III –
L’Imperatrice
La Ragazza
dietro l’Obiettivo
Villa Courteney,
Dover. 16 Agosto 2011
Era
sera e Verity stava ancora guardando la valigia spalancata sul letto cercando
di capire cosa metterci dentro.
A
pranzo Christian le aveva detto che sarebbero partiti alla volta dell’India nel
giro di un paio di giorni e aveva preparato una trappola per Michael. Non era
sceso nei particolari davanti a Nyvie, ma le aveva chiesto di preparare le
valigie mentre lui organizzava le ultime cose e prenotava l’albergo a Calcutta.
Da
quando aveva saputo del viaggio, Nyvie non stava più nella pelle e aveva
iniziato a parlare di sua madre e dei suoi fratellini, spiegandole i giochi che
facevano, i posti che avevano visto della città e il mercato dei fiori dove
voleva portarla.
Ora
la bambina stava stesa a pancia in giù sul parquet mentre sfogliava un libro
illustrato sugli animali del mondo.
–
Voglio vedere anche questo! – esclamò mostrandole la foto di un ippopotamo.
Verity
sorrise in risposta. Aveva visto un ippopotamo allo zoo e la mole dell’animale
le aveva fatto impressione mentre avanzava verso la pozza d’acqua. Quel giorno
si era portata dietro la Nikon che Alessio e i suoi amici le avevano regalato
per il suo compleanno in sostituzione di quella vecchia a cui era affezionata,
ma che non poteva più usare perché i rullini erano sempre più introvabili.
Scese
dal letto, abbandonato la valigia e si sedette a gambe incrociate accanto a
Nyvie. – Potremmo andare allo zoo se vederli se vuoi. Sai dove vivono?
La
bambina scosse la testa facendo danzare le ciocche nere, ascoltandola con
attenzione come faceva con Christian quando le insegnava qualcosa. Verity non
era un’esperta di geografia, anzi se poteva la evitava come la peste, ma poteva
trasmettere anche lei qualcosa a quella bambina. Le prese il libro dalle mani e
sfogliò le figure con calma, mostrandole delle foto dell’Africa centrale.
Mentre parlava sentiva dentro di sé l’eco di una voce del passato. Aveva la
consapevolezza che quella bestia fosse vissuta in tempi remoti anche nella
valle del Nilo, spingendosi fino a Tebe e nel delta. Non sapeva da dove
arrivasse quella conoscenza, ma le diete una stretta allo stomaco e un atroce
mal di testa che la costrinse ad allontanare il libro da sé.
–
Scusa, – disse alzandosi per recuperare una bottiglia di acqua gelida dal
frigorifero – credo che sia la stanchezza.
Incrociò
gli occhi verdi di Nyvie, che risaltavano sotto i capelli neri e la pelle
olivastra e le vennero le lacrime agli occhi senza che potesse impedirle. Le
tempie pulsavano mentre si rendeva conto che aveva già conosciuto qualcuno con
una fisionomia simile a Nyvie e il ricordo stava premendo in tutti gli angoli
della mente per uscire. Capelli scuri e crespi e un paio di vividi occhi verdi.
Cadde in ginocchio, soccorsa immediatamente dalla bambina che la guardava con
apprensione.
–
Stai male? – le chiese Nyvie.
Le
parlava in modo semplice e diretto e i ruoli si invertirono: erano Nyvie che si
stava occupando di lei con una maturità e una dolcezza che non si direbbe da
una bambina di nove anni.
Strinse
la piccola tra le braccia, un po’ per rassicurarla, un po’ per il bisogno di
sentire qualcuno vicino e trovare un punto fermo nel mare di sentimenti che la
stavano sommergendo. – Mi dispiace – mormorò. Non sapeva a chi lo stesse
dicendo, se a Nyvie per averla spaventata o alla persona del ricordo che non
riaffiorava. – Mi dispiace tanto.
–
Non devi preoccupare. Va tutto bene.
Verity
annuì asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. Avrebbe voluto mettere
la bambina a letto e cercare di darsi un contegno, invece non riusciva a
muoversi paralizzata da alcuni sentimenti che riaffioravano sempre più forti
senza riuscire ad associare un nome o un volto alla persona verso cui erano
diretti.
