivò alla pagina bianca. La carta a righe gli coprì il dorso delle mani. L’uomo appoggiò la punta della penna sul foglio e iniziò a far correre la mano.

“Immagino che dovremmo sfruttare tutte le nostre potenzialità.” Quando parlava, il tappo della penna si muoveva tra le sue labbra. La voce leggermente impastata. “Mi occuperò io stesso di informare l’esercito baltico e quello delle sue sorel –”

“Conto su di lei, generale.”

Il generale sollevò gli occhi. La penna smise di scorrere e di inchiostrare lo spazio tra le righe.

“Comunque, credo che ci sarà qualcun altro al nostro fianco,” disse Russia.

Il generale sollevò un sopracciglio. Il fiato fece fischiare i fori in cima al tappo. “Qualcun altro, signore?”

Il viso di Russia rabbuiò, e gli occhi si illuminarono come fari. Il sorriso che si distendeva allargò l’ombra calata sulla sua fronte e che avvolgeva le palpebre scure come una maschera di buio. Quando Russia rise, il sangue del generale raggelò.

“C’è qualcuno che mi deve un favore.”

 

 

   
 
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