Serie TV > Once Upon a Time
Segui la storia  |       
Autore: Euridice100    27/12/2014    13 recensioni
"Ma l’altra rialza il capo e lo fissa con odio.
È allora che Gold la vede.
Arretra di un passo con la certezza di avere dinanzi a sé un fantasma.
'No, non può essere.'
Ma è allora che il passato torna a essere presente."
(Victorian!AU RumBelle
Seguito di "Cleaning all that I've become" e "All of the stars".)
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Belle, Nuovo personaggio, Signor Gold/Tremotino, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Your dream is over... Or has it just begun?'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
 
 
II - Mad world
 
 
 
“All around me
are familiar faces
worn out places, worn out faces,
bright and early

for their daily races,
going nowhere, going nowhere.”
 
 
 
Doveva essere un sogno. Sì, non c’erano dubbi: era ancora notte e si stava dibattendo in uno degli incubi divenuti ormai i suoi amanti più fidati, quei sogni vischiosi i cui strascichi si facevano sentire per il resto della giornata.
Quegli incubi in cui rivedeva i lampi di cielo che aveva per occhi, i Suoi capelli di autunno e il Suo volto, ora concentrato sulla bambina quasi finita sotto gli zoccoli dei cavalli. Nel tempo di un respiro le era corsa accanto e l’urlo lanciato si era trasformato in pianto – un pianto acuto, come mai le aveva sentito erompere dal petto, rotto, straziato.
Che sogno assurdo.
Il più strano che l’abbia mai riguardata, commentò tra sé e sé sperando che tutto si perdesse presto nella bruma sfumata del risveglio.
Ma ogni cosa attorno a lui rimase immobile e salda. La sporcizia della strada, la cappa d’umidità che quasi rendeva solida l’aria, il vociare concitato: nulla svanì; nulla, se non l’iniziale, ferma convinzione di trovarsi in una dimensione onirica tanto spaventosa quanto abituale.
La realtà lo colpì al petto più violenta di un colpo di pistola; vacillò, arretrando alla ricerca di un sostegno che non trovò. I polmoni gli si allargarono dolorosamente in cerca d’aria mentre il mondo esplodeva sotto i suoi occhi senza poterlo fermare.
Lei.
Lei è viva.
Lei è qui.
Poteva essere una sosia, provò a suggerirgli la parte più razionale in lui. Poteva trattarsi di una somiglianza incredibile, tanto sconcertante quanto ingannevole: Lei era morta da anni, e lui doveva farsene una ragione.
Quella giovane donna non era – non poteva essere – Lei.
Ma ci sono delle verità che il cuore intuisce prima della ragione. La mente nega ancora, resiste all’evidenza, anche a costo di contraddirsi; l’anima, invece, trova il modo di accettare anche ciò che non è pronta a capire.
- Mr Gold, – la voce di Hulme gli giunse attutita, come se fosse stata troppo distante per essere colta appieno – Blockehurst è andato a mettere una buona parola. Come vedete, tutto si è risolto. Potete tornare in carrozza…
- No.
Pronunciò le lettere a bassa voce, in un tono sordo che non sapeva di possedere. La testa lo fece subito pentire di quanto detto: che senso aveva fermarsi lì, rischiare di farsi riconoscere e aggredire, attirarsi l’ira della strada per aver quasi ammazzato una piccola popolana? La sua guardia del corpo faceva bene a guardarlo come se fosse improvvisamente ammattito perché, senza ombra di dubbio, lo era.
Ma lui doveva vedere. Doveva capire.
Non si ritrasse quando, a sorpresa, si trovò davanti una furia dagli occhi celesti.
Una furia che, senza esitare un istante, gli tirò lo schiaffo più forte che avesse mai ricevuto.
Una furia che era Belle French.
 
 
 
“And I find it kinda funny,
I find it kinda sad,
the dreams

in which I’m dying
are the best

I’ve ever had.”
 