Si
ritrovò seduta con Nyvie in braccio mentre dava voce ai pensieri che non
smettevano di tormentarla. – Una volta, molti anni fa, c’erano un ragazzo e una
ragazza che si conoscevano fin da bambini. Erano cresciuti insieme perché il
fratello maggiore della ragazza era il migliore amico del bambino.
Nyvie
la scrutò sottecchi, per poi sistemarsi meglio contro di lei. – Hanno un nome?
I
pensieri di Verity vagarono nell’oscura confusione che c’era nella sua testa
fino a trovare una risposta. – Lei si chiamava Emily e suo fratello maggiore
Thomas, mentre lui... – una fitta più forte delle altre la costrinse a lasciar
stare, avvertendola che se avesse scavato troppo avrebbe avvertito molto più
dolore. – Lui non lo ricordo – mentì.
–
Allora Christian – suggerì Nyvie animandosi di colpo. – Possiamo dare questo
nome fino a che ricordi.
–
Sì.
Chiamarlo
Christian le suonava sbagliato, come una nota stonata in una melodia
malinconica ma il vero nome continuava a sfuggirle. – Emily e... Christian si
sposarono da giovani. Lei aveva appena quindici anni quando suo fratello
maggiore, diventato capo villaggio da poco, intrecciò le loro mani davanti a
tutti. Lui era diventato un uomo, uccidendo un cervo durante una battuta di
caccia dimostrando così di essere in grado di prendersi cura di una famiglia. –
Verity sorrise triste. Poteva rivivere tutti gli eventi, quasi tracciasse dei
puntini per formare un disegno, ma non ricordava il viso, il nome o l’odore del
ragazzo. La sua figura nella mente era fatta di puro fumo. – Ma lei sapeva bene
che Christian – ogni volta che era
costretta a pronunciarne il nome si sentiva male. Non era il suo, non era il
nome che cercava, ma se non usava quello ci sarebbe stato il vuoto. – amava
imparare. Non era portato per cose come la caccia, era curioso e intelligente.
Emily adorava quel tratto del suo carattere. Avevano passato ore intere nei
boschi con lui mentre si appostava per seguire gli animali o studiava le
piante.
–
Erano felici di stare insieme? – domandò Nyvie contro il suo petto.
–
Sì. Emily si sentiva la donna più felice del mondo. Il giorno del suo
matrimonio avrebbe giurato che il sole stesso stesse baciando le loro mani
intrecciate. La loro vita era dura, ma erano felici. Christian aiutò Thomas a
costruire un nuovo granaio e teneva il conto per il villaggio mentre Emily
imparò da lui e dalla guaritrice del villaggio l’uso delle piante medicinali e
si rese utile aiutando gli ammalati. Quando nacque la loro prima bambina niente
poteva renderli più felici. Stavano insieme, e sapevano che erano fatti l’uno
per l’altra, nati per trovarsi e amarsi.
Nyvie
sbadigliò e si accoccolò meglio mentre Verity continuava a raccontare aneddoti
sulla storia di Emily e di come lui, l’avesse sempre protetta o l’avesse
afferrata quando era scivolata da una roccia in riva al fiume.
La
bambina si addormentò prima che Verity potesse arrivare alla parte tragica di
quella storia, quando Emily, sola in casa a parte i due bambini, aprì la porta
a una persona che aveva sempre considerata amica e che poi la uccise. Il
ricordo di quel momento si affievolì mentre riviveva sulla pelle il freddo del
pugnale di Lucas e le urla dei bambini, poi il ricordo tornò forte ma da
un’altra prospettiva. Vedeva il cadavere di Emily sul pavimento, riverso in una
pozza di sangue e le sue mani infantili imbrattate fino ai polsi mentre la
scuoteva, chiedendole implorante di muoversi.
La
mente di Verity era alla deriva, come se fosse animata di vita propria e non
riusciva fermarla. Quello che stava vivendo era il ricordo di Awena, la figlia
di Emily. Aveva la consapevolezza di avere accanto il suo fratellino e di
averlo incitato a correre per andare dallo zio Thomas e chiamare suo padre
mentre Lucas, che aveva considerato come un secondo zio, fuggiva abbandonando
dietro di sé Emily e il coltello imbrattato di sangue. Si sentì tirare
indietro, mentre suo padre si chinava sul corpo della mamma e le ripuliva il
viso con delicatezza, pregandola di tornare indietro e di non andare di nuovo
dove lui non poteva seguirla.
