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Autore: ejamary    25/12/2014    1 recensioni
Elemmire, a diciassette anni, è un'adolescente schiva e riservata. Da quando suo padre l'ha abbandonata e sua madre è morta vive con una vecchia prozia in una casa di città, dedicandosi allo studio e ai pomeriggi di letture assieme ad un circolo di compagne di classe guidato dalla migliore amica Andra, di temperamento assai diverso. Quando in un tempestoso pomeriggio di autunno esce di casa non può certo immaginare di star lasciandosi alle spalle tutto il mondo che ha conosciuto. Un Portale tra la Terra e la Terra di Mezzo si apre: ingoiata da un mondo a lei alieno, Elemmire impara a sue spese che se vuole sopravvivere deve lasciare da parte la sua diffidenza e la sua freddezza per mettersi in collaborazione con i nani di Erebor alla conquista della leggendaria Montagna Solitaria. E chissà che tra fughe notturne, lezioni di scherma e prigioni elfiche non riesca, in una missione disperata, a ritrovare se stessa e il posto in cui le sue domande acquistano improvvisamente una risposta.
mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, così se vedo che la storia interessa aggiungo gli altri capitoli!
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Cross-over, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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PARTE 1-prologo
Prim…Rue…non è proprio per loro che devo provare a combattere? Perché ciò che hanno subito è così sbagliato, così ingiustificabile, così malvagio da non lasciare altra scelta? Perché nessuno ha il diritto di trattarle come sono state trattate?
Sì. E’ questo che devo ricordare, quando la paura minaccia di inghiottirmi.
Ami era sdraiata sul piumone a fiori di Andra e finì di leggere con un sospiro. Abbassò il libro dalla copertina rosso fiamma sulle gambe allungate e alzò al soffitto i grandi occhi colmi di lacrime.
-Questa parte…quanto coraggio, quanta determinazione! Mi fa correre i brividi sulla schiena
Le ragazze annuirono in silenzio. Elemmire era inginocchiata ai piedi del letto e ascoltava assorta. Non capiva davvero cosa Ami potesse trovare di affascinante in un pezzo tanto scontato, tanto banale. Si trattene dal chiederlo osservando che tutte le sue compagne sembravano rapite e immerse nella medesima miscela di riflessione e ammirazione. Tutte tranne Andra, che sedeva sulla sua sedia imbottita e si tormentava i lunghi capelli biondi. I suoi occhi chiari incontrarono quelli color zaffiro di Elemmire e tra le due passò uno sguardo pieno di complicità. Rimasero in silenzio fingendo lo stesso raccoglimento finché Andra, in veste di presidente, non si schiarì la gola e tagliò corto:-Molto bene, senza dubbio interessante.
Elemmire si sforzò di rivolgere un cenno di assenso e un sorriso tirato a Ami. Nella riunione precedente si era discusso di 1984 di George Orwell e Ami era stata capace di parlare per un’ora intera. Alla fine Elemmire era sbottata e con delicatezza aveva domandato quanto ancora a lungo Ami avesse intenzione di sparare cazzate. Non sarebbe stato tanto grave se l’affascinante e colto fratello di Andra non fosse stato presente ad ascoltare. Ami era pazza di lui da prima che iniziasse la scuola superiore. Quando Elemmire se n’era resa conto il senso di colpa l’aveva quasi soffocata, ma non aveva avuto il coraggio di fare le sue scuse ad Ami, pur riconoscendole dovute. Aveva così risolto di delegare ad Andra il ruolo di mediatrice, ma le scuse non erano state accettate comunque.
Elemmire aveva gradito La Ragazza Di Fuoco che Ami aveva proposto. L’aveva trovato credibile e non una frase particolare, ma il senso stesso della storia l’aveva colpita. Sentiva di poter condividere intimamente la ribellione di Katniss e provava l’angoscia di poter perdere i suoi familiari per divertimento di una minoranza come se fosse vissuta realmente a Panem. Avrebbe voluto sperimentare anche il senso di protezione verso una sorella, o un fratello minori, ma non aveva.
-Bene- riprese Andra alzandosi e dirigendosi verso le sue mensole colme di libri ammonticchiati –Questo mese la scelta è mi…
-Perché Elemmire non parla?
Lo sguardo azzurro di Elemmire inchiodò Andra dove si trovava.
-Evidentemente non ne ha voglia, Ami.
-Io invece ho voglia di sentire la sua opinione. Non ti è piaciuto il libro?
Elemmire fronteggiò Ami. Era senza dubbio una ragazza bellissima, con una cascata di capelli dorati, profondi occhi viola e labbra dolci e sensuali.
-Mi è piaciuto- rispose tiepidamente senza capire dove l’altra volesse arrivare. Aveva però la sensazione che non lo facesse per amor di conversazione.
-Davvero? E cosa in particolare? Ti ritrovi forse nel personaggio di Finnick?
-Ami…
-O forse più in quello di Katniss? Vedi in lei qualcosa di simile a te, magari una madre?
Elemmire si sentì congelare. Rimase perfettamente immobile con in mano il saldo controllo dei muscoli facciali. Il suo viso era una maschera impassibile.
-Ami, hai passato il limite. Nessuno ti autorizza a…a fare quello che hai fatto. Se tra te e Elemmire ci sono dei dissapori vi invito a parlarne al di fuori di questa stanza. Durante le riunioni non tollero che si manchi di rispetto in questo modo a uno dei membri.
Un silenzio imbarazzato era sceso nella stanza. Ami teneva lo sguardo basso e la fronte aggrottata come una bambina messa in punizione. Elemmire era ben risoluta a fissare l’orlo del vestito della compagna finché la testa non le avesse smesso di girare.
-Prima che venissi interrotta, stavo dicendo che ho già scelto il libro su cui discutere nella prossima riunione. Per alleggerire l’atmosfera- gettò un’occhiata carica di significato ad Ami – Dopo due classiche distopie ho pensato che l’ideale sia un bel fantasy. Con la consulenza speciale di mia sorella ho deciso per Lo Hobbit di J.R.R.Tolkien, che nemmeno io ho ancora letto, per la cronaca.
Elemmire si sentì prendere dallo sconforto. –Non un fantasy, ti prego!- implorò. Andra la guardò con gli occhi che brillavano:-E’ tempo signorina che tu apra la testa a tutte quelle esperienze che non hai mai provato. Il fantasy rientra tra queste. A proposito, mamma fa i tacos per cena, pretendo che tu ti fermi da noi. La riunione è finita, il Club è sciolto.
 
Elemmire conosceva Andra meglio e da più a lungo dei suoi stessi genitori. Si portavano pochi mesi- l’una di fine Settembre, l’altra di Luglio- ed Elemmire la vedeva come la sorella che non avrebbe mai avuto. Tuttavia ogni volta che sedeva a tavola in casa sua, attorniata dalla sua famiglia gioviale e rumorosa, sentiva una dolorosa puntura d’invidia al cuore nel pensare al letto grande e freddo dove avrebbe dormito, ai passi che riecheggiavano nella casa vuota, all’odore di vecchio che aleggiava nella camera di sua nonna. Aiutò a sparecchiare mentre Andra chiacchierava vivacemente con la madre, intervenendo ogni tanto con una precisazione o un commento. Mrs Dust era tanto minuta e delicata quanto i suoi figli e le sue figlie erano alti e resistenti.
-E poi Ami ha offeso Elemmire, le avrei messo le mani addosso.
-Non penso l’abbia fatto apposta- tentò di mediare Elemmire –Magari neanche se n’è resa conto.
-Non essere stupida, Eli. Sa benissimo che giorno era oggi. Scommetto che se la teneva dentro da tutta la riunione.
-Ce l’ha ancora con me per la storia di tuo fratello, immagino- sospirò Elemmire.
-Bhe, tanto peggio per lei. Non è certo ciarlando per ore che conquisterà la sua attenzione, e tu hai fatto un favore a tutti quanti. Ancora due minuti di quelle chiacchiere insulse e mi sarebbero cadute le orecchie.
Andra aveva un modo di gesticolare e una ricchezza di espressioni facciali che metteva Elemmire sempre di buon umore. –Mi aiuti a finire letteratura?- chiese Andra speranzosa guardandola fisso. Elemmire non seppe rifiutare.
