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Autore: RubyChubb    10/11/2008    10 recensioni
Aspettava da un’ora, seduta sulla sua valigia grigia e rigida, tutta graffiata. Intorno a lei migliaia di viaggiatori di ogni nazionalità, persone che esibivano cartelli con strani nomi neri di pennarello e famiglie che si ricongiungevano, tra baci ed abbracci.
Ma ancora nessuno per Joanna…
Seguito di "Four Guys in her Hair" - RubyChubb & McFly
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Four Guys in Her Hair & And That's How I Realize...'
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Specchio, specchio delle mie brame, dimmi chi è la più deficiente di tutto il reame.

Si stava dando gli ultimi ritocchi davanti al fidato specchio, appena interrogato con quel facile quesito, e poi sarebbe stata pronta per partire.
“Little?”, si sentì chiamare da Danny, che si era pudicamente affacciato alla porta di camera sua, lasciata da lei appositamente semi aperta.
“Un attimo solo.”, disse.
Prese un profondo respiro ed uscì dal bagno, prendendo la piccola borsa che sostava in attesa sul letto.
“Bene, siamo pronti per partire.”, disse lui, sfregandosi le mani contento.
Un paio di sottili linee scure contornavano i suoi occhi blu, non doveva aver dormito bene quella notte, si notava bene.
“Nottataccia, Dan?”, gli fece, non trattenendo quella domanda.
“Si vede, vero?”, disse lui, sbuffando.
“Dai, tranquillo, stai bene lo stesso.”
Maledetta fu quella semplice frase e il momento in cui la disse. Tamara, sbucata alle sue spalle, non la prese bene. Anzi, non la prese affatto, era sfrecciata accanto a loro senza fiatare.
“Siamo in ritardo.”, disse poi.
Danny le lanciò uno sguardo paziente ed alle spalle fece un cenno sconsolato, prima che entrambi scendessero le scale. Approfittarono per fare quattro passi nell’aria già calda, la casa di Tom distava pochi metri da lì, il pranzo li aspettava.
E non solo il pranzo...
Le venne da affrettare il passo. Avrebbe voluto mettere le ali ai piedi e volare oltre la manica, ma non era Mercurio e non aveva approfittato dei saldi per farsi un bel paio di scarpe pennute.
“Di qua.”, le fece Danny.
Talmente era di fretta che non si soffermò nemmeno sulla facciata della casa, che comunque le sembrò nettamente più rossastra di quella di Danny. Suonarono il campanello, bussarono anche alla porta. Il loro terzetto sembrava il più indaffarato del mondo, tutti e tre avevano qualcosa di fastidioso dentro le scarpe.
Li accolse una sorridete Giovanna, in una canottiera bianca e pantaloncini corti, il tutto nascosto sotto un lungo grembiule colorato, macchiato in più punti.
“Ecco gli ultimi arrivati!”, esclamò, volgendo lievemente la testa verso l’interno della casa.
“Siamo davvero gli ultimi?!”, domandò Tamara, incredula.
“Sì, proprio gli ultimi!”, le confermò di nuovo la ragazza, scostandosi dall’entrata, “E scusate se non vi saluto come si dovrebbe, ma sono abbastanza impresentabile!”
“Figurati!”, disse Danny, con tono amichevole.
Lei per ultima, i due per primi, entrarono dentro casa Fletcher: molto bianca, chiara e solare, così come chi vi abitava dentro. Prima d tutto, Joanna notò la luminosità del soggiorno, la prima grande stanza in cui entrò. Dalle ampie vetrate alla parete si vedeva tutto il retro della casa, contornato da una siepe simile a quella di casa Jones. Non ebbe tempo per soffermarsi molto che un braccio le passò sulla spalla.
“Per caso il tuo amico è ancora incazzato con noi due per la storia del temporale?”, fece Harry, sorridendole scherzoso.
“Non più con me...”, rispose Joanna, ridendo.
Non si erano più visti dall’altro ieri e si erano lasciati che erano tutti molto sulle furie.
Danny, che l’aveva preceduta, si voltò per osservarli. Rimase qualche breve istante in silenzio, la bocca si chiuse il sorriso con un espressione piatta. Passò una mano sulla fronte, sistemando il ciuffo che la copriva, e si avvicinò.
Harry fece cadere il braccio dalla sua spalla, attenendo una parola da lui. Dal canto proprio, Joanna non aveva avuto niente da ridire ad Harry stesso, e la propria questione con Danny era già stata risolta.
“Scusa.”, disse Danny, mormorando la parola in un sospiro, “L’ho fatta troppo lunga per un temporale.”
Harry sbuffò.
"E' andata bene.”, borbottò il batterista, “L’ultima volta che ti sei incazzato con me mi hai portato il muso per una settimana!”
“Ti ricordo che in quella famosa ultima volta hai preso in prestito la mia macchina e l’hai riconsegnata con un faro rotto!”, specificò prontamente Danny.
“Non è stata colpa mia! L’ho trovato così!”, si difese Harry.
“E perché quale motivo ti sei fatto prestare la macchina da Danny?”, gli domandò allora Joanna, incuriosita dal rinnovarsi di un vecchio battibecco dei due, subito dopo la conclusione dell’altro, “Non ne hai una tua?”
Harry si guardò intorno, come se fosse stato messo in un vicolo cieco da quella sua innocente domanda.
“La sua cara auto era rimasta senza benzina.”, specificò Danny, ridacchiando.
“Perché il serbatoio era rotto!”, ripiegò subito il batterista, “E non volevo saltare in aria!”
“Ok, la finite?”, irruppe Tom, troncando in due la discussione, “Ci avete fatto venire il mal di testa.”
Le si avvicinò con un sorriso accogliente dei suoi, adornato di un paio di fossette sulle guance e la fece accomodare, togliendola dalle mani dei due contendenti.
“Come va, Jo?”, le domandò.
“Tutto a posto.”, gli rispose.
“Oh bene, da come Jones l’aveva fatta lunga pensavo che Harry ti avesse riconsegnata piena di lividi ed escoriazioni.”, le disse ridendo, e strizzando un occhiolino, “Ma vedo che stai piuttosto bene.”
“Grazie, sempre gentile.”, gli fece, “Per caso Gi vuole una mano in cucina? Non sono molto utile, non so fare praticamente niente se non rompere bicchieri, però magari posso starmene in un angolo e non toccare niente!”
Era nervosa. Terribilmente nervosa. Si sentiva così tesa che non trovava niente di meglio da fare che ironizzare su se stessa, trovandosi ridicola e di cattivo gusto.
Si era guardata velocemente intorno, mentre le due J -Jones e Judd- si stavano rinfacciando screzi passati, e non aveva visto nient’altro che Tamara infilarsi in una delle porte che si affacciavano sul soggiorno, dopo aver salutato Tom con un abbraccio ed un paio di baci sulle guance.
Non c’era.
Aveva deciso di snobbarla un’altra volta? Pregò il cielo di aver ipotizzato giustamente.
Ma perché sei così stupida da farti prendere dal nervosismo?
Perché odiava i ritorni di persone crocifisse. Non che lei avesse piantato tre chiodi alle estremità di Dougie ed avesse poi eretto la sua croce sulla cima del monte Golgota; aveva solo operato su di lui con un gigantesco pennarello, depennandolo dalla lista delle persone desiderate. Lo aveva marchiato con  la stupenda ics rossa.
Ce l’aveva con lui, e allora? Era da biasimare? No.
Si fece carico di quella secca negazione, prese un profondo respiro e si disse che la migliore soluzione era l’indifferenza.
Sarebbe stata impassibile ed indifferente.
“Oh, no”, le rispose Tom, indicandole verso la porta in cui aveva visto infilarsi Tamara, “c’è già qualcuno che l’aiuta, e poi è troppo paranoica, ha sempre paura che qualcosa vada storto... Che prenda fuoco il forno, oppure salti in aria il microonde. Ma grazie lo stesso.”
Non si sentì affatto meglio.
 “Adesso ci prendiamo tutti insieme un aperitivo all’aperto.”, disse, voltandosi verso i due, alle loro spalle, che stavano continuando a borbottare in toni infastiditi, ma comunque molto più tranquilli.
Tom posò una mano sulla maniglia di una delle tante grandi finestre del soggiorno e, premendo su di essa, la fece scorrere alla sua sinistra, aprendo  un varco verso il giardino.
Il giardinetto era molto più grande di quello di Danny, o forse era solo un effetto dovuto all’assenza della piscina. Stesso prato basso, un’altalena sulla sinistra ed un piccolo scivolo, come un buon augurio. Davanti a loro un gazebo bianco, il cui tessuto era scosso dalla lieve brezza calda, e sotto di esso un tavolo con bottiglie, brocche ripiene di liquidi colorati e tartine.
Il suo radar visivo non segnalò la presenza di alcun individuo sospetto e, camminando accanto a Tom, si trovò sotto all’ombra fresca del gazebo, con in mano un bicchiere di quello che il ragazzo stesso le aveva versato.
“Che buone!”, esclamò Danny, riempitosi la bocca di tartine verdi, “Gi è la migliore!”
Tom alzò gli occhi al cielo, guardando Joanna con viso rassegnato. Harry, accomodatosi su una sedia bianca, mangiava con educazione le piccole fette di pane spalmato di buone salse che aveva selezionato, forse in base al colore sfavillante, forse per via del suo gusto personale.
Tutti sembravano tacere ogni parola su di lui, sicuramente per discrezione. Perché non parlavano? Perché non le dicevano che non era venuto perché non la voleva vedere?
“Ti piace?”, le fece Tom, togliendola dalle sue domande esistenzialiste.
“Cosa?”
“Quello che stai bevendo.”, si spiegò il ragazzo.
“Oh sì, è molto buono.”, si complimentò, “Con cosa è fatto?”
“Non ne ho la più pallida idea.”, fece lui, scrollando le spalle con tranquillità.
Le venne da ridere.
“A Giovanna piace fare gli esperimenti con i cocktail?”, gli domandò.
“No, non a lei.”, rispose lui, prendendo una tartina e intaccandola con un morso, “A Dougie.”
Se avesse avuto un po’ di succo in bocca sarebbe affogata.
C’era, eccome, e si nascondeva da qualche parte.
“Ah... Beh, è buono lo stesso.”, fu capace di dire, strabiliata dal suo stesso autocontrollo.
“Dov’è Dougie?”, domandò allora Harry, dato che il ghiaccio in merito a quella questione spinosa era già stato rotto con un bicchiere di delizioso cocktail.
“E’ un cucina, sta aiutando.”, li informò Tom.
Dalla faccia stranita di Danny e di Harry, Joanna capì che lo slancio culinario del bassista da lei più odiato doveva essere cosa più unica che rara. Infatti, lei stessa non era capace di immaginarlo ai fornelli, con il cappello da cuoco in testa e la divisa bianca, come quella che aveva sempre visto indossare a Miki, al lavoro.
“Oddio!”, esclamò Tom.
Stava arrivando sorridente, con un vassoio ricolmo di altri stuzzichini, e quella proverbiale manifestazione di stupore non arrivò proprio a caso. Infatti, qualche secondo dopo fu seguita da qualcosa che la stimolò per la seconda volta, ma in modo molto meno educato.
“Oh cazzo!”, esclamò infatti Harry.
La sua espressione sottolineò perfettamente quello che videro: partendo dalle mani incerte di Dougie, incartato sui suoi stessi piedi, il vassoio compì un volo magistrale, forse un triplo salto carpiato con avvitamento a destra, e sparse il suo ottimo contenuto sul prato, per la sublime gioia delle formiche che lo abitavano.
“Doug!”
“Poynter!”
“Ma sei cerebroleso?”
Quelle furono altre tra le frasi a lui indirizzate dai suoi tre compagni, corsi a soccorrerlo. Lei, invece, se n’era rimasta al tavolo, impalata col suo bicchiere, ormai vuoto.
“Merda!”, accentò Dougie, alzandosi da terra, “Ho fatto cadere tutto!”
Aiutato da Tom e da Danny recuperò tutti gli antipasti dal giardino, mentre Harry decise di testarne un paio, dopo averli ripuliti dall’erbetta.
“Riporto tutto dentro.”, gli disse Tom prendendo il vassoio e le tartine.
“Bel lavoro, Dougster.”, lo consolò Harry, con una sonora pacca sulle spalle.
Dopo essersi ripreso dagli scossoni, Dougie ne approfittò per darsi una sistemata. Qualche ciuffo d’erba era rimasto sui suoi pantaloni a mezza gamba, la maglia invece sembrava sufficientemente pulita.
Non doveva fissarlo, né guardarlo con insistenza, né fargli una radiografia da testa a piedi. Anzi, non doveva proprio posare gli occhi su di lui. Impostasi quei sacrali divieti, si voltò verso il tavolo, occupandosi del riempimento del suo bicchiere.
Sentì i passi avvicinarsi a lei e, come un countdown, prese a contarli. Fu un’impresa ardua, l’erba attutiva ogni piede, rendendoli indistinguibili, ma fu comunque capace di capire quando furono abbastanza vicini a lei per...
“Ciao, Jonny.”
 

