X.
I am a
scream of the fright
Il sole stava tramontando, a Londra, tingendo
di rosso, arancio e viola le turbinose acque del Tamigi. Lontano, il Big Ben
innalzava al cielo la sua peculiare melodia, che ancora non mancava di far
sorgere uno spontaneo sorriso sui volti delle persone che, nonostante l’ora si
stesse facendo tarda, gremivano ancora i viali della città che non dorme mai.
I venditori ambulanti cominciavano a ritirare
di gran fretta le loro merci, lanciando sguardi preoccupati ai nuvoloni neri
che si stavano ammucchiando nel cielo, minacciando di riversarsi sui passanti
da un’istante all’altro, e mentre i lampionai mogiamente si incamminavano per
le strade con le loro scale in spalla, pronti a svolgere il loro uffizio, la
folla che occupava la popolosa città durante le ore diurne veniva pian piano
sostituita da quella, più colorata e rumorosa, che la animava quando il sole
lasciava spazio alla sua sorella più pallida.
In un simile viavai nessuno fece caso alle due
figure che cercavano, come tante altre, di farsi strada nella fiumana di gente
che percorreva disordinatamente Victoria Street. A un occhio non allenato
sarebbero potuti sembrare due comuni giovani gentiluomini di ritorno da qualche
impegno pubblico, oppure appena evasi dalle loro abitazioni in cerca di qualche
divertimento notturno. Eppure, se qualcuno si fosse peritato anche solo di
lanciar loro un secondo sguardo, si sarebbe accorto che la loro andatura era
appena troppo frizzante per poter aderire ad un tale, preciso quadro sociale;
camminavano spalla a spalla, con le maniche dei cappotti che si sfioravano appena
senza mai entrare veramente in contatto, e sui loro volti leggermente arrossati
erano stampati due sorrisi euforici che non volevano proprio saperne di
andarsene; se ne stavano troppo vicini per essere sconosciuti o amici, le loro
teste erano inclinate in maniera complice e i loro corpi gravitavano l’uno
intorno all’altro come un roccioso satellite attorno a un pianeta.
Se, insomma, i passanti si fossero sforzati di vedere per davvero - come un certo
Demone di nostra conoscenza non smetteva mai di sbraitare - avrebbero certamente
letto nei volti di John e Sherlock ogni risvolto dell’avventura che avevano
appena vissuto.
Sherlock - e John non avrebbe mai smesso di
dire quanto tutto questo lo aveva stupito - si era infatti dimostrato corretto
nelle sue supposizioni: Jack lo Squartatore non era sparito perché la sua vita
aveva avuto fine, o per essere stato arrestato per qualche motivo non connesso
agli efferati omicidi con cui aveva macchiato le strade di Londra. Aveva smesso
di uccidere, sì, ma per ben altro motivo:
“Il tocco supremo dell’artista - sapere quando
fermarsi.” per esprimerla nelle parole di Sherlock.
Il Dottore alzò la testa, azzardando uno sguardo
nella direzione del Demone; anche Sherlock si era voltato verso di lui, nello
stesso momento, come se i due avessero risposto all’unisono a un qualche arcano
richiamo che poteva essere udito solo dalle loro orecchie.
I loro occhi si incontrarono - il grigio-verde
inclemente e luminoso di una bufera di neve dentro il più caldo blu del mare
dei tropici - e per un attimo, l’aria che li separava sembrò sfrigolare.
Nessuno avrebbe potuto determinare mai di preciso chi dei due avesse iniziato,
e in fondo il tutto fu così spontaneo che quel dettaglio non aveva poi tanto
importanza. Fatto sta che, all’improvviso, per entrambi non fu più possibile
mantenere la maschera di relativa compostezza che avevano indossato
allontanandosi da Middlesex Street: iniziarono a
sghignazzare, senza ritengo o controllo, i loro occhi luccicanti di
divertimento, la loro sguaiatezza fonte di molte occhiate sbieche da parte dei
passanti.
Sembrava non esserci possibilità, per loro, di
riacquistare un minimo di controllo in tempi accettabili, perché quando anche
le risa di uno sembravano minacciare di estinguersi, era sufficiente una fugace
occhiata al volto dell’altro perché riprendesse da capo, e con intensità
maggiore.
“Questa…
questa…” cercò di dire John, tra un tentativo di respirare e l’altro,
asciugandosi l’umidita che il riso aveva fatto accumulare nei suoi occhi con i
palmi delle mani, “…questa è… è…”
“La cosa più ridicola che tu abbia mai fatto?”
concluse Sherlock per lui, riuscendo ad articolare un discorso coerente
nonostante fosse in preda all’euforia.
John annuì veementemente, portandosi una mano
sullo stomaco che cominciava a dolere per il troppo ridere. “E… e… ho invaso
l’Afghanistan!”
Sherlock rovesciò la testa indietro, ammettendo
l’assurdità della situazione con un accorato suono baritonale, a metà tra una
risata vera e propria e un grido; nel farlo, espose all’aria umida un barlume
del suo pallido, elegante collo da cigno. I timidi raggi del sole morente
danzavano flebili su quella distesa d’avorio, allo stesso modo in cui la luce
delle fiamme lo avevano fatto nel muffoso bugigattolo in cui avevano atteso che
l’assassino delle sventurate di Londra si palesasse. John si dimenticò per un
istante di respirare, mentre i ricordi di quell’assurda giornata gli invasero
la mente, uniti al senso di ebrezza che non aveva fatto che crescere da quando
il Demone li aveva trasportati fino in città.
