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Autore: mormic    19/12/2014    6 recensioni
Effie ha estratto decine di nomi da quella boccia di vetro, ma i suoi unici vincitori, nonostante stiano partecipando alla loro seconda arena, sono stati estratti solo una volta dalle sue dita affusolate. Sono volontari. E questo dovrà pur fare la differenza. Una differenza che Effie dovrà affrontare come non avrebbe mai nemmeno sospettato.
E dalla sera dell'intervista di lei non si sa più nulla, fino alla fine, quando riappare provata e fragile.
Questa è la sua storia, mentre in tutta Panem è il caos della rivoluzione.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Altri, Effie Trinket, Haymitch Abernathy, Plutarch Heavensbee
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Grigio e Oro'
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CAPITOLO 15
 
Guardo il quaderno che ho davanti e ne fisso la copertina.
“CENTRO DETENTIVO” dice al centro, come fosse il titolo di un libro. Ma qualcuno ha sbarrato la scritta e corretto a penna: “DIARIO DI BORDO DI UN ALCOLIZZATO FISSATETTE”.
Ok. Non l’ha scritto “qualcuno”.
L’ho scritto io.
È il motivo per cui sono qui.
Ed è l’unica cosa che riesce a strapparmi ancora un sorriso, costretto qui dentro assieme ad altri strampalati personaggi provenienti da chissà quale distretto, poveri mentecatti vittime di non so neanche cosa.
Sono tutti fuori di testa. Più di me.
Mi hanno rinchiuso in un fottuto manicomio.
Cazzo, il tredici deve essere veramente enorme se qui sotto hanno spazio addirittura per un manicomio.
Oddio.
Forse non sono neanche più nel tredici.
Non vedo la luce da dieci giorni.
Probabilmente questo è l’inferno.
Un girone di anime condannate a vagare per questi corridoi scorticati, trascinando tristemente i piedi tra un passo e l’altro.
Circondato da veri pazzi.
Però nessuno di loro è rimasto per un paio di minuti a fissare una tetta della presidentessa Coin.
Cerco a stento di trattenere ancora le risate.
Una tetta piccola, dal capezzolo chiaro.
Insignificante.
Comica.
Apparsa come una visione dopo uno degli incubi più inquietanti abbia mai fatto. Dopo che gli occhi di Effie mi hanno trafitto uccidendomi nel sonno. Dopo che quelli di Katniss iniettati di sangue mi avevano odiato con tutta la loro forza nella realtà.
È passata una settimana.
Una settimana dalla tetta di fuori.
Due settimane da Katniss che affonda le sue unghie nel mio viso per uccidermi.
Due settimane e due giorni da quando ho lasciato Peeta nell’arena.
Due settimane, due giorni e poco più da quando ho abbandonato Effie con una gamba rotta in fondo alle scale.
Guardo il maledetto quaderno e aspetto di trovare qualcosa che stimoli la mia reattività.
Annotare in sequenza tutti i momenti in cui avrei voglia di afferrare la bottiglia e non poterlo fare è una tortura peggiore che rimanere a bocca asciutta.
Ancora non capisco per quale motivo devo farlo.
A che diamine serve?
Vorrei attaccarmi alla bottiglia almeno tre volte al minuto, non posso segnarle tutte.
Penso alle tette della Coin e sorrido, poi mi vengono in mente le labbra di Effie che urlano “vattene” e mi viene voglia di bere.
Lo annoto.
Due secondi dopo ho lo sguardo fisso sulla mano che regge la penna, lo sguardo vuoto, la mente assolutamente priva di ragionamenti e il pensiero vola alle unghie di Katniss che mi affondano nel viso mentre mi urla che l’ho tradita, che ho abbandonato Peeta. Ho di nuovo voglia di bere.
Lo annoto di nuovo.
Metto una croce sotto il “sì” e poi aggiungo l’ora, specificando i secondi. Lo faccio solo per giocare. Perché non so che ora sia. Non so quando sia l’ultima volta che ho guardato un orologio. Ma mi piace prenderli per il culo.
Detesto scrivere queste stronzate, ma è l’unica cosa che posso fare per evitare di morire di noia o perdermi nel parlare con qualcuno dei miei compagni di avventura, che tanto non capisce una sola parola di quello che dico.
Passano circa dieci secondi e sento che mi manca il culo di Effie.
Ecco.
Questo è decisamente un bel motivo per bere.
Mi concentro su Effie e sulle sue cosce, per non pensare a Peeta, ma ho di nuovo sete.
Di questo passo finirò il quaderno molto presto.
I graffi sul viso mi prudono.
Soprattutto quello sulla guancia sinistra.
Mi gratto e cerco di scorticare via anche il pensiero di Katniss che mi urla che sono uno schifoso traditore, un bastardo.
Quando cerco di annotare sul quaderno perché ho nuovamente voglia di bere, le mie mani tremano e non riesco a tenere ferma la punta della penna sul foglio.
Allargo le dita e aspetto che passi, come faccio da quando oramai i sintomi dell’astinenza mi tormentano.
