#3
Dark
La
primavera sui monti Tamen, nel Paese della Terra, era
la cosa che più la emozionava in assoluto. Vallate d’inverno aride e ghiacciate
lasciavano il posto a un umido strato di terriccio che non tardava a riempirsi
di vita, interi pendii erano ricoperti di verde e i fiori crescevano numerosi impregnando
l’aria di un’inebriante profumo. Ricordava ancora la sensazione di quei morbidi
steli d’erba strisciare sulle caviglie, la sensazione che si provava a correre
a piedi nudi in mezzo a quella fantasia colorata, la sensazione di essere
amata, di avere una casa in cui ritornare e un rifugio in cui ripararsi la
sera, quando il buio calava e con esso si addormentavano tutte le fantasie che
l’avevano accompagnata alla luce del sole.
C’era caldo a Tamen quando la primavera faceva la sua apparizione. Il
sole baciava con delicatezza la pelle e ogni anno la mamma approfittava di quel
tepore per cucirle una nuova casacca di seta decorata di motivi variopinti come
i campi delle loro montagne. Quando le indossava provava puntualmente un misterioso
senso di pace, freschezza e armonia. Non c’era niente di più esaltante di
sentirsi in equilibrio con tutto quello che la circondava e questo, lei,
l’aveva subito capito.
Erano
passati quasi dieci anni dall’ultima volta che aveva visto la primavera a Tamen e della dolcezza di quelle giornate non era rimasto
che il ricordo lontano, la delicatezza di quegli steli aveva lasciato il posto
a dei rami spinosi e il colore di quei campi rigogliosi si era scurito nel nero
di una rosa solitaria. Non c’erano state mezze misure nella vita di Emin, la sua esistenza si era frantumata tutta in una volta
nella primavera del suo undicesimo compleanno, quando un incidente si portò via
i suoi genitori rompendo per sempre quell’armonia. Perdere loro era stato come
perdere i pilastri dell’intera vita. Tutto quello in cui credeva, tutto quello
che amava e rispettava aveva cessato di esistere nel giro di pochi minuti,
quando le travi ammuffite della soffitta avevano ceduto, facendo collassare
sotto le macerie l’intero edificio, seppellendo lì tutta la sua felicità.
Non
era un caso che avesse deciso di diventare architetto. Aveva perso tutto,
persino la capacità di sorridere di fronte alla primavera. Ogni volta che
progettava qualcosa e la vedeva messa in opera era come se ricostruisse,
tassello per tassello, le fondamenta crollate della sua vita; ogni edificio era
un piccolo mattone, un piccolo traguardo, ogni edificio era metaforicamente
quella casa solitaria di montagna che sognava di ricostruire ogni notte, quando
il ricordo della felicità infranta riaffiorava sempre più spesso nella sua
mente e si concretizzava nelle tragedie che aveva visto fino a quel giorno nei
villaggi di Dakagi.
La
ragazza si affacciò alla finestra ignorando il gelido vento notturno che ormai
stava prendendo il sopravvento nelle notti di Sin. Il
deserto era arrivato inesorabilmente fino al confine e nessuno era riuscito a
impedirlo, nessuno era riuscito a salvare la primavera di quel luogo così mite
e baciato dalla fortuna. La felicità di quei villaggi era stata spazzata via nel
giro di pochissimi giorni, così come pochissimi minuti erano bastati a spazzare
via la sua, ed era unicamente quello il motivo per cui era lì, questa volta aveva il potere di cambiare le
cose.
«Ancora
brutti sogni?». Fu Morgan a interrompere il filo dei suoi pensieri. Aveva
conosciuto suo cugino qualche giorno dopo l’incidente che le aveva portato via
mamma e papà. In verità non si erano mai considerati cugini, il loro rapporto
era sempre stato più profondo di un legame di parentela così lontano, avevano
imparato a comprendersi a vicenda sin dal primo momento che si erano incontrati
e si erano sostenuti quasi con disperazione ogni volta che il dolore impediva
di guardare il futuro con serenità.
Quella
era stata la prima volta che era venuta a contatto con altri membri della
famiglia.
Non
sapeva dell’esistenza di quei parenti, né aveva mai sentito il bisogno di avere
vicino qualcun’altro che non fossero i suoi genitori e lo splendore della
natura che li circondava; le montagne erano le loro uniche amiche e istitutrici,
erano il tutto da cui dipendeva la loro vita, erano bellezza, armonia, ed erano
le stesse che li avevano resi solitari, indipendenti e lontani da qualsiasi
tipo di legame.
