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Autore: Dew_Drop    06/12/2014    0 recensioni
“Prima d’ora non avevo mai sentito di un prete e di un poeta che si fossero improvvisati Holmes e Watson. Pertanto non sono disposto a credere che ciò sia successo”.
Eppure, in una Londra ormai prossima al Novecento, accadde davvero. Sulle tracce di un uomo che morì vent’anni prima di diventare un omicida.
[ I Classificata al Contest "Sangue e Pazzia", indetto da Yuko Chan]
Genere: Introspettivo, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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SECONDO







CAPITOLO PRIMO:
IL NOSTRO DIAVOLO




(Cinque giorni prima)

    Togliendosi il cappello, Jonathan Barrymore alzò gli occhi sulla facciata della palazzina. Il suo era uno sguardo particolare, di un insolito e non ben definito colore tra il verde e il nocciola. Per via dalla sottile insofferenza che pareva trasmettere, chiunque, almeno di prima battuta, avrebbe trovato la sua compagnia quasi sgradevole; buffo, se si teneva in conto che questa prima impressione si rivelava poi vera nella gran parte dei casi. In pochi avevano il coraggio di trovare simpatico un uomo come lui, dall’espressione quasi sempre accigliata e dai modi inspiegabilmente bruschi. Alcuni si spingevano persino a chiedersi come mai di mestiere facesse l’investigatore quando la sua faccia somigliava più a quella di un taciturno omicida seriale. Era una considerazione che passava sotto silenzio, ma che ben si leggeva nelle pupille di chi stava a guardarlo. Come in quel momento, quando si accorse che un giovane poliziotto aveva sceso i gradini che salivano all’ingresso e gli stava venendo incontro, timidamente, quasi con diffidenza. Osservandolo, notò le sue guance accese, gli occhi ansiosi e il suo respiro salire nell’aria umida sottoforma di condensa. Poi notò che era anche pallido e allora capì che al primo piano della palazzina c’era davvero qualcosa di interessante da vedere.
    Si avvicinò a sua volta, si scambiarono poche parole. Attorno, in quella strada di ciottoli solitamente affollata di carrozze e signore a passeggio, si era radunata una modesta folla di curiosi. Alcuni agenti erano impegnati a tenere alla larga una piccola pattuglia di giornalisti, pochi audaci che allungavano il collo per sbirciare verso la palazzina. Lavoravano per l’Inquisitor, indovinò Barrymore con una piccola vena di fastidio, gettando loro uno sguardo mentre saliva i gradini dietro al poliziotto. Era facile riconoscerli, con quella loro proverbiale impazienza e quei cravattini tagliati col righello. Anche per questo, per la voglia di sottrarsi alle loro domande, entrare e lasciarsi alle spalle l’umidità della strada fu oltremodo piacevole.
    L’interno non aveva nulla di eccezionale. Mentre saliva lo scalone dietro al giovane agente – Peter, si chiamava, e lo ricordò con la leggerezza di chi leggiucchia un appunto di poco conto -, si domandò perché mai un facoltoso uomo americano fosse approdato nel Vecchio Continente e si fosse sistemato in una palazzina così modesta. La vittima, gli avevano già detto, era un newyorkese. Lo domandò al poliziotto, che ora si infilava nel corridoio del primo piano, e lui si strinse nelle spalle:
    «Signore, state parlando di un americano.»