 
“Attento!”, gli aveva gridato Gi nel suo orecchio sinistro, “Così farai bruciare tutto!”
Aveva preso il cucchiaio di legno ed era tornato a girare quella brodaglia bianca che lei gli aveva affidato. Non sapeva cos’era, però lei diceva che le serviva, quindi lo faceva volentieri.
“Com’è che oggi ti senti così tanto casalingo?”, gli aveva domandato scherzosamente Tamara.
Stava anche preparando le tartine, ormai quasi pronte per essere portate fuori.
“Beh… Sto aspettando un bambino!”, le aveva rivelato lui, ancora più ironico, “E sento il bisogno di preparare il mio nido.”
Gi era scoppiata in una risata, Tamara aveva scosso la testa rassegnata.
Ormai lo conoscevano abbastanza bene da non prenderlo più di tanto sul serio, sarebbe stata una battaglia inutile e, soprattutto, una sconfitta già in partenza. Erano sufficienti gli altri tre a lottare con la sua sindrome acuta da Peter Pan.
Sarebbe stato per sempre un eterno adolescente, comunque capace di afferrare la sua testa tra le nuvole e piantarla sulle spalle per il tempo necessario a prendere decisioni giuste e ponderate, da adulto qual era. Per la restante parte della sua vita, invece, non avrebbe fatto altro che giocare con se stesso e con gli altri, come era sua natura.
Quel giorno, però, stranamente quelle sue due essenze si erano fuse insieme. In superficie il Dougie giullare, che si divertiva in cucina a tagliare le verdure a stelle solo per far infuriare Giovanna. Per aumentare il suo divertimento aveva anche preparato dei cocktail, inventando qualche strana miscela a base di cannella e di menta fresca, della quale aveva prontamente scordato la ricetta, pentendosene.
Subito sotto, stava anche il Dougie coscienzioso: quello che lo aveva riportato alla realtà pochi giorni dopo il ritorno da quella strana vacanza, facendogli capire che si era comportato con meschinità nei confronti di una persona che, innocentemente, aveva trovato in lui un appoggio per le sue difficoltà. Aveva voltato le spalle a qualcuno che aveva avuto bisogno di lui, e questo sbaglio era inammissibile.
Futile ogni parola in più, ogni tentativo di giustificazione e legittimazione da parte sua. Si era cullato per troppo tempo col pensiero che lo aveva fatto per lei, per non farla star male dopo la sua partenza, per non farla illudere. Riflettendoci, aveva infatti capito che l’aveva fatto soprattutto per se stesso. Ed era stato lui quello che, in primis, non aveva voluto soffrire.
Nonostante avesse voluto celarlo, non sempre in maniera efficace agli occhi dei suoi migliori amici, altre volte era rimasto pesantemente fregato nei rapporti con le ragazze… E non voleva passare di nuovo per quella stessa strada. Un anno fa diceva di non conoscersi abbastanza bene da poter affermare con assoluta di essere in grado di mantenere una relazione a distanza e, dato che al tempo Jonny gli era piaciuta abbastanza da voler provare a costruire qualcosa con lei, preso da quella paura aveva ripiegato sulla questione amicizia, per poi abbandonarla con cattiveria.
Doveva scusarsi, doveva farsi perdonare, soprattutto ora che quei giorni erano passati e che quello che aveva provato per lei era evaporato.
Non c’erano storie, non c’erano parole efficaci, niente. Era sicuro che lei non avesse cambiato idea e non la biasimava affatto, anzi, Jonny aveva a disposizione tutte le giustificazioni plausibili per continuare a pensare che fosse un emerito stronzo.
Eppure si sentiva come un ragazzino, confuso e anche un po’ stupido. Anzi, molto stupido, ma doveva dimostrare di non essere infantile e immaturo, anche se ad ogni minuto passato il Dougie in superficie aveva preso a strepitare con più forza. Era colpa sua se non era andato a salutarla quando era arrivata, se aveva saltato la gita a cavallo… Erano queste le infantili decisioni prese dal Dougie adolescente, quello che scansava i problemi piuttosto che affrontarli.
Si sentiva sempre più agitato, teso ed irrequieto, sebbene cercasse di non dimostrarlo, e non trovava una spiegazione a tutto questo nervosismo. Forse era perché tuttora non si reputava abbastanza bravo con le parole, forse perché aveva paura che Jonny interpretasse male il suo tentativo di riconciliazione. Infatti, lo spaventava abbastanza l’idea che lei gli negasse anche la possibilità di parlarle. In quel caso, però, la soluzione era una sola: accettare la sua volontà ed finirla lì.
Era stato il primo ad arrivare, con notevole sorpresa di Tom, almeno un paio d’ore prima dell’ora prefissata. Aveva aiutato ad apparecchiare la tavola, a sistemare il giardino fuori e, infine, si era chiuso in cucina con Gi, mentre Fletcher si preparava per accogliere Harry e, dopo qualche altro tempo, anche l’ultima carovana.
E ora, che era uscito dalla cucina inciampando involontariamente sui suoi stessi piedi, si sentiva infinitamente anche coglione. Camminava insieme a Danny ed a Harry, Jonny era voltata di spalle, si stava versando un po’ di succo nel suo bicchiere. Non la vedeva molto diversa, se non per i capelli corti alle spalle, non più lunghi sulla schiena. Era certo che, comunque, dovesse stare abbastanza bene: Danny sapeva essere un amico più che ottimo, aveva sicuramente trovato in lui tutti i consigli e il conforto che avrebbe voluto darle in prima persona, ed andava bene così, ne era contento.
Si avvicinarono a lei.
“Ciao Jonny.”, le disse.
Si voltò e notò subito la frangetta che le nascondeva la fronte. Le dava un’aria insolita, sebbene sotto di essa ci fosse sempre il solito viso gentile e luminoso.
“Ciao.”, rispose lei.
E gli sorrise.
“Come stai, Dougie?”, gli fece, “Tutto bene?”
Rimase un attimo stordito. Dov’era la Joanna che si aspettava, quella che avrebbe dovuto imbarazzarsi per la sua presenza?
“Sì… Alla grande.”, le rispose, senza troppo entusiasmo.
“Buono il cocktail che hai fatto.”, si complimentò lei.
“Oh, grazie.”, le disse.
Non sembrava cambiata, eppure qualcosa di diverso in lei c’era. C’era eccome.
“E tu come stai?”, le chiese, di rimando.
“Bene, grazie.”
Era comunque molto breve nei suoi atteggiamenti, accennava sguardi e gesti. Forse era meglio togliere temporaneamente le tende, interrompendo così il silenzio che aleggiava su di loro da qualche secondo a quella parte.
“Jones, sai che Gi sta preparando vere lasagne italiane?”, disse volgendosi verso di lui, “Almeno per un esercito intero!”
Studiò il volto di Danny.
Non trasmetteva niente di particolare… Chissà cosa si era aspettato lui da quell’incontro.
 