All’inizio
aveva faticato a comprendere la scelta dei suoi genitori, ma crescendo tutto
aveva cominciato ad essere più chiaro: l’odio, il rancore e la vendetta. La sua
famiglia somigliava ad un intrico di rovi acuminati e velenosi che si
attorcigliavano su loro stessi logorandosi a vicenda.
L’isolamento
l’aveva fatta crescere libera da quelle catene e l’aveva resa capace di pensare
con la propria testa. Era questa la vera eredità che quei giorni felici le
avevano lasciato.
Rispose
con un cenno alla domanda di Morgan, che la abbracciò nella sua solita stretta
rassicurante, la stessa che aveva sentito tra i singhiozzi il giorno che si
erano conosciuti, l’unico gesto che l’avesse mai tranquillizzata ogni volta che
aveva ceduto al dolore.
«Ti
fa male stare qui», disse lui, mentre le accarezzava il capo.
«Io
devo stare qui», rispose la ragazza,
guardandolo negli occhi con determinazione. «Hanno bisogno di me».
Morgan
fissò la cugina non potendo fare a meno di sorridere, ormai la conosceva
abbastanza per capire che non avrebbe mai abbandonato qualcosa a metà, nemmeno
se questo l’avesse fatta star male. Era debole Emin,
emotiva e infelice, ma allo stesso tempo lottava giorno dopo giorno per
diventare più forte e per ricostruire la propria vita, ricreandosi
autonomamente la stabilità che aveva perso dopo l’incidente di dieci anni prima.
Morgan
l’aveva presa subito sotto la sua custodia, l’aveva consolata, l’aveva aiutata,
l’aveva spronata, era cresciuto con lei come se fossero fratello e sorella,
l’aveva sempre sostenuta in qualunque missione lei avesse deciso di
intraprendere, si era lasciato appassionare dalla sua determinazione e l’aveva
seguita nell’iter che li aveva fatti diventare architetti, fino a quel momento,
a Dakagi. Non c’era persona al mondo a cui volesse
più bene di Emin e quello che li univa era un legame
viscerale fondatosi sulla disperazione dei primi anni e, in seguito, sulla
complicità di ogni loro scelta.
La
verità era che il loro destino era già stato deciso molto tempo prima. Il loro
legame, il loro affetto e la loro complicità era il risultato a cui la famiglia
sperava di arrivare facendoli crescere insieme. Il perché Morgan non lo capì
immediatamente, se ne rese conto molto più tardi, durante i primi allenamenti con
la cugina: lei aveva ricevuto un’eredità che nessuno aveva più ottenuto nelle
generazioni che succedettero la loro cacciata dal Paese del Vento e, nel
momento in cui la famiglia aveva conquistato la custodia di Emin,
voleva assicurarsi che lei non si sarebbe più allontanata da loro, perorando la
sanguinaria causa che taceva ormai da troppo tempo. E così era andata. Morgan
si era affezionato ad Emin al punto di seguirla in
quel percorso burrascoso a Dakagi, ed Emin era talmente legata al cugino da appoggiarlo senza
indugio nel suo desiderio di vendicare l’intera famiglia, anche se questo non
rientrava nelle sue attuali priorità.
«A
tutti i nostri mali c’è una spiegazione», disse Morgan, mentre osservava la
ragazza accendere una sigaretta sul davanzale della finestra.
«Lo
so», rispose lei, espirando il fumo. «Ho sentito la storia molte volte».
«Finalmente
una possibilità concreta di riscattare la nostra famiglia», continuò lui, con
la scintilla negli occhi.
«Calma,
Morgan», intervenne Emin, smorzando il suo entusiasmo.
«Non fare niente di avventato».
«Non
te lo garantisco», rispose il ragazzo, avvicinandosi alla cugina. «Lo sai come
sono fatto», aggiunse, togliendole la sigaretta dalle mani per rubare un tiro.
«Sforzati»,
si impose lei, riprendendosi l’oggetto del vizio, «o sprecheremo la nostra
unica possibilità».