    La risposta aveva un suo perché. Si era alle porte del Ventesimo Secolo e gli americani, che fossero banchieri o pionieri dell’ingegneria e della finanza, si presentavano alle porte inglesi portandosi dietro le loro grandi idee da uomini migliori. Molti non si preoccupavano nemmeno di comprarsi una proprietà, così capitava che alloggiassero per qualche periodo in luoghi poco consoni al loro rispettabile grado di Invasori Col Dollaro. Era un’espressione che a Barrymore piaceva, tanto che finiva col sorridere ogni volta che ci pensava. Non fu così quel giorno, quando fece il suo ingresso nell’appartamento di Eugene T. Sullivan, cinquant’anni, modesto inventore arrivato solo due mesi prima da Brooklyn. Peter gli fece strada attraverso il salotto, dove altri agenti alzarono gli occhi su di loro con una sorta di calcolata insofferenza. Routine, sembravano dire i loro sguardi, eppure ogni espressione tradiva un sottile filo d’ansia, lo stesso grado di pallore che l’investigatore aveva scovato sulla faccia del suo docile accompagnatore.
    Peter si fermò di fianco all’arco che portava in una stanza adiacente. «L’abbiamo trovato così», disse. «Non abbiamo alzato un dito.»
    E una volta lì di fronte, Jonathan Barrymore capì perché. Reggeva ancora il capello in mano, ma se durante il tragitto aveva continuato a soppesarlo distrattamente, quasi convinto da un tic abitudinario, ora se ne dimenticò all’istante. Si fermò sulla soglia.
    Sì, interessante. Decisamente interessante.
    La stanza si era rivelata essere un ufficio, più lungo che largo. In linea con l’ingresso, a forse cinque o sei passi di distanza, si trovava la scrivania. Sullivan sedeva là dietro, riverso sull’alto schienale, le braccia abbandonate lungo i fianchi e la testa inclinata su una spalla. Gli occhi azzurri sbarrati, la bocca semiaperta nel ghigno di un diavolo. Un colpo d’arma da fuoco gli aveva centrato la fronte e l’aveva passato da parte a parte, aprendo un ventaglio rosso sulla parete dietro di lui. Ma questo scenario poteva dirsi regolamentare se paragonato al resto. Con un brivido involontario, Barrymore rifletté che là dentro un geometra sarebbe stato più azzeccato di un investigatore.
    L’intera stanza, eccezion fatta per il soffitto, era stata incisa con pazienza chirurgica, sia in senso orizzontale che verticale. Le linee, nemmeno troppo sottili, percorrevano non solo le lucide assi di legno dei muri e il parquet, ma anche i mobili e la scrivania. Lo specchio aveva ricevuto lo stesso trattamento e la sua superficie era percorsa da fitti graffi che passavano oltre, scendevano e proseguivano poi sul pavimento, sempre dritti, sempre impeccabili. Laddove le incisioni incontravano la vittima, divenivano tagli da cui era sgorgato praticamente tutto il sangue che le vene di Sullivan contenevano. Era come se l’assassino, dopo avergli sparato quel colpo in testa, si fosse divertito a tracciare una griglia; come se avesse avuto la lucidità, la pazienza e il tempo di incidere ogni asse, ogni angolo, ogni cosa. Barrymore se lo vide, quell’uomo che aveva appena ucciso un altro uomo, mentre tracciava la prima incisione e pian piano si piegava, si inginocchiava per segnare anche l’angolo e poi cominciava a muoversi a carponi, all’indietro, segnando il pavimento con la stessa linea, senza mai staccare il suo strumento di lavoro finché non avesse raggiunto e inciso anche la parete opposta fin dove il suo braccio poteva alzarsi. Così per altre centinaia di righe, così anche sul corpo di quell’americano facoltoso sbarcato per presentare all’Inghilterra le sue invenzioni da Invasore Col Dollaro.
    No, non era divertente. Non c’era poi nulla di divertente nel pensiero che l’assassino aveva disegnato una griglia senza un motivo apparente. Tutta quella geometria era morbosa. Tutto, da quell’angolazione, pareva schiaffargli in faccia il gran sorriso di un uomo di spettacolo e il suo allegro: “Entrate, entrate! Questa sera ho preparato per voi uno spettacolo U-N-I-C-O!”. Barrymore si domandò se non fosse impallidito a sua volta come era stato per tutti gli agenti che ora parlottavano piano in salotto.