–
Perché sei fatto di fumo? – domandò Verity tra i singhiozzi. – Perché sei
un’ombra e non ho il ricordo della tua voce? Se sei un fantasma, perché mi fai
del male?
Nyvie
mormorò qualcosa nel suo sonno innocente e allegro e Verity si costrinse a
stare in silenzio premendosi forte il dorso della mano contro le labbra. Chiuse
gli occhi e lasciò che le memorie terminassero di torturarla mentre Awena
guardava suo padre il giorno del funerale. Era trattenuto a stento dai membri
del villaggio per impedire che si gettasse nelle fiamme che consumavano il
catafalco di Emily. Quando non rimase altro che cenere al vento di Emily, suo
padre era accasciato a terra privo di forze a fissare le braci che avevano
consumato il corpo. Su di esse aveva giurato che si sarebbe vendicato. Da quel
giorno, Awena aveva visto suo padre sempre di meno, immerso com'era nei suoi
propositi di vendetta, fino a sparire del tutto quando lei si era sposata.
Tornò
in se stessa con Nyvie tra le braccia che dormiva tranquilla. La bambina era
sempre così, metteva tutta se stessa nelle attività della giornata fino ad
addormentarsi in pochi minuti.
Con
gli occhi rossi, Verity si alzò piano e prese la piccola in braccio per
portarla nella sua camera.
Aveva
bisogno di stare da sola e riordinare le idee, inoltre, non voleva svegliare la
bambina.
Incrociò
Christian nel corridoio che si muoveva nella sua direzione con i soli pantaloni
del pigiama addosso.
–
Nyvie era con te? – sussurrò allungando le mani per togliergliela dalle
braccia. – Ero passato per camera sua ad assicurarmi che fosse a letto.
C’era
qualcosa di possessivo nel modo in cui gliela tolse. Anche se i toni erano
gentili, gli occhi blu di Christian la fulminarono, come se Verity gli avesse
sottratto qualcosa di prezioso.
–
Stava sfogliando un libro in camera mia – rispose Verity cercando di non dare
peso a quella sensazione. – Si è addormentata mentre gli raccontavo una storia.
Christian
guardò prima il sonno sereno di Nyvie e poi gli occhi arrossati di Verity e la
gelosia che lei aveva notato, sparì.
–
Non hai una bella cera – le disse il ragazzo. – Metto a letto Nyvie e poi
parliamo.
Verity
lo seguì in silenzio, ancora persa nel ricordo che aveva rivissuto. Cos’era che
le faceva più male? Aver appena sentito la propria morte o sapere che quel viso
rimaneva un’ombra? Il suo poteva essere un sogno ad occhi aperta, una
fantasticheria come quelle che aveva fatto nelle sonnacchiose domeniche
pomeriggio dopo aver appena finito un libro o visto un film avvincente, eppure
quei sentimenti non andavano via. Erano suoi, appartenevano a lei. Le batteva
il cuore quando percepiva che un paio di braccia forti l’avevano stretta e una
schiena larga l’aveva sostenuta e la sua mente deviava sempre verso Michael e
quel sorriso aperto che un paio di volte era apparso sul suo viso. Conosceva
nel profondo quel modo di sorridere, ma come provava a frugare nei suoi
ricordi, quello spariva. Era come guardare qualcosa con la coda dell’occhio e
poi voltarsi per mettere a fuoco e scoprire che era stato tutto un gioco di
riflessi.
Studiò
Christian mentre rimboccava il lenzuolo leggero a Nyvie e le dava un bacio
sulla fronte per poi controllare che la zanzariera fosse ben chiusa. C’era
ancora un mezzo sorriso sul volto del ragazzo nel momento in cui si era girato
verso di lei e le aveva fatto cenno di precederlo fuori.
–
Ti comporti come un padre nei suoi confronti – disse quando lui si chiuse la
porta della camera di Nyvie alle spalle.
– È
la persona più importante per me. Non hai idea di cosa farei pur di vederla
sorridere.
