Questa storia è stata
scritta per il contest natalizio del gruppo facebook Sherlockians, dal prompt di herion “Cenere”.
Per una volta mi sono
staccata dalla Johnlock e ho voluto scrivere su quegli
idioti dei fratelli Holmes, cercando di descrivere il loro rapporto.
Ringrazio Polla89 che mi ha dato lo spunto per cominciare a scrivere
qualcosa di decente con le sue chiacchierate in chat e lalla_4 per la sua solita pazienza e il suo splendido betaggio <3
E con questo vi auguro
un buon Natale e un felice (spero più di questo, maledetto 2014) anno nuovo!
<3
Buona lettura ;)
Ceneri di Fenice
«Oh, ma guardali, che bei
ragazzi.»
«Mycroft, guarda qui!»
«Sherlock è fortunato ad
avere un fratello così, crescerà benissimo.»
«Ti prenderai cura di lui, vero? Il piccolino ha proprio
bisogno di un bravo fratellone su cui fare affidamento.»
Tutti
i discorsi degli invitati al battesimo erano solo un ronzio confuso nelle sue
orecchie, ronzio al quale ogni tanto Mycroft si
degnava di rispondere con un cenno del capo o con qualche mormorio indistinto,
lasciando la parola a sua madre, orgogliosamente in piedi al suo fianco, una
mano sulla sua spalla.
Tutta
la sua attenzione, come quella di tutto il resto degli invitati, dopotutto, era
rivolta al piccolo fagotto tra le sue braccia, ai tre chili di cucciolo umano
che dormiva serenamente sotto il suo sguardo attento.
Eccolo
lì, quel fratellino che aveva desiderato per anni, un fratellino dormiglione
che approfittava delle cure attente del fratello maggiore. Aveva solo qualche
settimana e già pensava ad appropriarsi delle sue attenzioni.
Ma a Mycroft non dispiaceva, anzi. Sorrise dolcemente quando il
piccolo mosse una manina e la chiuse attorno al suo dito, stringendo con una
forza che il ragazzo non si sarebbe mai aspettato. Sarebbe cresciuto forte e
sano, lo avrebbe fatto giocare e divertire per farlo
crescere bene, lo aveva promesso alla mamma. Ma soprattutto, aveva promesso che
se ne sarebbe preso cura, sempre, qualsiasi cosa
sarebbe accaduta.
Avevano
sette anni di differenza, Mycroft era abbastanza grande per questo.
Preoccuparsi non è un
vantaggio…
~*~
«My! My!»
«Mycroft. Si dice Mycroft.»
«My!»
Il
ragazzo sbuffò, poi prese il cucchiaino e imboccò il piccolo Sherlock,
guardando i suoi occhi cristallini fissarlo con una luce furba.
Chissà
perché gli sembrava quasi che il bambino lo stesse
facendo apposta. Raccolse un po’ di pappa dalla ciotola e portò il cucchiaino
vicino alle piccole labbra ancora una volta ma Sherlock fece un sorrisino
allegro e serrò la bocca, scuotendo la testa.
Mycroft
non riuscì a trattenere una risata. «Ora fai anche il dispettoso, eh…»
Guardò
di sottecchi il cucchiaino che teneva tra le mani, poi sorrise
beffardo e con un gesto molto lento lo portò alla propria bocca, in modo
che Sherlock lo vedesse chiaro, poi ingoiò quella sottospecie di frullato di
mele, arricciando il naso al sapore un poco acido nella gola.
Sherlock
lo guardò ad occhi spalancati, come impressionato. Poi
le labbra si curvarono in una smorfia triste, la boccuccia si
inclinò verso destra e gli occhi diventarono nel giro di qualche secondo
lucidi.
Mycroft
saltò in piedi un attimo prima che lo strillo acuto del piccolo si levasse per
la stanza. Si avvicinò e lo liberò dal seggiolone, portandoselo in braccio con
mosse abili e sicure di chi ha fatto la stessa cosa per tutta la vita.
La
voce della madre arrivò dalla stanza affianco. «Mycroft non farlo piangere,
l’ho sentito già abbastanza stanotte!»