Era
cominciato tutto in maniera molto semplice, davvero. Sherlock aveva detto a
John che gli sarebbe stato necessario avere accesso ai referti delle autopsie
sulle vittime dello Squartatore, per sopperire alla mancata possibilità di
effettuare un’indagine sul campo e nella speranza che qualche incapace non
avesse fatto macello sulle scene del crimine - anche se, ovviamente, quella era
più una disperata illusione che una speranza vera e propria, a detta del Demone
brontolone - e lui, ingenuamente, aveva osservato che probabilmente tali
informazioni, e altre, erano conservate da qualche parte negli archivi di
Scotland Yard. Non aveva neppure finito di parlare, che si era ritrovato con le
mani di Sherlock a circondargli il viso e il naso del Demone a pochi millimetri
dal suo.
“Fantastico!”
aveva esclamato il moro, lasciando giusto il tempo alle guance di John di
avvampare per poi mettersi a correre a perdifiato borbottando qualcosa riguardo
un ‘conduttore di luce’ che il Dottore non aveva pienamente afferrato.
Entrare a
Scotland Yard da civili e sperare di passare inosservati all’attento controllo
dei poliziotti era un’impresa disperata. Per farlo a fianco di una pertica
d’uomo che non la smetteva un attimo di brontolare ci sarebbe voluto un
miracolo. O una specie di maleficio, ovviamente.
“Li
addormenterò solamente per pochi minuti. Non sentiranno alcun dolore, e non
ricorderanno alcunché quando si risveglieranno.” gli aveva garantito Sherlock, leccandosi
le labbra in maniera sospetta e ignorando con decisione lo sguardo scettico che
John gli riservava. Non perché non lo ritenesse in grado di fare ciò che
prometteva, temeva solamente, e a ragione, che qualcuno potesse farsi male
nello svenire. Era bastato un movimento della mano da parte del Demone, a
seguito del quale le guardie che, impettite, presidiavano la strada erano
piombate a terra con tonfi strascicati, per dargli ragione. Non che le sue vive
proteste avessero contato qualcosa per Sherlock.
Il Demone
aveva semplicemente ignorato gli arti piegati in maniera innaturale sotto i
pesanti corpi dei loro proprietari, il suono pieno di crani che urtavano
selciato, i caschi che rotolavano tristemente lontano dai loro padroni; aveva
continuato a camminare, impettito, spalancando le porte che separavano lui e
John dal suo obiettivo senza neppure sfiorarle con le dita, muovendosi nei
corridoi con aggraziata sicurezza e quasi sorridendo ogni qualvolta uno degli
agenti cadeva privo di sensi al suo passaggio, come una tessera di domino sotto
l’azione di un bambino giocoso. Questo, almeno, fino a quando il Demone
praticamente non era inciampato su di un uomo dai capelli untuosi che aveva
avuto la sfortuna di crollare proprio di fronte ai suoi piedi.
Il
poveretto aveva grugnito, rannicchiandosi su sé stesso istintivamente in
reazione al dolore, e il Demone gli aveva riservato uno sguardo tanto
infastidito da sembrare quasi grottesco, come se lo avesse ritenuto
responsabile per il colpo basso che aveva assestato alla sua immagine lo
sgraziato saltello che aveva dovuto compiere per non rovinare a terra. Non si
sarebbe minimamente soffermato su di lui se John, non potendo più resistere al
richiamo che il Giuramento di Ippocrate gli lanciava dai meandri della sua
mente, non si fosse inginocchiato accanto al pover’uomo controllando che la
botta non gli avesse incrinato qualche costola.
Sherlock
aveva continuato a camminare indisturbato per un po’, fino a quando non si era
accorto dell’assenza dell’eco dei passi di John in risposta ai suoi. Sì era
voltato, allora, e lo aveva visto vicino a quell’uomo insignificante, e quando
il Dottore aveva percepito il peso del suo sguardo e aveva alzato gli occhi su
di lui, la freddezza che aveva letto nelle iridi pallide di Sherlock lo aveva
fatto trasalire.
“Devi
proprio farlo?” lo aveva rimproverato il Demone, e John aveva dovuto fare uno
sforzo immane per non tremare, per rimanere fermo nella sua posizione e
completare il suo lavoro.
“Devo
proprio farlo.” gli aveva risposto, con un tono di voce che non lasciava spazio
a repliche, tastando il petto dell’uomo che giaceva supino (‘H. Lowsley’, secondo la targhetta che aveva appuntata al
petto) con attenzione alla ricerca di gonfiori o incongruenze.
Il Demone non
lo aveva perso di vista neppure un secondo, un broncio serio a torcere i suoi
lineamenti delicati di bambola, i suoi occhi puntati sul corpo incosciente
dello sconosciuto in uno sguardo che avrebbe tranquillamente potuto uccidere.
Non aveva la minima idea di chi fosse quell’uomo, né aveva il minimo interesse
a scoprirlo. Istintivamente, però, aveva immediatamente provato nei suoi confronti
un forte sentimento di ostilità. Tutto di lui, dal muso da roditore che si
ritrovava alle macchie di inchiostro nero sui polsini della camicia sgualcita e
macchiata di giallo (“Guai con la moglie. Come biasimarla.”), sembrava esistere
al solo scopo di farlo annegare in una spirale d’ira. Soprattutto, a irritarlo
erano i sottili, arrabbiati taglietti che gli ricamavano le dita delle mani,
alcuni semi-cicatrizzati, altri completamente guariti, altri ancora che
parevano sul punto di mettersi nuovamente a sanguinare da un momento all’altro.