Verity
non voleva ammetterlo ad alta voce, ma c’era qualcosa di malsano
nell’attaccamento che Christian aveva per Nyvie. Controllava sempre dove fosse,
cosa stesse facendo e che nulla potesse turbare la sua pace. Quel comportamento
le faceva paura. Quando era stata sopraffatta dal dolore Christian non aveva
esitato due volte a immobilizzarla e metterla a tacere pur di evitare che Nyvie
si preoccupasse per lei, ma nonostante quell'episodio l'avesse spaventata nel
suo cuore sentiva dell’affetto nei confronti del ragazzo. Avevano condiviso un
passato e ora che lo guardava in faccia vedeva che in Christian c’era Thomas,
il fratello maggiore di Emily.
Gli
accarezzò una guancia mentre i tratti di quello che era stato suo fratello si
confusero con Christian. – Thomas?
Le
sorrise con dolcezza mentre le toglieva la mano dal volto. Aveva anche lui gli
occhi lucidi. – Sono passati più di millecinquecento anni. Non sono più tuo
fratello, Emily.
Aveva
parlato direttamente alla memoria della ragazza che prima era riaffiorata nella
mente di Verity. La sentì agitarsi come se Emily fosse ancora viva, come se i
suoi pensieri, sentimenti ed emozioni non fossero mai morti ma fossero lì, in
attesa di tornare alla luce.
–
Sorellina, – mormorò Christian appoggiando la fronte contro la sua – mi sei
mancata. Ogni giorno dalla tua morte. Ogni respiro e ogni minuto che ho vissuto
dopo. – Era Christian e allo stesso Thomas che le parlavano e lei rispondeva
come Verity e come Emily a quelle parole.
Come
aveva fatto a non vedere quello che un tempo era stato suo fratello dietro il
volto di Christian?
Le
diete un bacio sulla guancia, uno di quelli dolci e tristi che Christian
riservava a Nyvie, asciugandole una lacrima. – Volevo che ti ricordassi di me,
cosa fossi stato per te, Verity. Le memorie stanno vivendo dentro di te ma non
lasciare che ti dominino.
Appoggiò
un’ultima volta le labbra contro la sua fronte rispondendo al richiamo di due
fratelli troppo a lungo separati dal tempo e dalla morte ed entrambi chiusero
gli occhi concedendo un ultimo minuto a Thomas ed Emily per dirsi addio.
Quando
incrociò di nuovo il suo sguardo, Verity vedeva solo Christian in quegli occhi
blu. – Cos’era quello? – domandò asciugandosi il viso.
–
L’eco di un bisogno – rispose Christian. – Sentimenti e memorie che vivono
dentro di noi. Stai recuperando la memoria delle tue vita passate con il
passare dei giorni. Alcune personalità più forti si fanno vive anche mentre sei
sveglia. In presenza di persone che per noi hanno significato qualcosa alcune
vite passate emergono in tutta la loro forza
prendendo possesso di noi.
Mentre
glielo spiegava Christian si morse il labbro inferiore e Verity colse qualcosa
in quel gesto.
–
Cosa mi stai nascondendo?
–
Cosa non capisco, vorrai dire. La prima volta che ti ho vista ho capito quasi
subito chi tu fossi. Quando ti scansai la canottiera e vidi il marchio sul tuo
cuore non aveva provato nulla. Sapevo che eri stata Emily. Razionalmente
parlando lo sapevo, ma solo stasera ho avvertito Thomas farsi avanti e
riconoscere sua sorella.
–
Significa che prima di vedere Thomas in te, tu non avevi percepito Emily?
Christian
alzò le spalle. – L’avevo vista nei sogni. Sapevo chi era e conoscevo l’affetto
che Thomas aveva provato per lei, ma non ne ero stato turbato come stasera. Non
ero mai stato emotivamente coinvolto dai ricordi mentre ero sveglio. – meditò
sulle sue stesse parole mentre la sospingeva verso il corridoio da cui erano
arrivati. – Cosa hai provato vedendo Dubois la prima volta?
Al
ricordo del modo in cui si era comportato al negozio, Verity si infuriò. – Li mortacci sua! Se avessi potuto, lo
avrei picchiato. Un maleducato! Un arrogante! Uno schifoso, lurido bastardo.
–
Credo che tu abbia reso chiaro il concetto. – Christian rise e anche a Verity
scappò una risata per quell’uscita. Le mancava il dialetto di Roma, quella
parlata un po’ burbera ma solare che la faceva sentire sempre a casa.
–
Penso, – disse Christian stiracchiandosi – che per provare ciò che abbiamo
vissuto prima ci debba essere una reciproca riconoscenza. Tu non hai
riconosciuto Dubois e me a Parigi, vero?