 
 
Sotto un certo punto di vista, non poteva dare tutti i torti a Regina quando si lamentava dei suoi esiti disastrosi in cucito: evidentemente, ago e filo non erano tra le virtù delle donne di casa Mills.
Ma se per lei era ormai tardi per imparare, lo stesso non poteva dirsi per la ragazza: in vista del suo futuro, avrebbe dovuto dimostrare di essere una perfetta Lady in grado di padroneggiare qualunque arte muliebre; e se al Cheltenham Ladies’ College non erano riusciti a invogliarla, allora sarebbe dovuta intervenire lei a darle il buon esempio.
Ripose il cucito nella cesta e gettò un’occhiata alla pendola: le cinque erano suonate da un pezzo. La carrozza si era forse persa per strada? Sperava solo che la figlia giungesse in tempo per cambiarsi: la cena da lord Albert sarebbe stata una splendida occasione per mostrare al mondo che rosa d’Inghilterra fosse diventata la giovane Mills. E poi, il primogenito stava ultimando gli studi a Eton, e solo il Cielo sapeva se non fosse giunta l’ora d’iniziare a guardarsi attorno…
Imparentarsi con gli Spencer sarebbe stato un colpo da maestro: avrebbe portato la famiglia ancora più in alto, assicurandole ulteriori ricchezze e avvicinandola a corte. Chissà, magari un giorno i suoi nipoti avrebbero ricoperto incarichi di Palazzo, anziché limitarsi a misere tenute sperdute qua e là…
I rumori provenienti dal cortile interno la destarono dai sogni di gloria. Si avvicinò pigramente alla finestra, intuendo la causa del trambusto; ma spalancò gli occhi incredula dinanzi allo spettacolo che le si presentava.
Uno sparutissimo manipolo di dipendenti si era avvicinato alla carrozza, fermatasi nel bel mezzo del patio; e, al centro della piccola calca, era ben visibile la figura dell’erede di una dinastia dalla storia secolare, colei che sarebbe dovuta essere pronta a reggere le redini di una casa e a prendere il suo posto nella società e che invece, a quanto pareva, si stava sollazzando nel salutare e– Cora rabbrividì dall’orrore – nell’abbracciare la servitù.
Al centro della folla c’era sua figlia.
Regina Mills.
Come sempre, è più importante salutare le cameriere che la propria madre…
Si soffermò a studiarla, analizzando gli ulteriori cambiamenti occorsi negli ultimi mesi: a quindici anni, Regina sembrava aver ormai detto addio alle vestigia dell’infanzia trasformandosi in una creatura che, se certo non aveva la grazia angelica tanto ricercata, poteva comunque vantare un certo fascino esotico non meno di moda nella Londra fin de siècle. Gli uomini avrebbero implorato per carezzare la selva di seta nera dei suoi capelli, e Cora era certa che quegli occhi di mistero e magia avrebbero trovato il modo per legare a sé i migliori gentiluomini; sarebbe solo bastato giocare al meglio le carte in proprio possesso.
Per questo l’aveva iscritta a una delle migliori scuole preparatorie – e non per punirla, come qualcuno pure insinuava nelle sue lettere –, per questo aveva investito tanto sul suo avvenire: Regina era un tesoro da far fruttare senza remore, e la Contessa non dubitava che ci sarebbe riuscita… Se solo quell’ingrata avesse dato retta a lei, anziché starsene a bighellonare coi domestici!
Ma Regina ti ascolta solo se costretta, lo sai.
Alle volte Cora Mills si chiedeva dove avesse sbagliato. Quale fosse stato il suo errore, perché mai la sua bambina fosse diventata così – così scontrosa, così lontana, così fredda nei suoi confronti, mentre al resto del mondo si presentava ben diversa – cosa comunque preferibile, stante l’importanza del giudizio altrui. Lungi da lei desiderare un’idiota per figlia: disprezzava quelle pappamolle che non muovevano un passo senza il beneplacito dei genitori, e tollerava ancor meno coloro che le avevano rese tali e che poi trascorrevano ogni ora della loro esistenza a cantarne le lodi senza nemmeno rendersi conto del cattivo gusto del loro agire.
