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Autore: Alex Wolf    22/12/2014    3 recensioni
ATTENZIONE: AVEVO IN PRECEDENZA DECISO DI INIZIARE UNA NUOVA STESURA DI QUESTA STORIA, IN SEGUITO HO DECISO CHE CONTINUERO' QUESTA!
«Eleonora. Isil. Hai perso i tuoi nomi non appena sei morta e sei caduta qui, nelle mie lande» spiegò placidamente lui, giocando con un grosso anello in cui vi era incastonata un’ambra. Dello stesso, identico colore dei suoi occhi. «Hai rinunciato a loro per sempre nell’esatto momento in cui hai accettato di divenire mio Generale. Perciò, era mio dovere sceglierti un nome, e quale più si adirebbe a una donna della tua fama –che ha cavalcato draghi; vinto battaglie; ucciso uomini e sedotto il Signore di Mordor- più che Morwen? La Dama Oscura?»
Genere: Fantasy, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Legolas, Nuovo personaggio, Thranduil, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Storia d’Inverno.
 


“Sai qual è il tuo problema?
E’ che non la smetti mai di pensare”
 
— Il castello errante di Howl - Diana W. Jones
 


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Elanor.

Iniziamo la nostra vita con un pianto. Cominciamo a respirare davvero dopo che qualcuno ci ha tirato uno schiaffo e ci ha fatto aprire la gola con un urlo. Iniziamo la nostra esistenza provocando dolore a qualcun altro, a noi stessi. Allora perché il continuo dovrebbe essere diverso?
Più viviamo, più andiamo avanti più la vita ci pone davanti a situazioni peggiori della nascita. Ci mette difronte a indovinelli, ostacoli talvolta insuperabili e ci impone di trovarvi una soluzione. La vita è una stronza, fatta e finita.
Quindi, la mia prima domanda è: perché nasciamo contro la nostra volontà? A me cosa me ne poteva fregare di venire al mondo in una terra carica di incomprensioni e regole, e per di più con un padre iperprotettivo, una madre che aspira all’eccellenza, un fratello maggiore perennemente imbronciato e due minori che sono come palle al piede, e un nonno che sembra il capo di un esercito?
La seconda domanda, invece: che diamine ho fatto di male ai Valar per meritarmi tutto questo?
Ma forse è meglio che specifichi “tutto questo.”
Non capitava spesso che a Bosco Atro avessero accesso degli stranieri, tutta via c’erano occasioni speciali in cui erano autorizzati a entrare nel reame degli elfi. Occasioni che comprendevano festoni e ricchi arredamenti, banchetti e intrattenimento. Occasioni che pretendevano abiti eleganti e buone maniere. Tutte cose a cui ero sempre stata abituata, ma che non ero mai riuscita a seguire alla lettera.
Con il vento che mi fischiava nelle orecchie, e i capelli che schioccavano come fruste nel tramonto nascosto dai grandi alberi del mio regno spronai il mio cavallo. Una goccia di sudore mi colò dalla tempia, correndo fredda sul collo.
Era tardi.
Tardi, solo quella parola bastava a farmi tremare. Dietro di me sentivo il carico dei corpi morti degli animali che avevo cacciato appesantire il cavallo, davanti il respiro pesante di Aranel che si disperdeva nell’aria in nuvolette di condensa.
Tardi, mia madre mi avrebbe rivoltato come un calzino. Tardi, mio padre avrebbe cominciato a diventare paranoico. Tardi, mio fratello Haldir mi avrebbe squadrato come se fossi stata un’appestata. Tradi, Leron lo avrebbe annotato sul suo libro, mentre Rìnon mi avrebbe deriso di soppiatto mentre lei mi romanzava la paternale.
«Dai bello, siamo quasi arrivati» spronai il cavallo, dandogli due pacche sul possente collo baio. Lui sbuffò più forte, come a mostrarmi che aveva capito.
