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Autore: ladyRahl    03/12/2014    1 recensioni
Un nuovo caso coinvolge Sherlock e Joan, che si trovano a dover fare i conti con una delle organizzazioni criminali più pericolose al mondo. Le cose sembrano mettersi male, quando un ragazzo attira l'attenzione di Holmes. Cosa si nasconde dietro le sue apparenti intenzioni? Quale strano passato lo tormenta? Per quale motivo Sherlock si sente così legato a lui? Storia che metterà alla luce tratti nascosti del famoso detective, il quale dovrà fronteggiare uno dei suoi più grandi timori, a cui cerca invano di sfuggire: il suo lato più umano.
Genere: Avventura, Azione, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Eccolo, deve essere lui!” sussurrò Holmes.
Erano ormai cinque ore che l’uomo scrutava l’entrata della palestra Champion’s Home come un predatore in attesa della sua vittima. Si erano appostati molto presto e la loro attesa era stata ripagata: un tizio dal fisico possente scese da una vecchia macchina e Sherlock, munito di binocolo, notò la vistosa cicatrice all’altezza dell’occhio destro, come gli era stato descritto da Jones.
“Finalmente!” disse Bell, sbadigliando rumorosamente. “Ancora un’altra ora e mi sarei scordato come si cammina. Chiedo al capitano Gregson se possiamo intervenire”
“No! Fermati!” urlò Holmes. “Digli solamente che è entrato, ma non far intervenire la squadra ora per nessun motivo!”
“Perché? Vuoi fartelo sfuggire? Finché si trova lì dentro lo abbiamo in pugno!”
“Marcus, ricordi cos’ha detto Jones? Quell’uomo non era solo, erano in due” provò a spiegare Joan.
“Esattamente, quindi ciò che faremo sarà seguirlo una volta uscito da lì. Sono sicuro ci porterà alla sua abitazione e, quindi, ai suoi compagni di malefatte” aggiunse Sherlock.
“Sì, avete ragione. Ho sempre odiato gli appostamenti e speravo di sgranchirmi le gambe il prima possibile”
“Abbi pazienza, con la fretta rischiamo di mandare tutto all’aria” lo ammonì Holmes.
“Senti da che pulpito!” fece notare Watson in tono sarcastico.
 
Tre ore e mezza dopo, il sospettato uscì dalla palestra e il capitano Gregson gli mise alle calcagna un manipolo di agenti per seguirlo senza farsi notare. Circa un quarto d’ora dopo arrivarono le coordinate del luogo, a cinque chilometri da lì. Si trattava di un vecchio e anonimo appartamento in uno dei quartieri russi della città. Tutta la squadra si fermò a distanza di sicurezza per poter ricevere ulteriori istruzioni.
Dal finestrino della macchina fece capolino il capitano.
“I ragazzi mi hanno riferito che in casa sono almeno in due. L’uomo che gli ha aperto la porta potrebbe essere l’altro tizio descritto da Jones. Mi raccomando, fate attenzione quando entreremo, non abbassate la guardia”
Joan deglutì: non si era ancora del tutto abituata a quel genere d’azione nonostante il suo sangue freddo da ex chirurgo.
Pochi minuti dopo la squadra fece irruzione, mentre la donna e Sherlock attesero sulla porta. Il lavoro fu facile: il sospettato con la cicatrice era mezzo nudo, pronto per entrare nella doccia, l’altro uomo fumava  in poltrona e una terza persona, un giovane ragazzo, era sdraiato sul divano intento a guardare una partita di football. Vennero colti letteralmente di sorpresa e la loro reazione fu minima.
“Fate vestire quell’uomo e portateli tutti in centrale!” ordinò Gregson. “Così potremo farci una bella chiacchierata”
 