Eppure – doveva riconoscerlo –, alle volte si trovava a invidiare quelle madri e quelle figlie. A essere gelosa della loro complicità, dell’arcana capacità di formare un intero anche solo sfiorandosi, quando lei e Regina un intero non lo erano mai state per davvero, neanche prima che nascesse. Erano sempre state due unità incastrate a forza dal destino, messe insieme sfidando i bordi frastagliati che impedivano loro di coincidere, di combaciare anche solo per un istante; e più passava il tempo più era difficile fingere di non vedere, di sperare che il tempo rimediasse.
Erano, semplicemente, diverse.
Quando una mattina di cinque anni prima Regina era partita, Cora aveva tirato un sospiro di sollievo di cui ancora non si vergognava: era meglio così.
Era meglio vedere la figlia solo in occasione delle feste comandate, saperla lontana e al sicuro, limitarsi a letterine cortesi che partivano e giungevano sempre in ritardo; era meglio ricordare la bambina che Regina era stata, e non la donna che stava diventando.
La piccina cui bastava un “Brava” per essere felice, non l’adolescente che l’accusava – di cosa, poi? Di aver difeso ciò che era suo? – coi suoi larghi occhi bruni.
L’aveva fatta tornare ad aprile non per improvvisa malinconia, ma solo per tenerla al sicuro da quell’epidemia di rosolia che si stava diffondendo tra i collegi; un’epidemia che non ci voleva, perché coincideva col ritorno a Londra di Robert Gold.
Non lo vedeva da... Da quanto? Cinque anni, ormai? L’ultima volta era stata a un’inaugurazione durante la Stagione 1889. La ricordava bene: quella volta indossava un vestito appena giunto da Parigi che aveva suscitato l’ammirazione e l’invidia delle presenti. Numerosi uomini, molti dei quali sposati, si erano soffermati più del dovuto ad ammirarla; numerosi uomini, ma non lui. Lui le aveva a malapena sputato un saluto solo perché diversamente la gente avrebbe mormorato, e poi l’aveva ignorata per l’intera serata.
Varie volte era andata a Kensington – senza mai annunciarlo prima, perché se Robert possedeva quella casa era anche per merito suo, e ciò la rendeva tanto padrona quanto lui –, ma lui non l’aveva mai ricevuta. È fuori per affari, è al White’s, al momento sta lavorando: le patetiche scuse dietro alle quali il codardo si era trincerato erano state infinite. Cora avrebbe preferito un diretto invito a non presentarsi mai più; ma lei stessa gli aveva insegnato quella diplomazia che faceva rima con ipocrisia e, in ogni caso, l’uomo non aveva spina dorsale a sufficienza per prendere decisioni tanto definitive. Poteva fare la voce grossa, come pure era successo quando quell’altra incompetente di Regina aveva giocato a fare l’eroina – maledette le cattive compagnie che l’avevano rovinata; poteva provare a offenderla con la falsa dolcezza, o giocare a ignorarla, ma ciononostante lei era certa che prima o poi gli sarebbe passata. Le fregole vanno e vengono, e non c’è motivo di farsene condizionare più di tanto o di mandare in rovina un rapporto tanto lungo, specie se la causa di tutto era una cosina tanto insignificante come la French; una cosina tanto insignificante che, però, l’aveva messa nel sacco.
Il brutto tiro giocatole le bruciava ancora: quando era ormai sicura di averla nelle grinfie, quando mancava così poco alla vittoria, la puttanella era sparita. Scomparsa, svanita, volatilizzata sotto tre paia di occhi – un dispiegamento di forze che alla Contessa era parso eccessivo, ma che evidentemente non lo era affatto, visto l’epilogo. Quando gliel’avevano riferito aveva pensato a una farsa: uno scricciolo che sfuggiva a due Frey con rinforzi aveva un che di ridicolo, e invece… Aveva dovuto inventare qualche fandonia per Gold; fandonie che poi non erano tanto distanti da quello che sarebbe davvero successo se la ragazza non li avesse fregati tutti.
Come non aveva messo in conto la fuga, così Cora era stata tanto idiota da sottovalutare la reazione dell’uomo. Pensava che dopo un ulteriore periodo di rabbia si sarebbe a suo modo rassegnato: avrebbe compreso i suoi errori, l’assurdità della ossessione e sarebbe tornato da lei con la coda tra le gambe; ci avrebbe scommesso, e già era pronta a un nuovo inizio quando ogni speranza era stata uccisa sul nascere dall’improvviso trasferimento di Gold.