Verity
scosse la testa e fissò il petto nudo di Christian. C’erano delle parole nere
tatuate seguendo la linea delle costole come lei avrebbe fatto con le righe di
un quaderno. Non riconosceva l’alfabeto, anche se c’era qualcosa di familiare
in esso, lo aveva già visto a Roma e al Louvre. – E quello? – domandò curiosa.
–
Non riesci a seguire il filo di un discorso serio? – rispose Christian guardandosi
il petto.
–
Mai stata capace. Anche a Roma dicevano sempre che saltavo di palo in frasca.
Ale per esempio... – si bloccò con il dolore forte come una staffilata pensando
al suo ragazzo e dovette trattenere la mano per impedire che corresse al collo
a cercare l’anello.
Christian si accorse
di quel movimento involontario e le prese la mano, sostenendola con la propria.
– Il tatuaggio che ho addosso è il giuramento di Ippocrate scritto in greco
antico. – le spiegò con dolcezza assecondando il suo bisogno di cambiare
argomento. – Quelle che vedi più marcate sono quelle che mi piacciono di più,
che mi ricordano chi dovrei essere. – Chiuse gli occhi e iniziò a recitare: – Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati
secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal recar danno e offesa.
Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale né
suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale
abortivo. Ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio o anche
fuori dell'esercizio sulla vita degli uomini tacerò ciò che non è necessario
sia divulgato, ritenendo come un segreto cose simili. E a me, dunque, che
adempio un tale giuramento e non lo calpesto, sia concesso di godere della vita
e dell'arte, onorato degli uomini tutti per sempre; mi accada il contrario se
lo violo e se spergiuro. – inspirò
forte, riprendendo fiato e aprì gli occhi con la luce della determinazione
negli occhi. – Che mi accada il contrario se lo violo e se spergiuro. – ripeté
sottovoce.
– È bello. – disse
Verity osservando le linee nere. Piccole frasi, scritte in una lingua che non
capiva ma che avevano tanta forza al loro interno. – Le hai mai pronunciate?
– I medici fanno
un giuramento una volta laureati, ma queste le ho pronunciate il giorno che
Nyvie mi ha salvato. Il giuramento dei medici non aveva avuto alcun valore per
me fino a quel momento. Pronunciando il giuramento di Ippocrate per conto mio,
con solo Dio a essermi testimone, ho deciso di ricominciare da capo ed essere
un nuovo medico.
Verity non sapeva
cosa dire. Christian l’aveva impressionata. Si sentiva piccola sotto il suo
sguardo. Era questo che intendeva Mikelich quando le aveva detto che Christian
aveva bisogno di dimostrare qualcosa? Mostrare a se stesso e agli altri che era
cambiato facendo gesti estremi come quel tatuaggio e i regali che le faceva?
Percorse le parole
nere con due dita seguendo le linee delle costole che sentiva sotto i muscoli
del ragazzo, che si irrigidirono al suo tocco. – Sei coraggioso.
– Per un
tatuaggio?
– Per ciò che
rappresenta questo tatuaggio. Hai avuto il coraggio di cambiare. Non devi fare
regali costosi per dimostrare di non essere più quello di allora, quando ti
prendi cura degli altri la gente lo nota.
Christian coprì la
mano di Verity con la sua. – Tu lo hai visto?
Annuì. – Quando ti
prendi cura di Nyvie, quando mi hai accolto nella tua casa trattandomi come
un’ospite e non una prigioniera, quando mi hai protetto da te stesso. Non hai
bisogno di fare regali costosi per mostrare che sei una brava persona, lo sei.
Sono i gesti istintivi che fai a parlare per te.
Gli occhi blu di
Christian si oscurarono e le dita si chiusero sulle sue con forza, facendole
male, ma prima che la protesta lasciasse le sue labbra la presa si rilassò e il
ragazzo le sorrise. – Mi dispiace.
Lo guardò senza
capire, se non fosse per il dolore pulsante che aveva la mano, avrebbe giurato
di aver solo immaginato l’ombra che era passata negli occhi del ragazzo. La
stessa ombra che aveva visto quando lui l’aveva spinta via nel suo studio,
ordinandole di allontanarsi. – Mi passerà presto. – mormorò massaggiandosi le
dita. – Hai solo stretto un po’ troppo.