La cameretta dove spesso si riunivano con il Club Letterario era enorme e vi dormivano Andra e la sorella maggiore. Accanto al letto c’era una vasta scrivania con due sedie imbottite color salmone e ai muri riproduzioni di quadri ed enormi fotografie di città famose. Andra si sedette sistemando le pieghe del maglione grigio a coste nei pantaloni di pelle nera. Elemmire prese posto accanto a lei e cercò di ignorare l’immagine che le restituiva lo specchio sospeso sulla scrivania.
Sei così simile a tua madre!
L’Orlando Furioso si avviluppava sotto i suoi occhi e la sua lingua con la magnificenza di un antico poema epico, fino ad arrivare all’episodio dove Cloridano si sacrifica per il giovane amico Medoro. Le due amiche finirono di leggerlo con le lacrime agli occhi. Andra aveva stretto le sue braccia attorno a Elemmire e le singhiozzava sulla spalla.
Garen, l’aitante fratello maggiore di Andra, si affacciò alla porta e con una risata disse qualcosa che Elemmire non capì, qualcosa che aveva a che fare con due tizi detti Fili e Kili che ad un certo punto morivano in battaglia. Pareva uno degli scioglilingua che spesso Garen si divertiva a canticchiare per casa.
Sei così simile a tua madre! Elemmire vide il suo sguardo azzurro riflettersi nello specchio da sotto il pesante trucco nero. Rimase immobile tra le braccia di Andra, senza provare nemmeno a ricambiare l’abbraccio con un impacciato tentativo. Non quel giorno. Sì, forse Ami sapeva benissimo che giorno era.
Nella stessa notte di Novembre, due anni prima, Angrid Blage moriva in un letto d’ospedale brasiliano.
 
C’erano parecchie cose che Elemmire si era vista costretta a ridimensionare il giorno del funerale. Innanzitutto la sua residenza. Sei così simile a tua madre! aveva detto sua nonna nel rivederla dopo tanti, tanti anni, prima di accoglierla a casa sua.
Non sapeva cosa intendesse. Sua madre aveva una figura alta e slanciata e lunghi capelli biondi, un viso affilato e uno sguardo penetrante e magnetico. Quando tornava dai suoi interminabili set fotografici portava giacche di pelle che profumavano di posti selvaggi e jeans strappati e impolverati. Forse suo padre non aveva mai davvero capito quanta libertà desiderasse la moglie, e forse non aveva mai avuto la forza per lasciare andare del tutto quell’uccello esotico e colorato che ogni tanto prendeva la macchina fotografica e spariva, per ricomparire dopo settimane con una rivista in mano dove era rappresentata accucciata accanto a un giaguaro o sprofondata nella sabbia del deserto. Suo padre si limitava a osservarla da lontano.
Dal punto di vista economico non aveva sentito il peso delle ristrettezze. Era abituata a mangiare poco e a non concedersi nulla, se non molti libri, specialmente nel periodo successivo alla perdita. Ma non si era mai sentita così vuota. Era difficile da spiegare, ci aveva provato tante volte con Andra che credeva la cosa migliore fosse “buttare fuori quello che sentiva”. Elemmire non sentiva nulla. E questa apatia la spaventava. Persino in mezzo alla gente riusciva a sentirsi immensamente sola. E basta. Come un palloncino a cui viene tagliato il filo. Sola.
Si sentiva sola anche mentre tornava a casa. La notte era serena e le stelle dormivano nel cielo fondo. Lungo la strada si sentiva il raspare di qualche gatto nei cortili. I suoi passi non facevano rumore. Tentò di stringersi attorno al corpo l’impermeabile chiaro per contrastare il crescente freddo che avvertiva in sé. Fu un lampo nell’aprire il portoncino, scivolare lungo il vialetto, scostare la porta laterale e poi correre in punta di piedi al piano di sopra, in camera. In corridoio passò davanti alla stanza della nonna, dalla quale proveniva un discreto russare. Avanzò nel buio pesto, cercò a tentoni il letto e facendosi luce con la piccola lampada da comodino si tolse i vestiti, ancora troppo leggeri per la stagione, e si infilò sotto le coperte. Un momento prima di addormentarsi ricordò di aver dimenticato la sua copia di La Ragazza Di Fuoco a casa di Andra. Il pensiero durò un battito di ciglia e si dileguò nell’indefinito regno dei sogni.
 
CAPITOLO UNO
 
Il tempo era stato orribile. Una pioggia battente e gelida aveva martoriato la città per tutto il fine settimana e Mercoledì era arrivato anche il vento, sferzante e arrogante che strattonava l’orlo della giacca. Elemmire era in piedi davanti allo specchio con la pelle d’oca ovunque mentre cercava i vestiti adatti a quel tempaccio. Era proporzionata e slanciata, come sua madre, con lunghi capelli neri come inchiostro, liscissimi e setosi.
Aveva avuto un pomeriggio di studio pesante e non ne poteva più di rimanere in casa. Doveva uscire, prendere aria, le fosse anche crollato il cielo in testa. Infilò un pesante pantalone grigio perla e un lungo e caldo maglione intrecciato dello stesso colore. Non pensò nemmeno all’eventualità di truccarsi, perché tanta di quell’acqua c’era fuori che si sarebbe tutto sciolto prima ancora di giungere al portoncino. Inforcò la borsa di simil pelle bianca, la riempì di fazzoletti di carta e prelevò appena qualche banconota dal suo cofanetto di deposito.
-Nonna, cosa vuoi per cena?- urlò scendendo le scale. La vecchia signora che chiamava nonna era in realtà la zia di suo padre. Sedeva tutta rattrappita davanti alla televisione.
-Che c’è?- balbettò senza alzare lo sguardo.
-La cena, nonna. Hai presente?
-Eh, che ha fatto la cena?
-Non c’è, nonna.
-Come?
-Non abbiamo nulla per cena- Elemmire mise le mani a coppa attorno alla bocca per farsi sentire meglio –Hai una particolare preferenza?
-Che è? Una credenza?
-Preferenza, nonna!- rispose Elemmire con pazienza –C’è qualcosa che ti piace e che vuoi io compri per cena?
-Ma…ma…benedetta ragazza, stai davvero uscendo? Che non hai visto che tempo fa fuori?
-Ho l’ombrello. Non preoccuparti di me, dimmi della cena.
-Ma sei sicura? Ma non sarai leggera?
-No nonna, è lana quella che porto addosso. Se prendo qualcosa di etnico lo mangi?
-Cosa?
-Etnico! Giapponese, thailandese…
-Ah milanese! Ma non è tardi per mettersi a friggere le cotolette gioia mia?
Anche la pazienza di Elemmire aveva un limite, e spesso sua nonna sapeva esasperarlo come nessun altro. –Ci vediamo dopo- tagliò corto. Uscì sbattendo la porta dietro di sé.