 
 
Era nervoso, terribilmente nervoso, ed era sicuro di non essere l’unico nel raggio di pochi metri dalla sua persona. Aveva tenuto costantemente sott’occhio Little, decifrandone ogni piccola espressione: si stava sentendo a disagio, impacciata a modo suo, e tutto questo non faceva altro che far salire la sua agitazione, doveva fare qualcosa per evitare che quel pranzo si trasformasse in incubo per Little.
Sapeva come avrebbe reagito nel rivedere Dougie di nuovo. Non avevano mai parlato di lui nelle loro mail, era stato semplicemente citato qua e là, segno che era per lei un argomento abbastanza tabù. Di questo se ne stava già rammaricando, così come di tutte le altre cose che lei continuava a tacergli, ma sperava che nei prossimi giorni quel velo di silenzio sarebbe caduto, era fiducioso.
“Jones, sai che Gi sta preparando vere lasagne italiane?”, gli disse lo stesso Poynter, “Almeno per un esercito intero!”
Aveva capito anche lui, ovviamente.
“Fantastico!”, esclamò, con il suo solito entusiasmo.
“Penso che, dopo questo pranzo, potrò morire.”, si affrettò ad aggiungere Harry, anche lui immischiato in quella situazione statica.
“Già… La nostra Gi è veramente una buona cuoca.”, disse Danny, toccandosi la pancia, “Sarà meglio evitare di mangiare altre di queste tartine, altrimenti non ci sarà posto per tutto quello che ha preparato.”
“Decisamente.”, disse Dougie, “Non ti dico quante buone cose ci stanno aspettando.”
Guardava i suoi due amici, ma contemporaneamente la scrutava con la coda dell’occhio. Li ascoltava, rideva con loro, sembrava tranquilla, ma tutto quello era solo una finzione.
“Dan, hai presente quel mio amico?”, attirò la sua attenzione Harry, “Quello che sta prendendo lezioni di volo?”
 
