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Autore: Gobbigliaverde    08/12/2014    1 recensioni
- Possibile che ho passato tre anni della mia vita a cercare di credere alla magia, e ora tutti mi dicono l'inverso? -
C'è chi perde la persona che ama, chi perde la strada, chi la famiglia, e chi la memoria. In questo mondo c'è di tutto. Ma siamo qui tutti assieme, su questo pianeta, per aiutarci a vicenda a ritrovare quel pezzettino di noi che abbiamo perso. In questa vita l'unica regola è rompere le regole... e queste regole sono dettate dalla magia.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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MAMMA

 

 

Credo di aver girato almeno quattro volte la frittata nella pentola, perché inizio a sentire odore di bruciato. I bambini sono a tavola e non aprono bocca, Neal non ritorna a casa. Io devo tenere tutto sotto controllo. Ho la testa altrove, non riesco a cucinare nulla di commestibile. Perché Gold voleva farmi avere uno scrigno vuoto? Cosa vorranno dire quelle visioni? E ultima cosa, ma molto più importante delle altre, e se Neal fosse disperso? rapito? o peggio… morto? Nulla di confortante tra i miei pensieri. Se lui non tornasse, io saprei badare a me stessa, ma quei due marmocchi no. Devo comportarmi da madre. Devo trovarmi un lavoro e portare il pane a casa. Proprio in fondo alla via c’è la questura… Potrei provare a fare domanda lì, magari potrei diventare un’agente, ho molta esperienza… in ogni caso se Neal non tornasse entro domani, dovrei denunciarlo alla polizia.
    L’insistente odore di frittata carbonizzata mi distoglie dai pensieri, così, prendo il telefono e l’elenco telefonico e chiamo una pizzeria per asporto.
    — Pizza a colazione? Mai mangiata? — domando ai bambini, che mi fissano con i gomiti appoggiati sul tavolo e il mento sui palmi. — Beh, la pizza è sempre buona — tento di sorridere, mentre getto via la frittata ormai nera nella spazzatura. Loro non fiatano, ingollano il latte freddo che gli ho versato nelle scodelle e scompaiono dalla cucina.
    Beh, almeno ci ho provato, dico tra me. In realtà so di essere un totale disastro. Porto Gemma all’asilo e Henry alla fermata dello scuolabus, poi passo la giornata a leggere annunci di lavoro sui giornali, e cerchiare quelli che mi interessano, fino a quando non è ora di andare a prenderli. Per cena scaldo la pizza arrivata per colazione. Sono un dannato disastro.