Sperava che lui la
correggesse e le spiegasse cosa gli stesse passando per la testa, invece non
aggiunse nulla che potesse chiarire gli sbalzi di umore che aveva negli ultimi
giorni. – Vieni, – le disse facendole cenno di seguirlo – ti accompagno in
camera tua. Hai fatto i bagagli?
– Sono in alto
mare. Non ho idea di cosa metterci dentro a parte lo spazzolino e il
dentifricio.
Avrebbe voluto
indagare oltre su ciò che gli stava succedendo, ma il ragazzo non aveva voglia
di parlarne e Verity non voleva insistere oltre. Conosceva i sentimenti di chi
era spinto al limite da domande troppo personali. La sensazione di essere sotto
una lente di ingrandimento, sempre osservato, soppesato e giudicato.
Se Christian non
era pronto a parlarne, lei non avrebbe insistito.
Si affidò
all’esperienza sul clima indiano di Chris per selezionare i vestiti e le
scarpe, mentre lei sistemava con cura gli effetti personali che si era portata
da Parigi. Poteva rinunciare al vestiario, alle lenzuola comode che aveva
imparato ad apprezzare e al bagno personale senza voltarsi indietro due volte,
ma non poteva lasciare alla villa il suo prezioso album di foto e i suoi libri
preferiti. Quando li mise dentro con delicatezza, facendo attenzione che le
pagine non si rovinassero e le sovracopertine non avessero pieghe, Christian si
accorse della loro presenza.
– Harry Potter? –
domandò con un sorriso un po’ canzonario.
Da brava Potterhead
dovette resistere all’impulso di abbracciare i libri come se fossero i suoi
figli primogeniti. Verity aveva ventidue anni ed era cresciuta con Harry
attendendo con ansia l’uscita del libro successivo ed era fermamente convinta
che il gufo con la sua lettera per Hogwarts si fosse perso. Quando lo aveva
detto ad Alessio lui aveva primo riso, poi era impallidito sotto il suo sguardo
furioso. Harry era stato un compagno fedele che l’aveva accompagnata nei
momenti più soli e malinconici della sua vita, perfino Ale aveva dovuto
arrendersi di fronte all’amore che lei provava per quei libri.
– Problemi? –
replicò sul piede di guerra.
– Nessuno. Li ho
anche io. Sono in camera mia.
Verity lo guardò
guardinga, non del tutto sicura che fosse serio. La gente che parlava di Harry
Potter solo perché aveva visto i film era ovunque. – Che casa?
– Se potessi
scegliere andrei a Corvonero, ma non ho idea di dove mi metterebbe il Cappello
Parlante. Chissà che canzone canterebbe prima che la McGranitt ci chiami per
mettercelo in testa? Ci hai pensato?
Per poco non lo
abbracciò. Alessio non aveva letto i libri, aveva visto i film con lei ma non
aveva mai aperto nemmeno una pagina della serie.
Solo a gennaio di
qualche anno prima, in concomitanza dell’uscita dell’ultimo libro, Alessio
l’aveva accompagnata in libreria e anziché prendere il settimo volume, le aveva
preso il cofanetto con tutti i libri. Aveva pianto quando lui aveva appoggiato
sulla cassa l’edizione speciale con il motto di Hogwarts sotto le
sovracopertine. Aveva capito quanto lui la conoscesse e l’amasse nonostante lei
si comportasse come una matta nei momenti più impensati e stesse sveglia ore e
ore a incoraggiare Harry in piena notte, incitandolo a non arrendersi.
Si sedette a bordo
letto accarezzando il titolo dei libri. – Non potrei separarmi da loro. Avevo
iniziato a leggerli prendendoli in prestito in biblioteca. Quando uscì il
quinto c’era una fila di prenotazioni lunghissima per poterli leggere. Dopo una
settimana che lo avevo, la bibliotecaria mi chiamò per chiedermi se potevo
riportarlo non appena lo finivo perché c’erano un sacco di ragazzi che lo
chiedevano. Fu Ale a regalarmi tutti e sette i libri. – disse con gli occhi
lucidi. Era un periodo che non faceva altro che piangere e iniziava a
vergognarsi di essere tanto debole da non riuscire a sostenere una
conversazione senza finire in lacrime. – Non avevo mai preso in considerazione
di possederli tutti. Leggere è un hobby costoso e quindi...