In fondo, se
proprio avesse dovuto ammetterlo, erano stati proprio quei tagli che avevano
fatto scattare in lui la scintilla della deduzione (non che John lo avesse
compreso in prima persona, ovviamente; quel dettaglio, così come i ragionamenti
riguardanti il povero Mr. Lowsley gli erano stati ampiamente
illustrati in seguito dal Demone), facendogli comprendere che, quell’individuo
in particolare probabilmente aveva un incarico non sul campo, ma nell’archivio
dello Yard.
Con
l’eccitazione cui il medico aveva fatto da spettatore soltanto assistendo i
suoi pazienti più giovani, capaci di tenere il broncio fino a quando non avesse
finito di visitarli per poi emozionarsi di fronte a una caramella regalata loro
come offerta di pace, Sherlock si era proiettato al fianco di John,
afferrandogli le mani e allontanandole di fretta dalle costole dell’uomo
svenuto.
“Cosa-” aveva
tentato di protestare John, ma Sherlock, ben lungi dall’avere intenzione di
lasciarsi distogliere dal suo intento, aveva liquidato le proteste del Dottore
con un gesto della mano.
“Quest’uomo.
Lavora nell’archivio.” gli aveva annunciato, sondando al contempo le tasche
dell’uomo alla ricerca di lui solo sapeva cosa,
“Come
prego?” aveva domandato John, sobbalzando lievemente al modo privo di alcuna
delicatezza con cui Sherlock, a un certo punto, aveva afferrato il povero Mr. Lowsley per una caviglia e, alzandosi in piedi, aveva
cominciato a scuoterlo avanti e indietro, come se fosse stato una bambola di
pezza,
“Odio ripetermi.
Questo. Tizio. Lavora. Regolarmente. Nell’archivio. Della. Stazione. Di. Polizia.”
aveva affermato il Demone, accompagnando ogni parola con un nuovo, più forte
scrollone.
E se John
aveva sentito un fiotto di arsenico nel modo sdegnoso in cui il Demone gli
aveva praticamente vomitato addosso quelle parole, di certo non se ne sarebbe
fatto un cruccio. Non con una pistola carica premuta contro il suo fianco e il
forte desiderio di sentire di nuovo l’odore bruciato e assuefacente della
polvere da sparo nelle narici.
Aveva
sospirato, invece, e contato mentalmente fino a dieci, strizzando gli occhi
simpateticamente ogni volta che il cranio dell’uomo sfiorava il pavimento,
mordendosi la lingua per non ridere al modo in cui Sherlock spingeva leggermente
in fuori le labbra in maniera pensosa, come se non si capacitasse del fatto che
facendo altalenare l’uomo non fosse ancora accaduto ciò che si aspettava.
Erano
arrivate a quel punto, le deduzioni riguardo le mani di Mr. Lowsley
riguardo le macchie di inchiostro e il resto che avevano fatto pensare al
Demone che l’uomo fosse un archivista. E ciò che aveva stupito John più di
tutto non era stata la semplice genialità di prendere quelle informazioni di
per sé insignificanti e riuscire a metterle insieme in un dato a dir poco
utile; no, era stato il modo in cui
Sherlock lo aveva reso partecipe delle sue deduzioni, con leggerezza, come se
si fosse cimentato nella più elementare delle imprese e non nella cosa più
sbalorditiva a cui lui - da buon uomo di mondo che di cose, negli anni in cui aveva
vissuto, ne aveva viste a sufficienza per bastargli una vita - avesse mai
assistito.
E non si
era trattenuto, questa volta, quando sulle labbra gli era fiorito uno spontaneo
“Fantastico!”
Il suo
entusiasmo era stato ripagato con la visione di due occhi spalancati quasi
oltre i loro limiti fisici, e due labbra rosate socchiuse in una delicata, quasi
oltraggiata espressione di stupore. Con un “Davvero?” così incredulo da essere
quasi commovente, e un sorriso raggiante al suo deciso annuire.
John venne strappato da quei suoi
vagheggiamenti mentali in maniera brusca, quasi violenta, quando a causa della
distrazione generata da quel suo sognare ad occhi aperti finì per collidere con
una donna che si trovava a passare di lì per caso.
“Scusatemi…” tentò subito di dire, scuotendo la
testa per schiarirsi i pensieri, ma la donna non gli diede neppure tempo di
finire le sue scuse, aggredendolo con una rabbia che chiunque avrebbe ritenuto eccessiva.
“Ma vi pare! Urtare così forte contro una
povera donna indifesa!” aveva iniziato, e John aveva riflettuto che, con quegli
occhi spiritati e i capelli biondi sollevati sulla testa come quelli di una
menade inferocita, sembrava tutto meno che indifesa, “E se fossi caduta? Eh? Se
mi fossi fatta male alla caviglia, o peggio, avessi lacerato i miei abiti? Questo
è autentico pizzo di bruges! Vale quanto tutto quello
che indossate, e anche di più! Come avreste fatto a ripagarmi, poi?”
