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Autore: L u c i n d a    16/12/2014    2 recensioni
"... «Emeline», cominciò la ragazza, non avendo smesso per un attimo di ponderare la scelta delle informazioni che adesso le sarebbe toccato rivelare. «Emeline Gangioku è il mio nome.»
Gaara si soffermò su quel cognome cercando di collegarlo a qualche rimembranza.
«Non puoi ricordartelo», fece lei, distogliendolo dalle sue riflessioni. «Per Suna è come se la nostra famiglia non fosse mai esistita».
«In che senso?», chiese il rosso, scettico.
«Fummo esiliati dal villaggio tre generazioni fa», rispose Emin, affatto colpita dall’espressione di stupore che scorse sul volto del proprio interlocutore. «Ingiustamente», aggiunse con rammarico.
«E’ per questo che volete vendicarvi?», domandò ancora una volta il giovane Kage, trovando conferma alla sua ipotesi nel cenno d’assenso della ragazza. «Per quale motivo vi fu dato l’esilio?»
«Non hai sentito Morgan?», disse lei. «Eravamo scomodi.» ..."
Rosa rossa e rosa nera. Due famiglie dilaniate da un'eredità velenosa ancorata al passato, un conflitto che si trascina da generazioni e una resa dei conti sempre più vicina. Riusciranno la razionalità e i sentimenti a fermare questa follia?
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kankuro, Nuovo Personaggio, Sabaku no Gaara, Shikamaru Nara, Temari
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
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#3

Dark

 

 

 

 

 

La primavera sui monti Tamen, nel Paese della Terra, era la cosa che più la emozionava in assoluto. Vallate d’inverno aride e ghiacciate lasciavano il posto a un umido strato di terriccio che non tardava a riempirsi di vita, interi pendii erano ricoperti di verde e i fiori crescevano numerosi impregnando l’aria di un’inebriante profumo. Ricordava ancora la sensazione di quei morbidi steli d’erba strisciare sulle caviglie, la sensazione che si provava a correre a piedi nudi in mezzo a quella fantasia colorata, la sensazione di essere amata, di avere una casa in cui ritornare e un rifugio in cui ripararsi la sera, quando il buio calava e con esso si addormentavano tutte le fantasie che l’avevano accompagnata alla luce del sole.

C’era caldo a Tamen quando la primavera faceva la sua apparizione. Il sole baciava con delicatezza la pelle e ogni anno la mamma approfittava di quel tepore per cucirle una nuova casacca di seta decorata di motivi variopinti come i campi delle loro montagne. Quando le indossava provava puntualmente un misterioso senso di pace, freschezza e armonia. Non c’era niente di più esaltante di sentirsi in equilibrio con tutto quello che la circondava e questo, lei, l’aveva subito capito.

Erano passati quasi dieci anni dall’ultima volta che aveva visto la primavera a Tamen e della dolcezza di quelle giornate non era rimasto che il ricordo lontano, la delicatezza di quegli steli aveva lasciato il posto a dei rami spinosi e il colore di quei campi rigogliosi si era scurito nel nero di una rosa solitaria. Non c’erano state mezze misure nella vita di Emin, la sua esistenza si era frantumata tutta in una volta nella primavera del suo undicesimo compleanno, quando un incidente si portò via i suoi genitori rompendo per sempre quell’armonia. Perdere loro era stato come perdere i pilastri dell’intera vita. Tutto quello in cui credeva, tutto quello che amava e rispettava aveva cessato di esistere nel giro di pochi minuti, quando le travi ammuffite della soffitta avevano ceduto, facendo collassare sotto le macerie l’intero edificio, seppellendo lì tutta la sua felicità.

Non era un caso che avesse deciso di diventare architetto. Aveva perso tutto, persino la capacità di sorridere di fronte alla primavera. Ogni volta che progettava qualcosa e la vedeva messa in opera era come se ricostruisse, tassello per tassello, le fondamenta crollate della sua vita; ogni edificio era un piccolo mattone, un piccolo traguardo, ogni edificio era metaforicamente quella casa solitaria di montagna che sognava di ricostruire ogni notte, quando il ricordo della felicità infranta riaffiorava sempre più spesso nella sua mente e si concretizzava nelle tragedie che aveva visto fino a quel giorno nei villaggi di Dakagi.