Con un ultimo scatto, Aranel entrò nel terreno del palazzo, fermandosi davanti all’entrata della servitù. L’entrata posteriore del castello della Casata Verdefoglia era stato costruita dentro il tronco del più grande e possente albero della foresta buia, nascosto comunque a occhi indiscreti. Passata quella porta dall’interno sembrava di entrare in una di quelle tranquille fattorie umane: c’erano stalle, una capanno per gli attrezzi e una casa (formata solo da quattro pali alti e un tetto di legno e rampicanti) dove le serve andavano a riposarsi durante i momenti di calma, oppure a lavorare i cesti o cucire. Vice versa, se da fuori si entrava dentro si veniva inghiottiti dal fremito delle cucine. Almeno un dozzina di cuochi e aiutanti, senza contare i lava piatti e i camerieri a cui piaceva sgattaiolare nella cantina alla ricerca di qualche vino pregiato dimenticato da mio nonno. Subito dopo, loro si dimenticavano del lavoro. Più tardi ancora, il nonno li cacciava dal reame. Poteva sembrare un uomo rigido e austero, Thranduil, ma la verità era che non era solo quello ma molto, molto di più. Definirlo con quei due soli aggettivi era un complimento, lo faceva sembrar docile come un cucciolo di cane da compagnia. La verità era che mio nonno era un reale avvizzito, solito litigare con il vero comandante di tutta la casata: mia madre.
Lei, con il suo carattere forte e severo, ligia alla disciplina e contraria all’uso delle armi per una giovane, era la donna più cocciuta, convinta e autoritaria che avessi mai avuto la sfortuna di conoscere. Mi imponeva continuamente di indossare abiti femminili, di smettere di andare a caccia e di imparare le buone maniere. In un certo senso la capivo, non doveva essere facile fare la madre a quattro figli, la moglie a un principe e al contempo tenere testa ad un re –che altrimenti gliel’avrebbe tagliata- eppure… perché non riusciva a capire che la vita a corte non era fatta per me?
«Principessa, svolti a sinistra!» Assorta dai miei pensieri non mi ero accorta di aver camminato fra i banconi con naturalezza, ed essere tornata al punto di partenza: la porta che dava sul retro.
Scuotendo il capo mi voltai, sorridendo grata a uno dei cuochi. «Fuori c’è della selvaggina. Prendetela e poi fate portare il mio cavallo nelle stalle: ha bisogno di una strigliata» avvisai a voce alta.
Due degli aiutanti annuirono, precipitandosi alle mie spalle. Attorno a me c’erano odori di tutti i tipi, fragranze prelibate che facevano venire l’acquolina in bocca.
Tenendo gli occhi fissi sulle scale che conducevano al piano superiore, allungai la mano su ogni bancone e iniziai a spizzicare qualsiasi tipo di cibo che avessi fra le mani. Poi incontrai i suoi occhi. Se ne stava fermo sulla soglia dell’entrata, le spalle larghe evidenziate dalle braccia incrociate e i lunghi capelli mori a farvi da coperta. Gli occhi azzurri, simili a ruscelli, mi fissarono sconfitti.
«Tre anni di differenza e ancora ti ostini a fuggire di nascosto per cacciare?» Leron mi diede la schiena mentre ci apprestavamo a salire agli alloggi. «Sei incredibile, sorella.»
«Tre anni di differenza e ancora ti ostini a non voler venire con me, perché non sei in gradi di impugnare un’arma. Non trovi sia preoccupante, fratello?» Risposi io, togliendomi da un’onda mora qualche erbaccia. Nota per me: legarsi i capelli quando si va a caccia. Me lo ripetevo sempre, non lo facevo mai.
Il più piccolo dei gemelli scosse il capo, sicuramente alzando gli occhi verso il cielo. Era un brutto vizio di famiglia che noi fratelli c’eravamo tramandati a vicenda. Una specie di cosa che ci accomunava tutti.
«Per questo genere di cose puoi chiedere benissimo a Rìnon. Lo sai che è lui il guerriero dei due; e poi tu nemmeno dovresti saperlo impugnare un arco» borbottò l’elfo, silenziosamente. Le luci delle torce si riflettevano sui suoi vestiti rossi (si era già cambiato per la cerimonia) creando ombre inquietanti. L’elsa d’oro della spada legata al suo fianco brillava sinistra.
Mi astenni dal rispondergli, perché sapevo che non avrei fatto altro che assecondarlo e non mi andava di dargli ragione. Io ero la più grande, io dovevo avere ragione.