Non aveva neanche avuto l’ardire di informarla, il vigliacco: aveva dovuto scoprirlo come gli altri, sfogliando il giornale una mattina qualsiasi di luglio e strabuzzando gli occhi dinanzi a un titolone roboante. Gli aveva subito inviato un biglietto rimasto senza risposta; o almeno, rimasto senza risposta per parecchie settimane perché un giorno, all’improvviso, sul vassoio d’argento era apparsa una missiva da New York.
Il suo primo impulso era stato di ridurla in coriandoli da bruciare per poi gettare le ceneri al vento; ma poi si era trattenuta, si era imposta calma e aveva aperto la striminzita letterina il cui oggetto era, fondamentalmente,  Regina.
Era iniziata così una strana corrispondenza, formale e distaccata ma non per questo meno carica di reciproche accuse mai velate e ricordi; uno scambio ben poco amichevole che, comunque, certo non la scoraggiava. Sebbene quel nome fosse nell’aria – mai espresso, mai sancito, ma sempre presente –, Cora Mills confidava nelle proprie capacità: la pecorella smarrita sarebbe tornata all’ovile. Certo, sarebbe stato più semplice se l’uomo fosse stato vicino, ma disperare era fuori discussione.
E poi, all’improvviso, era arrivato un biglietto da Kensington.
Gold era tornato a Londra e lei, anche stavolta, l’aveva saputo a cose fatte.
Se l’avessero interrogata sui suoi fini, Cora Mills avrebbe risposto molto semplicemente di voler riprendersi ciò che le spettava. La particolare idea di possesso, di appartenenza che solo il pensiero di Robert risvegliava, aveva solo finto di assopirsi negli ultimi noiosi anni: alle parole dell’uomo era tornata a ruggire, più fiera e combattiva che mai. La Contessa non era una donna stupida, e per nessun motivo al mondo si sarebbe illusa: aveva ormai capito che quella per la French non era stata una comune passioncella, per quanto potesse sembrare impossibile. Ma poi, perché impossibile? In fin dei conti, conosceva bene Gold. Ne conosceva le stranezze e le manie, ne conosceva i segreti e le fragilità forse da prima ancora che la sua camerierina fosse nata; e sapeva che con lui – fingere di – capirlo era la strada vincente.
La strada che, a quanto pareva, la ragazza aveva imboccato e percorso fino in fondo, tanto da insediarsi a tal punto nel suo cuore.
Ma la French era andata, se non comunque morta, e lei avrebbe approfittato del nuovo corso per ristabilire il vecchio. Anche se non si vedevano da tempo, la situazione era tutto fuorché irrecuperabile: sarebbe bastato colpire nei punti giusti.
E, a pensarci bene, un’arma inconsapevole c’era sempre…
Cora si voltò appena verso la giovanissima cameriera che, dopo aver bussato, era entrata nel boudoir.
- Milady, – annunciò chinando il capo ossequiosa – La Contessina è arrivata.
- Da quanto è qui?
L’altra si morse le labbra, come perplessa dalla domanda, prima di rispondere: – Da… Da poco, Milady. Una decina di minuti.
- E dimmi, mia cara, – la Mills si specchiò annoiata alla toeletta cui si era seduta nel frattempo – Dieci minuti ti paiono pochi?
- Vostra figlia non mi conosceva e ha voluto presentarsi, perciò…
Il brusco cambiamento d’espressione che la nobildonna colse nel riflesso, indice di una realizzazione improvvisa e terribile, non la toccò affatto.
- Ma mia figlia non è ancora la padrona di casa. Tu rispondi a me e me soltanto. Anche se, – si fermò per una pausa ben studiata – Sarebbe meglio dire rispondevi.
Gli occhi della ragazzina si riempirono di terrore.
- No! La scongiuro, Milady, non licenziatemi! Il mio fratellino è…
- … È molto malato, e non avete altri al mondo, sì, questa l’ho già sentita. Ma avresti dovuto pensarci prima, riferendo alla Contessina che era attesa, anziché perder tempo dietro ai suoi capricci. Suvvia, non piangere sul latte versato, – alzò gli occhi al cielo dinanzi al suo fiume di inutili scuse. Dio, quant’era lagnosa quella bambina! – Ti scriverò delle referenze. Anche se, lo capirai da te, certo non potrò tacere sulle tue innumerevoli manchevolezze…
La cacciò dalla stanza senza rimorsi.
Aveva impegni più seri, lei, per perder tempo dietro alle lacrime di una domestica incapace.
 