Il
ragazzo sbuffò e si mosse sul posto per farlo calmare, girando su se stesso nel
tentativo di farlo divertire, ma Sherlock continuò a piangere imperterrito,
come se la pappa che Mycroft aveva ingoiato per scherzo valesse la sua vita.
Geloso delle sue cose, si annotò mentalmente.
Andò
a finire che Sherlock si calmò solo quando gli fu offerta una nuova porzione
del suo pranzo, con un particolare gioco di mani di Mycroft che tentava di distrarlo con cucchiaini improvvisati aeroplani e rumori
indistinti della gola.
La
signora Holmes riuscì ad intrappolare quel momento in
una foto proprio mentre il più grande non guardava.
Preoccuparsi non è un
vantaggio…
~*~
Sherlock,
curioso com’era, cominciò a camminare molto presto. Non aveva neanche un anno
che già si aggrappava alle sedie del salotto e cercava di fare forza sui
muscoli delle gambe per tirarsi su, il più delle volte cadendo a terra e
sbattendo il sederino, cosa che sembrava irritarlo a tal punto da farlo
piangere per ore.
Mycroft,
guardando ammirato gli sforzi del fratellino, decise di dargli una mano benché
sua madre lo avesse pregato perché Sherlock imparasse a farlo da solo.
Un
pomeriggio, all’ennesimo sforzo vano, il maggiore gli si avvicinò e lo prese
per le manine, gesto che spense del tutto le lacrime del bimbo. Lo sostenne per
il fragile torace e lo aiutò ad alzarsi per poi tenerlo su con le mani.
Gli sorrise, intenerito, e il bambino levò le braccia in aria,
agitandole, un sorriso contento che gli illuminava il volto.
«Vedi? Non è difficile…» gli disse
Mycroft, spostando la sua mano perché Sherlock imparasse a stare in piedi da
solo. «Ecco qui!»
Il
piccolo lo guardava ammirato, forse un po’ impaurito dalla mancanza di sostegno.
Barcollò lievemente, si impaurì e presto le mani del
fratello tornarono a sorreggerlo.
Non
demorsero. Passarono il resto della settimana a fare prove su prove e il bambino cominciò a rendersi conto di come doveva
stare in equilibrio.
Una
settimana dopo, con grande gioia di tutti, Sherlock diede la sua dimostrazione
facendo una camminata veloce dal divano alla poltrona dall’altra parte della
stanza dove si trovava Mycroft, atterrando tra le sue braccia ridendo come un
matto.
Gli
abbracciò una gamba, tra gli applausi generali, e il maggiore sentì una vampata
di calore avvolgerlo completamente.
Preoccuparsi non è un
vantaggio…
~*~
La
prima volta che Sherlock vide un violino furono guai.
A
solo un anno riusciva già a reggersi in piedi su due gambe e a salire
ripetutamente le scale che portavano al secondo piano della loro casa di
campagna, e Mycroft, nonostante la moltitudine di compiti che gli avevano
assegnato per le vacanze, doveva rincorrerlo per tutta la casa controllando che
non si facesse del male.
Dopo
una settimana di corse e di pianti, dopo un ginocchio sbattuto contro lo
stipite della porta del salotto e un piedino incastrato tra le scale, la
soluzione arrivò con l’arrivo degli zii.
Mycroft
non apprezzava molto quando venivano a trovarli i parenti, era sempre la stessa
storia fatta di abbracci, baci e “Oh,
come sei cresciuto!”, “Ma guarda che bel bambino sta diventando Sherlock!”, “Ti da tanti grattacapi?” e tanti altri discorsi inutili,
come se il suo fratellino fosse un bambolotto da stringere in abbracci
soffocanti e coccolare all’inverosimile. Sherlock pareva dello stesso parere
perché quella volta si nascose dietro di lui quando questi entrarono in casa e
si rifiutò di salutarli fino a quando non fu la madre ad attirarlo con la
storia dei regali.
I
regali.
Sherlock
li adorava. Aveva solo un anno e aveva già la stanza piena di cianfrusaglie di
ogni genere, tutte cose che usava per due giorni e
dimenticava quello successivo. Un vero e proprio incubo.