Non c’è modo di scappare.
Non ho nessuna possibilità di trovare qualcosa con cui stordirmi e mettere a tacere le grida di Katniss che mi girano nel cervello come un disco rotto.
Un unico vantaggio: aver abbandonato loro tre ha cancellato la colpa che sentivo per tutti gli anni trascorsi a fare il mentore.
Se per ventiquattro anni di Hunger Games sono sopravvissuto sulle spalle di tutti gli altri tributi del mio anno e ho mandato a morire quarantasei ragazzini sfortunati, costretto dal sistema dei giochi, ora ho liberamente scelto di abbandonare le uniche tre persone al mondo che potrei considerare davvero parte della mia vita.
Katniss ha ragione.
Sono un traditore.
Ho mentito.
Li ho usati.
Li ho lasciati indietro.
Se le mani smettessero di tremare annoterei di nuovo sul quaderno che devono arrendersi e lasciarmi bere.
Ma le dita non si fermano e i palmi cominciano a sudare.
Io odio questo stato.
Lo odio.
Lasciatemi uscire, maledetti idioti.
Lasciatemi tornare da Katniss.
Lasciate che faccia qualcosa.
Non posso stare ancora qui, in questo posto dimenticato da Dio, a scrivere finti appunti con orari inventati.
Per favore.
Devo trovare un modo, una soluzione, un… qualcosa… che possa farli tornare a casa sani e salvi.
Devo mantenere le mie promesse.
Per favore.
Per favore.
Ma non c’è nessuno qui.
Nessuno ascolta parole che non so far uscire.
Tutto ciò che devo fare è mantenere la lucidità il più a lungo possibile e sperare che quella stronza della Coin mi faccia uscire presto.
Perché Katniss sarà in grado solo di creare casini senza di me.
Afferro il quaderno e mi alzo.
Esco da questa stanza a vetri affacciata su un muro di cemento e mi incammino per il corridoio, sperando di non dover parlare con nessuno.
Il sudore mi imperla la fronte, il tremore alle mani ancora mi fa vibrare le braccia, ma non lascio scivolare il quaderno.
Cammino a testa bassa, nell’intento di raggiungere la mia branda al più presto.
Mi sdraierò, cercherò di dormire e questa maledetta giornata sarà passata come le altre. Una in meno.
Attraverso la sala comune e nel mio campo visivo ci sono solo le fughe delle mattonelle a terra e qualche piede in ciabatte.
Non voglio fermarmi, ma percepisco una voce che conosco e mi blocco di colpo.
Alzo la testa e i miei occhi incontrano quelli di Peeta, sullo schermo della sala comune, dove i matti che abitano qui passeggiano senza una meta, senza rendersi conto di cosa la televisione stia trasmettendo.
“…quando quel filo è stato tagliato, le cose hanno perso ogni logica. Ho solo ricordi frammentari. Ricordo di aver tentato di trovare Katniss. Di aver visto Brutus uccidere Chaff. Di aver ucciso Brutus io stesso. So che lei gridava il mio nome. Poi il fulmine ha colpito l’albero e il campo di forza intorno all’arena... è esploso”.
È stata Katniss a farlo esplodere, Peeta - dice Caesar - Hai visto il filmato”.
“Non sapeva quello che faceva. Nessuno di noi riusciva a seguire il piano di Beetee. La si vede che cerca di capire cosa fare con quel filo” scatta Peeta di rimando.
Va bene, va bene. Solo che sembra una cosa sospetta - dice Caesar - Come se lei facesse parte del piano dei ribelli fin dall’inizio”.
Peeta è in piedi, chino sul viso di Caesar, le mani serrate sui braccioli della poltrona del suo intervistatore.
“Davvero? E faceva parte del suo piano che Johanna per poco non la uccidesse? Che quella scossa elettrica la paralizzasse? Che si scatenassero i bombardamenti? - adesso sta urlando - Non lo sapeva, Caesar! Né io né lei sapevamo niente, solo che cercavamo di tenerci in vita l’un l’altro!”.
Caesar mette entrambe le mani sul petto di Peeta in un gesto che è al tempo stesso difensivo e conciliatorio.
“D’accordo, Peeta, ti credo”.
“Bene” Peeta si allontana da Caesar, tira indietro le mani e se le passa tra i capelli, scompigliando i riccioli biondi accuratamente pettinati. Stravolto, si lascia cadere di nuovo sulla sua poltrona.
Caesar attende un istante, studiando Peeta.
“E il vostro mentore, Haymitch Abernathy?”
Il tremore aumenta.
Il sudore scivola lungo la fronte sugli occhi e brucia.
Li tengo aperti.
Il respiro di blocca.
L’espressione di Peeta si indurisce.
“Non sono a conoscenza di cosa sapesse Haymitch”.
“Potrebbe aver fatto parte della cospirazione?” chiede Caesar.
“Non ne ha mai fatto cenno” risponde Peeta.
Caesar continua.
“Cosa ti dice il tuo cuore?”