– A te piace
leggere? – chiese Christian sedendosi accanto a lei.
– Buffo, vero? –
disse asciugandosi gli occhi. – Ho iniziato con una copia dell’Isola del tesoro
in offerta. Me l’aveva presa mamma appena trasferite a Roma, pensava che
leggendo in italiano avrei imparato in fretta la lingua. E aveva ragione.
Christian le passò
una mano intorno alle spalle. – Ti manca tua madre?
– Se dicessi di
no, sarei una pessima figlia? Mia madre beveva e si rovinava la vita, spesso
arrivavamo a fine mese con una scatoletta di tonno da dividere perché spendeva
tutto in alcol. Sono andata via appena ho potuto e l’ho lasciata da sola per
poter avere una vita mia. Non ho rimpianto nemmeno una volta di essermene
andata nonostante fosse mia madre. – guardò gli oggetti nella valigia
spalancata, persa. – Ciò che vedi è quello che possiedo. Quello che mi ha
regalato il ragazzo che amo e quello che ho ottenuto con le mie forze. Ciò che
mi manca è la mia vita a Roma, la mia routine, la mia doccia con le manopole
invertite e un piccolo scaffale con quattro libri in croce. Era un vita
perfetta perché ero felice. – singhiozzò tirando su con il naso. – Ero felice
nell’alzarmi la mattina e andare a fare un giro al mercato con una vecchia
macchina fotografica. Ero felice quando servivo cappuccini e pulivo i pavimenti
del bar. Avevo tutto ciò di cui avevo bisogno.
Con dolcezza,
Christian prese il vecchio album che Verity aveva messo in borsa e iniziò a
sfogliarlo. – Questo che posto è?
– Una veduta di
Roma dalla terrazza del Pincio. Vedi quella? È la cupola di San Pietro. Non so
nemmeno perché l’ho fatta, potevo andare alla terrazza ogni volta che volevo e
vedere il panorama. Mi piaceva la luce che c’era quel giorno e il vento freddo
che scuoteva gli alberi. – parlare l’aiutava a calmarsi. Non sapeva perché
fosse scoppiata in quel modo, se era a causa della tensione degli ultimi giorni
o degli incubi che non la lasciavano in pace. Passò alla foto successiva con un
sorriso triste in volto. – Il Giardino del Lago e il Tempietto di Esculapio a
Villa Borghese. Aveva appena finito di piovere e avevo evitato il diluvio per
pura fortuna. Non avevo nemmeno l’ombrello quel giorno.
Christian le
indicò la foto di una donna con dei fiori in mano e a Verity sfuggì una risata.
– Non so perché l’ho fatta. Eravamo fuori dal Mercato dei Fiori di via
Trionfale e lei era lì, con quel mazzo di fiori in mano che aspettava
l’autobus. Aveva un’aria così serena in mezzo al caos che è Roma che le ho
fatto una foto. Mi immagino, non so, che abbia voluto decorare un vaso che le
era stato regalato o boh, semplicemente che le piacessero e che li avesse
comprati. Questa qui sotto, – disse indicando una coppia di turisti che
prendevano un caffè sulle poltroncine esterne di un bar – l’ho scattata in
piazza Navona. Era estate e come al solito la città era assediata di turisti da
tutto il mondo. Mi facevano ridere perché guardavano le fontane della piazza e
indicavano le cartine che tenevano in mano, così gliel’ho fatta. Questa invece
l’ho scattata subito dopo. – proseguì indicando un bambino che fissava a bocca
aperta una vetrina. – All’angolo di piazza Navona c’è un negozio di giocattoli.
Avevano in vetrina il peluche di una tigre a grandezza naturale, credo di
essere rimasta a bocca aperta anche io in quel momento. Era stupenda.
Tra le braccia di
Christian si sentiva meglio e riusciva a parlare di tutti quei piccoli momenti
che aveva catturato nella quotidianità di Roma. La gente assiepata sui
marciapiedi in attesa del momento ideale per attraversare in mezzo al traffico.
Amici e colleghi con un supplì e un trancio di pizza in mano. Le lunga coda che
girava dietro l’Arco di Trionfo per visitare il Colosseo e i desideri affidati
alle monete sul fondo di Fontana di Trevi.