Fuori pioveva a vento. Come aveva previsto, gocce fredde le bagnarono subito il viso prima ancora di darle il tempo di aprire l’ombrello. Lottando contro i mulinelli d’aria e foglie secche uscì nel buio della sera novembrina. Si procurò del cuscus al take-away africano e poi riattraversò il dedalo di vie per tornare a casa, stanca e spazientita da tutta quella pioggia. Si sentiva i piedi fradici. Camminava con lo sguardo fisso a terra, attenta ad evitare le pozzanghere per non affondare fino alla caviglia nella melma. Girò un angolo, mentre un lampo illuminava il cielo di violetto, e sentì il tuono risuonarle nel cranio. Percorreva già da diversi minuti la strada quando il temporale si fece insostenibile. Non le dava scelta se non ripararsi in qualche negozio ancora aperto. Fiumi d’acqua scrosciavano sul suo ombrello e scorrevano poi ai suoi piedi. Fu allora che la vide. Sulla sua destra c’era una piccola, minuscola anzi libreria con una piccola insegna che il buio rendeva incomprensibile. Ricordò che doveva ancora comprare Lo Hobbit che aveva proposto Andra, e cedette alla tentazione di riscaldarsi tra gli scaffali illuminati da una gradevole luce rosata. Entrando fu come se entrasse in un altro mondo. Il rumore del temporale era lontano. Oltre la vetrina i lampioni azzurri continuavano a illuminare le volute di pioggia, ma nella libreria c’era silenzio. Un silenzio meraviglioso. I muri erano fatti di pietra viva, ruvida e dal caldo color nocciola, e di quattro pareti tre erano tappezzate di scaffali e mensole. I libri sembravano messi alla rinfusa: non erano divisi per autore, o per genere, o per colore, e alcuni erano stati infilati nei loro spazi al contrario o con le copertine rigirate. Era tutto così eterogeneo che l’effetto visivo risultò splendido. Elemmire iniziò a toccare i libri uno ad uno, con le copertine a volte lisce e nuove, altre volte (quest’ultime più frequenti) ruvide e screpolate. Trovò in poco tempo una copia economica del libro di Tolkien in copertina bianca con il titolo a vivaci caratteri azzurri. Non c’era anima viva, né quello che poteva assomigliare a un bancone, una cassa, insomma, qualcosa dietro cui fossero dei commessi. In un angolo però c’era un basso tavolino e delle poltroncine imbottite. Dimentica del mondo, della cena che si raffreddava e di qualunque altra cosa, Elemmire si sedette e iniziò a leggere il saggio introduttivo, assaporando ogni parola in quel posto dove il tempo sembrava scorrere diversamente, più lento e docile ai desideri umani. Forse passarono solo pochi minuti, forse ore, chi può dirlo? prima che qualcuno si facesse vivo interrompendo la sua attività. E quel qualcuno era un vecchio estremamente magro e rugoso, tutto curvo sul suo nodoso bastone, con i capelli arruffati e una lunga barba sporca e incolta. Elemmire schizzò in piedi sulla sedia divisa tra spavento e disgusto. Il vecchio indossava panni lerci e pareva un mendicante ubriaco se gli occhi non avessero avuto una luce particolare, che sicuramente apparteneva a un uomo sobrio.
-Cerco qualcuno con cui condividere un’avventura che sto organizzando ed è molto difficile trovarlo.
La voce del vecchio non era roca e sbiadita, ma forte e gutturale, e le parole arcane e inaspettate rimasero sospese nell’aria per un po’ prima che Elemmire le raccogliesse. Era talmente spaventata che dimenticò ogni cortesia. Era chiaro che l’uomo non era in pieno possesso delle sue facoltà mentali. D’improvviso tornò nel tempo e nel luogo che aveva lasciato. Era entrata nella libreria per ripararsi dal temporale, aveva trovato un libro che non leggeva di spontanea volontà e l’avevano fatta aspettare un quarto d’ora buono per pagarlo. Intanto il cuscus doveva essere diventato una pappetta aromatizzata al pepe rosso.
-Io devo pagare questo libro. Non sono interessata a nessun’altra cosa lei stia dicendo- rispose sprezzante.
Il vecchio allungò la mano callosa e fragile e chiuse il braccio di Elemmire in una presa che era tutt’altro che debole. La ragazza si scansò di scatto, il cuore che le batteva come un tamburo.
-Non temere, sei perdonata e ti darò quello che vuoi. Avrai parte anche a tu alla mia avventura.
-Io non voglio nessuna avventura- Elemmire si impose di non gridare e di recuperare il controllo dei nervi. Era un vecchietto innocuo. Con la coda dell’occhio si assicurò che l’ombrello fosse a portata di mano.
-E invece sì, me l’hai appena detto. Ti accontenterò, vedrai.
-Lei è matto- disse Elemmire con decisione e un sorriso di compassione. In realtà iniziava a mancarle il respiro. Quel vecchio la spaventava e la inquietava in un modo tutto particolare. Girò sui tacchi, raccolse l’ombrello e la busta del take-away e uscì fuori a passo di marcia. Il libro rimase aperto sulla poltroncina.
Fuori il temporale non aveva diminuito la sua intensità. Dopo il caldo rassicurante della libreria tutto quel vento e la pioggia gelida la fecero sentire decisamente congelata. Iniziò a camminare a passo veloce verso la fine del vicolo, ogni nervo teso. Aveva paura che il vecchio la seguisse balbettando le sue frasi senza senso. Un fulmine illuminò per un attimo tutta la strada davanti a lei, e ogni singolo mattone di ogni singola casa risplendette avvolto da una lucida cortina di pioggia argentea. Poi calò l’oscurità più totale. Elemmire pensò che il fulmine l’avesse accecata tanto da impedirle di riconoscere la luce bluastra dei lampioni, ma quando i ricami rossi e viola furono spariti dalla sua retina si accorse di non riuscire a vedere oltre il proprio naso. Doveva esserci stato un blackout improvviso in seguito alla tempesta elettrica. Una folata di vento di immane forza le strappò di mano l’ombrello ed Elemmire sentì l’acqua fredda scorrerle tra i capelli e poi dentro il colletto della maglia. Urlò per la sorpresa e la disperazione.
 Il tuono rimbombò tanto forte che le fece tremare la terra sotto i piedi. Sentì che le gambe non la reggevano e precipitò nel buio assoluto, incontrando a metà strada il duro suolo. Rimase lì, accucciata come un cane randagio, fradicia, infreddolita, troppo terrorizzata per guardarsi attorno e con le orecchie che fischiavano. Sentiva il battito del proprio cuore correrle in gola, e ad un certo punto si accorse che era l’unico suono rimasto. Tutto attorno a lei c’era silenzio, ma se possibile un silenzio vivo, il silenzio che hanno le campagne nelle notti d’estate. I vestiti bagnati la tenevano inchiodata per terra, ma quando distese timidamente le braccia si accorse con stupore che sotto di sé c’era erba. L’accarezzò con la punta delle dita prima di aprire gli occhi. Un cielo sereno e trapunto di stelle la guardava. Erano stelle come non ne aveva mai viste, così numerose, così brillanti da far pensare appartenessero ad un altro mondo. Facevano luce al paesaggio circostante che, per quanto Elemmire potesse vedere, era composto di dolci colline erbose. L’aria era calda, e profumava di braci e carne arrostita.
Il primo pensiero di Elemmire fu: sono pazza. Il secondo differiva di poco: ho le visioni.
Non tentò nemmeno di schiaffeggiarsi, piuttosto si guardò intorno cercando delle incongruenze logiche nel paesaggio che la circondava. Era fermamente convinta che qualsiasi cosa stesse succedendo nella sua testa funzionasse come certi sogni, dove tutto appare perfettamente reale finché non trovi un particolare –magari la pettinatura di un personaggio, o la disposizione di un oggetto- che sai non corrispondere al vero. Allora è come se nel sogno si formasse una crepa, e battendoci sopra uscissero ovunque altre incongruenze, altri errori, finché tutto non scoppia in una bolla di sapone e il sonno, con il sogno, ti abbandona. Elemmire tastò e annusò l’erba, provò ad assaggiare la terra, perfino ad allungare la mano verso l’alto, convinta forse che il cielo stellato fosse una copertura posticcia posta a pochi centimetri dalla sua testa. Niente di tutto ciò. Ogni cosa attorno a lei era perfettamente reale o quanto meno verosimile nei minimi particolari. Cercò allora di capire come ciò che era successo –di qualunque cosa si trattasse- era, per l’appunto, successo. Non ricordava di aver sbattuto la testa, ed era sicura di aver avuto lo scivoloso manto stradale sotto di sé al momento della caduta. La caduta. Il tuono. Poteva essere un illusione ottica e sensoriale dovuta alle particelle elettroniche? Non era mai successo prima, ma era disposta a crederlo per salvare la sua salute mentale. Sentiva infatti che se non avesse compreso a fondo quello che le stava succedendo, e in fretta, sarebbe impazzita.
Starnutì poderosamente e ricordò di indossare panni bagnati e di essere completamente zuppa. Si impose di non piangere per la frustrazione e sedette raggomitolata con le gambe al petto per analizzare ancora una volta la sua situazione. C’era stato un blackout, perfetto. Lei era in quei vicoli a poca distanza dalla periferia. Poteva darsi che barcollando nel buio avesse imboccato la via sbagliata. Ma dov’era allora la città? Dove le case? Dopo il blackout le era volato via nel buio l’ombrello e affondare in un fiume in piena non avrebbe potuto renderla più bagnata. Era poi caduta in seguito al quel tuono, quello che aveva scosso la terra e che le era rimbombato in ogni fibra di materia corporea. Forse era svenuta. Forse qualcuno l’aveva presa e abbandonata in quel luogo. Ma non ricordava di aver perso conoscenza.