La ragazza si affacciò alla finestra ignorando il gelido vento notturno che ormai stava prendendo il sopravvento nelle notti di Sin. Il deserto era arrivato inesorabilmente fino al confine e nessuno era riuscito a impedirlo, nessuno era riuscito a salvare la primavera di quel luogo così mite e baciato dalla fortuna. La felicità di quei villaggi era stata spazzata via nel giro di pochissimi giorni, così come pochissimi minuti erano bastati a spazzare via la sua, ed era unicamente quello il motivo per cui era lì, questa volta aveva il potere di cambiare le cose. 

«Ancora brutti sogni?». Fu Morgan a interrompere il filo dei suoi pensieri. Aveva conosciuto suo cugino qualche giorno dopo l’incidente che le aveva portato via mamma e papà. In verità non si erano mai considerati cugini, il loro rapporto era sempre stato più profondo di un legame di parentela così lontano, avevano imparato a comprendersi a vicenda sin dal primo momento che si erano incontrati e si erano sostenuti quasi con disperazione ogni volta che il dolore impediva di guardare il futuro con serenità.

Quella era stata la prima volta che era venuta a contatto con altri membri della famiglia.  

Non sapeva dell’esistenza di quei parenti, né aveva mai sentito il bisogno di avere vicino qualcun’altro che non fossero i suoi genitori e lo splendore della natura che li circondava; le montagne erano le loro uniche amiche e istitutrici, erano il tutto da cui dipendeva la loro vita, erano bellezza, armonia, ed erano le stesse che li avevano resi solitari, indipendenti e lontani da qualsiasi tipo di legame.

All’inizio aveva faticato a comprendere la scelta dei suoi genitori, ma crescendo tutto aveva cominciato ad essere più chiaro: l’odio, il rancore e la vendetta. La sua famiglia somigliava ad un intrico di rovi acuminati e velenosi che si attorcigliavano su loro stessi logorandosi a vicenda.

L’isolamento l’aveva fatta crescere libera da quelle catene e l’aveva resa capace di pensare con la propria testa. Era questa la vera eredità che quei giorni felici le avevano lasciato.

Rispose con un cenno alla domanda di Morgan, che la abbracciò nella sua solita stretta rassicurante, la stessa che aveva sentito tra i singhiozzi il giorno che si erano conosciuti, l’unico gesto che l’avesse mai tranquillizzata ogni volta che aveva ceduto al dolore.

«Ti fa male stare qui», disse lui, mentre le accarezzava il capo.

«Io devo stare qui», rispose la ragazza, guardandolo negli occhi con determinazione. «Hanno bisogno di me».

Morgan fissò la cugina non potendo fare a meno di sorridere, ormai la conosceva abbastanza per capire che non avrebbe mai abbandonato qualcosa a metà, nemmeno se questo l’avesse fatta star male. Era debole Emin, emotiva e infelice, ma allo stesso tempo lottava giorno dopo giorno per diventare più forte e per ricostruire la propria vita, ricreandosi autonomamente la stabilità che aveva perso dopo l’incidente di dieci anni prima.

Morgan l’aveva presa subito sotto la sua custodia, l’aveva consolata, l’aveva aiutata, l’aveva spronata, era cresciuto con lei come se fossero fratello e sorella, l’aveva sempre sostenuta in qualunque missione lei avesse deciso di intraprendere, si era lasciato appassionare dalla sua determinazione e l’aveva seguita nell’iter che li aveva fatti diventare architetti, fino a quel momento, a Dakagi. Non c’era persona al mondo a cui volesse più bene di Emin e quello che li univa era un legame viscerale fondatosi sulla disperazione dei primi anni e, in seguito, sulla complicità di ogni loro scelta.  

La verità era che il loro destino era già stato deciso molto tempo prima. Il loro legame, il loro affetto e la loro complicità era il risultato a cui la famiglia sperava di arrivare facendoli crescere insieme. Il perché Morgan non lo capì immediatamente, se ne rese conto molto più tardi, durante i primi allenamenti con la cugina: lei aveva ricevuto un’eredità che nessuno aveva più ottenuto nelle generazioni che succedettero la loro cacciata dal Paese del Vento e, nel momento in cui la famiglia aveva conquistato la custodia di Emin, voleva assicurarsi che lei non si sarebbe più allontanata da loro, perorando la sanguinaria causa che taceva ormai da troppo tempo. E così era andata. Morgan si era affezionato ad Emin al punto di seguirla in quel percorso burrascoso a Dakagi, ed Emin era talmente legata al cugino da appoggiarlo senza indugio nel suo desiderio di vendicare l’intera famiglia, anche se questo non rientrava nelle sue attuali priorità.