    Per quanto sulle prime non avesse avuto modo di farci caso, nell’ufficio non c’era solo Sullivan in compagnia della firma dell’assassino. Se ne accorse solo quando l’ispettore, che stava discutendo con due agenti vicino alla scrivania, notò la sua presenza e sventagliò la mano per liquidare i due giovanotti. Si avvicinò alla soglia a passo svelto.
    «Ce ne avete impiegato, di tempo, ad arrivare.»
    Jonathan spostò gli occhi su di lui. Non aveva mai provato troppa simpatia per quell’uomo basso e tarchiato, dalle movenze ben poco aggraziate, e lo consolava il fatto che il sentimento fosse corrisposto. A dire il vero, non era mai corso buon sangue fra lui e Paul McArthur.
    «Ispettore McArthur. In effetti mi domandavo perché mai mi aveste fatto chiamare.»
   «Solo per farvi dare un’occhiata.» Con una smorfia, McArthur allungò il braccio di fronte a sé come un prestigiatore che mostra il suo numero più audace. «E perché siete il migliore in casi come questi.»
    Barrymore lo osservò a sopracciglia alzate mentre cominciava a muoversi. L’ispettore, cogliendo il suo scetticismo e andandogli dietro, si schiarì la voce:
    «Intendevo, nei casi in cui abbiamo a che fare con un pazzo.»
    Qualcosa di quella geometria era cambiato. Ora che si era spostato dall’ingresso, le linee non parevano più così perfette. Eppure, più si spostava verso la scrivania, più la griglia sembrava riprendere qualcosa del suo iniziale fascino. Come se si stesse avvicinando all’angolatura migliore, a quella più giusta fra tutte. Al posto d’onore a teatro, pensò mentre riprendeva a soppesare il cappello.
    «Confido che gli americani non pretendano le indagini», disse spostando gli occhi attorno.
    «Se pensano di soffiarci il caso solo perché il poveretto è uno di loro, allora non conoscono Scotland Yard.»
    «Ci proveranno, fidatevi. Sono americani, quindi convinti che Dio sia americano a sua volta.» Barrymore si fermò su un fianco dalla scrivania. Il sangue sgorgato dai tagli sul corpo si era allargato a terra in un’ampia pozza lucida, riempiendo le incisioni che in quel punto segnavano il pavimento. Ora che si trovava lì, vide che la geometria della griglia aveva ritrovato la sua iniziale eloquenza. Per una breve frazione di secondo si sentì strizzare le viscere, complice la scomoda sensazione di essere proprio nel posto d’onore. Lì il palcoscenico era incredibilmente perfetto, più di quanto lo fosse se lo si osservava dall’ingresso. Non c’era una singola linea fuori posto. Era come guardare una superficie bidimensionale.
    «Eugene Thomas Sullivan era semplicemente un ospite della nostra bandiera», stava intanto replicando l’ispettore, il tono convinto da vivo patriottismo. «Quelli come lui sono sicuri che il secolo prossimo sarà americano. Peccato che, se anche fosse vero, manca ancora una decina d’anni al glorioso Novecento.»
    L’investigatore si voltò e dietro di sé trovò un piccolo armadio, le cui ante riprendevano lo schema della griglia. Un gioco del genere lo si poteva trovare su un paravento, oppure su un confessionale. Osservò il legno del mobile e lo trovò intatto. Nessuna incisione. Era l’unica cosa là dentro che non fosse stata segnata. Oh, mio caro aspirante geometra, pensò fra sé e sé. Questa me la dovrai spiegare.
    «Davvero credete che l’ambasciata americana si interesserà al caso?» chiese McArthur, con il tono di chi cambia argomento perché consapevole di aver annoiato l’interlocutore.
    Barrymore tornò a guardarlo e gli rifilò un breve sorriso. «Sapete cos’altro pensa un buon americano?»
    L’altro scosse il capo.
    «Che noi inglesi siamo buoni solo in materia di tè e patriottismo. Quindi dimostriamo che si sbagliano, mettiamoci al lavoro e scopriamo perché il nostro diavolo ha la passione per la geometria.» 
 