Per quanto Elemmire fosse desiderosa di trovare una spiegazione logica e razionale, non era disposta a mentire a se stessa. Era rimasta sveglia e lucida durante tutta la caduta, e nessuno era con lei nel momento in cui, per brevi istanti, aveva perso contatto con il mondo che la circondava. Nessuno, a parte quell’innocuo vecchio. E comunque, un’altra presenza umana non avrebbe spiegato nulla. Si arrese con un singhiozzo alla sua incapacità di comprendere, e si ripromise di parlarne con Andra appena fosse tornata a casa. Già, casa. Doveva trovare qualcuno che la riportasse in città, o perlomeno le desse le indicazioni per raggiungerla. E possibilmente dei vestiti asciutti. L’aria in quel posto era piuttosto calda, e l’erba asciutta, ma prima o poi il temporale si sarebbe spostato e avrebbe raggiunto la campagna. Era disposta a viaggiare a piedi ma adeguatamente premunita. Si alzò in piedi e iniziò a scendere lungo il crinale. Sul fondo, tra collina e collina, scorreva un rumoroso rivo, e un piccolo agglomerato urbano splendeva di flebili luci. Non c’erano lampioni ma finestre illuminate, per quello che riusciva a vedere. Continuò a camminare, sempre più veloce, sempre più speranzosa. Versò la metà della collina incontrò la curva a gomito di una strada e iniziò a correre lungo di essa. Era di semplice ghiaia e con nessuna indicazione stradale, nessun cartello; in compenso v’erano profondi solchi per terra come se un carro appesantito da molti corpi (bestiame forse?) vi fosse passato avanti e indietro molte volte. Forse stava per raggiungere un piccolo paese lontano dalla tecnologia e dal progresso. Questo rendeva ancora più incomprensibile ogni cosa. A metà strada si fermò di botto e diede sfogo al pensiero che la rodeva dentro calciando ripetutamente un ciottolo rotondo. Perché stava seguendo quella strada?! Non avrebbe dovuto essere lì! Perché stava dando corda a quella visione onirica, a quel qualcosa che stava succedendo nella sua testa?! Perché non si fermava semplicemente e aspettava che come quel sogno era cominciato così finisse? Qualcosa dove pur succedere se fosse rimasta ferma seduta sul ciglio della strada. Era tutto sbagliato, tutto così sbagliato. Le pareva di camminare con  i collant storti. Non poteva rassegnarsi all’idea di non saper comprendere. Doveva esserci una spiegazione e lei l’avrebbe trovata.
Il suo stomaco gorgogliò a ricordarle la cena finita chissà dove. Magari a stomaco pieno si disse e continuò, questa volta guardinga, lungo la strada. Giunse a un rustico ponte di legno intagliato e passò sopra l’allegro fiumiciattolo. Riusciva a vedere bene il paese, il villaggio o qualunque cosa fosse: si stendeva fino al crinale della collina opposta con case basse illuminate da finestre rotonde. Per strada non c’era anima viva, non un locale aperto o una coppia a passeggiare. E le case erano così basse. Non vedeva bene, ma le pareva tutto troppo piccolo e ristretto. Il profumo invitante di arrosto la fece andare avanti spazzando via ogni suo altro pensiero.
Le colline la circondavano tranquille e addormentate. Sui loro fianchi erano state costruite, o forse la parola giusta era scavate, abitazioni dai muri convessi con deliziose finestre rotonde e porte della stessa forma. Staccionate di legno dividevano un cortile dall’altro, e nell’erba alta crescevano alberi da frutto e dormivano tacchini e vitelli. Sciami di lucciole dorate lampeggiavano tra gli steli d’oscurità. Le uniche case che sembravano provviste di fondamenta erano al centro della valletta ed erano più alte delle altre; ma intorno non avevano giardini lussureggianti e orti.
Il villaggio non era costruito per persone della taglia di Elemmire, che comunque non era particolarmente alta. Su quella che pareva la piazza principale rimanevano le trace di un prospero mercato: pomodori spiaccicati per terra, foglie di lattuga rosicchiate, aste di legno che dovevano aver costituito dei banconi e gli scheletri di alcune tende. La costruzione centrale era bassa e lunga con una porta perfettamente rotonda e un porticato davanti con deliziose colonne decorate di stucco bianco dalle quali pendevano lanterne di ferro a forma di funghi. Alla loro luce soffusa le assi di legno sulla facciata della casetta sembravano dipinte di colori vivaci e motivi floreali. Elemmire provò a bussare e nel giro di pochi minuti un naso comparve all’altezza del suo gomito.
-Come posso esservi d’aiuto?- chiese una voce femminile gioviale e cortese.
-Mi chiamo Elemmire. Perdonami bambina ma c’è la mamma in casa?
La porticina rotonda si spalancò del tutto. Alla luce arancione delle lanterne, davanti agli stupiti occhi di Elemmire, comparve una donna in miniatura. Aveva folti riccioli biondi e indossava un raffinato vestito azzurro decorato con delle rose, e un grembiulino bianco. Sembrava uscita da una fiaba, se non avesse avuto piedi nudi e ricoperti di folto vello biondo, e un’espressione profondamente offesa.
-Bambina eh? Chi credete di essere, voi della Gente Alta?
Senza sapere bene cosa dire, Elemmire tentò di riparare al suo madornale errore. Era chiaro che quella non era una bambina.
-Mi dispiace signora, non sono del posto e non pensavo…non immaginavo in realtà…in realtà ecco mi sono persa.
-E cosa vorresti da noi, di grazia?
-Magari delle indicazioni per raggiungere la città, o una strada provinciale, magari illuminata.
La piccola donna la guardò con diffidenza:-Tornatene a Brea, bambina. Nella casa del sindaco non c’è posto per te.
E richiuse di scatto la porta.
In che razza di paese sono capitata? si chiese Elemmire, cominciando a sentirsi sconsolata. Si allontanò dalla chiazza di luce della casa e risalì per una delle stradine. Aveva una mezza idea di salire sulla cima della collina di fronte e provare a scorgere la città, ma qualcosa le diceva che le sue aspettative sarebbero state deluse ancora. Si inerpicò sul crinale e raggiunse dopo un po’ una casetta con le finestre illuminate e dalla quale proveniva un allegro baccano, con tanto di risate e sbattere di piatti. A tentoni aprì il cancello infisso nella staccionata, salì pochi gradini invasi da vasi di fiori e raggiunse la porta. Esitò prima di bussare.
Aveva freddo. Aveva fame. Aveva paura.
Non capiva dove si trovava. Non capiva nulla di ciò che la circondava.
Era come se fosse tornata bambina, inerme e ignorante del mondo. E la cosa la faceva impazzire.
Ma raccolse tutto il coraggio che aveva e decise di andare avanti.
Bussò sommessamente, risoluta a pensare due volte, anzi tre, prima di parlare.
Le aprì la porta un nano.
Ma non un nano deforme. Dimostrava venti, forse ventun anni, e aveva lineamenti gradevoli, lunghi capelli scuri e il viso incorniciato da una corta barba castana. Indossava una specie di casacca blu notte legata sull’ampio petto con dei legacci e sotto pantaloni scuri e morbidi stivali di pelle. In vita portava una cinta di cuoio marrone con la fibbia di finissimo argento. In una mano reggeva un boccale di ceramica che strabordava birra bionda e schiumosa. Una persona normale, insomma, se non avesse raggiunto a stento il petto di Elemmire. Lo shock la lasciò senza parole. Era decisamente troppo per la sua testa. Abbandonò ogni tentativo di dare spiegazioni, di ragionare, di pensare. Chiuse la mente e sentì ancora più forte il rumore dello stomaco vuoto, tanto più che dall’interno della casa proveniva un delizioso aroma di pesce arrostito.