«A tutti i nostri mali c’è una spiegazione», disse Morgan, mentre osservava la ragazza accendere una sigaretta sul davanzale della finestra.

«Lo so», rispose lei, espirando il fumo. «Ho sentito la storia molte volte».

«Finalmente una possibilità concreta di riscattare la nostra famiglia», continuò lui, con la scintilla negli occhi.

«Calma, Morgan», intervenne Emin, smorzando il suo entusiasmo. «Non fare niente di avventato».

«Non te lo garantisco», rispose il ragazzo, avvicinandosi alla cugina. «Lo sai come sono fatto», aggiunse, togliendole la sigaretta dalle mani per rubare un tiro.

«Sforzati», si impose lei, riprendendosi l’oggetto del vizio, «o sprecheremo la nostra unica possibilità».

Morgan sospirò, maledicendo mentalmente il suo carattere impulsivo. Emin aveva ragione, era stato proprio lui il primo a dire che non ci sarebbero state più di una possibilità e che dovevano giocarsi al meglio le loro carte, senza contare che stavano viaggiando con delle false identità in quanto esiliati dal Paese del Vento, se fossero usciti allo scoperto non sarebbero più potuti tornare indietro, e questo non permetteva errori.

Seguì la cugina con lo sguardo fino a quando non la vide sparire dietro la porta della sua camera. Per un momento gli tornò alla mente tutto quello che la ragazza aveva passato e tutti i disagi in cui la loro famiglia aveva vissuto per colpa di quella vergognosa condizione in cui era finita in seguito alla cacciata. Se dapprima reagiva con la disperazione adesso non sentiva altro che rabbia, una rabbia che ormai gli impediva persino di piangere. La loro rivincita era lì, nel loro stesso villaggio, e respirava la loro stessa aria. Avrebbe dato la propria stessa vita qualora fosse stato necessario, sarebbe stato disposto a morire per quella causa, pur di vedere Emin sorridere ancora una volta.

 

 

*    *    *

 

 

Il fermento cominciò ancora prima dell’alba tra le strade di Sin, i lavori iniziavano al sorgere del sole e finivano al suo tramontare, approfittando delle lunghe giornate che l’estate regalava a quelle zone. Kankuro e la sua squadra avevano viaggiato rapidi per tutta la notte sperando di arrivare a Sin prima che la popolazione cominciasse ad essere operativa, in modo da recapitare le ultime informazioni raccolte sulla via del ritorno.

Era preoccupato a dir la verità. Tra le mani stringeva ancora l’ultimo messaggio pervenutogli da Emin proprio il giorno precedente, che lo avvisava dell’arrivo del fratello a Nakoto. Sapeva di non aver agito in maniera trasparente, ma era essenziale che intraprendesse quella missione e sperava che Gaara lo capisse.

Quando ormai i profili di Sin cominciavano a delinearsi si ritrovò nella più completa indecisione: quale sarebbe dovuta essere la sua priorità? Avrebbe dovuto recapitare le ultime notizie agli architetti? Oppure sarebbe dovuto andare immediatamente dal fratello? Aveva viaggiato tutta la notte per fare arrivare le nuove a inizio giornata, senza contare che non aveva la minima idea di dove si trovasse Gaara.

Non ci fu bisogno di fare domande, tuttavia. In città la notizia dell’arrivo del Kazekage era ormai sulla bocca di tutti e non ci volle molto a rintracciare il luogo dove Gaara avesse alloggiato per la notte; d’altronde era quella la sua priorità, le informazioni avrebbero potuto aspettare.

 

«Comincio a dare un’occhiata a quei piani di emergenza», esordì Shikamaru quando lo vide sulla soglia della piccola pensione affittata per la notte. «Raggiungetemi dagli architetti», aggiunse, uscendo dalla stanza e guardandolo in tralice. Kankuro aspettò di vederlo scomparire oltre l’uscio principale prima di muovere qualche passo all’interno della stanza, abbassò sulle spalle il cappuccio della sua insostituibile divisa scura e cominciò a guardarsi attorno alla ricerca del fratello. Era strano come quella situazione lo angosciasse più del dovuto, era la prima volta in assoluto che non aveva reso partecipe Gaara delle sue decisioni e si rese conto della paura che ancora provava alla sola idea di saperlo arrabbiato.

