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Cinque personaggi in cerca d’epilogo – Tomoki
Non è tanto una brutta notizia in sé a tagliarti le
gambe. Perché una brutta notizia, per quanto brutta possa essere, la affronti.
All’inizio ti devasta, ma poi ti comunica essa stessa dei mezzi, delle
modalità, degli stratagemmi per superarla. In un modo o nell’altro. Oppure,
molto banalmente, per convivere con il dolore immenso che provocano.
A fiaccarti lo spirito, impedendoti ogni tipo di
lucidità tale da permetterti una qualsivoglia reazione razionale è il dubbio.
L’impossibilità di sapere se quella notizia che attendi sia bella, banale o
brutta. Anche molto brutta.
Tomoki Asuka era davvero nel marasma più totale.
Spalancava porte, camminava per lunghi corridoi, cercava negli ampi saloni
scuri, tra vetri rotti e odore di varecchina. Suo figlio pareva essere
scomparso nel nulla.
Dalle ricetrasmittenti e dai volti dei colleghi che
aveva incrociato sapeva che la Contessa era stata liberata, che la Belva era
stata con tutta probabilità catturata. Aveva persino saputo che qualcuno aveva
tramortito quell’imbecille dell’agente Matsuda e se ne era scappato via con Giandomenico
Fracchia. Ma ad innestargli il tarlo del dubbio più atroce la notizia – a dir
poco agghiacciante – del fatto che Esposito e Yamaguchi erano davvero morti. E
che De Simone, nonostante fosse una pellaccia, era stato tanto così dal fare la
stessa fine. “Che speranze”, ripeteva la sua mente razionale, “poteva avere
dunque suo figlio?”.
Nonostante tutto continuava a cercare, a correre, a
urlare il nome di Daiki. Non era più il capo della polizia, anzi, forse, quella
sera, non lo era mai stato davvero. «DOVE SEI???», urlò di nuovo. Ma
nell’oscurità più totale, vide uno spiraglio di luce. Letteralmente. Tra le
tante porte del lungo corridoio del secondo e ultimo piano, verso la fine, ne
scorse una socchiusa. Da essa, entrava una luce tenue. Probabilmente una specie
di lampione. Doveva essere, evidentemente, la porta verso il terrazzo
panoramico. D’estate ci piazzavano il bar esterno: la gente andava per sedersi
sui distinti tavolini, sorseggiare costosi cocktail dai nomi esotici e dal
gusto orribile e godersi la visuale dall’alto della spiaggia e dell’oceano.
Come spinto da una forza incontenibile, si lanciò
verso la porta, la spalancò con forza e gridò di nuovo il nome di suo figlio.
Era lì. Riverso su una specie di lungo sdraio, uno di
quelli in dotazione del bar estivo dell’acquario. Le gambe distese, la mano
sinistra lungo il corpo e la destra sopra il petto, quasi a proteggersi dal
freddo. Pareva guardasse in alto.
«DAIKI!!!», urlò. Il ragazzo girò la testa, e, con
voce flebile, salutò: «Papà. Ce l’abbiamo fatta».
Tomoki piombò verso il figlio. Si accorse che non era
ridotto proprio una meraviglia. «Ma… Cristo… Ti hanno rotto il naso… E che
diavolo hai in bocca?». Era disperato, davvero. Sua moglie, se avesse potuto
farlo dal cielo, lo avrebbe ucciso. Aveva esposto il loro unico figlio a un
rischio mortale. Non solo: l’avevano ridotto così soprattutto perché lui aveva
acconsentito a trattarlo non per quello che era – un ragazzino – ma per una
specie di poliziotto cresciuto e formato. E sì che era lei quella di manica
larga. «La gamba… È gonfia… Ma…».
«Saint Tail mi ha salvato», lo interruppe tranquillo.
Nonostante la gravissima preoccupazione, il dolore e il pentimento, Asuka
senior si accorse che il figlio pareva sotto l’effetto di una qualche droga
inebriante.
«Saint Tail?», domandò Tomoki. Era solo un nome, ma
dentro v’erano tutti gli interrogativi del mondo, per i quali, però, il
poliziotto poté intuire con un sorriso più d’una risposta.
«Ha sconfitto la Belva», riprese Asuka junior.
Aveva parlato solo di lei. Di fronte a suo padre non
aveva minimamente accennato alle sue vistose ferite. Non aveva spiegato il
perché si trovasse lì, a tre piani di distanza dal luogo dove Tomoki, poco
prima, aveva sentito si era verificato lo scontro con la Belva. Non aveva
raccontato come – così conciato – fosse riuscito a salire le scale. Ma
soprattutto, non aveva dato alcun indizio sul perché uno che aveva incrociato
così da vicino la morte e che aveva abbracciato in modo così stretto il dolore
si trovasse in quello stato di profonda beatitudine.
Nonostante l’inquinamento luminoso che funesta il
Giappone più delle altre nazioni occidentali, quella notte era letteralmente
bagnata di stelle. L’oceano, placido e sereno, ricordava la sua presenza con il
costante e lento fragore delle onde contro gli scogli. Gli stessi scogli che
per centinaia – migliaia di anni avevano fatto da cassa di risonanza di
quell’eterna musica. Una brezza profumata di salsedine scorreva per i vestiti e
pareva lenisse le ferite dal sangue e dagli agenti infettivi.
Tomoki sospirò, aprì il taschino e si accese una
sigaretta. Un goffo, goffissimo tentativo di mascherare in una nuvola di
nicotina le lacrime che gli rigavano il viso, di confondere con i colpi di
tosse per il fumo i singhiozzi del pianto. Ma Asuka junior guardava verso il
cielo, verso gli astri. In lontananza, tra i corpi celesti, c’era una stella
particolare. Luccicava di rosso, bagnata dai riflessi argentei della luna
piena, ormai calante e dunque, possibilmente, ancor più grossa e luminosa. Trainata
dall’ultimo dei suoi palloni ad elio. Chissà con che energie quella luce era
riuscita a librarsi ancora alta nel cielo. Libera da tutto e da tutti. La
stellina rossa ormai era ridotta al lumicino: spariva verso l’entroterra, verso
la città, mascherata da altre luci, coperta dalla foschia e dalla nebbia. Ma
lui la vedeva ancora. E l’avrebbe vista per sempre. Nessuna nube l’avrebbe
nascosta dal suo sguardo. Per lui era luminosa come la cometa di Halley.
Sorrise ancora prima di perdere i sensi. Distrutto,
sconfitto, torturato e quasi ammazzato aveva pregustato il paradiso.
I raggi del sole in lontananza davano il via a un nuovo
giorno. Asuka sorrise, prima di svenire di nuovo. Era davvero un nuovo giorno,
in tutti i sensi.