È mattina presto, credo verso le sette. Devo portare i bambini a scuola, e poi devo andare in questura. Ora posso denunciare la scomparsa di Neal. Si preannuncia una giornata faticosa. Mi alzo, sono quasi di buon umore, dalla cucina sento provenire un buonissimo profumo di frittelle e… Un momento. Il concetto di cucina non va d’accordo con quello di marmocchi. Corro giù per le scale e mi fiondo oltre la soglia della cucina aprendo la porta così velocemente che lo spostamento d’aria mi risucchia dentro. Come immaginavo. È tutto sotto sopra. Mi guardo attorno spaesata. Sento la rabbia salire dentro di me, ma alla vista dei sorrisi di Gemma e Henry sembra spegnersi.
    — Ciao mamma! Buon compleanno! — dicono in coro, con le mani e il viso sporco di impasto per frittelle.
    Compleanno? Com’è che lo avevo dimenticato? È il mio compleanno. Bene, partendo dal presupposto che non so nemmeno quanti anni ho in questa realtà, è un buon inizio.
    In tutto questo trambusto il mio perenne anticipo si è trasformato in un clamoroso ritardo, così, dopo aver assaggiato la frittella insapore che loro avevano fatto, e dopo aver detto, da brava madre, che era buono, trascino i bambini per la casa alla ricerca di sciarpe, giacconi e scarpe, e poi pronti per la scuola.
    Scarico Gemma all’asilo praticamente lanciandola fuori dalla macchina, sono in ritardo. Premo il pedale dell’acceleratore e parto verso le scuole medie, e continuo ad essere in ritardo. C’è anche una coda lunghissima, e nessuna macchina si muove. Appena il traffico si sblocca un po’, mi viene in mente che non ho la minima idea di dove sia la scuola di Henry. Che Diavolo! Tutte a me. E in più sono in ritardo.
    Puoi dirmi la via della tua scuola? — dico con il sorriso più dolce che posso, per nascondere tutto l’odio per il mondo che provo in questo momento.
    Per fortuna il mio telefono ha il navigatore satellitare. Ci mette almeno dieci minuti per calcolare il percorso. Io lo odio. Ho solo chiesto una strada senza inversioni a U, senza traffico, non a pagamento, che non sia strada bianca, con un limite massimo sopra i 70 km/h, e soprattutto veloce. Giuro che se dice ancora una volta “ricalcolo” lo lancio dal finestrino.
    Trattenendo qualche imprecazione, finalmente siamo a scuola.
    — Vengo a prenderti alle cinque! — gli grido mentre scende dall’auto.
    Lui sbuffa senza chiudere la portiera. — Mamma, sono in ritardo, devi entrare e giustificarmi!
    Cosa devo fare? Giuro che questo è il mestiere più difficile del mondo. Non sono portata per fare la madre di un ragazzino di undici anni, non sono portata per giustificare i ritardi a scuola, figuriamoci quando mi chiederanno colloquio i professori! — Prendi il libretto che inizio a scrivere — riesco a dire, senza sapere bene cosa scrivere. Sto improvvisando. Fare la madre significa improvvisare?
    Sono in ritardo. Un ritardo esagerato. Ma perché Henry mi fissa in quel modo ora? Sembra a metà tra lo spaventato e lo sconvolto.
    — Ehm… mamma, ho… dimenticato lo zaino a casa — sussurra.
    No. Non ci posso credere. Non ho tempo per tornare indietro ora. Ci potrei perdere tutta la mattina, e oggi il tempo mi serve.
    Tiro un lungo respiro per non sbottare. — Dì ai professori che è colpa mia, che ti giustifico domani e se non ci credono che mi chiamino pure. — Chiudo la portiera e riparto con l’acceleratore a tavoletta, verso la prima questura che trovo.
    Fare la madre può portare ad un esaurimento nervoso in poco tempo. Per fortuna che io non ho nemmeno quello.
    Entro in questura, non c’è nessuno in coda. Corro al primo sportello aperto che vedo.
    — Salve, vorrei denunciare una scomparsa — dico, la mia voce rimbomba tra le pareti dell’ufficio. Finalmente è tornata normale, non più roca come quella che avevo pochi giorni fa.
    Il poliziotto mi osserva annoiato dall’altra parte del vetro. — Come si chiama?
    — Neal Cass… — inizio io, ma l’agente mi ferma con un gesto secco.
    — Lei, non la persona scomparsa — dice con tono sempre più annoiato.
    L’atteggiamento poco interessato dell’agente mi infastidisce, ma nel frattempo sono felice che non si impicci di come sto o quelle cose da psicologo.
    — Emma Swan — rispondo seccamente.
    — Da quanto tempo non ha notizie di questa persona?
    Mi schiarisco la voce. — Da due giorni fa… un giorno e mezzo per la precisione.
    Il poliziotto guarda l’orologio appeso alla parete dietro le mie spalle e solleva le sopracciglia. — Lo sa che prima delle quarantotto ore non può denunciare la scomparsa proprio di nessuno? — Sorride ironicamente.
    — Senta, è mio marito e vorrei sapere cosa gli è accaduto. Credo di averne il diritto no? — Gioco la carta della mogliettina preoccupata, e sembra funzionare, perché sbuffando, l’agente si mette al computer.
    — E come si chiama suo marito? — sospira sottolineando le ultime due parole.
    Io sorrido compiaciuta. — Neal Cassidy.
    Passano alcuni secondi, e poi, con voce piatta, dice: — Non esiste.
    Rimango un attimo sorpresa. — Intende dire che non è nel database delle persone scomparse?
    Lui scuote il capo. — No, intendo dire che non esiste. Né su questo computer, né all’anagrafe, né da nessuna altra parte. Non esiste nessun uomo che si chiama Neal Cassidy, sposato con Emma Swan. Se è qui per farmi uno stupido scherzo e farmi perdere tempo, se ne vada. Subito.

  
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