Erano stupidi quei pensieri, lo sapeva, specialmente perché era stato il primo ad accettare e a sostenere la determinazione del fratello nel farsi accettare da tutti. Eppure quei giorni bui dove Shukaku seminava la follia erano ancora vividi nella sua mente, così come il terrore che provava di fronte a quella perdita di ragione e a quell’inconsistenza di ogni genere di legame di fronte alla pazzia.

Ironia della sorte, non aveva avuto scampo allora così come non ne aveva in quel momento, con la differenza che il Gaara che avrebbe affrontato quel giorno non avrebbe perso il senno qualunque fosse stata la sua reazione nel rivederlo. Questa era una certezza.

Lo scorse sulla veranda lignea di quel piccolo ricovero in cui avevano scelto di pernottare, osservava il giardino della corte quadrata venire lentamene invaso dalla sabbia che pioveva dal cielo.

«Ciao», disse per primo Kankuro, attirando la sua attenzione.

«Ciao», rispose il rosso senza smettere di fissare il giardino.

Il marionettista rimase in silenzio non sapendo da dove cominciare, quei secondi che seguirono il loro saluto caricarono l’atmosfera di pesantezza e riempirono il cuore di Kankuro di ancora più incertezze rispetto a quante non ne avesse prima di mettere piede in quella stanza. Cosa avrebbe dovuto dire adesso?

Mosse qualche passo verso la piccola corte e si sedette anche lui ad osservare la leggera pioggia di sabbia depositare i granelli sulle foglie degli alberi in fiore, appesantendole e contorcendole nel loro tentativo di rimanere in piedi.

«Questo posto sta morendo», disse Gaara con amarezza, rompendo quel lungo silenzio.

«No», rispose Kankuro, sorpreso di sentire quelle parole proprio da chi aveva imparato sulla propria pelle a non rassegnarsi mai. «Non lo lasceremo morire».

Era convinto di quello che aveva detto; sin dal primo momento che aveva trascorso in quei villaggi ci aveva messo anima e corpo nel tentativo di salvarli, mettendo a repentaglio la sua vita prima ancora della sua reputazione. La sofferenza di quelle persone non era stata quantificabile e loro erano gli unici ad avere la forza di aiutarli per davvero. Era quello il motivo per cui aveva deciso di intraprendere quella missione pericolosa, avrebbe voluto cancellare l’angoscia sui volti di quella gente a cui non era rimasto più nulla se non fuggire lontano.

Gaara lo osservava taciturno. Probabilmente Kankuro aveva visto molto più di lui arrivando nei villaggi satelliti dopo le primissime scosse, forse aveva visto qualcosa che lui non avrebbe mai potuto comprendere, aveva visto la devastazione, la morte e la disperazione di cui aveva soltanto sentito parlare. Per quanto fosse risentito per l’atteggiamento del fratello non riuscì a pronunciare alcuna parola di rimprovero.

«Li ammiro molto, sai?», riprese il marionettista. «Gli architetti».

«Davvero?», chiese Gaara, affatto stupito da quella dichiarazione, quei due erano stati dei complici perfetti.

«Hanno lasciato tutto per venire qui ad aiutare questa gente», spiegò Kankuro.

«Ti hanno indotto loro a intraprendere quella missione?», domandò il rosso, scrutandolo con cipiglio serio.

«No», rispose il fratello. «Era essenziale che io partissi, non mi sono lasciato dissuadere da nessuno,  nemmeno da loro».

«Stupido», lo interruppe l’altro con una punta di risentimento.

«Non saremmo a questo punto senza il nostro lavoro. Non mi pento di averlo fatto, accetterò le conseguenze del mio gesto», replicò Kankuro, risoluto.

«Né io ti biasimo», concluse Gaara, ammettendo come quelle parole non fossero false. Certo, avrebbe preferito essere avvisato sugli spostamenti del marionettista, avrebbe preferito essere il primo a cui fossero arrivate le informazioni e il primo che potesse attivarsi per intervenire, ma forse non l’avrebbe mai capito fino in fondo. Non aveva visto coi propri occhi quello che tutti, lì, avevano vissuto.

«Da dove vengono gli architetti?», chiese poi a Kankuro, che era rimasto in silenzio in seguito alla loro breve discussione, forse ancora incredulo alle parole di Gaara.