 
Eccolo lì, davanti a lei, Dougie. Aveva provato ad vederlo in carne ed ossa con sopra una gigantesca ics rossa, ma non aveva mai avuto tutta quella fantasia. Era semplicemente lì, davanti a lei, con le sue solite mani in tasca, e le parlava.
Lo trovava bene: i suoi occhi erano sempre vispi, l’espressione ancora giocosa e tutto sommato non lo vedeva molto diverso dall’anno precedente. Aveva solo i capelli un po’ più lunghi, abbastanza ribelli, i ciuffi mossi stavano addomesticati dietro alle orecchie. Sembrava spassarsela, la pelle lievemente scura dimostrava che doveva aver passato parte del suo tempo sotto il sole, in una qualsiasi attività. Magari nella stessa piscina di Danny, cosa ne poteva sapere lei…
Stupendosi di se stessa, riuscì a mantenere un buon controllo. Accantonò il rancore che ancora provata per lui, zittì ogni voce gli urlava contro brutte parole e si impose calma e sangue freddo, come recitava una martellante canzone di qualche estate passata, rispondendo con educazione a tutte le sue domande.
Tremò al silenzio caduto al termine delle parole di rito: lei non sapeva più cosa dirgli e, intelligentemente, fu lui stesso a spostare l’attenzione su Danny, liberandola dal peso che i suoi occhi chiari avevano aggiunto sulle proprie spalle. Li ascoltò aprire una conversazione, chiacchierare delle lasagne di Gi, della grande mangiata che stavano per fare tutti insieme, dell’amico di Harry che stava per prendere il brevetto da pilota e della voglia che avevano di andarsene in vacanza, nonostante l’album fosse prossimo all’uscita.
Con educazione, si allontanò passo dopo passo dai tre, interessandosi prima agli altri succhi presenti sulla tavola, poi alle patatine ed infine all’altalena, sospinta dalla leggera brezza calda. Erano ormai troppo concentrati su loro stessi per accorgersi di lei che, con il suo bicchiere, si era seduta sul gioco, e dondolava.
Le erano sempre piaciute le altalene: da piccola aveva passato ore ed ore seduta su quella che suo nonno, prima di morire, aveva costruito nel giardino della vecchia casa colonica di famiglia, fermando semplicemente due catene ad un solido e orizzontale ramo di quercia, per poi unirle con una tavoletta di legno. Lei, con un cuscino sotto le gambe, aveva cercato di battere ogni record nel continuo dondolare, provando ogni volta ad andare sempre più in alto, finché un giorno non rischiò di cadere a terra e, da quella volta, si accontentò di muoversi con modestia.
Quella giornata si prospettava sempre più calda, sentiva i raggi del sole batterle sulla pelle con prepotenza, e l’aria che si muoveva intorno a lei non le dava sollievo. Un’ombra le passò vicino alle punte delle scarpe, attirando la sua attenzione.
Guardò il giardino davanti a lei: nessuno, il trio era scomparso.
L’altra altalena si mosse.
Si voltò alla sua destra.
Dougie le sorrideva, seduto a cavalcioni sul gioco accanto al suo. Chi aveva decretato che dovesse rimanere da sola con lui?
“Avete finito tutte le parole?”, gli disse, volendo provare ad essere scherzosa, ma risultando solamente acida.
Dougie sbuffò in una risata.
“Lasciamo stare.”, disse, “Allora, come va la tua vacanza qua?”
Ma cosa te ne frega?, prese a sbraitare con petulanza la voce nella sua testa.
“Bene. Sta andando bene.”, gli rispose.
“Come ti sembra Tamara?”, continuò lui, incrociando le braccia.
“E’ una brava ragazza. E’ carina e simpatica, secondo me è perfetta per Danny.”
Non gli interessava essere convincente nelle sue risposte, bastava solo passare alla prossima domanda. Le sembrava di trovarsi dall’estetista, in attesa della prossima striscia di cera calda.
“Lo penso anche io.”, disse lui, esponendo il suo punto di vista, “Sono stato io stesso a presentarli.”
La voce nella sua testa ammutolì. Un sovraccarico istantaneo di insulti l’aveva mandata in tilt.
“Oh… Beh, allora grazie a te per aver fatto felice Danny.”, gli disse, voltando un sorriso nella sua direzione, “Ma non era stato Harry?”
Lui se ne rimase in silenzio. Si sentì sprofondare nell’imbarazzo.
“Sembri sarcastica.”, disse poi, dopo averla esaminata.
“Io? E perché dovrei esserlo!”, disse, mettendosi a ridere, “Dicevo sul serio, credimi. Sta bene con lei, si vede lontano un miglio.”
“Puoi dirlo forte.”, rispose lui, con contentezza.
Si prese altri secondi di silenzio, mettendola ancora di più nell’agitazione. Joanna afferrò le catene dell’altalena, stringendole.
“Dove sono andati gli altri due?”, gli chiese.
“Harry è andato dentro, diceva di morire dal caldo.”, spiegò Dougie.
“E Danny?”
“E’ andato con lui.”
E perché non ti sei unito alla carovana?
“Perché non sei andato con loro?”, gli domandò, in modo più gentile.
“Perché ti volevo parlare, Jonny.”, fece lui, diretto.
Joanna sospirò. Sapeva che, prima o poi, quella chiacchierata sarebbe arrivata, e avrebbe voluto posticiparla il più possibile, magari addirittura non prendervi mai parte. Non voleva rovinarsi la giornata, né la vacanza.
“Non abbiamo molto da dirci, Dougie.”, cercò di convincerlo, “Ormai è passato più di un anno, la questione è finita. Basta.”
“Ne sei sicura?”, le fece lui.
Esitò.
“Sì.”
Esitò anche Dougie.
“Ti volevo semplicemente chiedere scusa.”, disse poi lui, “Pensavo di agire per il tuo bene, poi mi sono reso conto che sono stato egoista, più che altruista.”
Continua pure, continua!
“Jonny, alla fine lo avevi capito anche tu… Ti ho voltato le spalle perché non volevo che la… Cosa si complicasse. Soprattutto per me.”, si prolungò Dougie, “Sono stato egoista e mi dispiace.”
Posò gli occhi su di lui, scrutandolo con attenzione. Incrociò il suo sguardo per qualche secondo, voleva vedere quante menzogne c’erano nelle sue parole.
“Ti voglio chiedere quindi scusa.”, attaccò ancora Dougie.
Non le veniva niente da dire. Se ne stava solo lì ad ascoltare le sue parole, quelle che avrebbe voluto sentire un anno prima e che finalmente erano arrivate.
“Non merito nemmeno che tu mi parli!”, esclamò il bassista, alzando le mani al cielo, “Fossi in te, mi darei un altro calcio nelle palle, adesso! E un altro basso fracassato!”
La fece sorridere, ma solo per qualche breve istante.
Non voleva perdonarlo, non doveva farlo; come aveva detto lui stesso non si meritava niente del genere, non dopo quello che le aveva fatto.
“Jonny, non sei in obbligo di fare niente.”, aggiunse poi, “Non pretendo assolutamente niente da te. Se vuoi mandarmi a quel paese, fallo pure. E’ una tua decisione, io la rispetto...”, si alzò dall’altalena, “E anche se non mi dirai niente, a me andrà bene lo stesso.”
“Aspetta un attimo.”, gli disse, riprendendolo prima che se ne andasse.
Si alzò e, impacciata, cercò di spiegarsi.
 “Mi hai veramente deluso.”, gli disse.
Dougie abbassò il viso.
“Ho sbagliato a fidarmi troppo di te senza conoscerti bene.”, continuò.
Voleva che si sentisse una merda, voleva farlo strisciare per terra, lontano da lei, con la coda tra le gambe.
"Anche per colpa tua trovo sempre più difficile fidarmi delle persone che mi stanno accanto.”, aggiunse, decisa ormai ad arrivare fino in fondo, “E devo affrontarne le conseguenze da sola, non ho molte persone accanto a me ad aiutarmi, lo sai.”