“Prepara i popcorn, Watson! Sarà un lungo pomeriggio!”
Joan e Sherlock si piazzarono dietro il vetro della sala interrogatori, aspettando che Gregson e Bell cominciassero a fare domande ad ognuno dei sospettati.
“Ecco il primo! Mi raccomando, tieni gli occhi su di lui e non concentrarti solo sulle risposte, osserva anche il linguaggio del corpo, perché quello di solito non mente”
La lezione del professor Holmes all’apprendista Watson poteva cominciare.
La prima volta fu il turno dell’uomo con la cicatrice. Da vicino il suo fisico era ancora più possente di come era sembrato, tant’è che Joan ebbe l’impressione che la sedia sulla quale sedeva dovesse sfondarsi da un momento all’altro. Un pugno di quell’uomo avrebbe mandato in coma chiunque. I suoi cortissimi capelli neri delimitavano un viso dallo sguardo truce che metteva i brividi. Si chiamava Andrey Petrov, aveva quarant’anni e diceva di essere lo zio del ragazzo che era stato trovato con loro nell’appartamento. Gregson cercò di farlo parlare.
“Signor Petrov, sappiamo già che lei è un membro della famiglia Zaytsev. Sta svolgendo qualche lavoro per loro conto?”
“Non so di cosa stia parlando” rispose con tono sprezzante l’uomo.
“Sì, certo. Mi dica, conosce quest’uomo?” e gli mostrò una foto del cadavere. “Un certo Igor Savin, le dice niente?”
“No”
“Quindi lei non è coinvolto nel suo omicidio?”
“Le ripeto che non so di cosa stia parlando”
“Mi aspettavo che la sua collaborazione sarebbe stata scarsa. Facciamo così, glielo dico io, allora. Quest’uomo ha tradito il suo clan perciò avete deciso di fargliela pagare, sotto ordine dei vostri gran capi. Dunque, signor Petrov, dov’era la notte dell’omicidio, tra mezzanotte e le sei?”
“A casa”
“C’è qualcuno che può confermarlo?”
“Chiedete a mio nipote o a Filipp”
“E secondo lei noi dovremmo ritenere attendibile la loro conferma? Non sia ridicolo!”
“Sono stato tutta la notte con una donna. Una delle vostre numerose sgualdrine americane. L’ho pagata così bene che ha pensato di lasciarmi il suo numero. Perché non chiedete a lei?” e un ghigno beffardo gli apparve in volto.
“Può contarci” disse minaccioso Bell.
 
Fu poi la volta dell’altro uomo.
Si chiamava Filipp Ivanov, sulla trentina, alto quanto un giocatore di basket e con un’enorme testa tirata a lucido come una palla da biliardo. La sua espressione beffarda sembrava la copia identica di quella di Petrov, solo con qualche dente in meno.
“Gli tengono un corso apposito per imparare ad avere facce inquietanti come quelle?” chiese Joan. “Non riesco neanche a guardarli negli occhi”
In effetti l’espressione perfida di quegli uomini metteva piuttosto a disagio.
Naturalmente anche Ivanov appoggiò in pieno la versione del compagno con le solite riposte monosillabiche, nulla di più nulla di meno.
 
“Come fanno a mentire così spudoratamente?” domandò Joan, piuttosto seccata dalla loro testardaggine.
“Negare l’evidenza, Watson. Sta tutto in questo semplice ma efficace comandamento, sia che ci siano o non ci siano prove. In ogni caso non penso stiano mentendo”
“Che vuoi dire?”
“Beh, ovviamente sono legati al clan Zaytsev, ma non credo che abbiano ucciso Savin. Inoltre…”
L’uomo si zittì all’improvviso. Il terzo giovane venne fatto entrare nella sala interrogatori
“Sherlock, va tutto bene?” chiese preoccupata Joan.
“Sì…sì, va tutto bene” annuì lui, visibilmente scosso.
Il ragazzo rispondeva al nome di Jaroslaw Petrov, nonché nipote di Andrey. La sua famiglia era morta in un incidente quando era ancora piccolo, così era stato cresciuto dallo zio. A differenza degli altri, il suo  inglese non era contaminato dal forte accento russo. Sherlock giurò addirittura di cogliere una sorta di musicalità irlandese nella sua parlata. Era alto, con un fisico perfettamente scolpito e due occhi azzurri come il ghiaccio, che risaltavano grazie ai suoi corti capelli mori: dimostrava come minimo vent’anni. Ecco perché Joan rimase di stucco quando scoprì che non ne aveva ancora compiuti sedici.
Il copione era sempre lo stesso e non riuscirono a strappare nessuna informazione in più neanche a lui.
La donna si girò verso l’amico: sembrava letteralmente ipnotizzato da quella scena. Vide nei suoi occhi una strana espressione , fatta di dubbio ma anche di sorpresa.
“Cosa c’è che non va, Sherlock?”
“Non ne sono sicuro…”
“Avanti, sputa il rospo! Ti sei pietrificato da quando quel ragazzo è entrato nella sala!”
Seguì un lunghissimo momento di silenzio, come se l’uomo non riuscisse a trovare le parole per dare corpo ai suoi pensieri.
“Guarda il suo sguardo, Watson. Guarda l’impercettibile movimento dei suoi occhi. No, lui non guarda, lui vede, osserva. Sta facendo esattamente la stessa operazione che stiamo facendo noi qui ora”
Joan faticava a capire l’amico, ma una cosa l’aveva notata anche lei: l’atteggiamento di Jaroslaw sembrava diverso rispetto a quello degli altri.
“Guarda i suoi piccoli gesti. Non è né impulsivo né eccessivamente contenuto, è semplicemente…naturale!”
 