La donna gesticolava furiosamente, sventolando
le braccia come bandiere in una bufera di vento. John, che non era conosciuto
per essere un uomo particolarmente tollerante o paziente, cominciò a sentire le
prime, amare punture della collera fargli rodere i palmi delle mani. Si guardò
attorno, digrignando i denti di fronte alla gente che si voltava nella
direzione del putiferio che quell’indiscreta sconosciuta stava causando con i
suoi sproloqui senza senso. Se avesse avuto meno senso del pudore,
probabilmente avrebbe tacitato la donna davanti a lui con una mordace risposta
a tono - era stato un militare, di parole e insulti coloriti ne conosceva più
di uno scaricatore di porto - ma, per fortuna, c’era Sherlock a farlo al posto
suo.
Sherlock, che si era erto immobile di fianco a
lui, ascoltando i vaneggiamenti di quella sconosciuta con gli occhi ridotti a
lame sottili e taglienti e la bocca impostata in un’espressione di cerea
impassibilità; che aveva iniziato a ringhiare sempre meno sommessamente man
mano che il tono di voce stridulo della donna acquistava vigore, stringendo i
pugni senza farsi notare; che, alla fine, quando la sprovveduta non aveva più
potuto resistere e aveva pungolato il petto di John con una delle sue dita
ossute, si era frapposto fra di loro in tutta la sua imponenza, gettando
un’ombra scura di timore negli occhi castani che prima brillavano di tanta,
ferale fierezza.
“Vi suggerirei di non fare baccano, per non
rischiare di attirare troppo l’attenzione. Ma temo che questo sia esattamente
ciò che volete. Non è così, signora?” le
disse, la sua voce una maschera di minacciosa indifferenza che fece arretrare
la donna di un passo, e John di due. Se non avesse saputo meglio, John avrebbe
giurato che Sherlock avesse soffiato alla sconosciuta, come un felino
inferocito.
“Non capisco che cosa vogliate dire…” fu la
mezza difesa della signora, che intanto si guardava intorno con aria spaesata.
Sherlock ghignò. “No. Voi non capite e basta. Perché se capiste, sapreste che
il signore a cui avete tanto bellamente gridato contro non crede minimamente
alla vostra sceneggiata.”
Afferrò tra la punta dell’indice e quella del
pollice il bordo di uno dei vezzosi merletti che pendevano dalla giacchina che
la donna indossava, storcendo il naso in un’espressione di disgusto.
“Questo sarebbe pizzo di bruges?”
le domandò con scherno, e John ridacchiò all’espressione oltraggiata della
donna, che subito schiaffeggiò la mano del demone e si ritrasse, “No, direi di
no. La sua fattura è di bassa qualità, il filo utilizzato non sarà costato più
di un penny. Alcuni punti sono stati saltati. Qui e… qui. Macchie di tè
sbiadite, filo usurato sui bordi. Fatto da una mano inesperta, distratta, e
diversi anni fa per giunta. O forse no… forse erano gli occhi il problema. Una
vista non tanto buona come un tempo, mmh? Vostra
madre sa che utilizzate il pizzo che vi ha regalato per adescare uomini
disposti a pagare per del tempo con voi?”
Gli occhi della sconosciuta crebbero per lo stupore,
la sua bocca si aprì miseramente per un istante. Il tempo che fu necessario
perché un intenso rossore si impadronisse delle sue guance, fu lo stesso che
servì a lei perché si rendesse pienamente conto di essere appena stata
insultata. Chiuse e aprì la bocca di nuovo, prendendo fiato, pronta a dire
qualcosa, qualunque cosa in sua difesa. Poi, d’un tratto, sembrò ripensarci.
Abbassò gli occhi, cingendosi più strettamente nelle spalle e lanciando uno
sguardo sbieco alla gente che, ancora, li osservava.
“Con permesso.” borbottò. Un attimo dopo, era
sparita, inghiottita dal flusso vociante di senza volto che l’aveva partorita
poco prima, e che ricominciò a vociare come se quella piccola parentesi non si
fosse mai verificata.
“Le avete dato della prostituta.” costatò John,
incapace di fare altro se non fissare le severe spalle di Sherlock, che si
alzavano e si abbassavano al ritmo del suo respiro leggero,
Il Demone fece spallucce. "Hai, non avete. Comunque, pare che l’abbia fatto.”
“L’hai… l’hai insultata.”
“Se ciò che viene detto rispecchia la realtà di
una persona, si tratta di una descrizione, John. Non di un insulto.”
E John avrebbe anche ricominciato a ridere, di
fronte a quello sfacciato sfoggio di sicurezza, se non fosse stato per il tono
lapidario e freddo che il Demone aveva utilizzato per dare voce ai suoi
pensieri. Anche potendo vedere solo la sua schiena John poteva immaginare la
sua espressione in quel momento: fredda, distante, granitica… spaventosa.
“Sono convinto che se quella donna avesse
saputo che hai fermato Jack lo Squartatore, come minimo si sarebbe prostrata ai
tuoi piedi.” esclamò senza pensarci troppo, bisognoso per qualche strana
ragione di sollevare la cappa di cattivo umore che sembrava opprimere il
Demone.
Una battuta misera, lo ammetteva anche lui.
Così triste che avrebbe avuto le stesse probabilità di strappare a Sherlock una
risata come una lacrima. John si ritenne un uomo fortunato quando il Demone lo
guardò da sopra la spalla con un sorriso sornione a piegargli la bocca.