Quel
giorno gli venne regalato un libricino con le varie
lettere dell’alfabeto che Sherlock sfogliò ammirato per i primi cinque minuti
in cui lo ricevette, soffermandosi in particolare sulla seconda lettera che
riportava il disegno di una piccola ape.
Cinque
minuti dopo arrivò il regalo per Mycroft e Sherlock perse tutto il suo
interesse. Fu con un sorriso di circostanza che il più grande
prese in mano un violino.
Un
violino. Ora avrebbe dovuto imparare a suonarlo? Dannazione.
Mentre
ringraziava non notò Sherlock finché lo strumento non
cadde sul tappeto con un tonfo sordo, subito seguito dalla risata divertita del
bambino che glielo indicava come se avesse appena scoperto la gravità.
Tra
i rimproveri dei genitori e dei parenti – che lasciarono Sherlock pentito e
abbattuto in un angolino della stanza – Mycroft non poté fare a meno di trattenere
un sorriso e si ripromise di farglielo usare, qualche volta.
Mycroft
non imparò mai a suonare alcuno strumento ma, in compenso, Sherlock si
appassionò presto alla musica.
Preoccuparsi non è un
vantaggio…
~*~
Mycroft
tentò di insegnargli ad andare in giro col triciclo, davvero, ma non ebbe buoni
risultati.
A tre
anni Sherlock, nonostante balbettasse ancora per chiedere le cose più semplici,
vide loro padre tornare a casa in bici dal lavoro e
soddisfò presto la sua curiosità chiedendo all’ormai sempre disponibile
Mycroft. «Ce… ce cios’è?»
«Che
– cos’è.» scandì bene il maggiore, muovendo le labbra perché l’altro ne vedesse
per bene il movimento. «È una bicicletta.»
«Anch’io! Anch’io!»
«Cosa dice tuo fratello?» intervenne la madre, guardando il
primogenito che aveva strabuzzato gli occhi a quella richiesta.
Mycroft
sospirò, stropicciandosi gli occhi con una mano. «Mi sa che vi tocca comprargli
un triciclo…»
Una
settimana più tardi Mycroft si ritrovò a inseguirlo per il cortile mentre
Sherlock sfrecciava a bordo del suo nuovo mezzo, ululando e sghignazzando
contento mentre passava sotto le sue gambe, pedalando con foga, un po’ meno
felice quando prese in pieno un sasso e si ribaltò, graffiandosi il braccio
destro.
Non
salì più a bordo del malefico aggeggio, almeno non fino a quando gli zii gli
regalarono la sua prima bicicletta, un paio di anni più tardi, e allora sì che
per Mycroft furono guai…
Preoccuparsi non è un
vantaggio…
~*~
La
fissazione sui pirati arrivò all’incirca verso i cinque anni. Una volta
imparato a correre si può dire che Sherlock non si fermò più e la cosa peggiorò
quando alla fiera del paese un uomo vestito da pirata fece sfoggio delle sue
abilità di spadaccino davanti ad una folla di spettatori, riuscendo a disarmare
il colonnello e a darsele a gambe col bottino ululando mentre si allontanava tra
gli applausi generali.
Per
colpa di un artista di strada, così, Mycroft si ritrovò assalito da un piccolo Sherlock pirata che il giorno subito dopo la
rappresentazione si fece accompagnare in biblioteca a cercare un libro
sull’argomento. Non passò molto che arrivarono un
cappello con un teschio ricamato per Natale, una spada giocattolo per il
compleanno e una bandiera nell’uovo di Pasqua.
In
breve Sherlock diventò un pirata provetto, allenandosi nel saltargli alle
spalle quando meno se lo aspettava e a rubargli pezzi di torta con il coltello
ululando all’arrembaggio! ogni volta.
E
passarono anni prima che la fissa per i sette mari gli passasse, anni che
Mycroft dovette sopportare in silenzio, con solo qualche raro sorriso ogni
tanto. Quando accadde il peggio, era troppo tardi per tornare indietro.