-Desiderate parlare con il signor Baggins suppongo- esclamò il nano con una voce forte e allegra.
-Ho fame.
-SIGNOR BAGGINS! AGGIUNGETE UN SEDICESIMO POSTO A TAVOLA!- il nano si era girato verso l’interno e aveva urlato tanto forte da far tremare i muri. Tanta sguaiata allegria urtò i già fragili nervi di Elemmire.
-Un sedicesimo posto? E perché mai, di grazia?
La figura che comparve era talmente alta che doveva camminare china, perché la casa era davvero molto, molto bassa. Indossava un’accozzaglia di tuniche e sciarpe di ogni sfumatura di grigio, e in mano teneva un affilato cappello da mago blu scuro. I capelli e la barba erano lunghi e ingrigiti dal tempo, il viso pieno di rughe come un olivo secolare, ma gli occhi neri brillavano così vivaci e profondi da dare la sensazione che stessero scannerizzando Elemmire arto per arto. Le sopracciglia cespugliose si alzarono con sorpresa.
-Kili, chiama Bilbo, in fretta.
Il nano trotterellò via ridendo e urlando parole in una lingua gutturale e arcana. Dietro di lui rimasero impronte di fango e metà boccale di birra.
-Signore- Elemmire alzò lo sguardo verso l’uomo vestito di grigio –Signore, lei saprebbe dirmi dove sono, e magari come ci sono finita?
L’uomo la squadrò ancora a lungo con occhi che rimuovevano la pelle brandello su brandello per osservare nel profondo.
-Sei a Hobbiton, ma immagino questo nome non rappresenti nulla per te.
-Infatti signore. Stavo tornando a casa e sono caduta qui. So che sembra un po’ improbabile detto in questo modo, e può darsi per esempio che io stia impazzendo, o che sia già impazzita, ma le assicuro, è la verità. In quale stato si trova Hobbiton?
-Hobbiton fa parte della Contea, ma è piuttosto inutile che io te ne parli. E’ chiaro che non sai cosa fartene delle mie indicazioni.
-La contea di cosa, se posso chiedere?
-La Contea e basta. Si chiama così il territorio compreso tra il corso meridionale del Brandivino e i Porti Grigi. Vieni dentro, in ogni modo. Sei caduta nel fiume?
-Nossignore, a casa pioveva fino a…- Elemmire non sapeva quanto tempo fosse passato dal suo arrivo in quella “Contea”. –Fino a poco fa- concluse chinandosi per entrare nella casetta.
Il vecchio rivolse uno sguardo perplesso al cielo sereno e poi borbottò tra sé e sé:-E così Balin aveva ragione. Ancora una volta. Pioverà stanotte.
La casa era un intrecciarsi di corridoi scavati nel fianco della collina su cui si aprivano stanze arredate con la massima cura e provviste di ogni comfort...se a viverci fosse stato un uomo del diciannovesimo secolo. Eppure non era tale il proprietario dell’abitazione.
Elemmire lo incontrò mentre si dirigeva verso quella che presumibilmente era la sala da pranzo, dalla quale proveniva un frastuono assordante di urla e rutti: un omino scalzo con enormi piedi pelosi e una testa bionda e ricciuta. Indossava una vestaglia di ciniglia e aveva l’aria semplicemente stravolta.
-Bilbo, potrei presentarti gentilmente la signorina…non ho afferrato il tuo nome.
-Elemmire. Elemmire Blage.
-La signorina Blage. Mia cara, questo è il signor Baggins, il padrone di casa.
-Ah, meraviglioso Gandalf! Un’altra! Non bastavano i nani, no, ora anche la Gente Alta entra ed esce da casa mia come se fosse un mercato coperto! Bhe mi dispiace ma il cibo è finito, la festa anche e ora devo chiedervi davvero di tornare a casa, a Brea o dovunque voi abitiate.
Elemmire rimase di stucco. Non credeva che in un esserino così piccolo ci fosse tanta energia.
-Temo…ecco temo sia esattamente questo il punto, signor Baggins. Io mi sono persa.
-E sul come e sul perché avremo da discutere per un po’, la signorina ed io. Possiamo usare per un attimo la sala da the, caro Bilbo?
Il signor Baggins fece un cenno con la mano e si precipitò verso la sala da pranzo.
Elemmire seguì l’uomo in grigio fino ad una piccola stanzetta con caminetto e due poltrone imbottite. Aveva fame, ma non osava aprire bocca. L’uomo sedette con difficoltà su una delle poltrone e le fece cenno di fare altrettanto.
-Non rimanere ferita dalla scortesia del caro Bilbo. E’ che gli hobbit non amano ricevere visite senza aspettarle, specialmente da parte di perfetti sconosciuti. Ma un po’ di aria fresca farà bene a questa vecchia casa. E’ rimasta chiusa per troppo tempo.
Il vecchio aveva tirato fuori da una tasca una lunga pipa e aveva incominciato a spedire anelli di fumo colorati verso il soffitto. Era meditabondo.
-Parliamo di cose serie, ora. Mi è sembrato di capire che sei caduta qui?
-Nel senso letterale della parola, signore.
-Chiamami pure con il mio nome. Io sono Gandalf, lo stregone, e Gandalf vuol dire me.
-Signor Gandalf, io stavo camminando sotto la pioggia, signore, e credo di essere caduta. L’ombrello mi era volato via. Solo che quando ho alzato la testa ero…ero qui. Voi sapete cosa è successo signore?
La testa di Gandalf era avvolta da una nuvola di fumo. Solo gli occhi neri erano visibili, scintillanti e saggi.
-Dove abiti, con precisione?
Elemmire si guardò intorno. –Forse sapere dove sono con esattezza potrebbe aiutarmi. Avete una mappa?
Gandalf si alzò e rovistò per qualche minuto in una grande cassapanca di legno nell’angolo (sempre che una stanza circolare possa avere degli angoli). Tornò indietro recando una mappa ingiallita e polverosa. La spiegò sul tavolino da the e luoghi e nomi sconosciuti si dipanarono scricchiolando sotto gli occhi increduli di Elemmire. La scrutò da vicino, la girò e rigirò e alla fine, sforzandosi di mantenere la voce neutra, disse:-La mia città non compare su questa mappa signor Gandalf.
Gandalf aggrottò le sopracciglia. –Tutto questo è assai strano. E io ne ho viste di cose strane. Vieni forse dal grande sud? Abiti i deserti dell’Harad?
-Non ho mai visto un deserto se non in foto, signore.
-Foto? Cos’è una foto?
-Ritratto- si corresse Elemmire, attorcigliandosi l’orlo della maglia. –E’ che dalle mie parti si chiama così.
Gli occhi di Gandalf si accesero. Si alzò di scatto e la guardò da vicino, analizzando con nuova curiosità il suo vestiario.
-Per la chioma di Feanor…Sarà mai possibile?
Elemmire rimase ferma a guardarlo. Gandalf le incuteva assieme timore e fiducia.
-Provieni dall’Altro Mondo?
-Dipende tutto da cosa si intenda con Altro Mondo.
-Ma è chiaro, un mondo parallelo a questo. Ah! Non sono mai arrivato a fondo di un dilemma con tanta velocità! C’erano leggende che parlavano di ciò, ma ero convinto fossero voci insensate che circolavano ai tempi di Nùmenor. A quanto pare è vero. Esiste un Portale tra la Terra e la Terra di Mezzo. E quel portale è stato aperto, stanotte stessa.
-Ciò vuol dire signore che non sono sul pianeta Terra? Che sono in un’altra dimensione?
-Se vuoi puoi dirla in questi termini. Sei nella Terra di Mezzo. Questo vuol dire luogo e tempo differente, se vuoi saperlo, e sicuramente un bel po’ di cose divertenti da vedere. Che prodigio…
-Sembrerebbe quasi un’opera di magia....- commentò cauta Elemmire.
-Ovviamente è opera di magia. Ah! Credi che un Portale si apra ogni giorno?
-Non lo so signore, non sono esperta di portali- rispose Elemmire con energia. Iniziava a sentirsi meglio. Sapere che un potere arcano e misterioso l’aveva portata lì, seppur arduo da credere, la sollevava dal compito di darsi una spiegazione razionale. Sbadigliò avvertendo il calo di tensione improvviso.