“Abbiamo scoperto il suo nome. Perché
continuare ad usare quello sciocco pseudonimo?” lo rimproverò Sherlock,
divertito.
In quel momento una folata di vento, improvvisa
e gelata nonostante la bella stagione, investì entrambi in pieno petto portando
con sé l’odore limaccioso dell’acqua del Tamigi insieme a quello, più lontano,
delle affollate cucine delle locande. Penetrò sotto i vestiti troppo leggeri di
John con agilità, mordendo la sua pelle con denti affilati e facendolo
rabbrividire; come dita di una mano incorporea si infilò tra i riccioli di
Sherlock, inselvatichendoli e trasformandoli in un alone scuro e scompigliato
intorno alla sua testa.
John, che del freddo non riusciva proprio a
curarsi, abbassò lo sguardo.
“Sì, hai ragione.”
James Maybrick[1].
Così si chiamava l’uomo che aveva annegato nel sangue le notti Londinesi.
Un
individuo dall’apparenza mite e bonaria, ben educato e colto; nato in una
famiglia di incisori originari di Londra, aveva trascorso la sua infanzia a
Church Street, a poche miglia dal famoso quartiere nel quale in età adulta
avrebbe dato sfogo alla sua follia omicida; si era fatto da solo, diventando un
importante mercante di cotone e fondando nel 1871 una propria compagnia che era
riuscito a tenere in piedi con tenacia e sotterfugi in un’Inghilterra la cui
economia cresceva senza lasciare spazio a chi non fosse stato in grado di
reggere il passo. Un uomo come tanti… una vera e propria serpe in seno alla
società.
John non si
era stupito del fatto che nessuno, prima di Sherlock, avesse puntato il dito
contro di lui. Non molti avrebbero accusato un uomo apparentemente così pacato
e normale di essere capace di tali efferatezze. Sherlock, di certo, non era
assimilabile a quei ‘molti’, e ancora John non riusciva a capacitarsi di come
il Demone fosse stato capace di ricavare l’identità di Maybrick
dai brandelli di indizi disseminati in maniera confusa in quella miriade di
rapporti, lettere e fotografie che costituiva la sezione dell’archivio dello
Yard - al quale avevano avuto accesso grazie alla chiave appesa al collo di Mr.
Lowsley - dedicata a Jack lo Squartatore. Si era
disposto in ginocchio al centro di tutto quel materiale, il Demone, sfiorandolo
con le mani in maniera quasi reverenziale, osservandolo con i suoi occhi acuminati
come se stesse attendendo di vederli prendere vita e riversare su di lui tutto
ciò che fosse stato importante al fine di catturare quel temibile assassino.
C’era stato silenzio: per dieci, interminabili minuti tutto ciò che John aveva
potuto udire era stato il proprio respiro e il quieto fruscio della carta. Poi,
il corpo di Sherlock era stato attraversato da un forte tremore; il Demone
aveva afferrato una manciata apparentemente casuale di carte, si era alzato in
piedi di scatto, e in maniera febbrile aveva iniziato a condividere con John
tutto quello che la sua mente geniale aveva assorbito in quei lunghi istanti di
contemplazione.
“Guarda
queste foto, John. Leggi i reperti delle autopsie. C’è ferocia in queste
ferite, una terribile ferocia. Ma non c’è la precisione o la maestria di cui i
medici che hanno eseguito i primi esami sulle vittime parlano. Tu sei un
medico: ti pare che queste ferite abbiano qualcosa di preciso? Prendi la prima
vittima, ad esempio: le ferite sull’addome di Polly Nichols sono irregolari, procurate con foga. E il modo in
cui ha tranciato l’utero di Annie Chapman è così
dannatamente trasandato… per non parlare poi del disastro che ha fatto con Mary
Kelly… no, escludo categoricamente che il nostro Squartatore possa essere un
Dottore. L’altra ipotesi è che sia un macellaio… escluderei pure questa.
Ciascuna delle cinque vittime presenta un taglio molto profondo sul collo,
tanto profondo da essere arrivato alle vertebre. È chiaro come l’acqua, che
l’obiettivo del nostro Jack fosse stato quello di rimuovere le teste, come ha
fatto con alcuni organi delle vittime. Un macellaio avrebbe saputo
perfettamente come fare. Né medico, né macellaio: il nostro Jack ha un
occupazione molto più umile. Prima di parlare di questo, però, dai un’occhiata
alle scene del crimine.”
Aveva
passato a John cinque foto ingiallite e sbiadite per il tocco di molteplici
dita. Foto crude, che nonostante la tenuità dei grigi che le coloravano avevano
avuto il potere di provocare un nodo nella gola del Dottore - e per un momento,
di sostituire nella sua mente allo sconnesso acciottolato le strade di terra
battuta di Kandahar.
“Ho visto.”
aveva detto a Sherlock, passandogli indietro le foto e sfuggendo il suo sguardo
scettico,
“Sul
serio?”
“Sì, ho
visto.”
Il Demone
aveva sbuffato amaramente. “Bene. Notato nulla di strano?”