Leron si fermò dietro alla porta che conduceva al piano superiore, e io mi ritrovai nascosta dalle sue spalle. Fui costretta ad alzarmi sulla punta dei piedi, perché sebbene fosse il minore dei quattro restava comunque più alto di me, così tutti gli altri due. Quando le gambe iniziarono a farmi male poggiai le mani sulle sue spalle e lo tirai giù, facendolo cadere sulle ginocchia. Lui imprecò sottovoce, alzando gli occhi nella mia direzione. Per ingraziarmelo sorrisi, alzando le spalle.
«Un principe non dovrebbe dire parolacce» lo ripresi, togliendomi dai capelli qualche foglia. Lui non rispose, limitandosi a scuotere con violenza il capo. Sospirai: non c’era gusto a pizzicarlo, tanto non avrebbe abboccato com’era solito fare Rìnon. «Okay, ho capito. Da qui continuo da sola, grazie mammoletta.» Gli carezzai i capelli, scompigliandoli malamente.
Senza attendere risposta lo sorpassai, entrando nella sala dei ricevimenti. La maggior parte degli ospiti era già arrivata, stava brindando oppure assaporando il cibo elfico; altri erano intenti a conversare, e non mi sfuggì il modo in cui le loro voci cadevano basse, oppure troppo acute per appartenere a dei simili mortali. Era un effetto collaterale della maggior parte delle feste organizzate a palazzo: il vino del Bosco Fronzuto non era di certo male, al contrario, ma dava assuefazione troppo in fretta a chi non vi era abituato. Cosa che di certo Re Thranduil non avrebbe mai provato; lui beveva quella roba da quando aveva l’età di Leron e perciò riusciva a buttarne giù persino dieci calici, cosa che raramente accadeva. Gli esseri umani, invece, non avrebbero dovuto toccarne più di un boccale. Ma la gola è una brutta bestia a cui creature così effimere non sanno resistere.
Mischiandomi alla servitù, rubando di tanto in tanto cibo da qualche vassoio mi risultò facile attraversare la grande sala senza essere notata. Il corridoio che conduceva alle mie stanze, invece, fu tutt’altra cosa. La servitù che mi incrociava scuoteva vividamente il capo e iniziava a seguirmi, intenzionata a riportarmi nelle mie camere il più velocemente possibile. Sembravano un’orda di orchi che tenta d’afferrare la preda. Spaventosi.
Quando, finalmente, li chiusi tutti fuori dalla mia vista la solitudine mi avvolse in un caloroso abbraccio. Mi concessi di sdraiarmi sul letto, testando la sua morbidezza infinita e il profumo dell’autunno che andava a scemare. Ero così stanca. Uscire di nascosto per andare a caccia era stancante, per non parlare di come quei dannati animali mi avevano tenuto testa. Nessuno di loro voleva morire, perciò ogni qual volta che li colpivo si rimettevano in piedi e, annaspando, tornavano a scappare. Inutile dire che non arrivavamo mai troppo lontano.
I miei occhi chiari andarono alla ricerca della luce che entrava dalle grande finestre, come il velo di una sposa si posava morbidamente sulle tende e il pavimento che erano il suo corpo. Ricopriva la stanza con un’aura dolce, portando ogni cosa alla tranquillità. Quel colore tanto puro da fare quasi male agli occhi di tanto in tanto si armonizzava perfettamente con l’interno della camera, che possedeva colori vivaci come il verde e l’argento. L’inverno sembrava lontano anni luce.
Strinsi il cuscino al viso e mi lasciai andare a un sospiro. Ogni tanto mi domandavo perché fossi nata nobile; perché la vita mi avesse tirato un destro talmente malevolo da rinchiudermi fra le rigide regole dell’etichetta e i balli. Costringendomi a fuggire di nascosto dalla mia stessa casa, in cui ero vista come una fragile ragazza e non come quella che mi sentivo: una donna in grado di affrontare qualsiasi cosa. Ah! Se solo fossi nata anni prima e avessi combattuto a fianco di quelle due donne dei draghi di cui Rìnon mi parlava sempre, oppure con i Lupi del Nord che avevano preso parte alla Battaglia dei Cinque Eserciti allora si che tutti mi avrebbero preso meno alla leggera! Le gesta di quelle donne, che avevano sfidato il pericolo, gli uomini e persino il Signore Oscuro erano talmente grandi da offuscare quelle di altri eroi