~*~
Barbarossa
arrivò l’estate del suo sesto compleanno. Era solo un cucciolo, un adorabile cucciolo di setter irlandese che Sherlock accettò subito
nella sua vita.
Lo
aveva desiderato per mesi, pregando i genitori e facendo capricci a tutto
spiano pur di averlo, e dopo lo sguardo che gli riservò quando lo vide per la
prima volta, i genitori si pentirono di non averlo accontentato subito.
Fu
Mycroft a consegnarglielo e il bambino, finito di ammirare il cucciolo per
qualche secondo, si gettò tra le sue braccia. «Grazie!
Grazie My! Grazieeee!» lo ringraziò, strappando un sorriso al maggiore che si
sentì stringere il cuore alla vista del fratellino che cominciava a
giocherellare con il nuovo arrivato, dimenandosi sul tappeto.
Una
punta di amarezza rovinò per un attimo la scena, ma
Mycroft fu veloce a nasconderla dietro un sorriso.
Anche
se quella fitta di gelosia non se ne andò mai più.
~*~
Successe
tutto troppo in fretta e, quando Mycroft si trovò faccia a
faccia con il treno, sembravano passati solo pochi giorni dalla fine di
quella che era stata un’infanzia serena.
La
verità dietro a Barbarossa stava tutta nell’ammissione del maggiore degli
Holmes alla rinomata scuola superiore di Eton, troppo
lontana perché potesse permettersi di rimanere a casa con i suoi genitori.
Nessuno
sembrò preoccuparsi di Sherlock, apparentemente, nessuno pensò al piccolo
bambino che si era infilato una notte nel letto del
fratellone e lo aveva abbracciato stretto, chiedendogli di non partire. Tutti
presi dai festeggiamenti per l’ammissione, dai “Questo ragazzo farà carriera!”, “Violet, hai
un figlio così intelligente…” e gli abbracci soffocanti che i fratelli
Holmes tanto odiavano, nessuno si accorse del bambino in disparte che giocava
con il suo cagnolino, solleticandogli il pancino senza la sua solita energia
positiva.
Mycroft
gli aveva promesso che sarebbe tornato, tutti i finesettimana, ma da quel
momento nei suoi occhi era rimasto un velo di malinconia che si era accentuato con
il passare degli anni.
Non
passò molto perché si abituasse alla nuova scuola, non passò molto che la
voglia di tornare a casa diminuì, nonostante la consapevolezza che Sherlock era
solo.
Le
prime volte si raccontò ogni scusa possibile per trattenersi, si disse che
infondo ora c’era Barbarossa, che suo fratello non aveva più bisogno di lui
come una volta. Era cresciuto anche lui, un giorno avrebbe voluto anche lui i
suoi spazi e Mycroft li voleva adesso, lontano per un
po’ da casa. Che male c’era?
Passarono
i mesi, i finesettimana a casa diminuirono esponenzialmente, fino a quando
Mycroft, un paio di anni dopo, non rimase lontano da
casa per quasi tre mesi consecutivi.
Quando
tornò a casa Sherlock non lo venne a salutare e si rifiutò di aprirgli la porta
quando bussò. Non gli parlò per due giorni e il più grande, tornato a scuola,
si sedette sul letto con un peso sul cuore, il senso di colpa che lo
attanagliava.
Preoccuparsi non è un
vantaggio… diceva
suo nonno.
~*~
La
notizia arrivò una mattina per posta e Mycroft tornò a casa il più veloce
possibile.
Sherlock
non fece altro che piangere per due giorni consecutivi e il maggiore poté fare
ben poco per colmare la perdita di Barbarossa. Semplicemente, lo strinse a sé
quando lui glielo permise e gli preparò un paio di tè quando gli si presentò
l’occasione.
Da
quel giorno il bambino di casa Holmes divenne sempre più taciturno.
~*~
Preoccuparsi non è un
vantaggio, preoccuparsi non è un vantaggio,
preoccuparsi non è un vantaggio.