John aveva
scosso la testa. Nelle fotografie, aveva potuto osservare soltanto corpi lividi
e martoriati e tanto, tanto sangue: esattamente quello che si era aspettato di
vedere ricordando il modo in cui il Dottor Bond gli aveva descritto, per
lettera, quello che delle vittime aveva potuto vedere sul suo tavolo
operatorio. Che un uomo fosse stato capace di ridurre a quel modo delle
appartenenti al gentil sesso… e non nelle sterminate piane di Kabul, dove gli
era stato insegnato ad aspettarsi ogni genere di nefandezza, così lontane ed
esotiche da essere assimilabili a terre di favola e incubo, ma nella bella,
dolce, cara e vecchia Inghilterra, dove lui e tutte le persone che amava
respiravano, si muovevano, vivevano… il solo pensiero lo faceva star
male.
Sherlock
gli aveva improvvisamente posato una mano sulla spalla, costringendolo a
spostare l’attenzione dal senso di crescente indignazione che provava all’ombra
decisa dei suoi occhi. “Se non hai notato nulla che ti abbia lasciato anche la
sensazione che qualcosa sembrasse fuori posto, allora non hai osservato come si
deve.” aveva decretato, risoluto, riprendendosi le fotografie e iniziando a
camminare in lungo e in largo per la disordinata stanza.
“I medici
che hanno analizzato i corpi delle cinque donne hanno dichiarato che la morte è
stata provocata dalla ferita al collo. Non dico che tale ipotesi non sia
perfettamente applicabile alle ultime tre vittime: la quantità di sangue
riversata nel luogo del delitto, soprattutto nel caso della Kelly, spinge
fortemente in questa direzione. C’è un gigantesco ma: nel caso della Chapman e di Elizabeth Stride, nel vicolo c’era ad occhio e croce meno
di un quarto di gallone di sangue. Non ti servo io per dirti che non possono essere
morte per dissanguamento. La mia ipotesi è che il nostro assassino preferisca
stordire le sue vittime stringendole al collo con entrambe le mani e
soffocandole. Nella Chapman e nella Stride, questo
spiegherebbe la scarsa perdita ematica - nelle altre donne, l’assenza più che
evidente di segni di difesa. Un’altra cosa: i referti autoptici affermano che
il nostro assassino sia mancino. Non ne sono pienamente convinto.”
Sherlock a
quel punto aveva lasciato cadere a terra le fotografie, che avevano preso
disordinatamente posto insieme agli altri fogli sparsi sul pavimento. Si era
portato con un movimento liquido alle spalle di John, e aveva afferrato
saldamente il suo mento con la mano destra. Anni di addestramento avevano a
quel punto preso il sopravvento sull’ex soldato, e se Sherlock non si fosse
affrettato a parlare, spiegandogli il motivo di quel gesto apparentemente privo
di ogni motivazione, John si sarebbe liberato da quella presa e probabilmente avrebbe
assestato al Demone un pugno sulla trachea - tutto con molta delicatezza,
ovviamente.
“La teoria
più quotata è che lo Squartatore abbia afferrato le sue vittime in questo modo,
ed abbia utilizzato il coltello con la mano sinistra per recidere loro la gola
da parte a parte.” aveva affermato Sherlock, mimando il gesto che descriveva
percorrendo la gola di John con il pollice della mano sinistra (e se aveva
notato il modo in cui il Dottore era rabbrividito al suo tocco, non ne aveva
fatto parola). Cogliendolo poi completamente di sorpresa, lo aveva lasciato
andare, spostandosi in maniera tale da fronteggiarlo.
“Io penso
invece che l’assassino abbia afferrato le sue vittime da davanti, per il collo,
in modo da zittirle e soffocarle fino a far perdere loro i sensi…” aveva
spiegato, utilizzando nuovamente John come manichino per simulare la sua
teoria. Lo aveva preso delicatamente per la gola, guardandolo fisso negli
occhi, come se avesse voluto rassicurarlo che dietro a quel gesto non c’era
alcun reale intento di ferirlo. “…poi, sono certo che le abbia distese a terra,
tenendo loro la testa voltata verso sinistra e tagliando loro la gola portando
il coltello -impugnato con la mano destra, ovviamente- verso il suo corpo. In
tal modo, avrebbe anche avuto il vantaggio di indirizzare il fiotto di sangue
scaturito dalla ferita in modo tale da non esserne imbrattato completamente -un
vantaggio importante, visto che sarebbe dovuto sparire nella notte pochi minuti
dopo.” aveva concluso il Demone, guardando John negli occhi con aria
soddisfatta.
Il Dottore
in questione, però, non aveva ascoltato una sola parola di quello che Sherlock
aveva detto. La presenza fisica del corpo solido del Demone a tenere ancorato
il suo a terra, i riccioli scuri che gli solleticavano la punta del naso,
nonché l’allarmante vicinanza dei loro volti gli avevano impedito non solo di
prestare attenzione a ciò che Sherlock aveva detto, ma anche di formulare un
qualsiasi tipo di pensiero che non ripetesse in maniera convulsa ‘Vicino.
Vicino. Troppo vicino.’.
Sherlock si
era accorto dopo pochi istanti del travaglio mostrato dagli occhi del Dottore;
lo aveva guardato, le sopracciglia aggrottate e la bocca ridotta a una linea
sottile. Qualunque cosa i suoi occhi scrutatori avessero cercato sul viso
dell’uomo, lo aveva trovato dopo meno di un minuto. Con un movimento elegante,
si era sollevato dal corpo di John -gesto che lo aveva portato a gravare per un
istante con il suo peso sul bacino del Dottore, che per poco non si era ridotto
a una torcia di carne e sangue- e aveva teso una mano verso di lui, muovendo le
dita per invitarlo ad afferrarla. John si era schiarito la gola, abbozzando un
sorrisino apologetico; aveva scosso la testa, rimettendosi in piedi senza
l’aiuto del Demone, che spingendo in fuori le labbra aveva stretto quella
stessa mano che aveva offerto a John in un pugno da far ricadere al suo fianco.