-Consiglio vivamente di raggiungere gli altri a tavola. Forse i nani hanno lasciato qualcosa ancora di commestibile. Io ho bisogno di riflettere da solo.
Elemmire si alzò, impacciata si esibì in un rigido inchino, e camminò verso la sala rumorosa cercando di non urtare la testa sul soffitto. Era fatta insomma. Sapeva dov’era, la sua sanità mentale era salva e presto Gandalf l’avrebbe condotta a casa. Perché se di magia si trattava, qual era il compito di uno stregone se non controllarla?!
La sala da pranzo di casa Baggins era troppo stretta per l’allegra compagnia che vi era seduta. Tredici nani brindavano e si abboffavano come se non avessero visto cibo per settimane. Il signor Bilbo era fermo con aria sconsolata, appoggiato allo stipite della porta.
-Voi non mangiate, signor Bilbo?- chiese Elemmire con l’intento di mostrarsi amichevole. Come risposta ricevette un’occhiataccia e un secco:-Non ho fame.
Bhe, forse Bilbo Baggins non aveva fame, ma Elemmire sì. Entrò nella sala e d’improvviso calò il silenzio, un silenzio immensamente rumoroso dopo tutto il festoso baccano. Tredici paia d’occhi la fissarono da tredici fronti spioventi. Elemmire avrebbe voluto fingere di essere a suo agio sedendosi con grazia su uno sgabello e accavallando le gambe intirizzite, ma non c’era alcun posto libero. Rimase per un po’ in piedi, ferma, paralizzata dall’imbarazzo. Poi prese un respiro e sgomitò fino a ricavarsi un posto sulla panca che correva lungo il muro. –Gradirei delle salsicce- disse senza ben sapere come un essere umano si dovesse rivolgere ad un nano, ma vedendo che uno di loro, con un buffo capello di pelo, armeggiava con forchetta e una griglia incandescente.
-Salsicce per la signorina- esclamò il nano. Come per un segnale convenuto, l’aria risuonò ancora di conversazioni e scoppi di risa, le prime guardinghe, i secondi subito soffocati. Elemmire sapeva di essere osservata e si sentiva estremamente a disagio.
Il nano con il buffo capello le servì un piatto di fumanti e sfrigolanti salsicce arrosto. –Bofur, al vostro servizio, signorina…
-Elemmire. Potete chiamarmi Elemmire-. Il nano aveva un viso allegro e sorridente e i capelli legati in due trecce scure. Il suo aspetto fece spuntare un sorriso sul viso di Elemmire e la riscaldò al punto che, quando Bofur le passò un boccale di birra bionda, riuscì a rispondere con un cortese “grazie, mastro nano”. Mangiò in silenzio e velocemente, sollevata nel sentire sotto i denti cibo vero, e buono come non ne aveva mai assaggiato. Nessuno le fece domande, né le chiese chi era e cosa ci facesse lì.
La compagnia spazzolò tutto il cibo che c’era sul tavolo-la maggior parte del quale finì tra le fauci di un enorme nano dalla barba rossa legata in una treccia a forma di ciambella. Dopo di che i piatti vennero ammucchiati al centro del tavolo e i nani iniziarono ad alzarsi. Bilbo e Gandalf parlavano dal corridoio vicino e si sentiva l’acuta vocetta dello hobbit strillare qualcosa. Non sembrava affatto soddisfatto.
-Cosa dovremmo farne ora dei piatti?- chiese un nano dal taglio a scodella e l’aria non particolarmente sveglia.
-Dà qua, Ori- un giovane nano dai lunghi capelli biondi e i baffi intrecciati ai lati della bocca sorridente quasi strappò il piatto dalle mani del povero Ori e con un gesto fulmineo lo lanciò ad un compagno che appoggiato allo stipite della porta fumava la pipa. Era il nano dai lungi capelli scuri che le aveva aperto la porta. Non si fece trovare impreparato e dopo aver fatto roteare il piatto lungo tutte le spalle lo colpì col gomito e lo fece atterrare su una pila di ciotole posate sul tavolo in precario equilibrio. I due nani iniziarono a esibirsi in giochi di prestigio mentre Bilbo, ricomparso all’improvviso, pallido in viso e sudato cercava di fermarli.
 
Scheggia le coppe, sbriciola i piatti!
Lame e forchette torci non poco!
Ciò Bilbo Baggins odia da matti-
Spacca bottiglie, dà ai tappi fuoco!
 
Strappa tovaglie, sul grasso salta!
Riversa il latte nel ripostiglio!
A piè del letto tutto ribalta!
L’uscio di vino spruzza vermiglio!
 
Versa stoviglie chè l’acqua scotta
Col gran pestello tritale bene
E se qualcuna resta non rotta
Buttarla in terra tosto conviene!
 
Con voce profonda il nano dai capelli scuri intonò un’allegra filastrocca, mentre tra le sue grosse e agili mani passavano stoviglie di tutti i tipi. I compagni lo accompagnavano battendo i piedi a tempo; Bofur aveva perfino tirato fuori un lungo e sottile flauto di legno e solfeggiava un motivetto allegro e ballabile. La musica, le risate, le urla del povero Bilbo e lo sghignazzare di Gandalf in sottofondo crearono un vortice caotico attorno a Elemmire. Non certo per la prima volta in vita sua provò l’acuta sofferenza di chi sa di non appartenere al posto in cui si trova. La parte di lei che aveva sempre vissuto in una casa grande e silenziosa deplorava quell’assurdo e caotico cozzare di suoni e parole, ma la parte che era rimasta bambina aveva voglia di ballare e di saltare e di lanciare piatti. Infine sbadigliò e incrociò le gambe con sussiego. I suoi vestiti si erano asciugati, e ora tiravano da tutte le parti.
-Bene, amici miei, credo possa bastare per il cuore del povero signor Baggins!- rise Gandalf guardando le perfette pile di piatti accumulate sul tavolo. Non un coccio era sparso a terra. I nani si risiedettero lentamente. Elemmire scalò lungo la panca fino a raggiungere l’estremo angolo del tavolo, quello più buio poiché solo il caminetto illuminava la sala da pranzo. Accanto a lei presero posto i giovani nani, quello moro più vicino. Le rivolse uno sguardo compiaciuto e con sfrontatezza inaudita le sorrise da un angolo della bocca e le fece l’occhiolino. Elemmire decise semplicemente di ignorarlo, ma le guance le pizzicavano.
Tre sole figure erano in piedi: Gandalf, il signor Baggins e un nano vestito di pesante pelliccia con capelli e barba neri come inchiostro, appena striati di grigio. Gandalf prese la parola.
-Miei stimati compagni, abbiamo bevuto assieme e abbiamo assaggiato il cibo eccellente del signor Baggins. Ora, parliamo di affari. Sono certo che ognuno di noi sa bene perché si trova qui questa sera. Ognuno di noi eccetto forse lo stesso signor Baggins e la nostra inaspettata ma benvenuta visitatrice, la signorina Elemmire Blage.
Ancora una volta ogni sguardo si concentrò su di lei. Elemmire rimase ferma e rigida.
-La nostra giovane amica proviene dal reame degli uomini ed è una gradita ospite. Vi invito a portarle il massimo rispetto e a fidarvi di lei, e di me quando vi dico che non tradirà la fiducia del nostro capo, Thorin Scudodiquercia.
Il nano che era rimasto in piedi alzò il mento e la guardò negli occhi. Era uno sguardo fiero e sprezzante, lo sguardo di una persona nata per dare ordini e per vederli eseguiti, ma nel contempo c’era una sorta di languida malinconia, come una ferita mai davvero cicatrizzata. Thorin incominciò a parlare con voce bassa e graffiata che faceva accapponare la pelle. Non era la voce di un essere umano della razza di Elemmire. Era una voce da nano.
-Miei fratelli, congiunti, amici e seguaci. La notte è ormai avanzata e ben presto partiremo per il nostro viaggio. Un viaggio dal quale, mi sembra corretto ricordarvi, nessuno di noi ha la certezza di tornare. Per il nostro signor Baggins racconterò la storia del nostro popolo, e di come io sia giunto qui, e di come la mia ricerca ha avuto inizio.