Morgan
sospirò, maledicendo mentalmente il suo carattere impulsivo. Emin aveva ragione, era stato proprio lui il primo a dire
che non ci sarebbero state più di una possibilità e che dovevano giocarsi al
meglio le loro carte, senza contare che stavano viaggiando con delle false
identità in quanto esiliati dal Paese del Vento, se fossero usciti allo
scoperto non sarebbero più potuti tornare indietro, e questo non permetteva
errori.
Seguì
la cugina con lo sguardo fino a quando non la vide sparire dietro la porta
della sua camera. Per un momento gli tornò alla mente tutto quello che la
ragazza aveva passato e tutti i disagi in cui la loro famiglia aveva vissuto per
colpa di quella vergognosa condizione in cui era finita in seguito alla
cacciata. Se dapprima reagiva con la disperazione adesso non sentiva altro che
rabbia, una rabbia che ormai gli impediva persino di piangere. La loro
rivincita era lì, nel loro stesso villaggio, e respirava la loro stessa aria.
Avrebbe dato la propria stessa vita qualora fosse stato necessario, sarebbe
stato disposto a morire per quella causa, pur di vedere Emin
sorridere ancora una volta.
* *
*
Il
fermento cominciò ancora prima dell’alba tra le strade di Sin, i lavori
iniziavano al sorgere del sole e finivano al suo tramontare, approfittando
delle lunghe giornate che l’estate regalava a quelle zone. Kankuro
e la sua squadra avevano viaggiato rapidi per tutta la notte sperando di
arrivare a Sin prima che la popolazione cominciasse ad essere operativa, in
modo da recapitare le ultime informazioni raccolte sulla via del ritorno.
Era
preoccupato a dir la verità. Tra le mani stringeva ancora l’ultimo messaggio
pervenutogli da Emin proprio il giorno precedente,
che lo avvisava dell’arrivo del fratello a Nakoto.
Sapeva di non aver agito in maniera trasparente, ma era essenziale che
intraprendesse quella missione e sperava che Gaara lo
capisse.
Quando
ormai i profili di Sin cominciavano a delinearsi si ritrovò nella più completa
indecisione: quale sarebbe dovuta essere la sua priorità? Avrebbe dovuto
recapitare le ultime notizie agli architetti? Oppure sarebbe dovuto andare
immediatamente dal fratello? Aveva viaggiato tutta la notte per fare arrivare
le nuove a inizio giornata, senza contare che non aveva la minima idea di dove
si trovasse Gaara.
Non
ci fu bisogno di fare domande, tuttavia. In città la notizia dell’arrivo del Kazekage era ormai sulla bocca di tutti e non ci volle
molto a rintracciare il luogo dove Gaara avesse alloggiato
per la notte; d’altronde era quella la sua priorità, le informazioni avrebbero
potuto aspettare.
«Comincio
a dare un’occhiata a quei piani di emergenza», esordì Shikamaru
quando lo vide sulla soglia della piccola pensione affittata per la notte. «Raggiungetemi
dagli architetti», aggiunse, uscendo dalla stanza e guardandolo in tralice. Kankuro aspettò di vederlo scomparire oltre l’uscio
principale prima di muovere qualche passo all’interno della stanza, abbassò
sulle spalle il cappuccio della sua insostituibile divisa scura e cominciò a
guardarsi attorno alla ricerca del fratello. Era strano come quella situazione
lo angosciasse più del dovuto, era la prima volta in assoluto che non aveva
reso partecipe Gaara delle sue decisioni e si rese
conto della paura che ancora provava alla sola idea di saperlo arrabbiato.
Erano
stupidi quei pensieri, lo sapeva, specialmente perché era stato il primo ad
accettare e a sostenere la determinazione del fratello nel farsi accettare da
tutti. Eppure quei giorni bui dove Shukaku seminava
la follia erano ancora vividi nella sua mente, così come il terrore che provava
di fronte a quella perdita di ragione e a quell’inconsistenza di ogni genere di
legame di fronte alla pazzia.
Ironia
della sorte, non aveva avuto scampo allora così come non ne aveva in quel
momento, con la differenza che il Gaara che avrebbe
affrontato quel giorno non avrebbe perso il senno qualunque fosse stata la sua
reazione nel rivederlo. Questa era una certezza.
Lo
scorse sulla veranda lignea di quel piccolo ricovero in cui avevano scelto di
pernottare, osservava il giardino della corte quadrata venire lentamene invaso
dalla sabbia che pioveva dal cielo.