della Terra di Mezzo. Ero affascinata specialmente dalle due innominate de il libro “Leggende della Terra di Mezzo”, di cui Rìnon era praticamente il proprietario. Certo, c’erano centinai di racconti li dentro ma mai si parlava di un uomo che avesse cavalcato draghi. Nessuno mai aveva cavalcato draghi a prescindere, ne tanto meno li aveva piegati ai propri voleri. Nessuno, tranne quelle due sfuggevoli donne di cui si sapeva solo il colore dei capelli: biondo argento e castano scuro. Quando raccontavano di loro usavano sempre quelli per riconoscerle. Le Guardiane della Terra di Mezzo, era un altro termine. Erano modelli avvolti dal mistero: fuoco e acqua, due dei principali elementi terreni, insinuatisi nei corpi di due donne che riuscivano a comandare draghi, a parlarci. Due delle macchine assassine più letali che la mia terra era mai riuscita a partorire.
Se solo le avessi conosciute avrei fatto vedere a mia madre che tipo di donna volevo diventare! Altro che una regina anonima di un qualche re destinato alla morte, oppure alla pazzia causata dall’avarizia, mentre il tempo gli consuma la vita e lui neppure se né accorge. Le avrei fatto capire come mi sarebbe piaciuto vivere, fra mille avventure e combattimenti, dimostrando quella che ero realmente. Al diavolo la corte e viva la libertà. Poter fare quello che volevo, senza dover dar di conto a nessuno sarebbe stato qualcosa di meraviglioso, intrigante. E invece… Invece mi ritrovavo chiusa nella mia stessa stanza, fra quelle mura che mi tenevano prigioniera da ventitré anni e che ancora non si decidevano a lasciarmi andare.
Ventitré anni, una misera età per un elfo ma, al contrario, già cospicua per un essere umano.
Con foga alzai il petto dal materasso e battei la mano sul cuscino, che attutì il colpo con un leggero sbuffo. Nei miei occhi, ne ero sicura, s’impresse uno sguardo di sfida. E fu allora che i servi smisero di battere contro l’uscio e questo si aprì da solo, come guidato da una mano invisibile e leggera.
Mi voltai, sbattendo le palpebre e lei rispose inarcando le sopracciglia. Il lungo abito rosso, abbellito da ricami d’oro che s’intonavano alla corona semplice che indossava sui folti capelli scuri, le ornava il corpo su misura. Le lunghe maniche, larghe in fondo, le coprivano le braccia. I suoi occhi castani mi trafissero con uno sguardo. Come avevo solo potuto pensare di tenerle testa?
«M-mamma» balbettai presa in contropiede. Non mi aspettavo proprio la sua entrata in scena, non così presto.
«Sei andata a caccia, non è così?» Ecco una delle cose che più detestavo di mia madre: il tono freddo con cui si rivolgeva a chiunque quando era adirata. La linea marcata della mascella, le labbra tese in un sottile filo pallido. Lo sguardo… assassino.
«Quel che faccio io, non è affar tuo» ammisi, incrociando le braccia al petto. Qualche foglia rimasta impigliata ai vestiti cadde a terra, coprendo il tappeto che sostava sotto e di fianco il letto.
Non mi piaceva che mi si rivolgesse in quel modo, tanto meno se era mia madre a farlo. Nelle storie le mamme –specialmente le nobili- venivano dipinte come esseri dolci e dal cuore tenero che avrebbero fatto di tutto per salvare e accontentare i propri figli. La mia, al contrario, sembrava uscita come una specie di matrigna. Arida e austera, dal continuo desiderio di voler fare di me e i miei fratelli ottimi reali e non guerrieri. Sin dall’infanzia, specialmente a me, aveva vietato persino di prendere in mano un arco –che per un elfo silvano equivaleva all’importanza un respiro per qualsiasi essere umano; e quando mi ero opposta, lei non aveva cambiato idea. Per fortuna c’era mio padre che di nascosto mi aveva aiutato a fare pratica.
«Tutto quello che fai è affar mio, signorinella» brontolò con caparbia lei, unendo le mani dentro le rispettive maniche così da crearne un cerchio, nascondendole ai miei occhi. «Non per altro sono tua madre, e farai bene a ricordarlo sempre.»