“Lo so.”, disse lui.
I suoi occhi non risalivano su di lei.
“Pensavi che avrei preteso cose impossibili da te? Chi sono io per farti una cosa del genere?”
Non lo diceva con rabbia ma con un tono stanco, quasi strascicato. Non era necessario che si infervorasse, e non era comunque il caso farlo. Bastavano quelle parole dette piano, con risentita calma.
“Dougie…”, ed incrociò le braccia.
Lui alzò lo sguardo.
 “Non voglio odiarti ancora, ormai non ha più senso.”, gli disse, “Ma non riesco a lasciar perdere.”
Dougie annuì, si mise le mani nelle tasche dei pantaloni.
Dopo essersi sistemata i capelli dietro alle orecchie, gesto del suo tipico disagio, Joanna lo guardò. Se ne stava lì, mortificato, pentito.
Era fuori discussione, non esistevano seconde opportunità. Non per lui.
Dougie non poteva semplicemente tirare fuori il suo tono più dolce e, con un sorriso dei suoi, cercare di rimettere in sesto il casino che aveva lasciato. Non doveva dare seconde opportunità a persone che non se le meritavano, nemmeno a chi come lui dimostrava di essersi davvero pentito. Ormai, dalla vita aveva imparato che le persone non cambiavano. Mai, neanche grazie alle più nobili e gentili intenzioni.
Quindi, perché uccidersi con le sue stesse mani?
“Vuoi comunque qualcos’altro da bere?”, le domandò lui.
Alzò gli occhi sui suoi. Il suo tentativo di conciliazione non sembrava essersi affatto concluso. Oppure voleva essere semplicemente gentile con lei, andare oltre al muro che aveva eretto per proteggersi e cercare di stabilire un’altro tipo di connessione, seppur debole ed instabile?
“Solo un po’ d’acqua.”, gli rispose, non molto convinta.
 
 

A braccia incrociate, dietro al vetro, esaminava la situazione: li aveva osservati quasi per tutto il tempo. Non proprio dall’inizio, dato che Harry lo aveva trascinato dentro con una scusa cretina, e lui sapeva essere convincente anche con le cazzate. Dopo avergli fatto capire che non era interessato a nessuno dei suoi discorsi, mancando la risposta a due domande di fila perché troppo occupato ad allungare il collo per vedere al di là del vetro, si era avvicinato alla porta finestra, come lo spettatore di un incidente lontano. Harry si era allora rassegnato, posizionandosi al televisore con uno dei tanti videogiochi di Tom. Dalle esclamazioni che provenivano all’orecchio distratto di Danny, sembrava parecchio interessato alla sorte della gara automobilistica a cui stava partecipando.
Little odiava Dougie per quello che le aveva fatto; ne era certo, o meglio, lo era stato fino a quel momento, quindi si doveva essere perso qualche passaggio fondamentale. Cosa gli era sfuggito?
Si era aspettato di vedere una litigata, una Joanna furiosa, che tornava a grandi passi da lui chiedendogli di portarla via da lì, di tenerla lontano da Dougie.
Era questo quello che si aspettava di affrontare, in quella giornata.
Perché stavano andando al tavolo degli aperitivi e parlare?
Comunque, ciò che stava analizzando non sembrava una conversazione felice, piuttosto un tentativo fallito di cercare di passare sopra a fatti più grandi di loro.
“Sembra che Dougie ne sappia sempre una più del diavolo.”, spuntò Harry alle sue spalle, facendolo sobbalzare.
Danny si voltò, guardandolo di striscio.
“Cosa stavi facendo fino a tre secondi fa?”, sbuffò, tornando a guardare fuori.
“Giocavo alla Play...”
“Tornaci.”, sentenziò.
Harry si rassegnò.
“Come siamo acidi, stamattina…”, borbottò, abbandonandolo per tornandosene al suo videogioco.
“Chi è acido?”, domandò Tamara, entrata qualche attimo prima nel soggiorno.
“Là… Coso… Finestra.”, balbettò Harry, ormai già concentratissimo sulla sua automobilina virtuale.
Danny sentì le mani calde della sua ragazza cingergli la vita, e il mento di lei appoggiarsi sulla sua spalla.
“Scusa per ieri sera… E anche per stamattina.”, gli disse, sussurrandolo in un orecchio. Un brivido scosse i suoi nervi, Danny si voltò verso di lei. Non riusciva ad avercela con la sua Tam per più di qualche ora, mai, nemmeno nelle poche e furiose litigate avute in passato. Era più forte di lui, non le resisteva.
“Lascia stare.”, le disse, dandole un bacio a fior di labbra, “Eri stressata col lavoro, non importa.”
“Me la dai vinta troppo facilmente.”, rispose lei sorridendogli e ricambiando il bacio.
“Ragazzi, sono diabetico e single, per cortesia.”, li rimproverò Harry, lievemente infastidito dalle loro effusioni.
Videro spuntare la faccia sorridente di Giovanna.
“Venite, è pronto!”, fece loro, “Ma dove sono Dougie e Joanna?”, chiese poi, non vedendoli.
“Si stanno incredibilmente parlando.”, disse il batterista, bruciando Danny sul tempo.
“Dici?!?”, esclamò Gi, “E dove?”
“Là fuori.”, la informò ancora Harry.
Si avvicinò a loro due abbracciati ed allungò lo sguardo al di là del vetro della porta finestra, parando con una mano gli occhi dal sole. Danny notò lo sguardo interrogativo di Tamara.
“E’ successo qualcosa che io non so?”, gli domandò, con affare interessato.
Con la scusa del dirle ‘Vedrai che quando la conoscerai, ti piacerà’, non le aveva raccontato niente di tutto quello che era successo in Italia. Forse Tamara aveva il diritto di sapere che, tra lui e Joanna, c’era stata più di una semplice amicizia nata per caso. E avrebbe anche dovuto essere a conoscenza del fatto che, dato quello accaduto, i rapporti tra lei e Dougie si erano guastati.
Eppure, alla luce della scenata di gelosia a cui aveva assistito la sera prima, si disse che era stato meglio non dirle niente, anche se non lo aveva fatto di proposito, ma semplicemente senza rifletterci troppo. In fondo, tutto quello che era nato con Joanna si era trasformato in una bella amicizia, quindi perché andare a complicare le cose?
“Beh… Sì.”, le disse, “Ma è troppo lunga da spiegare. In poche parole, hanno litigato a morte, nient’altro.”
“E perchè?”, incalzò Tamara, “C’è stato qualcosa?”
“No... Non che io sappia...”
Lanciò un’occhiata ad Harry. Lui, che in quello stesso attimo lo stava a sua volta guardando, sembrò comprendere ed annuì. Allora si rivolse con gli occhi anche a Gi. Stessa cosa, anche lei lo capì.
“Vado a chiamarli.”, disse poi Giovanna, “Anche se un po’ mi dispiace…”
Uscì fuori e, un passo dopo l’altro, li raggiunse. Joanna sembrava lievemente imbarazzata mentre Dougie, come al suo solito, si diresse pronto verso la sala da pranzo, lasciandola indietro con indifferenza.
Forse, l’unico modo per comprendere quei due era spiarli, mettere una cimice nelle loro tasche, oppure essere una mosca e posarsi sulle rispettive spalle, per ascoltarli indisturbati.
“Little, non è che ora non avrai più fame?”, le fece, scherzoso, “Con tutto quello che hai bevuto!”
“Tranquillo.”, rispose lei, taciturna.
“Avanti che si fredda tutto!”, li richiamò Tom a gran voce, “E Dougie mangerà anche dal vostro piatto!”
Con calma e senza troppa fretta, ognuno prese il suo posto intorno all’ampio tavolo della sala da pranzo. Per evitare che qualsiasi cosa accadesse –qualsiasi- fece sedere Little il più lontano possibile da Dougie, nella volontà di preservare quel pranzo da scene di disagio collettivo.
 