– Via Appia
Antica. – disse mostrandogli la foto della strada lastricata e circondata da
pini marittimi. – Era una domenica, o un festivo, non ricordo ed eravamo andati
a fare un giro perché avevo dei giorni di ferie. Ho bloccato tutti pur di fare
questa foto.
– Non ti piace far
mettere in posa la gente?
– Lo trovo
ridicolo. La gente che è pensierosa o fa qualcosa è affascinante. Il paesaggio
è affascinante. È un momento che non ricapiterà più, una cosa immortalata nel
tempo. Domani quella gente farà altre cose e quel paesaggio sarà diverso. Non
grandi cose, magari cambierà il gioco di luci o ci saranno le nuvole o sarà
appassito un fiore e sbocciato un altro. Non mi piace fotografare la gente in
posa, è una cosa costruita e la sento finta.
– E questa? –
domandò Christian indicando la foto di un ragazzo con la sciarpa della Roma
attorno al collo mentre esultava. Lo aveva immortalato nell’attimo in cui
saltava in piedi, rovesciando la sedia e urlava per la felicità. Negli ultimi
minuti della partita aveva tirato fuori la sua fedele Nikon e l’aveva regolata
in base alla luce del locale pur di immortalarlo. La gioia dipinta sul suo
volto scaldò il cuore di Verity. – Che storia c’è dietro questa foto?
– La Roma aveva
appena vinto una partita. È stata scattata al bar dove lavoravo. I ragazzi che
vedi sullo sfondo sono gli amici di Ale e lui è...lui è...Alessio. – si sforzò
di dire con un filo di voce. – Il ragazzo della foto è lui.
– Mi dispiace,
non...
Scosse la testa e
chiuse l’album con un gesto secco. – Meglio che vada a dormire. Finirò domani.
Grazie dei consigli.
– Verity...
Non aveva più
voglia di ascoltarlo né di parlare di sé e della sua Roma. Ciò che aveva
vissuto, ascoltato e respirato Christian non poteva capirlo e ora era stanca di
parlare. – Buonanotte. – mormorò invitandolo ad andarsene. – Ci vediamo domani
mattina per colazione.
– Buonanotte,
Verity. – disse andando via.
Rimasta sola, aprì
di nuovo l’album alla pagina dove l’aveva chiusa e fissò la foto. Quella era
l’unica foto che avesse mai preparato in vita sua, l’unica per cui aveva tenuto
la macchina fotografica pronta in attesa del momento giusto.
Strinse l’album di
foto al petto, pensando al momento in cui Ale le aveva chiesto di andare a
vivere insieme e le serate passate a guardare quelle stesse foto e a ridere,
mentre lui la prendeva in giro per le sue manie. Le aveva fatto promettere di
non fotografarlo mai mentre andava in giro in mutante per casa o si faceva la
barba. Sorrise appena, pesando a quando fosse stato facile fargli quella
promessa con l’idea di vederlo ogni mattina appena sveglia.
Quella che ora
stava fissando era l’unica foto che possedesse di Ale. Forse, si disse, avrebbe
dovuto farne di più quando ne aveva avuto l’occasione, che si stesse sbarbando
o meno.
Prima
di andare a dormire diede un'occhiata veloce al suo vecchio cellulare. Aveva
ricevuto un messaggio.
Solo
alcuni vecchi amici che aveva a Roma le scrivevano di tanto in tanto e lei
rispondeva a fatica perché le ricordavano Ale. Il numero non le diceva nulla, a
parte il prefisso internazionale francese. Lo cancellò senza pensarci due volte
convinta che avessero sbagliato numero e fissò in silenzio il soffitto
aspettando che il sonno la prendesse.
Il
telefono vibrò di nuovo e il numero di prima scorreva sotto l'icona del
messaggio in entrata.
Sono Zoe. Ho approfittato di
un'offerta per cambiare numero.
Come stai? :)
Verity
sorrise. Sì, era da Zoe approfittare della migliore offerta possibile sul
mercato. Scrisse una breve risposta, rimanendo sul vago e la inviò. Un minuto
dopo il telefono si illuminò di nuovo portando con se una risposta che le
strappò involontariamente un sorriso. Non capiva perché, ma quella sera Zoe la
stava capendo e aveva trovato con poche parole il modo di farla ridere.
Chiuse
gli occhi, grata per quello scambio che le aveva risollevato l'umore.