«Ciao»,
disse per primo Kankuro, attirando la sua attenzione.
«Ciao»,
rispose il rosso senza smettere di fissare il giardino.
Il
marionettista rimase in silenzio non sapendo da dove cominciare, quei secondi che
seguirono il loro saluto caricarono l’atmosfera di pesantezza e riempirono il
cuore di Kankuro di ancora più incertezze rispetto a quante
non ne avesse prima di mettere piede in quella stanza. Cosa avrebbe dovuto dire
adesso?
Mosse
qualche passo verso la piccola corte e si sedette anche lui ad osservare la
leggera pioggia di sabbia depositare i granelli sulle foglie degli alberi in
fiore, appesantendole e contorcendole nel loro tentativo di rimanere in piedi.
«Questo
posto sta morendo», disse Gaara con amarezza,
rompendo quel lungo silenzio.
«No»,
rispose Kankuro, sorpreso di sentire quelle parole
proprio da chi aveva imparato sulla propria pelle a non rassegnarsi mai. «Non
lo lasceremo morire».
Era
convinto di quello che aveva detto; sin
dal primo momento che aveva trascorso in quei villaggi ci aveva messo anima e
corpo nel tentativo di salvarli, mettendo a repentaglio la sua vita prima
ancora della sua reputazione. La sofferenza di quelle persone non era stata
quantificabile e loro erano gli unici ad avere la forza di aiutarli per
davvero. Era quello il motivo per cui aveva deciso di intraprendere quella
missione pericolosa, avrebbe voluto cancellare l’angoscia sui volti di quella
gente a cui non era rimasto più nulla se non fuggire lontano.
Gaara lo osservava
taciturno. Probabilmente Kankuro aveva visto molto
più di lui arrivando nei villaggi satelliti dopo le primissime scosse, forse
aveva visto qualcosa che lui non avrebbe mai potuto comprendere, aveva visto la
devastazione, la morte e la disperazione di cui aveva soltanto sentito parlare.
Per quanto fosse risentito per l’atteggiamento del fratello non riuscì a
pronunciare alcuna parola di rimprovero.
«Li
ammiro molto, sai?», riprese il marionettista. «Gli architetti».
«Davvero?»,
chiese Gaara, affatto stupito da quella dichiarazione,
quei due erano stati dei complici perfetti.
«Hanno
lasciato tutto per venire qui ad aiutare questa gente», spiegò Kankuro.
«Ti
hanno indotto loro a intraprendere quella missione?», domandò il rosso, scrutandolo
con cipiglio serio.
«No»,
rispose il fratello. «Era essenziale che io partissi, non mi sono lasciato
dissuadere da nessuno, nemmeno da loro».
«Stupido»,
lo interruppe l’altro con una punta di risentimento.
«Non
saremmo a questo punto senza il nostro lavoro. Non mi pento di averlo fatto,
accetterò le conseguenze del mio gesto», replicò Kankuro,
risoluto.
«Né
io ti biasimo», concluse Gaara, ammettendo come
quelle parole non fossero false. Certo, avrebbe preferito essere avvisato sugli
spostamenti del marionettista, avrebbe preferito essere il primo a cui fossero
arrivate le informazioni e il primo che potesse attivarsi per intervenire, ma
forse non l’avrebbe mai capito fino in fondo. Non aveva visto coi propri occhi
quello che tutti, lì, avevano vissuto.
«Da
dove vengono gli architetti?», chiese poi a Kankuro,
che era rimasto in silenzio in seguito alla loro breve discussione, forse
ancora incredulo alle parole di Gaara.
«Dal
Paese della Terra», rispose. «È lì che hanno brevettato le fondamenta antisismiche».
«Comprensibile»,
rispose il rosso, conscio della presenza di numerose catene montuose in quella
terra, non c’era da stupirsi se in quei luoghi la costruzione antisismica fosse
più avanzata rispetto al Paese del Vento. «Quindi è un vulcano il nostro
problema, è così?», domandò a Kankuro, che assentì
con un sospiro.
Ratsu ci aveva visto
giusto.