-Lontano nell’est, oltre le profondità di Bosco Atro, sorge la Montagna Solitaria, patria natale del mio popolo, della stirpe di Durin. Erebor è il luogo in cui il mio cuore ardentemente brama di giungere, per rivedere le sale immense, le scalinate, i gioielli incastonati nella roccia. Mai regno dei nani o di altro mortale fu ricco e prospero come quello di Erebor, nemmeno sotto gli altezzosi elfi o gli antichi Nùmenoriani. Il nostro popolo viveva nell’abbondanza e nella letizia. Non oscurerò oltre i vostri cuori ricordando lo splendore della città-fortezza. Dalle terre desolate nel Nord, la fama dell’oro dei nani attirò la più grande calamità della nostra era: Smaug il Terribile, il più grande e malvagio dei draghi sputafuoco. Egli giunse con il fragore di un uragano, e lo sentirono anche gli uomini di Dale, che sorgeva alle pendici della Montagna. Io ero a caccia con altri pochi nani fortunati. Vidi una colonna di fuoco abbattersi sulla mia casa. Gli alberi rilucevano come torce nella notte, la roccia crollava, le urla di uomini e nani massacrati si alzava nell’aria e il puzzo della morte impregnava ogni cosa. Smaug massacrò e sterminò e poi prese possesso della nostra casa e dei nostri ori. In pochi fuggimmo, e tra questi pochi v’eravamo io, mio padre, mio nonno, il re Thror, mia sorella Dìs e alcuni superstiti. Da allora il mio popolo vaga in esilio dalla sua patria per i regni degli uomini. Abbiamo lavorato a lungo come minatori e la nostra città sulle Montagne Azzurre è centro di traffici commerciali e di scambi di denaro. Tuttavia il mio cuore non ha requie. Il ricordo degli ori, del potere, della pietra e dello scettro mi impediscono di riposare in pace. Mio nonno giurò di riconquistare la patria sottrattaci dalla bestia, possa il suo ventre divenire molle e vulnerabile, e quel voto di vendetta è giunto fino a me passando per mio padre e mio zio. Non ho scelta se non raccogliere il grido disperato della mia casata, della mia gente. Ho convocato con me tredici nani, tredici discendenti o sudditi di Durin. I mei nipoti, i figli di mia sorella Dìs, non hanno mai visto la magnificenza della casa dei loro padri, e anche i più vecchi tra voi dubito ricordino il riecheggiare dei martelli e delle fornaci. Fili, Kili, e tutti voi, avete risposto con lealtà e onore al mio richiamo. E nel mio animo non posso desiderare accanto a me cuori più fedeli e affezionati.
Thorin prese un respiro profondo. Elemmire si scoprì protesa sul tavolo, attratta quasi in maniera ipnotica dalle parole del nano. Thorin era un principe, erede di una stirpe di re, e nonostante i suoi vestiti recassero segni di usura aveva un portamento nobile, lo sguardo fermo e la voce appassionata, il mento tenuto alto quasi con arroganza. Il giovane nano dai capelli scuri aveva gli occhi pieni di lacrime. Quello biondo, che gli era a fianco, si alzò con trasporto e parlò:-I nostri cuori ardono di audacia e coraggio. Non abbiamo impugnato che martelli e tenaglie per tutta la vita. E’ ora di tornare a maneggiare la spada e l’ascia, la lancia e l’arco. Siamo guerrieri, e uno di noi vale quanto un esercito di uomini. Hai la nostra lealtà, Thorin.
-E hai anche Gandalf- intervenne il nano bruno –Lui vale almeno il triplo di ognuno di noi!
-Ed è il solo ad avere la certezza del ritorno, se mi è concesso- puntualizzò Bofur.
Thorin sembrava profondamente commosso dal sostegno e dall’entusiasmo dei due nani più giovani. Fece loro cenno di sedere e riprese a parlare.
-Fili, Kili, nipoti miei, non è della forza del braccio di alcuno di voi che io dubito, né della prontezza del cuore. So che ciascuno di voi sarebbe disposto a morire piuttosto che lasciare incompiuta questa ricerca. Tuttavia voi non conoscete nulla del mondo esterno. E nessuno che abbia visto Smaug il Terribile, che la sua lingua diventi di pietra, calare su Erebor potrebbe mai credere che tredici nani e uno stregone possano beffarlo tanto facilmente. E’ qui che entra in gioco Gandalf. Ho chiesto al mio amico di cercare per noi uno scassinatore che possa introdursi nella tana del drago di soppiatto attraverso la porta segreta segnata sulla mappa di mio padre. Come il proposito di vendetta, anche la chiave di questa porta è giunta fino a me dal re Thror in persona.
E così dicendo Thorin estrasse una pesante chiave dalla forma geometrica ben scolpita e un rotolo di pergamena.
-E chi sarebbe lo scassinatore? Immagino debba essere uno esperto, e incredibilmente forte e minaccioso- commentò Bilbo Baggins, seduto accanto a Gandalf.
Elemmire trattenne un sorriso. Era convinta di sapere alla perfezione quale scassinatore avesse scelto Gandalf.
-Ma signor Baggins- disse un nano con un corno attaccato all’orecchio –Ovviamente siete voi lo scassinatore! Cosa credete che siamo venuti a fare qui, altrimenti, eh?
Seguirono le proteste di Bilbo, sempre più veementi man mano che i nani descrivevano Smaug.
-Denti come rasoi! Lunghi quanto sciabole!
-Artigli che paiono ganci da macellaio!
-E basta un suo respiro per trasformare in un mucchietto di cenere qualunque cosa gli si pari avanti.
Un nano con la barba bianca, presumibilmente il più vecchio della compagnia, porse a Bilbo un lunghissimo contratto. Lo hobbit lo lesse per alcuni minuti mormorando tra sé e sé con voce sempre più stridula e poi si afflosciò a terra come un sacco di patate. Gandalf si alzò con un sospiro e con l’auto di Bofur lo trascinò verso la sala da the.
-Elamir, vero?
Elemmire ci mise un po’ a capire che il nano dalla testa scura si rivolgeva a lei.
-Elemmire, in realtà.
-Sei un’umana, quindi.
Che domanda idiota.
-E tu sei un nano?- rispose sbadigliando infastidita.
-Da dove vieni?
-E’ molto, molto lontano da qui.
-Vieni da Gondor?
-Da dove?
-Da Gondor. Il ricco e prospero reame degli uomini. Sai, all’estremo sud.
Elemmire non aveva idea di cosa Gondor fosse.
-Non so se si chiama Gondor il posto da cui vengo. Io l’ho sempre chiamato casa. E’ a molte miglia da qui. Oltre fiumi e montagne.
-E’ un bel posto dove vivere?
-Una volta che ti sei abituato, immagino di sì.
-Cosa ti ha spinta allora a partire? Come sei giunta qui?
Elemmire non si capacitava di come il nano non capisse che non aveva alcuna voglia di fare conversazione. Voleva solo tornare a casa e dormire.
-Preferirei tenere per me queste cose, se non vi dispiace- rispose secca e altezzosa.
-Spero il mio fratellino non vi stia importunando. E’ la prima volta che vede una ragazza, vi prego di comprenderlo- il nano dai capelli biondi che aveva parlato in sostegno di Thorin scompigliò con un gesto di cameratismo i lunghi capelli mori dell’interlocutore di Elemmire.
-Quello alle prime armi sei tu, fratellone, non di certo io!
-Fili, nipote di Thorin Scudodiquercia, al vostro servizio- disse il nano biondo con un cortese cenno del capo. Aveva un naso lungo e sottile e due occhi azzurri limpidi come laghi ghiacciati.
-E Kili- aggiunse il nano moro.
-Elemmire- rispose tiepidamente, non sapendo se inserire o no “al vostro servizio”. Considerando che nel giro di poche ore sarebbe stata di nuovo nel suo caldo letto di città, le sembrava stupido mettersi al servizio di figure fantastiche che non avrebbe mai incontrato nella sua vita.
Elemmire si rivolse a Fili, il fratello biondo, che pareva il più maturo ed equilibrato dei due:-Come siete arrivati qui? Siete una specie di clan?