«Dal Paese della Terra», rispose. «È lì che hanno brevettato le fondamenta antisismiche».

«Comprensibile», rispose il rosso, conscio della presenza di numerose catene montuose in quella terra, non c’era da stupirsi se in quei luoghi la costruzione antisismica fosse più avanzata rispetto al Paese del Vento. «Quindi è un vulcano il nostro problema, è così?», domandò a Kankuro, che assentì con un sospiro.

Ratsu ci aveva visto giusto.

«Si è aperta improvvisamente una bocca sul versante meridionale della catena montuosa. I terremoti sono dovuti all’attività vulcanica, il cambio climatico alle polveri eruttive, il vento le spazza dritte nel deserto e il loro calore innesta le tempeste», spiegò il marionettista. «Non c’è molto che possiamo fare per questa situazione e non c’è modo di fermare la natura, possiamo solo aiutare le persone ad adattarsi a essa».

«Già», ammise Gaara, pentendosi di aver provato anche il minimo rancore nei suoi confronti. Quella missione era diventata parte di lui, lo vedeva dalla determinazione in ogni sua frase. «Faremo del nostro meglio», concluse, rendendosi conto di quanto il proprio tono di voce fosse più sereno. Aver parlato con Kankuro aveva lasciato da parte ogni disagio e ogni indecisione, adesso il quadro della situazione era finalmente più chiaro. Fece per domandargli che genere di informazioni avesse recapitato nella missione sui monti Dakagi ma venne interrotto ancora prima di aprire bocca da un suo gesto del fratello, che chiuse gli occhi nel tentativo di concentrarsi e li riaprì solo quando il terreno cominciò a vibrare impercettibilmente sotto i loro piedi, aumentando di intensità col passare dei secondi.

La scossa non era forte come quella avvertita il giorno prima, ma era bastata a causare il panico nelle strade in cui la gente si riversava di corsa per arrivare ai punti di ritrovo.

«Aspetta!». Kankuro trattenne Gaara conducendolo a ridosso di una parete perimetrale della pensione. «Questo è solo un tremore, ormai lo riconosco».

«In che senso?!», chiese il rosso, scettico, mentre osservava preoccupato la folla nelle strade.

«Sono stato quasi un mese lassù, ho imparato a riconoscere il movimento del suolo, so quando è il caso di preoccuparsi».

Rimasero immobili per quasi un minuto contro il muro portante, alle loro spalle il fragore della strada scemava lentamente lasciando posto al silenzio e alla vibrazione degli arredi a loro vicini, non pronunciarono parola se non prima che il piccolo sisma si fosse placato del tutto.

«Raggiungiamo Shikamaru», sentenziò Gaara. «Mi spiegherai lungo la strada».

Corsero veloci tra le vie deserte della città e tra gli edifici perfettamente in piedi, statici e solidi. Non ci volle molto a raggiungere lo studio degli architetti ma, nonostante il breve tragitto, Kankuro spiegò al fratello le conclusioni a cui era arrivato il giorno precedente, quando aveva deciso di viaggiare tutta la notte pur di portare a inizio giornata le informazioni. Questo avrebbe potuto cambiare le cose in meglio o in peggio, dipendeva solo da quale soluzione si fosse adottata.

Trovarono Shikamaru, Emin e Morgan perfettamente tranquilli attorno al tavolo dello studio, con in mano delle tazze di caffè.

«Ce l’avete fatta», disse Shikamaru non appena li vide sulla soglia dello studio. Il locale era piccolo e spoglio, un luogo di fortuna dalle pareti color carta da zucchero e con un’unica scaffalatura disordinata sulla parete sinistra ad accompagnare il tavolo presente al centro della stanza.

«Il buongiorno si vede dal mattino», scherzò Kankuro, alludendo alla scossa appena percepita.

«Che sorpresa». Questa volta fu Emin a rivolgersi al marionettista. «Bentornato».

«Grazie», rispose lui, allargando il sorriso. «Avete conosciuto mio fratello, vero?»

«Ci siamo incontrati ieri», rispose la ragazza, salutando Gaara con un cenno del capo. «Lui invece è mio cugino Morgan, gestiamo insieme lo studio».

Gaara si avvicinò all’unico volto nuovo della stanza: l’alto ragazzo dai capelli corvini e lo sguardo nero come la pece che non aveva smesso un attimo di fissarlo da quando aveva messo piede in quella stanza. Si strinsero la mano squadrandosi a vicenda prima di concentrare la loro attenzione sui documenti sparsi sulla scrivania. Si era sentito particolarmente a disagio in seguito a quella fredda stretta di mano.