Eppure
che cos’era quell’ansia? Che cos’era quella voglia di mandare all’aria la sua
solita compostezza e buttarsi in mezzo alla coda di macchine? Che cos’era
quell’urgenza dettata dalla paura di perderlo?
Quando
arrivò a destinazione, un quarto d’ora dopo, quasi sfrecciò tra i corridoi
dell’ospedale, il suo fidato ombrello al braccio. Riuscì a tranquillizzarsi
almeno un po’ soltanto quando lo vide, pallido ed emaciato sul letto, il corpo
scosso da lievi brividi.
Mycroft
si lasciò cadere sulla sedia di fianco al letto, trattenendo a stento le
lacrime che minacciavano di pungergli gli occhi. «Che cosa hai fatto…»
«Signor
Holmes?»
Una
voce lievemente affannata lo distrasse dai suoi sensi di colpa, concentrando la
sua attenzione su un trentenne dai capelli arruffati e il volto arrossato da
qualcosa di vagamente simile alla furia. «Con chi ho
il piacere di parlare?»
«Ispettore
Gregory Lestrade.» parlò con un tono che aveva tutto fuorché la voglia di
parlare. «E suo fratello ha avuto la bella idea di
avventarsi su uno dei miei agenti blaterando qualcosa in questo suo stato di…
di non so cosa. Sembrava quasi che lo volesse uccidere.»
Si lasciò cadere sulla sedia dal lato opposto del letto arruffandosi i capelli
con una mano, gesto che Mycroft guardò sprezzante. «Non
so quali problemi abbia e non lo voglio sapere, ma sappia che lo stato in cui
lo abbiamo trovato non è lo stato di una persona ragionevole. Si faccia i suoi
calcoli.»
«Domani
sarà come se non fosse successo nulla.» Parlò con voce
pacata, apparentemente per niente turbata. «Vada a
casa da sua moglie e si dimentichi tutto quanto.» Fece
un sorriso di circostanza, appoggiando il proprio peso sul manico dell’ombrello,
e non rivolse più una parola all’ispettore, il quale dopo qualche minuto di incertezza ubbidì al comando.
~*~
La
seconda volta che accadde Mycroft riuscì a beccarlo in tempo e a portarlo in
uno dei suoi appartamenti privati.
Quando
Sherlock si risvegliò non riuscì a scappare
all’ennesimo discorso del fratello, dovendosi sorbire le solite lamentele sul
suo comportamento e le sanzioni che ne sarebbero conseguite, come se fosse
ancora un bambino.
Ignorò
le sue domande e si rintanò sotto le coperte, escludendo il suono della sua
voce dalla mente. Dopo qualche minuto, non sentendo più nulla, emerse da sotto
il piumone e trovò Mycroft che lo guardava con aria triste. «Vieni.»
Lo
portò fuori in terrazza, la distesa dei tetti di Londra che si dipanava sotto i
loro occhi. Prese un pacchetto di sigarette dalla tasca interna della giacca e
ne tirò fuori un paio, porgendone una al fratello.
«Ora
vuoi incitarmi a fumare?»
«Meglio
di quella roba che ti inietti nelle vene.»
Accese
il lato opposto al filtro e fece lo stesso con quella del fratello per poi
portarsela alle labbra.
«Perché
ti ostini a farti del male?» lo chiese come avrebbe potuto chiedere
del tempo. Sherlock ignorò la domanda, prendendo la sua prima boccata di fumo
che rifiutò subito con un colpo di tosse.
Mycroft
ghignò. «Se mamma e papà lo venissero a sapere
darebbero di testa.»
«Allora
non dirglielo.»
«Lo
sai che era inevitabile.»
Sherlock
aggrottò la fronte, destabilizzato dal cambio di
discorso. Quando capì di cosa stavano parlando – la sua mente faceva fatica a
lavorare in quel momento – fece una smorfia e provò con una seconda boccata
della sigaretta.
«Quindi?»
«Mi
dispiace.»
«Questo
non cambia niente.»
«Non
voglio che tu ti faccia del male.»
Sherlock
sorrise amaramente. «Preoccuparsi non è
un vantaggio…»
Mycroft
fece per ribattere ma poi sospirò. Spense la sigaretta in un posacenere vicino
e si avviò verso la porta a vetri. «Rientra quando hai finito, ci manca solo
che tu ti prenda una polmonite.»