E mi svegliai. Immersa sotto uno strato di coperte, con accanto un Haldir cullato dal sonno. Dalle palpebre abbassate potevo intuire che stava riposando davvero bene, sebbene ogni tanto i suoi occhi correvano in qualche direzione. Era probabile che stesse sognando. Noi non eravamo elfi di sangue puro, e questo l’avevamo sempre saputo, perciò erano normale che dormissimo e sognassimo come gli esseri umano però… Però adesso avrei preferito non sognare più. Non avrei voluto più ricordare, a essere onesti. La ferita che mia madre aveva inferto con la sua dipartita al mio povero cuore sanguinante non accennava a un ben che minimo miglioramento, e lo stesso valeva per i miei fratelli che tentavano di non farmelo notare. Ma io non ero cieca. Riuscivo a leggere nei loro sguardi persi la tristezza, in quelle mattine in cui ci ritrovavamo tutti a fare colazione e nessuno parlava. Nei primi tempi era stato strano sentire il silenzio che aleggiava sovrano in quella stanza, quando invece nel passato non si riusciva neppure a capirsi tanto baccano creavamo. Da una settimana a quella parte avevamo solo le forze per guardarci, sorridere falsamente e allenarci con Ringil. Poi ognuno per la sua strada. Alla fine, la donna dei draghi aveva preso in mano la situazione. Penso di non essere mai stata così grata a qualcuno come in quel momento.
Erano bastate poche ore. Fanie aveva stretto le redini della situazione fra le lunghe dita snelle e le aveva tirate con così tanta forza da ribaltarne l’esito, che altrimenti ci avrebbe portati –oltre che ha un totle disfacimento famigliare- alla perdita in battaglia. Aveva escogitato con il fratello, mio padre e Aragorn, Re di Gondor, un piano d’attacco ben dettagliato; tenendo conto persino di noi giovani principi. Aveva preso Haldir e Leron sotto la sua ala, letteralmente, insegnandoli come uccidere un drago senza usare poteri magici. Poi si era unita a Ringil nella preparazione di Rìnon che, a quanto dava a vedere, non era minimamente portato per essere un Guardiano. La cosa buffa era che neppure noi lo vedevamo come tale, eppure continuavamo a spronarlo perché si applicasse e ridere delle sue figuracce. Penso sia questo che faceva di noi un bel quartetto di fratelli così uniti: nonostante la perdita di nostra madre e la guerra imminente, avevamo trovato un piccolo spiraglio che ci permetteva di distrarci. Allontanarci dalla verità della vita per qualche ora, farci sentire più leggeri.
Poi, arrivava la sera e con essa i sogni. Ed eccoci al punto di partenza.
Stringendo le lenzuola al petto mi lasciai ricadere sul materasso come fossi morta. Il freddo e la consapevolezza di aver ricordato momenti in cui odiavo mia madre mi avevano portato a mordermi le labbra, tentando di non piangere. Di fretta allontanai una lacrima solitaria, poi mi voltai a osservare mio fratello. Mi ero infilata nel suo letto di nascosto, mentre lui già dormiva. Era una cosa che facevamo spesso da piccoli, già da prima che arrivassero i gemelli; poi era cambiato, e da allora non aveva più fatto avvicinare nessuno alla sua stanza se non i nostri genitori e il nonno.  Ma poco me ne importava in questo momento. Il fatto era che, sin da bambina l’avevo sempre pensato, su Haldir gravava quell’aura austera e al contempo magnificamente lucente che sembrava poter allontanare tutti i demoni e perciò mi ero sempre sentita al sicuro standogli vicino. E poi profumava.
Gli carezzai una lunga ciocca bionda, spingendomi più vicino a lui sfidando la sorte. Sapevo che se si fosse svegliato mi avrebbe cacciata, intimandomi che una Guardiana doveva avere il coraggio di superare gli incubi della notte da sola ma… al contrario di quel ricordo pervenutomi sotto mentite spoglie, dove credevo di poter sopportare ogni cosa perché più forte degli ostacoli impostimi, avevo bisogno di qualcuno che mi desse sostegno. E chi meglio poteva farlo di mio fratello maggiore? Nessuno.
«Mi manchi così tanto, Mith’quessir.»
 