 
 
“Children waiting for
the day they feel good,
happy birthday, happy birthday,
and I feel the way

that every child should,
sit and listen, sit and listen.”
 
 
 
Avrebbe dovuto farci caso. Avrebbe dovuto prestare più attenzione, rendersi conto che quel silenzio era innaturale: almeno in questo Helena era come lei, un’inguaribile chiacchierona che anche nei giochi più solitari dava voce a frotte di amici immaginari. Quando se ne stava tanto tempo zitta significava solo una cosa: ne stava progettando una delle sue e, inevitabilmente, si sarebbe messa nei guai.
E, come volevasi dimostrare, aveva approfittato di – quanto? Due minuti? – per scappare.
Quando Belle era tornata in sala senza ritrovarvi la figlia, il cuore le aveva perso un battito. Un’occhiata alla porta lasciata socchiusa – per non fare rumore. Come fa a pensare a tutto ad appena quattro anni? – aveva confermato ogni dubbio, mentre il ricordo dell’ennesimo battibecco sulla scuola le scioglieva le membra come gelatina.
Sapeva dov’era diretta la piccola ribelle, lo sapeva benissimo; ma, per quanto l’orfanotrofio fosse vicino, non poteva raggiungerlo da sola: era troppo piccola per uscire da sola, figurarsi per andare a zonzo per strade come quelle! Prima ancora di terminare il pensiero, si era catapultata per strada, guardando spasmodicamente attorno a sé alla ricerca di una figuretta dai capelli sempre scompigliati che – la immaginava – si muoveva tronfia e determinata verso la meta.
Ma Helena non c’era; non c’era, e lei non poteva starsene imbambolata là, mentre la bambina finiva chissà dove, si perdeva, veniva rapita, attaccata, o chissà cos’altro!
La paura dei Frey la prese alla gola.
Quando è troppo è troppo.
Risparmiati gli occhi da cucciolo, Helena, stavolta non la passerai liscia.
Lo udì in quel momento.
Uno stridio improvviso, brusco e assordante, che le trasmise la stessa sensazione di unghie che graffiano una lavagna: un fastidio intenso, un dolore alle orecchie che si tramuta subito in brividi viscidi lungo il corpo, il cui ricordo permane e fa digrignare i denti anche a distanza di ore.
C’era una carrozza in mezzo alla strada. Una grande carrozza lucida e scura il cui conducente stava smontando tra una bestemmia e l’altra, mentre una piccola folla si riuniva attorno ai cavalli che nitrivano nervosi.
Non fu il cervello a dare l’ordine: le gambe si mossero da sole, comandate da un istinto antico che rispondeva solo alla natura. La testa, in quel frangente, non c’era; non c’era niente in quel frangente, niente, se non un peso enorme che all’improvviso le scivolò nello stomaco e le premette sul diaframma, impedendole di respirare normalmente.
Helena.
Helena.
Si fece largo tra la calca, incurante di dar spintoni pur di avvicinarsi, pur di ricevere conferma che no, ciò che temeva non era accaduto, c’era sì stato un incidente, ma Helena non ne era rimasta coinvolta, quel pianto – quel pianto che conosceva da quattro anni, che aveva riportato in vita anche lei, quel pianto che era il suo – apparteneva a qualcun altro – non a lei, Dio ti prego, non a lei, qualsiasi cosa, ma non a lei, ti scongiuro!
Quando vide il corpicino sul lastricato, Belle non provò alcuno stupore. Non ne rimase sorpresa: qualcosa in lei si era mosso nel momento stesso in cui aveva scoperto la fuga, per poi rompersi quando aveva scorto l’assembramento e il pianto l’aveva ferita più di mille coltelli.
Qualcosa in lei sapeva sin dall’inizio.
- Helena! – urlò scagliandosi a fianco la bambina, chiamandola e stringendola a sé con una forza di cui non si riteneva capace. La risposta della figlia la restituì il respirò: è viva, pensò in quel momento, è viva, e solo questo le interessava. Ringraziò il Cielo per averla salvata, e contemporaneamente si maledisse per essersi distratta, per aver rischiato di perderla, per essere stata così stupida e per non riuscire a non piangere ora, pur sapendo di star angosciandola ancora di più: a lei spettava il compito di proteggerla e rasserenarla, di dirle di non temere perché ora erano insieme e lei l’avrebbe difesa, eppure non riusciva a fare nulla di tutto questo…