 
 

Ottimo pranzo, in assoluto uno dei migliori che si era aspettata di mangiare una volta messo piede in una terra dove i gusti culinari andavano a braccetto con quelli della moda. Non sapeva come Giovanna e Tom si fossero conosciuti, ma poteva quasi azzardare a dire che lei dovesse averlo preso per la gola: nonostante gli ingredienti non fossero proprio di derivazione originale, le lasagne erano ottime ed anche la carne e tutte le verdure che l’accompagnavano erano decisamente buone. Le bocche di tutti quanti erano rimaste deliziate, la sua più di tutte, e per lunghi momenti erano rimasti in silenzio, occupandosi con il cibo nei loro piatti. Per il resto del tempo avevano riso, scherzato e chiacchierato.
La parte più divertente, ovviamente, l’aveva riguardata personalmente. Come un genitore apprensivo, ma soprattutto oppressivo, Danny non aveva fatto altro che chiederle se tutto stesse andando bene, se avesse voluto più lasagne, meno carne, più verdure, altra acqua… Aveva risposto con pazienza a tutte le sue preoccupazioni ed aveva provato più volte a tranquillizzarlo, facendogli capire gentilmente che era in grado di mangiare senza farsi imboccare da lui.
Ci aveva pensato Harry a toglierle quel fastidio di dosso.
“Danny!”, lo aveva ripreso, “Meno male che non è tua figlia!”
“E pensare che ieri ha cercato di uccidermi!”, non aveva resistito Joanna.
“Non è vero!”, si difese Danny, “Io non ti volevo fare del male!”
“Cosa ti ha fatto Jones?”, le chiese Tom, “Sentiamo!”
“Mi ha buttato in piscina… E io non so nuotare!”
Da lì aveva iniziato a raccontare tutta la storia, facendoli involontariamente esplodere in risate rumorose mentre Danny cercava di riparare ai suoi danni con scuse inascoltate.
Dopo tutto –e tutti- il pranzo era andato piuttosto bene. Non c’erano state tensioni, né momenti di stasi, tutto era filato liscio come l’olio, come se niente fosse mai successo. Se n’era stata seduta composta mangiando, ridendo e parlando senza alcun timore. Alla sua sinistra, a capotavola, Tom. Alla sua destra, invece, se ne stavano Danny, con tutte le sue apprensioni, e Tamara.
La fedele Tamara.
Vicino al suo fidanzato Giovanna, che da quella postazione raggiungeva facilmente la cucina alle sue spalle, ed accanto a lei  Harry, seduto scompostamente.
Infine, Dougie, l’ultimo della lista, il più lontano. Sapendolo lì, il problema ‘Danny ama Tamara, rassegnati’ non era più grande di come le era sembrato, fino a qualche ora prima. Ma non si volle lasciar prendere da niente e da nessuno, era lì per divertirsi con loro, per stare insieme a degli amici –gli unici amici che aveva, seppur lontani- senza fare troppo la melodrammatica.
Ed ora che anche il dolce era finito, un semplice ma delicato tiramisù, era arrivato il momento di dare una mano alla padrona di casa, come le era stato insegnato.
“Giovanna, vuoi un aiuto?”, le chiese, mentre la ragazza toglieva i piatti da dolce ormai vuoti.
“No, tranquilla, ci pensa Tom.”, disse lei.
“Eh no!”, insistette, “Voglio proprio darti una mano.”
Intorno a lei, infatti, nessuno sembrava intenzionato a farlo, nemmeno Tamara.
Non conosceva le tradizioni inglesi, ma a casa sua si dava sempre una mano alla padrona di casa. Almeno erano le donne a farlo, mentre gli uomini se ne stavano misogini a parlare di calcio, con la pancia piena.
Nonostante le ripetute negazioni di Giovanna lei si alzò dal suo posto e, con educazione, tolse i piatti a tutti gli invitati. Attenta a non inciampare li portò in cucina e, uno dopo l’altro, furono messi dentro alla prostituta preferita di Gi, che altro non era che la sua lavastoviglie.
“Grazie...”, le fece la ragazza, una volta chiusa la fauce dell’elettrodomestico, “Quelli là non hanno proprio il senso dell’educazione.”
“Figurati!”, le rispose, con sincerità, “Era il minimo che potessi fare, dopo uno splendido pranzo...”
La ragazza arrossì, stringendosi in un sorriso.
“Beh... Grazie mille...”, le fece, “Detto da te che sei più italiana di me... Non può essere altro che un complimento dei migliori!”
“Pensa che io sono capace di far annerire anche il latte.”, disse Joanna, del tutto incompetente in cucina.
“Piuttosto...”, la ammaliò Giovanna con un sorrisetto, “Tu e Dougie...”
Si sentì prendere da una forte sensazione di gelo al collo, come se uno spiffero malefico l’avesse investita in pieno sulla nuca.
“Io e... Cosa?”, balbettò, insicura.
“Vi ho visti fuori, al tavolo degli aperitivi.”, disse lei, “Vi siete riappacificati?”
Il modo di fare di  Giovanna, innocentemente diretto, la stava mettendo in totale difficoltà.
“Tom mi ha raccontato tutto.”, insistette lei, annuendo, “E mi avete abbastanza stupito.”
Si sentì ammutolire.
“Soprattutto perché quel coglione di Dougie non è per niente capace di rimediare ai casini che combina...”, sospirò rassegnata Gi, ed indicò con un gesto della testa il tavolo alle spalle di Joanna, “Guarda lì...”
Era un tripudio di macchie, incrostazioni e bottiglie vuote, cucchiai nei bicchieri e salviette di carta appallottolate. Una catastrofe.
“Ha preparato gli aperitivi e non si è nemmeno preoccupato di pulire.”, disse Gi, mettendosi le mani sui fianchi come una mamma arrabbiata con suo figlio, “Ma glielo faccio vedere io... Dougie!”
Lo chiamò ancora tre volte prima che lui si affacciasse alla cucina, con aria interrogativa.
“Che c’è?”, domandò.
Come aveva fatto con lei qualche secondo prima, Giovanna puntò il tavolo con un cenno del capo. Dougie voltò gli occhi su di esso.
“E quindi?”, chiese.
“E quindi puliscilo tu!”, sbuffò Gi, “Non voglio stare tutto il pomeriggio con i guanti e la spugna a scrostare le tue macchie!”
“Cosa sarà mai!”, disse lui, con noncuranza.
Gi non la prese molto bene. Infatti, andò verso il lavello, aprì lo scompartimento sotto di esso e tirò fuori alcuni flaconi di prodotti. Li appoggiò in un angolo libero del tavolo e, rifilando i guanti e la spugna a Dougie, gli intimò di riassettare tutto nel minor tempo possibile.
Dopo di che, se ne andò.
La prospettiva di passare altro tempo da sola con lui, cercando di rappezzare quattro parole per non fare scena muta, la spaventò così tanto che rimase per qualche attimo in silenzio, con la mano appoggiata al ripiano di legno della cucina, così come lui l’aveva trovata quando era entrato.
Gli lanciò un sorriso stretto, poi si avvicinò alla porta.
“Me la dai una mano?”, le domandò Dougie, prima che potesse svignarsela, indicando i flaconi sul tavolo, “Non è che abbia tutta questa dimestichezza con quella roba.”
Certo che te la do una mano… Sul viso!
 “Ok…”, rispose Joanna, “Ti aiuto a togliere le bottiglie.”
In silenzio, una per una il ripiano di legno venne sgomberato; rimanevano solo le macchie incrostate ed appiccicose ed erano compito suo, lei non aveva la benché minima intenzione di aiutarlo ancora.
Mentre posava dentro al lavello le ultime due bottiglie vuote guardò con la coda dell’occhio un comico Dougie che cercava di infilarsi i guanti di plastica. Ovviamente, quelli erano della giusta misura di Giovanna e lui, che era un uomo e che quindi aveva mani molto più grandi di quelle di una donna, si stava trovando nettamente in difficoltà. La plastica, infatti, continuava a schioccare sulla sua pelle, tirata al massimo delle sue possibilità elastiche, mentre le dita non riuscivano a farsi strada dentro al guanto.
“Puoi anche fare senza.”, gli disse, trattenendo una risata.
Al che Dougie, con aria volutamente perplessa, prese uno dei flaconi e ne osservò l’etichetta con interesse.
“Magari tutte queste cose chimiche scritte qua dentro corrodono la pelle.”, disse lui, con faccia preoccupata, “Io non so cosa sia il... metil... diobenza... metiltonolo.”, fece, balbettando il nome di uno dei componenti del prodotto.
“Dougie.”, gli disse, mostrandogli le sue mani, “Le vedi? Non hanno niente, eppure quei prodotti li uso tutti i giorni. Puoi farlo anche tu, le tue mani non sono in pericolo.”
Lui sbuffò, appallottolò i guanti di plastica e centrò al primo tiro il lavello libero. Prese con riluttanza una spugna e si mise a strofinare sul ripiano.
“Se la bagni, dai un passaggio veloce sul legno per inumidire le macchie e poi usi un po’ di sgrassatore…”, lo consigliò.
Dio, non sapeva nemmeno come pulire un tavolo.
“Così va bene?”, sbuffò Dougie, con tono ancora più scocciato ed irritato, dopo aver passato velocemente la spugna sotto il getto dell’acqua.
“Beh… Come pulitore di tavoli fai schifo anche a Ronald McDonald, ma può andare bene.”, gli rispose, avendolo preso con ironia.
Volle rimanere a guardarlo mentre terminava la sua opera. Con quella poca pressione sulla superficie e senza lo sgrassatore non ce l’avrebbe mai fatta, ma non glielo avrebbe detto, voleva godersi lo spettacolo ridacchiando in silenzio.
“E così…”, esordì ad un certo punto lui, sentendosi sotto l’occhio di bue, “Hai usufruito anche tu della piscina di Danny.”
“Sì.”, gli rispose, “Sono stata piuttosto bene.”
“Com’è che non sai nuotare?”, le domandò.
“Beh… Non mi piace molto come sport.”, spiegò Joanna.
“Ma tutti sanno nuotare.”, ribadì lui, con ovvietà, “Anche mia nonna.”
“Beati voi, allora.”, lo seccò lei.
“E… Come hai fatto con la…”, disse lui, concentrato con il corpo sulla sua opera, ma con la sua mente altrove, “Con la…”
“Ho fatto il bagno in maglietta perché ho la pelle sensibile.”, rispose frettolosamente lei.
Ora era lei ad essere quella scocciata, a ribollire dentro. Non era più affare di Poynter come lei avesse gestito la situazione, quella domanda era stata del tutto inopportuna e fuori luogo.
“Eh già… Sei piuttosto bianchiccia, Jonny. Sembri malata.”, la irritò lui ancora di più.
“E tu ti sei fatto le lampade!”, ribatté, con il tono di un’adolescente inviperita.
“A dire il vero sono stato due settimane in Spagna.”, rispose lui con sorriso beffardo, “E sono tornato quattro giorni fa... E’ tutto naturale.”
Ma brutto bastardo!
Stava quasi per imbestialirsi aizzata dal suo tono superiore, quando la porta della cucina si aprì e Danny spuntò dentro la stanza, interrompendoli bruscamente. Tra le dita della sua mano sinistra il suo cellulare.
“Little, qualcuno ti ha chiamato.”, le disse, “Credo sia stata Arianna, penso di aver visto il suo nome sullo schermo prima che la chiamata cadesse.”
“Ah… Grazie.”, gli disse, sorridendogli.
Un attimo prima di consegnarglielo, però, lo vide lanciare un’occhiata enigmatica a  Dougie.
Sì, fulminalo con lo sguardo, inceneriscilo prima che possa farlo io!
Joanna prese il telefonino e, velocemente, controllò chi l’aveva desiderata. Sì, era stata davvero Arianna a chiamarla. Sicuramente era rimasta in attesa di una sua telefonata, di un aggiornamento sulla situazione che stava vivendo lassù, in terra straniera e ostile. Ma conoscendola, Arianna non si era preoccupata più di tanto, non era un tipo ansioso e apprensivo, a differenza di qualche inglese di sua conoscenza...
Avviò la chiamata e si allontanò dai due, appoggiandosi alla finestra. Nessuno le avrebbe dato fastidio, a meno che in quell’anno non avessero preso lezioni di italiano, ma ne dubitò fortemente.
“Torno di là.”, sentì dire a Danny.
Si voltò verso di lui e gli annuì con la testa, sorridendo ancora mentre lui lasciava la cucina. Poi posò gli occhi su Dougie.
“Io rimango.”, sbottò lui, con tutto il suo sarcasmo.
Scosse la testa e tornò a guardare fuori dalla finestra, ignorandolo.
Pronto? Jo?”, rispose quasi immediatamente Arianna.
“Hey! Ciao Arianna!”, la salutò con finto entusiasmo, “Come stai?”
Beh… Bene, sì.”
“Anche io!”, gli fece, ridendo, “Ho mangiato quanto una mucca, sto per scoppiare!”
Oh bene…”, rispose l’altra.
“Non posso raccontarti molto.”, le spiegò, “Non sono sola nella stanza e, anche se non capisce una mazza di tutto quello che sto dicendo, non voglio comunque insospettirlo.”
Sì, tranquilla, fai come vuoi.”, rispose lei, sbrigativamente, “Ascoltami, Jo, ho bisogno di te per qualche minuto.”
“Certo, dimmi pure tutto!”, le fece, appoggiandosi al muro, il braccio destro chiuso sul petto, l’altro che sosteneva la mano ed il telefono all’orecchio.
Puoi starmi a sentire con calma?”, le domandò lei.
“Ovvio, parla pure.”
Ti puoi anche sedere?
Joanna ebbe un momento di smarrimento. Tutto il falso entusiasmo che aveva inscenato evaporò in un attimo, lasciando solo una traccia debole e inconsistente. Si aggrappò comunque a quella, non poteva farsi vedere preoccupata. Non davanti a Dougie, né davanti a nessun altro. Non poteva essere successo niente di importante, magari Arianna aveva una notizia delle sue ed aveva bisogno di lei. Individuò una sedia nelle sue vicinanze, la prese, e si sedette.
“Sono seduta.”, le disse.
Nella breve attesa in cui Arianna si schiarì la gola, lanciò uno sguardo a Dougie, che continuava a pulire con sufficienza il tavolo. Era proprio un cretino, sì, quello ne era la piena dimostrazione.
Jo… ci sei?
“Sì, ci sono, parla pure.”
La sentì sospirare.
Joanna sentì un brivido gelido scorrere lungo la spina, ma mantenne comunque il controllo.
“Cosa c’è, Arianna?”, la esortò a parlare.
Silenzio.
Troppo silenzio nelle parole di Arianna.
 