*     *
 


«Man presta le, mellon nîn?»
Sotto il chiarore delle stelle invernali, i capelli di Legolas parevano fili di giada intrecciati con maestria. La pelle diafana splendeva, riluceva di quella luce che i Varda aveva donato agli elfi silvani. Con gli occhi azzurri lui andò a ricercare chi gli avesse posto la domanda. Trovò l’interlocutore nascosto dal semibuio, come un serpente pronto ad azzannare la propria preda. Subito, rizzò la schiena e la voltò alla ringhiera trovandosi faccia a faccia con Sauron. Era strano guardarlo negli occhi e trovarvi solo due pozze verdi, e non quegli infermi di sangue che aveva conosciuto in passato. Ma il principe lo sapeva bene che un serpente rimane tale anche se muta la propria pelle.
«Andiamo, mio signore, perché non rispondete?» S’incupì il moro, congiungendo le braccia al petto con fare cocciuto.
«A te non devo spiegazioni» fu la risposta spiccia del biondo. «Solo perché ora sei privo dei tuoi poteri e risiedi nella mia casa come un intruso, protetto dalla sua stessa sorella, non credere che non abbia dimenticato ciò che causasti in passato.»
Il moro alzò gli occhi verdi al cielo, prima di affilare lo sguardo verde. Le labbra si piegarono leggermente verso l’angolo destro, formando un mezzo sorriso divertito. Sauron non aveva parlato, ma il linguaggio del suo corpo era arrivato forte e chiaro agli occhi di Legolas.
Che cos’aveva fatto si che El si trovasse indecisa fra lui e quell’uomo? Cos’era che l’aveva attirata tanto da far si di allontanarsi da lui? Questo Legolas se l’era chiesto per anni, ogni notte, mentre osservava la donna dormire al suo fianco. E persino ora, che lei non c’era più e il suo rivale lo fronteggiava, non poteva fare a meno di pensarci.
«So cosa stai pensando, principe» soffiò l’essere, assestando con tranquillità qualche passo in avanti. «Lo capisco da come mi guardi, dal risentimento che serpeggia in quel tuo sguardo freddo e assassino. Stai pensando a lei e me, insieme.» Sorrise. «Ti stai chiedendo perché lei mi voleva, non è così?, e ti ostini a cercare una risposta che sai ti lascerà la bocca arida.»
«Stai superando il limite, serpente» lo avvisò il biondo.
Ma il Signore Oscuro continuò imperterrito, divertito dalla sua reazione. «Ti domandi cosa succederà quando anche io scenderò negli inferi con l’aiuto della cerva, non è così? Ti stai chiedendo se sarà felice di rivedermi…»
«E’ inutile che tu tenti di mandarmi fuori di senno, Sauron. Sappiamo entrambi che lei non ha nulla a che fare con l’inferno.»
«E allora perché Cuinië vorrebbe inviarmi laggiù?»
«Bada bene alle tue parole, mortale. Non hai davanti un elfo di Gran Burrone bensì un elfo silvano, e come ben saprai noi non siamo così dediti al mantenimento della pace.» Legolas poteva ben sentirlo, il flusso continuo del sangue che gli inondava le orecchie e provava a farlo impazzire. O forse era Sauron, che con le sue parole stava insinuando dentro di lui il seme del dubbio.
Se El fosse davvero stata reclusa all’inferno? No. No. NO NO NO NO.
Scuotendo vigorosamente il capo, l’elfo tornò in se. Non l’avrebbe data vinta a quel lurido essere; non gli avrebbe permesso di minare i pensieri su quella donna che aveva amato e ancora amava. Quella di Sauron era solo invidia, gelosia per un amore che lei gli aveva negato. L’odio che gli corrompeva l’anima non l’aveva mai abbandonato del tutto, e questo Legolas lo capì solo dopo essersi calmato.
Rimasero ad osservarsi, il cigno e il serpente, nel buio della notte luminosa di Varda finché il primo non si mosse verso la reggia abbandonando la postazione.
«Non provo pietà per te, Sauron, ma bensì per la tua anima brava che anela odio e sofferenza altrui. Neppure nella morte hai saputo riscattarti.»
 