L’atmosfera, infatti, non era delle più piacevoli: Emin era particolarmente professionale quando spiegava il suo lavoro, mentre Morgan se ne stava in disparte, supervisionando tutto con fastidiosa attenzione e aggiungendo di tanto in tanto qualche dettaglio. Per il resto c’era silenzio. Nemmeno Kankuro era riuscito a interrompere quella discussione nonostante avesse delle notizie piuttosto importanti da comunicare, aveva lanciato più volte degli sguardi al fratello senza ottenere il supporto che sperava.

La situazione cominciò a rilassarsi nel momento in cui cominciarono a comparire sulla soglia i capi mastri e i capi squadra di cantiere in attesa delle direttive degli architetti sui nuovi interventi da fare quel giorno. L’attento controllo del cipiglio severo di Morgan venne così addolcito grazie a quelle piccole distrazioni, e non passò molto che annunciò la sua intenzione di precedere la cugina andando a Nakoto per organizzare il lavoro. Fu un sollievo. Gaara non sapeva spiegarsi perché, ma non appena il ragazzo si fu allontanato a sufficienza anche la stessa Emin parve molto più rilassata, concedendosi qualche sorriso e qualche battuta di tanto in tanto.

C’era qualcosa che non gli piaceva di quei due, qualcosa di strano. Lui era stato estremamente freddo, impassibile e affatto amichevole, mentre lei era come se avesse subito una trasformazione condizionata dalla presenza di Morgan.

Che genere di rapporto c’era tra di loro? Il rosso scosse la testa con disapprovazione. Era ancora troppo presto per fare alcun genere di ipotesi su quelle persone; ai suoi occhi, per adesso, erano due architetti capaci e determinati, venuti in soccorso a quei villaggi senza pensarci due volte. Era contento di avere a che fare con gente del genere. Senza di loro probabilmente non sarebbe rimasto molto dei piccoli centri abitati di Dakagi, né delle persone che vi avevano trascorso la propria vita; senza il loro intervento non avrebbe trovato altro che disperazione entro quelle mura e per questo gli era grato.

«Qualcosa non va?», chiese Emin, che aveva notato il gesto di disappunto di Gaara proprio mentre stava spiegando uno dei passi cruciali di quei piani urbanistici di riqualificazione delle zone colpite dai sismi.

«No», rispose lui alla sprovvista, non riuscendo a trovare una scusa che lo giustificasse a dovere.

Emin sospirò, sprofondando nella sedia.

«Non siete venuti così presto solo per vedere questi, vero?», disse, indicando i documenti sparsi sul tavolo. Nessuno rispose. «Quello che vi sto dicendo lo trovate anche nella relazione allegata ai piani, potrete leggerlo in qualsiasi momento», aggiunse, fissando Kankuro che osservava il movimento cittadino dalla finestra. «Ci sono novità non piacevoli, è così?», ipotizzò lei, attirando l’attenzione del marionettista.

«Sono tornato prima del previsto proprio per questo motivo», rispose lui, vuotando finalmente il sacco.

«Perché non l’hai detto subito?», prese a dire la ragazza, stizzita. Kankuro non rispose, vergognandosi di non avere avuto il buon giudizio di intervenire anche in presenza di Morgan, era essenziale che ci fossero entrambi per discutere di quell’eventualità.

«Volevamo avere un’idea dei vostri progetti prima di discuterne», intervenne Gaara in sua difesa. «Quello che ha scoperto Kankuro potrebbe indurvi a rivedere i vostri piani».

«Ovvero?», chiese Emin, preoccupata.

«Abbiamo fatto dei rilevamenti in diverse zone», cominciò in marionettista, estraendo una piccola mappa dove erano segnati i punti analizzati tra i valichi scoscesi dei monti Dakagi. «Sono abbastanza da poter dedurre che l’intera catena montuosa è fortemente attiva e c’è il pericolo che si aprano altre bocche vulcaniche da un momento all’altro».

«Merda». Questa volta fu Shikamaru ad imprecare. «I problemi sono appena iniziati allora».

«Le nostre analisi ci hanno portato a concentrarci su una zona ben precisa, in cui i valori sono molto alti e dai carotaggi è venuto fuori che il terreno sta progressivamente mutando».