 
Gli era piaciuto battibeccare con lei, sempre meglio della quasi totale assenza di parole. Faceva finta di essere impegnato con le macchie viscide e appiccicose sul legno scuro del tavolo, ma con l’orecchio e la coda dell’occhio era da tutt’altra parte. Non capiva nessuna delle parole dette da Joanna, nemmeno una, ma a volte fare l’impiccione era proprio una bella occupazione, nonostante fosse all’ultimo posto nella lista delle cose da lui amate.
Se ne stava impegnato con una crosta di zucchero e si era addirittura piegato sul tavolo, premendo con forza per farla staccare via, o per lo meno sciogliere. Per diversi secondi non aveva sentito alcuna parola uscire dalle belle labbra di Jonny, nessuna esclamazione contenta, niente. Alzò un sopracciglio, giusto quel poco per vedere cosa stesse facendo. Era seduta, lo sguardo fisso per terra, straniato. Nessuna espressione in faccia, niente, solo i suoi occhi verdi, vuoti.
Lasciò perdere la spugna.
“Jonny?”, la chiamò, con tono basso, “Va tutto bene?”
Con una lentezza immane, lei alzò gli occhi. Ed annuì.
Era impossibile crederle: se Jonny fosse stata davvero bene, sicuramente lo avrebbe guardato stizzita per poi voltarsi ed ignorarlo ancora.
Doveva fare qualcosa. Anzi, una sola ed unica cosa: chiamare Danny. Si pulì le mani bagnate sui pantaloni e, senza troppa fretta, uscì dalla stanza, non la voleva allarmare. Andò in salotto, lo trovò vuoto: erano tutti fuori, sotto il gazebo, a finire le ultime gocce di aperitivo. Con una leggera corsa li raggiunse, Danny stava conversando animatamente, ridendo con gli altri.
Gli mise una mano sulla spalla, lui si voltò.
“Jonny ti sta cercando.”, gli disse.
“E’ tutto a posto?”, chiese lui, che ormai non sapeva dire altro quando si riferiva a lei.
“Sì, è in cucina.”, lo informò.
“Ok.”, disse lui, congedandosi con un sorriso dagli altri.
Dougie si sentì gli occhi puntati su di sé, come se volessero chiedergli che cosa avesse combinato. Avrebbe voluto rispondere che Joanna aveva sicuramente ricevuto una brutta notizia ma non lo fece, la curiosità lo spinse a tornare indietro.
“Devo finire… Di là.”, si giustificò, “Così vuole Gi.”
Arrivò davanti alla porta della cucina, si era appena chiusa. Si chiese se stesse facendo la cosa giusta, ma entrò comunque.
“Cosa è successo, Little?”, le chiedeva Danny, in quel preciso momento. Lei era ancora seduta, immobile, con il telefono tra le mani. Lui, in ginocchio, la guardava dritta negli occhi. Doveva aver capito che c’era qualcosa che non andava, era evidente.
Il rumore della porta, uno scricchiolio inopportuno, fece voltare il suo amico verso di lui, che lo guardò infastidito.
“Scusate… Pensavo foste andati da un’altra parte.”, disse Dougie.
Danny lo lasciò perdere, certamente sperava che li lasciasse in pace ma non era quella la sua volontà.
“Little…”, le disse, prendendo le sue mani, “Parlami… Cosa è successo?”
Niente, non un solo suono usciva dalla bocca di Jonny, chiuse, serrate.
Per la seconda volta, Danny tornò a fissarlo. Glielo leggeva in viso: stava pensando che fosse tutta colpa sua.
“Tu ne sai niente?”, gli domandò nervosamente.
Dougie alzò le mani, con innocenza.
“No… Stava parlando con Arianna… Poi mi sono accorto che c’era qualcosa che non andava.”
E lo ignorò ancora.
“Little… Per favore, dimmi cosa ti è successo.”
Lei lo guardava, senza fare altro. Era scioccata.
Poi, con enorme sollievo di entrambi, si morse le labbra e le aprì, in uno spiraglio. Pregò il cielo che dicesse una parola, una sola parola, una piccola frase che potesse rassicurarli entrambi, che li potesse liberare. Ma non accadde.
I suoi occhi presero a ballare ripetutamente, spostandosi da Danny, davanti a lei e visibilmente terrorizzato, e lui, Dougie, lontano ma comunque preoccupato.
Ti prego, parla...
Si fermarono poi su di lui, distante e estraneo, scavalcando Danny.
“Mio padre è morto.”, gli disse.
La sua voce era piccola, quasi impercettibile, ma suonò come l’esplosione di mille bombe atomiche, che radevano al suolo l’indifesa città, portando via con sé tutti i suoi innocenti abitanti.
Spazzando via tutto.
E si sentì annullare.
 
 

Si sentì crollare, trascinare a terra. Sentì mille vetri infrangersi, mille volontà rompersi. Non poteva essere successo mentre Little era lassù, lontana da casa e dalla sua famiglia.
“Oh mio Dio!”, esclamò, abbracciandola istintivamente, “Quando…  Quando è successo?”, le fece.
“Non lo so.”, rispose lei, sospirando quelle parole.
“Non lo sai?”, le fece.
Sentiva il suo corpo tra le braccia e gli sembrò ancora più fragile, di cristallo e pronto a frantumarsi sotto il pericolo costante che ogni tocco, ogni suono, potesse farlo implodere, dissolvere. 
“Dio, Little…”, le fece, dandole un bacio sulla testa, “Non sai quanto mi dispiaccia…”
Le sue braccia la avvolgevano completamente, cercando di trasmetterle tutto il dolore che stava provando con lei che se ne stava lì, immobile, scioccata e vulnerabile. Sentì un paio di lacrime bagnargli gli occhi, ma non doveva lasciarle cadere. No, voleva essere pronto a consolarla, a sostenerla ed a dimostrarle che era lì per lei, per confortarla nel suo momento più nero. Doveva essere forte, era quello che contava per Little, per la sua amica più cara, una tra le persone che sentiva più vicino.
La strinse più che poté, cercò di trovare le giuste parole, ma tutto gli sembrò inutile. Cosa poteva dirle? Forse il silenzio e quell’abbraccio erano molto più potenti di cento parole, di mille ‘mi dispiace’, di milioni di inopportune e gelide condoglianze.
Lei si mosse, scostandosi con delicatezza. La stava forse stringendo troppo forte, le stava facendo male? La guardò, in cerca di una risposta. I suoi occhi erano pieni di una tristezza desolante, attanagliavano lo stomaco e lasciavano senza fiato chiunque li incrociasse. Era insopportabile, quel sentimento lo stava sfiancando e, per un attimo, Danny spostò il viso altrove, non essendo capace di farsi carico di tutte le emozioni che Little gli stava involontariamente trasmettendo.
Ma quando tornò a guardarla, vide che di tutte le lacrime che pensava avesse pianto non ce n’era nemmeno una sul volto di Little. Non una sola, niente.
“Little Joanna…”, le disse.
Le accarezzò una guancia, voleva essere certo che fosse almeno un po’ umida, ma la trovò perfettamente asciutta. La abbracciò di nuovo, come se quel gesto avesse potuto tirare fuori tutto quello che nascondeva nel cuore. Voleva che piangesse sulla sua spalla, che chiedesse il suo aiuto...
Forse era ancora troppo scioccata. Sì, si disse, doveva essere proprio così.
“Little.”, le fece comunque, sussurrandolo nell’orecchio, “Io sono qui per te… Sfogati se vuoi.”
“Sto bene così.”, disse lei, “Dan, devo prendere il primo volo.”
La lucidità che percepì nelle sue parole lo spiazzò totalmente. La voce di Little era chiara e cristallina, forse solo un po’ più infantile del suo solito, ma comunque ferma, decisa.  Lei lo stava spaventando fino alle ossa, fin dentro al cuore.
Si impose di calmarsi, di non farsi prendere dal panico. Doveva rimanere concentrato su di lei, sulla Little che aveva davanti. Doveva essere pronto, perché prima o poi lei avrebbe veramente realizzato il dolore di quella perdita così grande, così profonda. E lui sarebbe stato lì, a braccia aperte, pronto a raccogliere tutte le sue lacrime.
Non voleva che accadesse davanti a tutti gli altri.
“Andiamo a casa.”, le disse, alzandosi.
Si voltò, e si accorse che Dougie era sempre lì. Se ne stava appoggiato alla cucina,  braccia conserte e sguardo rammaricato. Aveva sempre saputo che lui fosse lì, ma se n’era completamente dimenticato.
Imbarazzato, Poynter li precedette nell’uscire dalla cucina, tenendo aperta la porta e camminando poi dietro di loro, ad una certa distanza.
“Vuoi dirlo agli altri?”, le domandò, a bassa voce.
Little non voleva mai essere al centro dell’attenzione, neanche in momenti come quello.
“Non lo so...”, rispose lei, “Fallo tu... Magari dopo che sono partita...”
Aveva previsto bene, ormai la conosceva, sapeva quali fossero i suoi punti deboli.
“Certo, Little.”, le disse, “Tutto quello che vuoi.”
Prima di essere troppo vicino agli altri, Danny la guardò di nuovo.
Niente, ancora nessuna lacrima, nemmeno una. Solo una grandissima angoscia, dipinta sul suo volto come un disegno indelebile, impossibile da lavare via...
“Ehm... Tamara.”, chiamò la sua ragazza, intenta in uno scambio di parole fitte con Gi, “Ti dispiace se facciamo un salto a casa? Joanna deve prendere una cosa.”
“Devo venire anche io?”, domandò lei, perplessa.
“Beh... Sì.”, le fece.
Non poteva spiegarle tutto, non davanti a loro. Soprattutto, non sapeva come avrebbe preso la sua decisione, adottata in quello stesso istante, di accompagnare Little in Italia. Non se la sentiva proprio di lasciarla andare da sola, non sapeva quando sarebbe esaurito questo suo stato di shock... E non voleva che succedesse senza che fosse accanto a lei. L’avrebbe semplicemente portata dalla sua famiglia e sarebbe tornato a casa: non si tratteneva oltre, non poteva farlo, anche se sentiva la volontà di rimanere con lei finché tutto non fosse finito.
“Se deve prendere solo una cosa, potete anche andare da soli.”, ribatté Tamara, evidentemente annoiata di interrompere la sua vivace conversazione.
“Faremo presto.”, insistette, “Solo cinque minuti.”
“Perché?”, continuò ancora lei, “Perché avete bisogno anche di me?”
Danny si toccò stancamente gli occhi, cercando la forza per resistere alla cocciutaggine di Tamara. Perché semplicemente non lo accontentava? Non stava forse capendo, come invece sicuramente avevano già realizzato gli altri, che c’era qualcosa che non andava? Notava le occhiate strane di Tom e di Harry spostarsi da lui a Joanna, per poi cadere su Dougie, ancora alle loro spalle, distaccato.
“Andiamo, Tamara, per cortesia.”, le fece, sospirando.
“Spiegami cosa è successo!”, si incaponì lei.
Cercò la forza per non irritarsi ancora di più.
“Devo tornare a casa.”, rivelò Joanna, accanto a lui, “Oggi.”
“E perché?”, chiese subito Tom.
“Niente di che.”, la sostenne Danny, “Solo un piccolo problema. Vero, Little?”
“Speriamo non sia niente di grave.”, disse Harry.
Gli occhi puntavano fissi quelli di Little, in cerca di una risposta più esauriente. Danny volle proteggerla, sapeva che quello sguardo le stava facendo male, e  Harry doveva smettere di essere così fastidioso.
“Beh...”, balbettò Little, “Devo... Proprio tornare a casa.”
“Ma come mai?”, tornò alla carica Tamara, “Cosa è successo?”
Per un momento Danny ebbe voglia di prenderla per un braccio e portarla via, farle capire che era...
“Mio padre è morto.”