-Io e mio fratello, assieme a Thorin, rappresentiamo la linea di Durin, il più saggio e longevo dei sette progenitori della razza dei nani. Il nostro bisnonno Thror era Re sotto la Montagna ai tempi della venuta di Smaug il Terribile. Gli altri provengono da clan differenti, solo Dwalin e Balin sono dei congiunti: prozii, cugini di Thorin. Sono il nano calvo con il cranio tatuato e l’altro con la barba bianca. Non puoi confonderti.
Fili aveva ragione. Dwalin aveva spalle enormi e un torace largo come una botte, tutto coperto di una sbrindellata armatura spaiata; Balin sedeva composto e ascoltava assorto le conversazioni attorno a lui, intervenendo di tanto in tanto in una lingua sconosciuta. Sembrava il più vecchio della compagnia, assieme a Gandalf.
-Cosa sapete di Gandalf?- chiese Elemmire piuttosto incuriosita.
-Quello che lui stesso racconta di sé, e non è mai molto. E’ uno stregone girovago, ed è estremamente saggio e potente. Thorin gli ha affidato l’organizzazione della missione e lui ci ha radunati tutti quanti da ogni angolo della Terra di Mezzo. E pare abbia trovato uno scassinatore.
-Mi piace Bilbo Baggins- esclamò Kili, appoggiando la schiena al muro.
Mi pare il minimo dopo che ti sei abboffato come un porco alla sua tavola!
-E’ un esserino molto a modo- rispose cortesemente Elemmire –Ma temo non entrerà mai nella vostra compagnia. E’ assolutamente terrorizzato. Sembra voi dobbiate fare a meno dello scassinatore, e del quindicesimo membro.
-Io credevo fossi tu il quindicesimo membro- Kili le rivolse un altro sguardo obliquo. Quel nano era così fastidioso!
-Ti sbagliavi- rispose seccata, e sgomitando si alzò da tavola.
Proprio in quel momento Bilbo Baggins le passò davanti senza neanche vederla, malfermo sulle gambe, sudaticcio e pallido. Non si era ancora ripreso del tutto dal colpo. Non avrebbe mai partecipato alla riconquista di Erebor. Elemmire trovò Gandalf seduto nella poltrona della sala da the, con gli occhi chiusi e la fronte aggrottata.
-Potrei disturbarvi signor Gandalf?- chiese timidamente.
Gandalf mosse appena la testa.
-Mi piacerebbe tornare a casa adesso, signore. A casa mia.
Gandalf aprì gli occhi. –Magnifico! Hai idea di come fare?
Un presentimento orribile le congelò il cuore:-Io credevo che dei due foste voi lo stregone.
-E senza dubbio questo è giusto. Tuttavia, i Portali tra dimensioni sono affarini molto complicati, e molto antichi. Si aprono solo in determinate condizioni e pronunciando determinate formule.
-Questo…Questo significa che voi…che io…- le parole le si bloccarono in gola per l’orrore. Iniziò a gridare nella sua testa. –Sono prigioniera qui.
-Oh che spiacevole parola! Prigioniera! Avrai cibo, protezione e un sacco di cose stupefacenti da raccontare. Spero tu sia abituata a badare a te stessa, signorina Elemmire.
-Un momento, un momento solo. Non ho intenzione di dirigermi verso il drago. Oh, nossignore, piuttosto rimango qui con il signor Baggins!
-Mia cara ragazza, ho avuto già la mia dose di testardaggine giornaliera con Thorin e i suoi seguaci. Non potrai mai fare cambiare idea a un nano, non cercando di convincerlo delle tue ragioni per lo meno. Ma tu cerca di ascoltarmi bene. Devi rimanere ben vicina a me. Niente di male potrà capitarti e se accidentalmente un altro Portale dovesse aprirsi saresti in compagnia di chi può, quanto meno, controllarlo. Prima di raggiungere il Bosco Atro io tornerò indietro per degli affari da sbrigare. Thorin e i nani proseguiranno verso Erebor, tu verrai con me, lontana dal pericolo se è questo che ti preme. Ovviamente Bilbo andrà avanti con i nani.
-Bilbo Baggins non è uno scassinatore, e non partirà mai per questo viaggio. Basta guardarlo in faccia. Sembra più un droghiere.
-Bilbo Baggins è un hobbit discendente del Vecchio Tuc. Non tradirà le mie aspettative.
Rimasero entrambi meditabondi. Elemmire era sull’orlo delle lacrime. Era intrappolata lì, in un mondo estraneo e popolato di essere fantastici. Doveva essere tutto un incubo, realistico ma non reale. Un incubo… All’improvviso aveva tanto sonno. –Dove posso passare la notte signor Gandalf?
-Hai l’imbarazzo della scelta, mia cara. Credo che il nostro Bilbo abbia una mezza dozzina di camere da letto libere. O se preferisci puoi stendere una coperta da qualche parte. L’estate è ancora lontana dal finire e non sentirai freddo. Consiglierei la prima camera a destra nel secondo corridoio: era di Belladonna Tuc, la madre di Bilbo. Magari troverai anche qualche vestito da mettere addosso.
-Cosa mi sveglierà domattina, signore?
-La domanda è chi. Manderò un nano a dirti quando siamo pronti per partire. Essenzialmente, prima sei in piedi, meglio sarà per tutti noi.
-Allora buonanotte signore.
-Buonanotte, Elemmire.
Elemmire si girò per andarsene, poi raccolse il coraggio e si rivolse ancora una volta a Gandalf:-Voi potete assicurarmi che tornerò a casa mia?
-No. I viaggi tra dimensioni non accadono più da secoli in questa terra. E se questa volta il portale si è aperto, deve esserci un preciso motivo. Ma ricorda, è pericoloso viaggiare tra dimensioni. Si possono avere conoscenze parziali di ciò che è stato ma soprattutto di ciò che sarà, e la pena per coloro che cercano di modificare il futuro è terribile. Perciò, tieni gli occhi aperti, parla meno che puoi e stammi vicina. Anzi, forse sarà meglio che io ti affidi a qualche nano, per quando io non dovessi esserci. Ci rifletterò su.
Elemmire si avviò in silenzio lungo il corridoio. Ogni luce a parte il ruggente camino della sala da pranzo era stata spenta. La casa giaceva nel silenzio. Dalla sala dove i nani erano riuniti proveniva un basso mormorare, vibrante come le fusa di un gatto. Elemmire ci mise un po’ per capire che stavano intonando una melodia. Il mormorio le fece correre i brividi sulla schiena. Si accasciò a terra con il viso rivolto verso la stanza illuminata.
La voce possente e bassa di Thorin iniziò a cantare lentamente e solennemente.
 
Lontan sui monti fumidi e gelati
In antri fondi, oscuri e desolati
Prima che sorga il sole dobbiamo andare
Per esigere i nostri ori obliati
 
I pini sulle alture erano ruggenti
Alti gemevan nella notte i venti
Rosso era il fuoco e distruggeva tutto
Gli alberi come torce erano splendenti.
 
C’era tanta di quella fierezza e nostalgia nel canto che calde lacrime rigarono le guance di Elemmire. In silenzio pianse e ascoltò la storia sofferente dell’esiliato popolo di Durin, impregnata del loro stesso desiderio di tornare a casa. Alla fine, esausta, si trascinò fino al corridoio, a tentoni trovò la camera indicata da Gandalf e si buttò sul letto.
Un solitario pensiero le si affacciò alle porte del sonno.
Hobbit. Hobbit. Tolkien. Libro.
Lei che leggeva Lo Hobbit.
Lei che ora viveva ne Lo Hobbit.
Le parole di Gandalf le apparirono ancora più grevi di significato.
Ma ricorda, è pericoloso viaggiare tra dimensioni. Si possono avere conoscenze parziali di ciò che è stato ma soprattutto di ciò che sarà, e la pena per coloro che cercano di modificare il futuro è terribile.
Quell’avventura che lei stava per incominciare aveva già un suo finale scritto, si rese conto.
E qualunque cosa fosse accaduta, lei non avrebbe dovuto fare nulla per modificarlo.
 
 
   
 
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