~*~
Cenere. Residui della combustione di legno. Sherlock sarebbe arrivato fino alla composizione chimica precisa al milligrammo.
Il fuoco danzava davanti ai suoi occhi, lanciava fiamme contro la ringhiera di metallo, bruciava, depositava i suoi resti nel camino.
Mycroft girò un bicchiere di vino tra le dita, lasciò che il liquido ne bagnasse i bordi.
Dentro, il vuoto.
Capitava raramente che il maggiore degli Holmes – il Governo Inglese, come lo soprannominava sempre il suo amato fratellino – non avesse pensieri per la testa, e quella sera di Natale era una di quelle poche volte.
Le sue telecamere avevano visto gli invitati al 221B di Baker Street suonare al campanello ed entrare in quella piccola ma accogliente dimora, e quando alla festa si era unito anche l’ispettore Lestrade, Mycroft aveva deciso che per quella sera ne aveva avuto abbastanza. Il cognac tra le sue mani ne era una prova.
Avrebbe voluto analizzare i suoi sentimenti ma sapeva che non si sarebbe risolto niente, che sarebbe servito soltanto ad aggiungere altra rabbia a quella precedente e altri inutili discorsi mentali su problemi irrisolvibili. Che cos’era, geloso, offeso? Piegato dal dolore che sopportava ogni giorno in silenzio soffocandolo sotto strati di indecifrabilità, dall’indifferenza che rifilava sempre a tutti quelli che gli chiedevano come andava?
Era lui quello che lo aveva tenuto in braccio, che lo aveva protetto dall’attacco dei parenti, che lo aveva visto crescere, lo aveva nutrito, gli aveva insegnato a camminare, correre, andare in bici e giocare. Era lui ad averlo trasformato nell’uomo che, ora, era Sherlock Holmes. Non quel banale John Watson, che gli saltellava intorno cospargendolo del suo amore, non quella vecchia signora Hudson che si preoccupava di fargli da madre, non quella patologa che si diceva sua amica e non Lestrade, l’uomo che lo aveva trovato strafatto di cocaina in uno dei tanti vicoli deserti della città. Eppure sembrava che per Sherlock esistessero soltanto loro, i suoi amici. Lui era il fratello maggiore, il suo arcinemico, l’uomo che lo seguiva come un’ombra e lo rimproverava solo quando gli faceva comodo, che lo interpellava solo quando ne andava di mezzo l’Inghilterra.
John, la signora Hudson, la signorina Hooper, Lestrade… lo odiavano tutti al pari di suo fratello, lo consideravano una figura anormale e onnipresente da tenere lontano per il bene del minore degli Holmes.
Ma infondo era colpa sua, no? Lo aveva lasciato, abbandonato a se stesso, si era raccontato una bugia dietro l’altra nel tentativo di fare la cosa giusta. La verità era che il nonno aveva sempre avuto ragione, benché tutti lo considerassero un vecchio matto. Preoccuparsi non è un vantaggio.
Ora tutto quello che era rimasto del loro rapporto era un mucchietto di cenere sul fondo di un camino, legna fresca che si era consumata, bruciando pezzo dopo pezzo. E poi non era rimasta che polvere, residui di carbonio, cenere.
Cenere.
«Non
dirmi che mi hai chiamato per farmi gli auguri di Natale.»
Nessuna speranza.
«Preoccuparsi non è un vantaggio…».
Ancora buio.
~*~
«E
poi… perderti mi spezzerebbe il cuore.»
Occhi
cristallini che lo scrutano, quasi impassibili. «Con cosa dovrei rispondere a
questo?»
Grazie, Sherlock, soltanto…
grazie.
«Ehi, voi due! Non starete mica fumando?»
«È
stato Mycroft.»
«È
stato Sherlock.»
Ancora amarezza. Come ai vecchi tempi.
~*~
Una
cretinata, ecco cosa aveva fatto. Si era lasciato imbrogliare, si era lasciato andare a quella tiepida speranza di una pace e
Sherlock se ne era approfittato, come sempre.