2

(Nel presente)

    Il ragazzo si chiamava Cecil Goldwine. Era un cognome singolare, aveva riconosciuto padre Wilfred, e il giovane si era limitato ad un: “Lo so. Me lo dicono in molti”, mentre si asciugava gli occhi. Dimostrava forse trent’anni, magari qualcosa in meno, ma il sacerdote non aveva avuto intenzione di perdersi in un dettaglio di così poco conto, tanto che nemmeno glielo aveva domandato. Conoscere vita, morte e miracoli di quell’uomo che aveva spalancato il confessionale non gli era nemmeno passato per l’anticamera del cervello. Una volta aperto il piccolo uscio, il ragazzo si era semplicemente accasciato lì di fronte, le mani morbosamente aggrappate alla maniglia e il capo incassato fra le spalle. Stava davvero singhiozzando e Wilfred, a quella vista, aveva buttato nell’angolo l’idea che quell’uomo volesse aggredirlo. Quasi si vergognò al pensiero che solo pochi istanti prima lo aveva creduto una vera minaccia. Goldwine non era affatto una minaccia. E come poteva esserlo, come, se non era nemmeno stato in grado di rimettersi in piedi da solo?
    Così il sacerdote si era accostato, l’aveva aiutato a sollevarsi, gli aveva parlato con calma. Perché non andiamo a sederci?, era parso chiedere con lo sguardo, mentre accompagnava il giovane verso la fila di panche. Sediamoci, raccontami. Dimmi come puoi avere ucciso, tu che piangi davanti al confessionale di una chiesa.
    Si accomodarono alla prima panca di fronte all’altare. Il giovane si passò le mani sul volto per asciugarsi le guance, con una rabbia quasi sofferente. Gli tremavano le dita e Wilfred credeva che sarebbero trascorsi dei minuti prima che smettessero. Così fu, perché smisero di fremere solo dopo i convenevoli e la storia che Cecil Goldwine voleva raccontare. Il prete lo lasciò fare, senza intervenire, consapevole che non erano domande quel che cercava, ma risposte. Perse la cognizione del tempo e il violetto che filtrava dalle vetrate bastò a dirgli che il sole era ormai tramontato del tutto quando Goldwine trasse le conclusioni:
    «Le cose sono andate così. Io ho ucciso quell’uomo senza alzare un dito contro di lui, senza nemmeno averlo mai conosciuto. Questa, padre... questa è la prova.» 
    Indossava un cappotto scuro, forse un poco bistrattato, ma capace lo stesso di una saggia e polverosa eleganza. Il giovane uomo ne scostò un lembo e tuffò una mano nella grossa tasca interna. Quando la allungò verso Wilfred, tra le lunghe dita stringeva un piccolo fascicolo spiegazzato.
    Il sacerdote lo prese e lo aprì, portandosi sotto agli occhi la prima pagina. Goldwine gli aveva detto che la sua unica colpa era stata quella di scrivere una piccola tragedia famigliare, perché era il teatro la sua professione, e che l’omicidio di cinque giorni prima, reso noto dalla stampa in gran parte dei suoi dettagli, riprendeva passo per passo quel che aveva scritto. Ebbene, ora che Wilfred aveva quei fogli sotto agli occhi, si rese conto che effettivamente le due cose, fatto fittizio e fatto reale, non si limitavano ad una casuale e trascurabile somiglianza. Ci aveva sperato, in coscienza, che quel giovane uomo di palcoscenico fosse semplicemente matto o paranoico, e invece doveva ricredersi. Aveva letto dell’assassinio di quell’americano, così come conosceva a grandi linee, come quasi tutti i londinesi, quel che gli agenti avevano trovato. Scotland Yard aveva probabilmente cercato di far passare sotto silenzio il particolare più inquietante, ovvero quelle fitte righe orizzontali e verticali che disegnavano una griglia sull’intera scena del crimine, ma la stampa inglese era stata più astuta e nessuno aveva potuto evitare una fuga di notizie.
    E in quel momento, raccogliendo con gli occhi alcuni tratti della scena in cui Miles – questo il nome dell’assassino nella tragedia – uccideva il fratello George Patrick, si accorse di come le due cose corressero l’una parallela all’altra, come un malato, inquietante gioco di specchi. Miles sparava in fronte al povero George mentre questi sedeva alla scrivania, e l’americano era stato trovato morto nello stesso frangente; Miles agiva per denaro, come un vampiro partorito da un mondo vicino ad capitalismo, e George era ricco e prossimo a investire il suo denaro in un affare che il fratello non appoggiava. Il povero Sullivan, trovato morto cinque giorni prima, di soldi ne aveva effettivamente a bizzeffe. Coincidenza? E un momento, Wilfred ricordava persino la foto sul giornale, che ritraeva lo studio in cui era stato trovato il cadavere. Senza la vittima, certo. “Di fronte alla scena: quel che hanno trovato gli agenti”, recitava il commento appena più in basso. Se lo ricordava ancora, come se immagine e frase costituissero un pacchetto unico. E quello studio era incredibilmente simile, anzi assolutamente uguale alla descrizione del luogo in cui il fittizio Miles sparava allo sfortunato George Patrick.
    Mancava la griglia, questo sì. Ma poco importava alla luce del fatto che, di fronte a quelle righe, padre Wilfred avvertì un’incomoda sensazione di nausea stringergli lo stomaco. Per un attimo si domandò perché un giovane di bell’aspetto come Cecil Goldwine, all’apparenza così discreto e di buone maniere nel suo cappotto da umile gentiluomo, avesse deciso di scrivere di un omicidio; poi si rese conto che il silenzio fra loro era durato troppo e alzò gli occhi, reggendo ancora il fascicolo fra le mani.