- Tu, – l’apostrofò una voce maschile di cui nulla le importava. Stava blaterando qualcosa, lo sentiva, ma non ne coglieva il senso: tutto ciò che contava nella vita era tra le sue braccia, aggrappato a lei e col visetto rosso striato di lacrime e polvere. La bambina non sembrava essersi fatta male: si era alzata da sola per raggiungerla e il pianto e il tremito erano più che normali, stante la paura presa; ma se avesse battuto la testa? Doveva portarla al dispensario, subito.
- Belle! Helena! – si accorse di Ruby solo quando se la ritrovò accanto – Come state, cos’è successo? Trovo Graham, trovo un dottore, non preoccuparti! – disse tutto d’un fiato, sovrapponendosi all’uomo che andava avanti a parlare.
- …e non vuoi peggiorare le cose, vero? È tutto apposto, la piccoletta sta benone, si vede…
Furono quelle parole a ridestarla. Un moto netto e improvviso, nato spontaneo nell’attimo in cui colse le ultime frasi.
È tutto apposto, la piccoletta sta benone, si vede…
Il volto rozzo dell’interlocutore che la fissava quasi accondiscendente le ricordò subito qualcuno. Riflettere sul chi, sul dove o il come, tuttavia, era fuori discussione: contava solo ciò che le aveva detto, che continuava a dirle senza cogliere la sua espressione.
Belle aveva avuto a che fare con fin troppa gente di quella risma per ignorare a cosa stesse pensando: se anche l’incidente avesse avuto conseguenze serie, con qualche quattrino il suo padrone avesse messo a tacere ogni cosa.
Qualche quattrino e qualche prepotenza, se il malcapitato avesse osato protestare; se avesse osato levare il capo.
Come stava facendo lei.
Ma c’era di mezzo sua figlia. L’unica luce della sua esistenza, la stella più splendente della sua costellazione, il suo sole personale. Se pure non si fosse fatta un graffio, chiunque fosse stato davanti a lei, fosse stata anche la Regina in persona, non avrebbe mai dovuto permettersi di pensare una cosa simile.
Potevano toccare lei, far del male a lei, ma non a Helena.
A Helena mai.
Non sarebbe rimasta ferma e zitta: il responsabile l’avrebbe pagata cara. Quel signorotto che se ne stava lì, a fissare la scena seminascosto da uno dei suoi tirapiedi, che era sceso dalla vettura per dare un’occhiata da vicino ai tuguri di Whitechapel e vantarsi al club di essere sopravvissuto a un’autentica avventura nei bassifondi si sarebbe presto pentito di quanto fatto.
La strada, i passanti attorno, la carrozza… Tutto attorno a lei parve svanire. Nell’arco di pochi attimi affidò la figlia all’amica, si alzò con una determinazione feroce e, prima che qualcuno potesse bloccarla, prima ancora che l’interlocutore potesse dire: – Ehi! – corse, volò verso l’uomo in nero che rimase immobile pur vedendola arrivare, che quasi non si mosse dinanzi al suo palmo aperto, che si limitò a sussultare – un sussulto breve, appena un cenno che trasmise a lei – quando le sue dite lo colpirono.
Fu in quell’istante, mentre i bravi l’afferravano, mentre Ruby ed Helena urlavano e il mondo esplodeva, che Belle lo riconobbe.
Un pugno allo stomaco e una piuma sul volto, il sapore dolceamaro dell’amore.
Lunghe dita che le sfioravano la punta delle ciglia, una voce roca che prometteva di amarla in eterno.
La stessa voce che aveva infranto i sogni.
È un’allucinazione, ebbe appena la forza di dirsi, appena conscia della stretta degli uomini, della violenza con cui la stavano trascinando via.
La delicatezza dei suoi baci, la violenza delle sue parole.
Quella scossa, l’energia scatenata – ancora – dal loro contatto.
Un brivido che aveva un nome e un cognome, i capelli lunghi tra cui tanto spesso aveva passato le dita e gli occhi grandi di loro figlia.
Robert Gold era tornato nella sua vita.
 
 
 
“Went to school
and I was very nervous,
no one knew me, no one knew me,
hello, teacher, tell me
what’s my lesson?
Look right through me,
look right through me.”
 