“Che non avrei dovuto fidarmi di lui – dice Peeta – Questo è quanto”.
Vorrei andarmene di qui, di corsa, ma gli occhi di Peeta, grandi nello schermo della televisione accesa per sbaglio nella sala comune, mi tengono inchiodato dove sono.
Come se il mio incubo stesse diventando realtà.
Non ha detto che sono un traditore.
Ma si pente di essersi fidato.
Ho fatto tutto per una giusta causa, accettandone i rischi, accettando che avrei potuto perderli entrambi. E sapevo che non avrei mai fatto pace con la mia coscienza. Ma almeno credevo che, se qualcosa fosse andato storto, avrei potuto distruggermi il cervello e spappolarmi il fegato con litri di alcol. Non immaginavo che avrei dovuto disintossicarmi e affrontare il mio inferno perfettamente lucido.
Caesar batte leggermente sulla spalla di Peeta.
“Possiamo fermarci qui, se vuoi.
“C’era altro di cui parlare?” dice Peeta in tono beffardo.
“Avevo intenzione di chiederti cosa pensi della guerra, ma se sei troppo sconvolto...” comincia Caesar.
“Oh, non sono troppo sconvolto per rispondere a questa domanda - Peeta fa un respiro profondo e poi guarda dritto in macchina -  Voglio che tutti voi spettatori, che siate dalla parte di Capitol City o da quella dei ribelli, vi fermiate solo un attimo a riflettere su ciò che questa guerra potrebbe significare per gli esseri umani. In passato, ci siamo quasi estinti combattendo l’uno contro l’altro. Adesso siamo ancora meno di allora. E in condizioni più precarie. È davvero questo che vogliamo fare? Sterminarci completamente? Nella speranza di... cosa? Che una specie più adatta erediti le rovine fumanti della terra?
“Ecco, io davvero... non credo di riuscire a seguirti...” dice Caesar.
“Non possiamo combatterci l’un l’altro, Caesar - spiega Peeta - Quelli di noi che resteranno non saranno abbastanza numerosi per continuare a vivere. Se non depongono tutti le armi, all’istante, intendo, è finita in ogni caso”.
“Quindi... stai chiedendo un cessate il fuoco?” domanda Caesar.
“Sì. Sto chiedendo un cessate il fuoco - conferma stancamente Peeta -  E adesso perché non chiediamo alle guardie di riportarmi nel mio alloggio, così posso mettermi a fare altri cento castelli di carte?
Caesar si gira verso la telecamera.
“Bene. Credo sia tutto. Riprendiamo con le trasmissioni in programma”.
Rimango a fissare lo schermo, anche adesso che sta passando una pubblicità dei cereali. Sono incapace di muovermi.
Era logico che non si fidasse più di me.
Questo pensiero si insinua nella mia mente e inizia a corrodere il poco che ne rimaneva.
Ho considerato almeno un milione di volte tutte le implicazioni delle mie scelte. Eppure… eppure non ero affatto pronto.
Peeta Mellark è solo nelle mani di Capitol City.
Glielo ho consegnato io.
Sarebbe stato meglio scendere nell’arena ed ucciderlo con le mie mani. Ora sarà un arma contro di noi.
Ho dato a Snow un nuovo oggetto di ricatto. Se affogare nell’incoscienza, prima, mi sembrava un buon sistema per fargli credere che non me ne fregasse più nulla, ora so che non basteranno interi barili per far finta di niente.
Le mie mani tremano di nuovo, ma non per gli effetti dell’astinenza.
Questa è rabbia.
Mi lascio andare ad un ruggito disperato e scaglio il quaderno contro il televisore, mandandolo in frantumi.
Gli uomini della sicurezza sono immediatamente su di me, mi afferrano e mi trascinano per i corridoi, mentre mi dibatto come un animale inferocito.
“Fatemi parlare con la Coin! Devo parlarle! Fatemi uscire di qui!” urlo.
Ma non ottengo risposta.
Vengo sbattuto nella mia cella e rinchiuso ancora.
Afferro il letto e lo scaravento contro la porta.
Distruggerei qualsiasi cosa mi capiti a tiro, ma sono stati previdenti, oltre al letto non c’è altro che possa lanciare, a meno che io non voglia smurare un lavandino o sradicare una tazza.
Non mi resta che dare qualche calcio al muro, prendere a pugni la porta, ma poi sono costretto a calmarmi ed aspettare.
Prima o poi avranno bisogno di me.
E allora verranno a prendermi.



no dico... dove sono finiti i commenti dell'autrice?
io ed EFP ultimamente litighiamo...
Volevo semplicemente fare i miei ringraziamenti... a Socia1eSocia2 per sopportare le mie questioni infinite, i miei dubbi e le mie idee espresse nei momenti più disparati sottraendole al loro meraviglioso lavoro sull'Atlante! Quindi chiedo pubblicamente perdono se a volte le distraggo e rallento le loro pubblicazioni: potete prendervela con me!
Grazie a tutte per continuare a seguire la mia storia!
Mor
   
 
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