«Si
è aperta improvvisamente una bocca sul versante meridionale della catena
montuosa. I terremoti sono dovuti all’attività vulcanica, il cambio climatico alle
polveri eruttive, il vento le spazza dritte nel deserto e il loro calore
innesta le tempeste», spiegò il marionettista. «Non c’è molto che possiamo fare
per questa situazione e non c’è modo di fermare la natura, possiamo solo aiutare
le persone ad adattarsi a essa».
«Già»,
ammise Gaara, pentendosi di aver provato anche il
minimo rancore nei suoi confronti. Quella missione era diventata parte di lui, lo
vedeva dalla determinazione in ogni sua frase. «Faremo del nostro meglio», concluse,
rendendosi conto di quanto il proprio tono di voce fosse più sereno. Aver
parlato con Kankuro aveva lasciato da parte ogni
disagio e ogni indecisione, adesso il quadro della situazione era finalmente
più chiaro. Fece per domandargli che genere di informazioni avesse recapitato
nella missione sui monti Dakagi ma venne interrotto
ancora prima di aprire bocca da un suo gesto del fratello, che chiuse gli occhi
nel tentativo di concentrarsi e li riaprì solo quando il terreno cominciò a
vibrare impercettibilmente sotto i loro piedi, aumentando di intensità col
passare dei secondi.
La
scossa non era forte come quella avvertita il giorno prima, ma era bastata a
causare il panico nelle strade in cui la gente si riversava di corsa per
arrivare ai punti di ritrovo.
«Aspetta!».
Kankuro trattenne Gaara
conducendolo a ridosso di una parete perimetrale della pensione. «Questo è solo
un tremore, ormai lo riconosco».
«In
che senso?!», chiese il rosso, scettico, mentre osservava preoccupato la folla
nelle strade.
«Sono
stato quasi un mese lassù, ho imparato a riconoscere il movimento del suolo, so
quando è il caso di preoccuparsi».
Rimasero
immobili per quasi un minuto contro il muro portante, alle loro spalle il
fragore della strada scemava lentamente lasciando posto al silenzio e alla
vibrazione degli arredi a loro vicini, non pronunciarono parola se non prima
che il piccolo sisma si fosse placato del tutto.
«Raggiungiamo
Shikamaru», sentenziò Gaara.
«Mi spiegherai lungo la strada».
Corsero
veloci tra le vie deserte della città e tra gli edifici perfettamente in piedi,
statici e solidi. Non ci volle molto a raggiungere lo studio degli architetti
ma, nonostante il breve tragitto, Kankuro spiegò al
fratello le conclusioni a cui era arrivato il giorno precedente, quando aveva
deciso di viaggiare tutta la notte pur di portare a inizio giornata le
informazioni. Questo avrebbe potuto cambiare le cose in meglio o in peggio,
dipendeva solo da quale soluzione si fosse adottata.
Trovarono
Shikamaru, Emin e Morgan
perfettamente tranquilli attorno al tavolo dello studio, con in mano delle
tazze di caffè.
«Ce
l’avete fatta», disse Shikamaru non appena li vide
sulla soglia dello studio. Il locale era piccolo e spoglio, un luogo di fortuna
dalle pareti color carta da zucchero e con un’unica scaffalatura disordinata
sulla parete sinistra ad accompagnare il tavolo presente al centro della
stanza.
«Il
buongiorno si vede dal mattino», scherzò Kankuro,
alludendo alla scossa appena percepita.
«Che
sorpresa». Questa volta fu Emin a rivolgersi al
marionettista. «Bentornato».
«Grazie»,
rispose lui, allargando il sorriso. «Avete conosciuto mio fratello, vero?»
«Ci
siamo incontrati ieri», rispose la ragazza, salutando Gaara
con un cenno del capo. «Lui invece è mio cugino Morgan, gestiamo insieme lo
studio».
Gaara si avvicinò all’unico
volto nuovo della stanza: l’alto ragazzo dai capelli corvini e lo sguardo nero
come la pece che non aveva smesso un attimo di fissarlo da quando aveva messo
piede in quella stanza. Si strinsero la mano squadrandosi a vicenda prima di
concentrare la loro attenzione sui documenti sparsi sulla scrivania. Si era
sentito particolarmente a disagio in seguito a quella fredda stretta di mano.