“Holmes, Watson, potete venire un momento?”
Il detective Bell li convocò nell’ufficio di Gregson per fare il punto della situazione.
“Sapevamo che sarebbe stata un’impresa ardua” sospirò il capitano. “Avete scoperto qualcosa?”
“Non sono stati loro” decretò Sherlock.
“Come prego?”
“Sì, capitano” aggiunse Joan, visto che l’amico, ancora assorto nei suoi pensieri, non procedeva con la spiegazione. “Naturalmente pensiamo che siano implicati nella vicenda, ma l’omicidio non è da attribuire a loro”
“C’è qualcosa che non quadra” sussurrò Holmes più a se stesso che agli altri.
“Spiegati meglio” lo incalzò Bell.
“L’ultimo, l’ultimo sospettato. C’è qualcosa che non mi convince” e si mise a camminare avanti e indietro per l’ufficio. “Il suo sguardo è diverso, non è come gli altri. Ha qualcosa che…non riesco a leggerlo, è impenetrabile!”
 “Sai vero che non possiamo trattenerlo per questo?” disse Gregson, ma Sherlock non lo stava più ascoltando.
Joan cominciò a capire da dove venisse la frustrazione di Sherlock, abituato a leggere le persone come libri aperti.
Nello stesso istante entrò un agente.
“Capitano, la donna indicata da Petrov ha confermato che ha passato l’intera notte con lui”
“Bene, ora hanno un alibi di ferro. Bell, dà l’ordine di rilasciarli”
“Un momento!” urlò Sherlock, come se fosse uscito improvvisamente da un sogno. “Vorrei parlare un attimo con il ragazzo. Da solo”
“Non penso sia…”
“Ti chiedo solo dieci minuti, capitano”
“E va bene, ma non un secondo di più”
 
Sherlock entrò nella sala interrogatori e trovò Jaroslaw seduto dove prima lo aveva lasciato.
Si sedette di fronte a lui, si guardarono negli occhi e poi calò il silenzio.
Per dieci lunghissimi minuti il tempo sembrò fermarsi. Nessuno dei due osava lasciar cadere lo sguardo e spezzare quella strana atmosfera che si era creata nella stanza, sguardi che sembravano poter dire più di quanto le parole avrebbero potuto.  
“Perché sei uno di loro?” chiese improvvisamente Sherlock.
“Perché non dovrei?”
“Davvero vuoi farmi credere che sei uno di quegli esseri rozzi e infimi nell’altra stanza? Anzi, che addirittura uno di loro sia tuo zio?”
“Non vedo perché no”
“Avanti! La puoi dare a bere agli altri, ma non a me”
“Come mai questa storia interessa tanto ad un investigatore privato?”
“Consulente investigativo, prego”
“Beh, in ogni caso lei non è un poliziotto”
Il ragazzo si sistemò sulla sedia.
“Cosa c’è sotto, Jaroslaw? Cosa stanno architettando?”
Non rispose.
“Si può sapere perché li proteggi?”
“Lei vede troppe cose, signor…Sherlock Holmes” disse il giovane, leggendo il cartellino identificativo appeso alla giacca dell’uomo. “E vedere troppe cose non è sempre utile. A volte può essere anche maledettamente pericoloso”
“Già” rispose Sherlock sorridendo. “Spesso è una condanna, non è vero?”
Un accenno di sorriso apparve sulle labbra di Jaroslaw e, in quello stesso momento, entrò Bell per rilasciarlo.
 
Joan e Sherlock scesero le scale verso l’uscita della centrale di polizia.
L’uomo non aveva ancora aperto bocca dopo il suo colloquio con il ragazzo. La donna decise che era giunto il momento di rompere il ghiaccio. 
“Allora, davvero non hai scoperto niente parlando con Jaroslaw?”
“Ho solamente ricevuto la conferma alla mia ipotesi: non è uno di loro”
“Ok, devo ammettere che anche secondo me quel ragazzo non ha nulla in comune con gli altri due, ma come spieghi allora la sua presenza lì? Devi ammettere che la sua innocenza non è un’ipotesi molto plausibile”
“E’ proprio questo che dobbiamo cercare di scoprire, Watson. Così capiremo cosa c’è sotto e riusciremo a convincere Gregson che ho ragione”
Improvvisamente Watson si fermò e trattenne per un braccio l’amico, costringendolo a guardala negli occhi.
“Per l’amor del cielo, Sherlock! Mi dici perché ti sei bloccato quando hai visto quel ragazzo? Capisco benissimo che c’è dell’altro che ti turba, non tenermi all’oscuro di tutto!”
Holmes esitò un momento e la sua voce divenne un sussurro.
“E’ come me, Watson”
Quell’affermazione spiazzò Joan.
“Che intendi dire?”
“All’inizio non comprendevo per quale motivo non riuscissi a leggere le sue espressioni. Beh, ora ho capito. Quello sguardo, quegli occhi…è come se mi guardassi allo specchio, come se stessi lottando contro me stesso. Ora andiamo a casa, c’è una cosa che voglio controllare”
Joan non sapeva che dire, raramente aveva visto l’amico così scosso, ma era anche cosciente del fatto che se c’era una cosa che spaventava Sherlock era affrontare sé stesso e, da quel momento, sarebbe stato costretto a farlo.
  
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