“Bene. Ora
che abbiamo definito il modus operandi dello Squartatore, passiamo ad
analizzare le lettere che ha inviato ai giornali e alla Polizia.” aveva mugugnato,
chinandosi per raccogliere un involto di lettere macchiate da quello che John
si augurava fosse inchiostro rosso, “Ce ne sono centinaia, ma non tutte sono
autentiche. Molte sono state scritte da emulatori, o da poveri degenerati che
volevano un pizzico dell’attenzione riservata al nostro assassino per loro.
Basandomi sulla calligrafia, sulla qualità della carta da lettere e sui
contenuti, sono certo però che queste tre[2]
siano state scritte dal pugno di Jack in persona. Allora, la calligrafia ci
dice che stiamo cercando un uomo abbastanza colto, ma non troppo sicuro di sé. Ha
utilizzato molte forme colloquiali, ed ha sparso errori di vario genere in diverse
parti delle lettere. Chi ha una personalità non molto forte e disturbata, tende
ad assumere nella parola scritta l’alter-ego di una persona di ceto sociale più
basso. Poi, l’inchiostro rosso è solitamente molto costoso: probabilmente il
nostro assassino ha le tasche piene di pecunia, o non sprecherebbe denaro
investendolo in lettere scritte per farsi beffe di Scotland Yard. Altro dato da
sottolineare: l’utilizzo di molti americanismi. Il nostro uomo ha probabilmente
contatti con gli Stati Uniti, o non si servirebbe di tante parole gergali riconducibili
a quel Paese. Ora, guarda: ci sono alcune macchie, sulle buste di tutte e tre
le missive. Nonostante il tempo trascorso e la discolorazione che ciò comporta,
le sono di un bel marrone intenso: sono macchie d’alcol, non diluito e di buona
qualità. Bourbon, molto probabilmente. L’odore però non mi convince… posso sentire
un vago sentore di aglio, con un che di chimico. È probabile che il liquore sia
stato mescolato con una qualche sostanza chimica, che reagendo con l’alcol
abbia provocato questo odore. Conosco una sola sostanza facilmente reperibile
con questo tipo di reazione: l’arsenico.”
“Un momento… vuoi forse dire che Jack lo
Squartatore potrebbe fare uso di arsenico?”
John era a
conoscenza del fatto che l’arsenico fosse una sostanza molto utilizzata, in
quel periodo. Dai cosmetici che rendevano tanto attraenti le sofisticate
gentildonne Londinesi, a numerosi tonici e farmaci, non c’era famiglia che non
avesse nei cassetti della sua casa una dose più o meno concentrata di quella
sostanza. Lui personalmente non aveva mai prescritto quella pericolosa sostanza
-uno solo grano della quale era sufficiente a falciare un omone ben piazzato-
ad alcuno dei suoi pazienti, ben conscio delle terribili controindicazioni che
aveva -comunque, molti dei suoi colleghi non erano della sua stessa opinione.
Sherlock lo
aveva guardato, un’espressione indecifrabile sul viso, e John aveva temuto di
aver parlato a sproposito. Quando il Demone aveva annuito entusiasticamente,
aveva dovuto fare uno sforzo non indifferente per non mettersi a saltare per il
sollievo.
“Esatto, John. Ma non c’è alcun ‘potrebbe’.
Sono certo che faccia uso di arsenico… per motivi di salute o per semplice
assuefazione, non è di mio interesse saperlo. Fatto certo è il suo uso di tale
sostanza. Come lo so? Semplice: dalle pillole rinvenute nelle tasche della Chapman.”
Ora, quello
era stato un balzo logico decisamente inaspettato, che aveva reso John
momentaneamente incapace di controllare i muscoli della mascella. Il suo
sconcerto era stato tanto evidente, che Sherlock aveva roteato gli occhi come
se il Dottore gli avesse causato un fastidio inconsolabile. Un piccolo
sacchetto con dentro gli effetti personali della donna fu sollevato dal
pavimento, e lanciato tra le mani pronte ad accoglierlo di John.
“Dall’autopsia
della donna risulta che fosse gravemente malata ai polmoni, e che la sua fine
non fosse molto lontana. È probabile che portasse con sé dei medicamenti per
combattere i sintomi più evidenti della sua malattia, ma per una donna
costretta a vendersi per qualche penny sicuramente quelle pastiglie in particolare sarebbero un po’ troppo costose. Controllale.”
John,
ancora basito, aveva estratto le due, bianche pastiglie dal loro contenitore di
carta. Le avrebbe riconosciute ad occhi chiusi, anche senza saggiare la polvere
che le ricopriva: erano pastiglie di stricnina, farmaco costoso che veniva
molto spesso prescritto per alleviare i disturbi all’apparato digerente
provocati dall’abuso di arsenico.
“Incredibile…”
aveva sospirato, spostando lo sguardo dalle pasticche a Sherlock con tutta
l’ammirazione che i suoi occhi avrebbero potuto contenere. Il Demone gli aveva
sorriso, di uno di quei mezzi sorrisi che da lì a pochi mesi lo avrebbero
letteralmente fatto impazzire, e schiarendosi la voce aveva ripreso le sue
riflessioni.