L’atmosfera,
infatti, non era delle più piacevoli: Emin era
particolarmente professionale quando spiegava il suo lavoro, mentre Morgan se ne
stava in disparte, supervisionando tutto con fastidiosa attenzione e aggiungendo
di tanto in tanto qualche dettaglio. Per il resto c’era silenzio. Nemmeno Kankuro era riuscito a interrompere quella discussione
nonostante avesse delle notizie piuttosto importanti da comunicare, aveva
lanciato più volte degli sguardi al fratello senza ottenere il supporto che
sperava.
La
situazione cominciò a rilassarsi nel momento in cui cominciarono a comparire
sulla soglia i capi mastri e i capi squadra di cantiere in attesa delle
direttive degli architetti sui nuovi interventi da fare quel giorno. L’attento
controllo del cipiglio severo di Morgan venne così addolcito grazie a quelle
piccole distrazioni, e non passò molto che annunciò la sua intenzione di
precedere la cugina andando a Nakoto per organizzare
il lavoro. Fu un sollievo. Gaara non sapeva spiegarsi
perché, ma non appena il ragazzo si fu allontanato a sufficienza anche la
stessa Emin parve molto più rilassata, concedendosi
qualche sorriso e qualche battuta di tanto in tanto.
C’era
qualcosa che non gli piaceva di quei due, qualcosa di strano. Lui era stato
estremamente freddo, impassibile e affatto amichevole, mentre lei era come se
avesse subito una trasformazione condizionata dalla presenza di Morgan.
Che
genere di rapporto c’era tra di loro? Il rosso scosse la testa con disapprovazione.
Era ancora troppo presto per fare alcun genere di ipotesi su quelle persone; ai
suoi occhi, per adesso, erano due architetti capaci e determinati, venuti in
soccorso a quei villaggi senza pensarci due volte. Era contento di avere a che
fare con gente del genere. Senza di loro probabilmente non sarebbe rimasto
molto dei piccoli centri abitati di Dakagi, né delle
persone che vi avevano trascorso la propria vita; senza il loro intervento non
avrebbe trovato altro che disperazione entro quelle mura e per questo gli era
grato.
«Qualcosa
non va?», chiese Emin, che aveva notato il gesto di
disappunto di Gaara proprio mentre stava spiegando
uno dei passi cruciali di quei piani urbanistici di riqualificazione delle zone
colpite dai sismi.
«No»,
rispose lui alla sprovvista, non riuscendo a trovare una scusa che lo
giustificasse a dovere.
Emin sospirò,
sprofondando nella sedia.
«Non
siete venuti così presto solo per vedere questi, vero?», disse, indicando i
documenti sparsi sul tavolo. Nessuno rispose. «Quello che vi sto dicendo lo
trovate anche nella relazione allegata ai piani, potrete leggerlo in qualsiasi
momento», aggiunse, fissando Kankuro che osservava il
movimento cittadino dalla finestra. «Ci sono novità non piacevoli, è così?»,
ipotizzò lei, attirando l’attenzione del marionettista.
«Sono
tornato prima del previsto proprio per questo motivo», rispose lui, vuotando
finalmente il sacco.
«Perché
non l’hai detto subito?», prese a dire la ragazza, stizzita. Kankuro non rispose, vergognandosi di non avere avuto il
buon giudizio di intervenire anche in presenza di Morgan, era essenziale che ci
fossero entrambi per discutere di quell’eventualità.
«Volevamo
avere un’idea dei vostri progetti prima di discuterne», intervenne Gaara in sua difesa. «Quello che ha scoperto Kankuro potrebbe indurvi a rivedere i vostri piani».
«Ovvero?»,
chiese Emin, preoccupata.
«Abbiamo
fatto dei rilevamenti in diverse zone», cominciò in marionettista, estraendo
una piccola mappa dove erano segnati i punti analizzati tra i valichi scoscesi
dei monti Dakagi. «Sono abbastanza da poter dedurre
che l’intera catena montuosa è fortemente attiva e c’è il pericolo che si
aprano altre bocche vulcaniche da un momento all’altro».
«Merda».
Questa volta fu Shikamaru ad imprecare. «I problemi
sono appena iniziati allora».
«Le
nostre analisi ci hanno portato a concentrarci su una zona ben precisa, in cui
i valori sono molto alti e dai carotaggi è venuto fuori che il terreno sta
progressivamente mutando».
«Dunque
avete una previsione di dove si aprirà la seconda bocca», dedusse la ragazza,
sempre più preoccupata.