    «Mi avete detto di lavorare per il teatro», fu in grado di dire.
    «È così, padre.»
    «Mi avete anche detto che siete solo un aspirante attore, un aspirante poeta e un aspirante uomo di cultura.»
    Questa volta Goldwine non rispose. Nei suoi occhi grigioverdi vibrava un sottile filo di perplessità. Aveva capito dove il suo interlocutore voleva arrivare. Wilfred tradusse il suo silenzio come un’affermazione e continuò, con lo stesso tono di voce. L’atteggiamento di chi conta le monetine scoperte nella tasca di una giacca inutilizzata da tempo. Un due più due facile facile.
    «Siete anche un aspirante assassino?»
    «Io non ho ucciso quell’uomo», scattò il giovane con una punta di impazienza, sottolineando ogni parola. Se qualche minuto prima era caduto in ginocchio davanti al confessionale, in lacrime come un ragazzino rimasto orfano da meno di tre secondi, ora la sua espressione si era fatta di ferro. «Ve l’ho detto, padre: quella tragedia è pura fantasia. Volevo cimentarmi nel genere drammatico e così ho fatto. Non ho alzato un solo dito contro quell’americano. Quando ho letto la notizia sui giornali, ho seriamente meditato di tagliarmi la mano. Perché quell’inchiostro l’ho messo io, sulla carta, e il Diavolo si è servito di questa storia per trasformare la finzione in sangue vivo.»
    Padre Wilfred lo osservò per qualche attimo da sotto le folte sopracciglia brizzolate. Riconosceva che le vicende costituivano un’inquietante coincidenza, ma non voleva nemmeno credere che il Diavolo c’entrasse qualcosa. L’epoca degli esorcismi era passata. Era stata una fortuna che Cecil Goldwine avesse raccontato quella storia a lui, che tutto era fuorché un fanatico religioso, e non ad un altro confessore.   
    «Io voglio credervi, Goldwine.»
    «Credete che sia stato il Diavolo? Non può essere altrimenti, padre. Vi prego, voglio essere salvato.»
    Oh, a quanto pare abbiamo sì un fanatico, e non sono io, pensò Wilfred, con una vena di sarcasmo per cui subito chiese perdono a Nostro Signore.
    «No, figliolo. Non credo che il Diavolo abbia qualcosa a che fare con questa storia. Nemmeno credo che dobbiate rivolgervi a me», spiegò con pazienza.
    Goldwine lo guardò. Tempo pochi secondi e aveva capito a cosa il sacerdote si stesse riferendo. «Non ho nulla da dire agli uomini di Scotland Yard. Io non ho nemmeno mai conosciuto quell’americano.»
    «Siete sicuro che nessun altro abbia letto questa vostra... opera?», domandò padre Wilfred, facendo per restituirgli il fascicolo. Chiamare “opera” un gruppetto di cinque fogli mai messi in scena era forse troppo, ma sapeva quanto gli artisti fossero suscettibili. «Ho notato che il lavoro non è stato concluso.»
    «Decisi di interrompere la stesura. Per moralità, direi.» Cecil prese il fascicolo e abbandonò le mani tra le gambe, prendendosi una pausa. Non era più sulle difensive e la sua voce aveva acquisito una nota più disponibile e riflessiva. «A suggerirmi la storia di fondo è stato un mio amico. Gran parte dei dettagli, come la descrizione fisica dei protagonisti e il loro carattere, è invece farina del mio sacco. Per questo sento di essere complice di un delitto a cui non ho invece preso parte. Fisicamente Sullivan e George Patrick sono molto simili. E quell’ufficio... Dio, l’ufficio.»
    «Questo vostro amico...», cominciò Wilfred, posando i gomiti sulle ginocchia e allungandosi un poco verso di lui. «Questo vostro amico, Cecil... Come si chiama?»
    Quando Goldwine alzò gli occhi, vide che il sacerdote si era fatto più vicino. Lo osservava con pazienza e morbida discrezione, con la cautela che si mostra di fronte ad un diffidente cucciolo di lupo. Si rese conto a che conclusione sarebbe giunto e il pensiero gli infilò dita ghiacciate in fondo alla coscienza.
    «No», disse, e scoprì di avere paura. «È mio amico, padre. Non farebbe mai una cosa simile.»
    Wilfred se ne accorse e gli posò una mano sulla spalla. «Se volete essere salvato... Se volete salvarlo, allora dovete dirmelo. È la sola pista che potrebbe consegnare il colpevole alla giustizia, degli uomini e di Dio.»
    Cecil Goldwine non riuscì a sostenere il suo sguardo. Chinò di nuovo il capo e, alzando un poco il mento, sbirciò l’altare di fronte. Così luminoso benché fosse sera, così imponente benché fosse modesto, così giusto benché lui stesse per mettersi in bocca un amaro, difficile tradimento.
    «Marcel August Redmayne», mormorò. «Si chiama Marcel.»



* * *


Non sono solita soffermarmi alla fine di ogni capitolo, forse perché son dell'idea che a destare curiosità debba essere il capitolo in sé, non certo il parere che un autore mette in coda ad ognuno. Per cui vi lascio alle vostre "indagini", miei cari :3
Essendo la prima volta che tratto il genere, come già scritto, mi farebbe però piacere ricevere dei commenti, positivi o negativi che siano. Alla prossima!

Dew_






   
 
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