Magnussen. Magnussen.
Di tutti gli uomini nel mondo proprio in lui si era dovuto imbattere. Sì, era
una persona disgustosa ma molto abile. Lo aveva battuto, non era forse così?
Aveva messo Sherlock al tappeto. E lui aveva voluto fare di testa sua, come
sempre. Aveva superato quella sottile barriera che lo aveva fermato
dall’attentare alla vita di qualcuno, tutte le volte che gli si era presentata l’occasione.
Non era mai girato armato, mai, non aveva mai sparato a sangue freddo a
qualcuno. Questo ora lo rendeva un assassino? Un
assassino in casa Holmes, mamma ne sarebbe morta d’infarto.
Ma Mycroft, l’arcinemico, non avrebbe lasciato da solo il suo
fratellino. Lo aveva promesso quasi quarant’anni prima e un Holmes manteneva
sempre le sue promesse. O almeno, lui sì.
«Qualche
richiesta rilevante?» Sempre al suo servizio, sempre.
Sherlock
aspirò una boccata di fumo dalla sigaretta, rilasciandolo piano in volute,
osservandole spandersi nell’aria.
«Tieni
al sicuro John.»
Mycroft
portò gli occhi al cielo, ignorando quel dannato peso nel petto. John Watson, ancora.
«Ovviamente.»
commentò, inspirando una boccata d’aria fredda senza il sapore acre della
nicotina.
«Altri
ultimi desideri?»
Nel
momento stesso in cui Sherlock scosse la testa, con suo grande disappunto,
dovette mantenere la sua facciata di freddo distacco e, girandosi, si avviò
verso la porta a vetri, tentando di tutto per scacciare dalla testa i soliti
pensieri orribili.
Non
fece in tempo a spingere il vetro per passare, però, che la voce di Sherlock lo
richiamò all’attenzione.
Mycroft
si bloccò, fissando il riflesso di suo fratello, gli occhi cristallini che lo
guardavano di rimando, impassibili. Non si girò, la
rabbia e la frustrazione che dirompevano in lui.
«Grazie.»
Una manina stretta intorno al suo dito.
«My! My!»
«Mycroft. Si dice Mycroft.»
Una risata dolce, un sorriso orgoglioso.
«Vedi? Non è difficile…»
«Ecco qui!»
«Ce… ce cios’è?»
Un cane, l’abbandono, un abbraccio.
Il
battito cardiaco accelerò, gli occhi si spalancarono lievemente, le pupille
dilatate, un sottile strato di sudore freddo gli imperlò la fronte mentre,
deglutendo, socchiudeva le labbra. Colpito. Dritto al
cuore.
Sospirò,
mantenendo la sua solita compostezza come se niente fosse accaduto.
«E
di cosa?» rispose, voltandosi verso di lui.
Si
tolse di bocca la sigaretta e le diede uno sguardo veloce prima di buttarla a
terra e calpestarla con la punta della scarpa. «Sai… fanno male alla salute.»
Sherlock
si accigliò, gettando un’occhiata indifferente al filtro che teneva in bilico
tra le dita.
«Mi
pare che me l’abbia insegnato tu, a fumare.»
Mycroft
fece un sorriso sghembo. «Già…»
Come tutto il resto.
Perché
poteva anche considerarlo il suo peggior nemico, poteva anche arrabbiarsi per
l’eccessiva sorveglianza che gli metteva al seguito e tenergli il broncio per
mesi. Poteva non parlargli, urlargli in faccia che lo odiava, ma la verità era
che niente, tra loro, sarebbe mai veramente cambiato. Mycroft non lo avrebbe
mai lasciato andare, neanche se questo gli avrebbe procurato
una tristezza infinita al cuore.
Forse
niente era perduto, forse tutto quello che li accumunava e li rendeva allo
stesso tempo differenti era qualcosa di cui entrambi avevano bisogno e il punto
per ripartire, risollevare il loro rapporto.
Dopotutto,
pensò Mycroft, dalle ceneri può rinascere una fenice.