Esitò appena prima di bussare. Percorse il pomolo coi polpastrelli, studiandone il decoro che mai prima d’allora aveva notato. Doveva essere nuovo, concluse; o forse, era lì già da anni e lei non se n’era resa conto. Era strano come una persona in grado di cogliere ogni particolare non avesse scorto i rifacimenti occorsi in casa propria; o era una reazione naturale per chi, in casa propria, era solo ospite di passaggio?
Sospirò: le sue elucubrazioni le stavano solo facendo perdere ulteriore tempo, e sua madre non ne sarebbe stata certo lieta. Procrastinare il momento in cui avrebbe fronteggiato i suoi occhi di carbone non l’avrebbe comunque salvata.
Colpì appena l’ebano della porta ed entrò in camera.
- Buongiorno, Maman, – le si avvicinò per sfiorarle appena le guance con le labbra. Sua madre aveva sempre quel profumo lieve di limoni che a tanti ricordava il sole mediterraneo, ma che lei invece associava solo al gelo – quel gelo con cui ora la stava accogliendo per l’ennesima volta.
- Bentrovata, Regina cara. Hai fatto un buon viaggio?
- Sì, grazie.
- Molto bene.
Frasi di circostanza. L’ennesima fiera di ipocrite gentilezze, convenevoli che andavano fatti e risposte che andavano date, perché così si fa, perché così è.
Apparire ed essere erano sempre stati due piani sfalsati della sua esistenza, livelli paralleli che scivolavano fianco a fianco incontrandosi all’infinito.
Ovunque si voltasse, Regina Mills incontrava esempi luminosi da seguire: Lillian e Florence in istituto, l’una così pia e virtuosa da lambire l’ipocrisia e l’altra compendio di ogni bellezza idealizzata; la sua elegantissima e sagace Maman a casa, gentildonna inimitabile e irraggiungibile che comunque l’avrebbe sempre perseguitata senza concederle tregua alcuna.
Ma lei non era così.
Quei panni che le facevano indossare a forza non erano i suoi – i suoi, Regina non sapeva dove li avesse dimenticati, o se li avesse mai avuti. Da quando aveva imparato a voltarsi indietro, aveva visto sul suo cammino una lunga scia di bugie e inganni che, se sulle prime l’avevano sconvolta, col tempo avevano rivelato tutta la loro triste realtà.
Non devo pensarci.
In istituto, tra persone che non la conoscevano davvero, forse quella frase dispiegava il suo residuo potenziale, offriva placebo ai suoi rimorsi; e lo stesso poteva valere nel Leicestershire. Ma a Londra…
A Londra non aveva effetto.
A Londra era cominciato e finito tutto, a Londra aveva detto addio all’innocenza pronunciando frasi e compiendo gesti che avevano cambiato molte vite. A Londra il divario tra ciò era successo e ciò che sarebbe potuto succedere raggiungeva intensità altrove inimmaginabili, divenendo un’idea fissa e incancellabile.
Il sorriso mellifluo di Maman non faceva che acuire la sensazione.
In fondo l’aveva sempre intuito, ma solo crescendo Regina era riuscita a riconoscerlo: per tutta la vita non era stata altro che una marionetta nelle mani altrui. Quando le chiacchiere tra compagne toccavano quell’argomento che suscitava mille risolini e sospiri, lei non poteva fare a meno di pensare che sì, lei l’amore l’aveva conosciuto e indirettamente vissuto: ne era stata spettatrice sollecita e attenta, tanto attenta da avergli inflitto i colpi più letali.
Forse nemmeno sua madre lo sapeva di essere innamorata dello zio, ma era stata quella la ragione di tutto: non aveva agito – o meglio, non l’aveva fatta agire – tanto per paura che l’uomo si allontanasse dalla nipote, quanto per vendicarsi per aver preferito un’altra a lei.
Ma Regina dubitava che quello di Cora fosse realmente amore: la sua esperienza solo indiretta avrebbe anche potuto ingannarla, ma per lei amore era come lo zio guardava Belle.
Amore era il modo in cui lei gli sorrideva quando credeva di non essere vista da nessuno.