Kankuro
estrasse un altro documento in cui venivano schizzate le diverse eventualità
che si sarebbero potute verificare qualora il secondo cono vulcanico si fosse
aperto proprio nel punto da loro ipotizzato. A differenza del cratere
principale, esposto a sud, verso il deserto, quello avrebbe guardato a est, in
linea diretta con i villaggi satelliti.
«Se
questo succedesse sarebbe un disastro», decretò Emin,
visibilmente provata. Si alzò dalla sedia e cominciò a camminare avanti e
indietro per lo studio. «Qui non si tratta più di adattarsi, bisogna
difendersi. Bisogna pensare a qualcosa che impedisca alle nubi di avvelenare
l’aria e che protegga le abitazioni dal deserto».
«Forse
una soluzione c’è», intervenne Gaara, che aveva
pensato per tutta la durata del loro colloquio a come poter rimediare a quella
situazione. Emin lo osservava curiosa, venendo
imitata anche dagli altri due.
«Non
possiamo impedire che si aprano altre bocche», cominciò, «ma forse possiamo
essere noi a decidere dove farle aprire».
«Deviare
il corso della natura?», rifletté Shikamaru ad alta
voce. «Stiamo parlando di più camere magmatiche sotto la stessa catena montuosa,
sarebbe una follia anche solo pensare di mettere il becco nelle viscere della
terra».
«La
natura trabocca di chakra», intervenne Kankuro,
cercando di convincersi che non tutto era perduto. «Con la tecnica giusta si
potrebbe riuscire a modellare il terreno e far aprire i crateri in punti
strategici».
«Esiste
una tecnica che può fare tutto questo?», chiese Emin
con il suo fare scettico.
«Non
lo so», rispose Gaara, «ma se esiste la troveremo. Ho
accesso a molte risorse, farò delle ricerche nel più breve tempo possibile».
«Dove
andrai a cercare?», chiese Shikamaru.
«Ovunque
sia possibile farlo», rispose lui. «Partirò oggi stesso».
«Aspetta
a partire», intervenne Emin, ancora in piedi. «Voglio
mettere al corrente anche Morgan di questa situazione, lui ha molti più agganci
di me, vorrei che ci fossimo entrambi prima di prendere decisioni».
In
verità non c’era nulla che Morgan potesse fare più di lei, ma non poteva
permettere che Gaara lasciasse i villaggi così
presto. Sapeva quanto fosse necessaria la ricerca di quelle informazioni, ma
sapeva anche che Morgan era troppo coinvolto in quella faccenda, e non poteva
permettere che sfumasse così la loro unica possibilità di riscattare l’intera
famiglia che da anni viveva in un umiliante esilio. Sarebbe stato meglio
studiare la loro mossa in maniera più scaltra e sicura, ma si rendeva conto che
di tempo per calcolare con calma la vendetta non ce n’era, se non avessero
agito in fretta avrebbero perso l’unica occasione che si era presentata in
tutta la loro esistenza.
«Riesci
a riferirgli queste notizie in giornata?», le chiese il rosso, distogliendola
per un attimo dalle sue riflessioni.
«Certo»,
rispose Emin, tornando ad osservare quegli schizzi
che vedevano realizzata la peggiore delle eventualità qualora la seconda bocca
si fosse aperta veramente sul versante est.
Che
pensieri andava a fare in un momento del genere? Non era alla famiglia che
doveva pensare, né alla vendetta.
«Ci
rivediamo stasera per eventuali decisioni», riprese lui, «in modo da attivarci
già da domani».
«Perfetto»,
concluse la ragazza, pentendosi di averlo convinto a rimanere. La vera priorità
in quel momento erano i villaggi, e il loro egoismo stava facendo ritardare
qualcosa che forse avrebbe decretato la salvezza di migliaia di persone.
Osservò i tre ragazzi uscire lentamente dallo studio dopo averla salutata e si
ritrovò combattuta mentre riponeva disordinatamente i documenti nell’apposito
scaffale.
Che
cosa avrebbe dovuto fare?
L’Autrice:
La
trama si infittisce. Un passato doloroso, una vendetta, una missione
apparentemente impossibile. Che ne sarà dei nostri personaggi? Riusciranno
Morgan ed Emin a riscattare la famiglia?
Rimanete
con me e lo scoprirete al prossimo aggiornamento!
Bacibaci
L u c i n d a