Volevate Dougie? Eccovelo servito.
Volevate il perno intorno al quale gira tutta la storia? Eccovi pure quello.
Quando ho iniziato a scrivere questa storia, non avevo la più pallida idea di cosa far capitare ai miei personaggi. Non so per quale motivo mi è balzata in mente questa idea, spero che non tocchi la sensibilità di nessuno. In altro modo, spero di poter rendere in futuro i sentimenti di Joanna realistici rispetto alla situazione che sta vivendo. Avrà una reazione del tutto particolare, a cui il titolo di questo capitolo fa un certo riferimento.
La ragazza che scompare.
Spero che capirete perchè, anche se non ve lo chiedo adesso, ma nei prossimi capitoli. Non sarà una cosa che risalterà subito agli occhi, ma con un buono spirito di osservazione ed una buona capacità di lettura si potrà capire... Almeno spero, o vorrà dire che ho fallato in qualcosa XD
Comunque, il titolo del capitolo è una canzone di Tori Amos, artista che mi ha dato una mano più che fondamentale nella stesura di questa storia. Difatti, i suoi lavori saranno citati più volte. Vi consiglio vivamente di ascoltarla un po', ne vale la pena. Ad ogni modo, non ho sfruttato "A Girl Disappearing" per alcun scopo di lucro.

Passiamo ai ringraziamenti!

K94: eccoti servito Dougie XD contenta? Spero di sì!

GodFather: ma eccoti! Una per una state tornando tutte! Sono sinceramente commossa, quando ho pubblicato il primo capitolo mi chiedevo se avrei avuto il solito seguito di lettrici... Non so come ringraziarti! Per quanto riguarda la musica blues... Norah Jones penso di non sopportarla più, dal tanto che l'ascolto! Cat Power non la conosco... Ma penso di rifarmi molto presto. Grazie mille per il consiglio! Dougie era impegnato con te? Maremma santa, ecco dov'era finito! Ridammelo eh!!!!

Picchia: baciamo le mani... Sadismo? Masochismo? Chiamalo come vuoi, ma si tratta di Joanna... Credo che sul dizionario dei sinonimi, come Homer Simpson per stupido, ci sia lei sotto quelle  parole.  Purtroppo è fatta così, non la capisco nemmeno io a volte. Ma è nata in questo modo, ci posso fare poco, tranne che portarla sulla via della normalità. Credo di esserci riuscita, chi lo sa?

kit2007: diciamo che hai colto un po' l'essenza dello spirito di Danny, come di Tamara e di Joanna. Non è  facile sbrogliare queste  persone, soprattutto Danny e il suo rapporto con Joanna.  Ci sarà tutta una storia per capirne qualcosa e spero che non ti deluderò affatto.  Sono contenta che, in fondo, tu possa capire Tamara. Semplicemente perchè hai elencato il buon motivo per cui tutte dovrebbero farlo: è innamorata. E non è l'unica! XD Purtroppo...

CowgirlSara:  XD Si parla sempre di chi non c'è! Magari appena appare Dougie farà una figuretta così misera ai tuoi occhi che non lo filerai di striscio! Chi lo sa? Ma grazie comunque per tutto quello che hai scritto nella tua recensione, mi ha fatto molto piacere leggerla!  I capitoli saranno tutti più o meno lunghi, sai perchè, e spero di soddisfare ogni tua... Ehm... Particolare esigenza XD via, detta così l'è proprio pornografica! XDD Comunque apprezzo molto il fatto che sia riuscita a capire gran parte di come funzionano i cervelli di quei due cretini! Spero di non deludere nemmeno te, farò del mio meglio, prometto!

Saracanfly:  ma povera Tamara, basta! La trattate tutti male!!!! XDDDDD

Ciribiricoccola:  Spero che in questo capitolo l'operaio sia diventato, che ne so, un quadro dirigente XDDD anche se poi nei prossimi credo che lo degraderai di nuovo... Ho questa stupenda sensazione! Via, da te mi aspetto di capire il perchè del titolo di questo capitolo , non adesso ma nei prossimi capitoli... Che poi è una cacchiata, basta leggere per bene.  Danny che si accorge che Joanna è un po' strana???? XDDDD Ma anche no, purtroppo per lei!  Danny non capisce proprio niente di lei, e se ne accorgerà... In ritardo! Ci sbatterà la testa come contro ad un muro di cemento armato, e si farà mooooolto male. Via, ti ho già detto troppo!

_Princess_ : purtroppo quel termine lo odio dal profondo del cuore, perchè ormai non lo vedo più come un'ironia, ma come una critica spesso ingiustificata.  Ma vabbè, sono cose mie personali :)  Danny... Povero imbecille, meno male che ci sarà qualcuno che cercherà di aprirgli gli occhi! E mi dispiace, ma Drummer McHot verrà tagliato un po' fuori dalla scena... E' così... Fattene una ragione! XDDDD

x_blossom_x: ultima, ma non per importanza, ovviamente :) per i particolari dimenticati, credimi, non ti metto in croce :P E Danny bagnato credo che sia il top del capitolo! Insomma, fossi stata in Little...  Le difficoltà che lei trova nel parlargli, lo sai, sono piuttosto banali, ma quello non le capisce nemmeno quando gliele mettono davanti al naso.  Purtroppo è fatto così, è volontariamente cieco di fronte a lei... E perchè? Cos'è che lo rende cieco? Di certo non Tamara, povera ragazza... Little non ha mai fatto niente di male, ma Tamara ha una paura matta che Danny capisca... Soprattutto che capisca se stesso... Basta XD tu sai, ma le altre no!


   
 
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