*     *
 
 
Isil.
 

«Ennyn o angren a duir said a myrn eryn ú methed, mornie utulie ned i taur linnad ú nîr. Ù dartha estel.» Mi voltai ad osservare Namò, colui che mi aveva salvata dalla cupola di cenere.
I lunghi capelli rossi brillavano alla luce del sole che ricadevano a terra attraverso gli spiragli lasciati dalle colonne della su sala del trono. Illuminavano il prezioso pavimento di marmo nero e bianco, rifinito del medesimo materiale rosa. I topazi e i rubini ai lati della Rosa dei Venti, dipinta a terra con un oro brillante, splendevano come piccoli soli a se.
Presi un bel respiro, rivolgendo il mio sguardo al mare che si diradava a perdita d’occhio intrecciandosi con il cielo all’orizzonte. «Ú manen i nauth lîn. Gerim ad lû. Ennas ad estel» affermai convinta, mentre davanti ai miei occhi passavano i visi di tutti i miei cari. «Han iston.»
«E allora non mi rimane altro che confidare nella tua fiducia, mio Generale.» Namò si alzò dal proprio trono e mi raggiunse. La sua voce continuò ad echeggiare nonostante gli spazi aperti. «Morwen.»
Aggrottai le sopracciglia, fissandolo con cipiglio eloquente. Morwen? Che nome era mai questo? E soprattutto, perché l’aveva usato rivolgendosi a me?
«Prego, mio Signore?» chiesi incuriosita, poggiando una mano sull’elsa d’argento della mia spada. Era più un’abitudine che una necessità; l’avevo acquisita negli anni addietro, quando infuriava la battaglia contro il Signore Oscuro, e da allora –sebbene fossero passati già venticinque anni- non l’avevo mai persa.
«Eleonora. Isil. Hai perso i tuoi nomi non appena sei morta e sei caduta qui, nelle mie lande» spiegò placidamente lui, giocando con un grosso anello in cui vi era incastonata un’ambra. Dello stesso, identico colore dei suoi occhi. «Hai rinunciato a loro per sempre nell’esatto momento in cui hai accettato di divenire mio Generale. Perciò, era mio dovere sceglierti un nome, e quale più si adirebbe a una donna della tua fama –che ha cavalcato draghi; vinto battaglie; ucciso uomini e sedotto il Signore di Mordor- più che Morwen? La Dama Oscura?»
Arricciai le labbra. Non è che mi piacesse così tanto quel nome, però lui era il capo e lui faceva le regole li e io non avrei potuto ringhiargli contro com’ero solita fare a corte con il Re. Thranduil era un conto, un Valar un altro.  Perciò mi limitai ad annuire, prima di tornare ad osservare il mare.
 


Note di autore.

Tradizioni frasi elfiche del capitolo:
  • Elfo d’argento
  • Cosa ti turba, amico mio?
  • Cancelli di ferro e luoghi oscuri e boschi cupi senza fine, l’oscurità è arrivata nella foresta cantando senza dolore. Non rimane speranza.
  • Non è come credi. Abbiamo ancora tempo. C’è ancora speranza.
  • Abbi fiducia.
E così, dopo tanta voglia di cambiare il ritmo della FF mi sono arresa (l’altra mi si è cancellata…) e ho continuato questa. Mi scuso per i disagi che vi ho creato. Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
 
Baci
 
Isil.
 

 
  
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