«Dunque avete una previsione di dove si aprirà la seconda bocca», dedusse la ragazza, sempre più preoccupata.

Kankuro estrasse un altro documento in cui venivano schizzate le diverse eventualità che si sarebbero potute verificare qualora il secondo cono vulcanico si fosse aperto proprio nel punto da loro ipotizzato. A differenza del cratere principale, esposto a sud, verso il deserto, quello avrebbe guardato a est, in linea diretta con i villaggi satelliti.

«Se questo succedesse sarebbe un disastro», decretò Emin, visibilmente provata. Si alzò dalla sedia e cominciò a camminare avanti e indietro per lo studio. «Qui non si tratta più di adattarsi, bisogna difendersi. Bisogna pensare a qualcosa che impedisca alle nubi di avvelenare l’aria e che protegga le abitazioni dal deserto».

«Forse una soluzione c’è», intervenne Gaara, che aveva pensato per tutta la durata del loro colloquio a come poter rimediare a quella situazione. Emin lo osservava curiosa, venendo imitata anche dagli altri due.

«Non possiamo impedire che si aprano altre bocche», cominciò, «ma forse possiamo essere noi a decidere dove farle aprire».

«Deviare il corso della natura?», rifletté Shikamaru ad alta voce. «Stiamo parlando di più camere magmatiche sotto la stessa catena montuosa, sarebbe una follia anche solo pensare di mettere il becco nelle viscere della terra».

«La natura trabocca di chakra», intervenne Kankuro, cercando di convincersi che non tutto era perduto. «Con la tecnica giusta si potrebbe riuscire a modellare il terreno e far aprire i crateri in punti strategici».

«Esiste una tecnica che può fare tutto questo?», chiese Emin con il suo fare scettico.

«Non lo so», rispose Gaara, «ma se esiste la troveremo. Ho accesso a molte risorse, farò delle ricerche nel più breve tempo possibile».

«Dove andrai a cercare?», chiese Shikamaru.

«Ovunque sia possibile farlo», rispose lui. «Partirò oggi stesso».

«Aspetta a partire», intervenne Emin, ancora in piedi. «Voglio mettere al corrente anche Morgan di questa situazione, lui ha molti più agganci di me, vorrei che ci fossimo entrambi prima di prendere decisioni».

In verità non c’era nulla che Morgan potesse fare più di lei, ma non poteva permettere che Gaara lasciasse i villaggi così presto. Sapeva quanto fosse necessaria la ricerca di quelle informazioni, ma sapeva anche che Morgan era troppo coinvolto in quella faccenda, e non poteva permettere che sfumasse così la loro unica possibilità di riscattare l’intera famiglia che da anni viveva in un umiliante esilio. Sarebbe stato meglio studiare la loro mossa in maniera più scaltra e sicura, ma si rendeva conto che di tempo per calcolare con calma la vendetta non ce n’era, se non avessero agito in fretta avrebbero perso l’unica occasione che si era presentata in tutta la loro esistenza.

«Riesci a riferirgli queste notizie in giornata?», le chiese il rosso, distogliendola per un attimo dalle sue riflessioni.

«Certo», rispose Emin, tornando ad osservare quegli schizzi che vedevano realizzata la peggiore delle eventualità qualora la seconda bocca si fosse aperta veramente sul versante est.

Che pensieri andava a fare in un momento del genere? Non era alla famiglia che doveva pensare, né alla vendetta.

«Ci rivediamo stasera per eventuali decisioni», riprese lui, «in modo da attivarci già da domani».

«Perfetto», concluse la ragazza, pentendosi di averlo convinto a rimanere. La vera priorità in quel momento erano i villaggi, e il loro egoismo stava facendo ritardare qualcosa che forse avrebbe decretato la salvezza di migliaia di persone. Osservò i tre ragazzi uscire lentamente dallo studio dopo averla salutata e si ritrovò combattuta mentre riponeva disordinatamente i documenti nell’apposito scaffale.

Che cosa avrebbe dovuto fare?

 

 

 

 

 

 

 

 


L’Autrice:

La trama si infittisce. Un passato doloroso, una vendetta, una missione apparentemente impossibile. Che ne sarà dei nostri personaggi? Riusciranno Morgan ed Emin a riscattare la famiglia?

Rimanete con me e lo scoprirete al prossimo aggiornamento!

Bacibaci 

 

L u c i n d a

 

   
 
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