“In
sostanza, Jack ha lasciato sulla seconda delle sue vittime un importante
indizio che avrebbe potuto portare alla sua cattura. E non è il solo. I
conoscenti di Elizabeth Stride sostengono che il fumo
non rientrasse affatto fra i molti vizi della defunta. Preferiva spendere i
pochi spiccioli che riusciva a guadagnare in whiskey. Eppure, vicino al suo
corpo sono state ritrovate delle pasticche per l’alito disposte in maniera
molto ordinata. Deve averle lasciate l’assassino; allo stesso modo in cui ha
lasciato un costoso astuccio porta sigarette in argento nascosto sotto le gonne
di Catharine Eddowes. Infine…
il brandello di cotone nel borsellino della Nichols. Piccole
briciole per guidare la Polizia verso di lui. Solo, i poliziotti in questione
erano troppo stupidi per seguirle.”
“Quindi…
Jack voleva essere preso?”
“Oh no, no
no! Affatto! Era tanto sicuro di non essere sospettato dalla polizia da
sentirsi in vena di prendersi gioco di chi lo inseguiva fornendogli indizi che
non avrebbe saputo decifrare. Stava giocando con Scotland Yard. Evidentemente
non si aspettava che qualcuno come me avrebbe mai messo le mani su queste
tracce.”
John era
rimasto in silenzio, troppo basito per poter proferire parola. In fondo,
neppure volendo sarebbe riuscito a trasmettere in una serie di sillabe
pronunciate ad alta voce tutto lo stupore e l’ammirazione che sentiva in quel
momento. Fortunatamente per lui, Sherlock lo aveva tolto d’impiccio. Con un
sorriso malizioso a incurvargli le labbra, aveva poggiato una mano sulla spalla
del Dottore, facendolo voltare verso la porta dell’archivio.
“Bene. Non
c’è nient’altro che mi serva in questo posto. Ho bisogno di indagare un po’ sul
campo… direi che Whitechapel sarebbe un ottimo posto da cui iniziare.”
“Sono
passati anni, non c’è più niente che riguardi lo Squartatore lì!”
Sherlock
aveva bloccato John a metà di un passo, voltandolo verso di lui come una
marionetta nelle mani di un folle burattinaio.
“Non c’è
niente per qualcuno come te, ma ci saranno sicuramente un miliardo di indizi
pronti ad essere colti da una mente come la mia! Non c’è tempo da perdere,
andiamo!”
Le porte a
vetri dell’archivio avevano vibrato al tocco di quelle pallide dita senza fine.
***
Erano al
principio di Commercial Street, quando Sherlock aveva fermato improvvisamente i
suoi passi, e solo per miracolo John non aveva finito per travolgerlo.
“Non ho mai
fatto una cosa del genere.” aveva dichiarato, lanciando al Dottore occhiate
nervose da sopra la spalla e dondolando sulle piante dei piedi,
“Non hai
mai fatto… che cosa?” gli aveva risposto John, pacato. Di certo non poteva
riferirsi alla parte dello sgattaiolare per Londra: sembrava essere nato compiendo
quell’azione.
“Parlare…” aveva detto il Demone,
arricciando le labbra intorno alla parola come se fosse stata particolarmente
offensiva per le sue corde vocali, “…ragionare a voce alta. Raccontare a
qualcuno quello che sto vedendo -quello che sto sentendo. Non l’ho mai
fatto.”
“Oh.”
Già. Oh.
Ottima sintesi delle capacità cognitive di John di fronte a tale rivelazione.
Il Demone
non aveva ancora finito. “Non so perché lo abbia fatto. Parlare, intendo.”
Era
sembrato così terribilmente insicuro. Così assurdamente umano.
“È stato
straordinario. Davvero straordinario.”
Sherlock,
senza pronunciare una sola, ulteriore parola, aveva ripreso a camminare.
Note dell’autrice:
Eccomi di nuovo, dopo una
lunga settimana di silenzio in cui sono sopravvissuta a un tour de force pazzesco e alla lettura accurata del libro di cui vi
parlavo nello scorso aggiornamento.
Mi scuso di nuovo per il
ritardo… spero che non debba accadere di nuovo a breve :P
Comunque, ecco il nuovo
capitolo. È stato difficile da scrivere, e non nego di avere una grande paura
che il risultato non sia affatto quello che speravo di ottenere. Anche se, devo
confessare che non mi dispiace… però si sa, le madri sono sempre molto
indulgenti con i loro figli ;)
Fatemi sapere cosa ne
pensate ;)
Come sempre, non posso
che dirvi grazie mille per il vostro sostegno! :) siete il Mike Stamford del
mio John Watson ;) Vi adoro!
A presto, un bacio :*
[1] James Maybrick: mercante di cotone che trascorse la sua vita fra Norfolk, Londra e Liverpool; sposato con una donna molto più giovane di lui, soffriva di ipocondria e di una menomante dipendenza da arsenico. In un diario rinvenuto a Liverpool da Mike Barret nel 1990, egli stesso si firma come Jack The Ripper, rivelando nelle pagine dettagli degli omicidi di Whitechapel noti ai tempi soltanto alla polizia;
[2] La “Dear Boss”, inviata al Daily News il 25 settembre del 1888, la “Saucy Jacky”, cartolina ricevuta dalla polizia il primo ottobre dello stesso anno, e la “From Hell” del 15 ottobre;