Amore poteva essere il modo in cui Daniel l’aveva salutata l’ultima volta che si erano visti – e a lei era esploso il cuore, salvo poi ripetersi che era un’illusa e una sciocca e che non significava niente, che se Maman avesse scoperto qualcosa li avrebbe sgozzati entrambi, e...
Fa’ come dico o mi deludi.
L’aveva abituata a obbedire sin da piccola. Forse era l’unica cosa che sapeva fare, l’unico campo in cui sarebbe mai eccelsa. Non porsi domande, calarsi di volta in volta la maschera della figlia perfetta, della signorina modello, della complice: tanti ruoli diversi che la portavano a chiedersi chi fosse realmente. Perché la figlia perfetta non avrebbe mai tradito la madre – come le aveva urlato Cora quando era andata a riprenderla, dopo averla abbandonata per un giorno a Kensington con lo zio che organizzava ricerche e distruggeva casa, Emma Nolan che la guardava disgustata e Daniel che era l’unico a tenerla per mano e a ripeterle che tutto sarebbe si sarebbe sistemato –, la signorina modello non avrebbe mai formulato pensieri così rancorosi, e la complice…
La complice non lo sapeva neanche lei.
- Perché ti sei vestita di marrone? Non va di moda, e poi ti sta malissimo. Non lo indosserai più.
Eppure Regina avrebbe desiderato così poco. La libertà di scegliere il colore di un abito, per esempio; o di non essere sottoposta di continuo al giudizio altrui, di potersi presentare al mondo così com’era, senza schermi e senza finzioni. Ma forse le finzioni le portava nel sangue: Cora gliele aveva trasmesse e, nel corso degli ultimi quindici anni, le aveva lentamente rafforzate, giorno dopo giorno, silenziosamente ma tenacemente, fino a farle diventare parte integrante di lei.
- Lord Spencer ci attende per cena e non possiamo far tardi. Cambiati subito, ti aiuterò io a scegliere qualcosa di decente: ci sarà anche suo figlio James, un giovanotto che vale la pena di conoscere.
- Maman, sono appena arrivata, – protestò debolmente l’adolescente – Non ho voglia di uscire di nuovo. Sono stanca.
- Questo non ti ha certo impedito di perder tempo coi servi. Quante volte ti ho ripetuto di non trattarli come nostri pari? Ormai ho perso il conto.
- Come se noi per prime non venissimo dal basso, – bofonchiò per tutta risposta, avendo cura di farsi sentire.
L’aveva scoperto le prime settimane di scuola: sebbene Cora Mills fosse tra le dame più influenti, le sue oscure origini e la sua rapidissima scalata al potere non erano state dimenticate da tutti; e c’era chi aveva sfruttato le proprie figlie per farne giungere notizia al Cheltenham. Regina aveva dovuto imparare a difendersi, ad affrontare scherni e maldicenze contando solo su se stessa, diventando un po’ più dura e non esitando a farsi giustizia da sé, anzi: alle volte, aveva presto scoperto, la vendetta poteva essere la sua migliore amica, dolce e comprensiva com’era.
Almeno per questo, sua madre sarebbe stata orgogliosa di lei.
- Ma loro non sono riusciti a sollevarsi. Io sì. Un motivo ci sarà, non credi? – chiosò la donna con annoiata noncuranza.
Piccola ribelle, non tirare troppo la corda.
-… Lo zio?
Tuo zio è un bambino spaventato che implora la mamma di non mandarlo via.
Se non ci fossi stata io sarebbe già morto di fame.
E quando ti comporti come una stupida sono tentata dal dargli ragione.
- Me stessa. Se tuo zio ha i soldi e non un titolo è perché in fondo non ha ancora imparato la lezione: il destino è per gli sciocchi. Le cose bisogna prendersele, bisogna farle accadere… Lezione che noi metteremo in pratica stasera stessa – la nobidonna strinse il polso della figlia con più decisione – Avanti, Regina cara: non ti piacerebbe diventare la prossima lady Spencer?
 
 
 
“Their tears are filling up
their glasses,
no expression, no expression.
Hide my head,
I want to drown my sorrow,
no tomorrow, no tomorrow.”
 
 
 
L’aveva riconosciuto.
La sua reazione, il modo in cui il suo sguardo si era posato incredulo su di lui, senza scivolare via, come rivivendo in un istante il loro comune passato avevano parlato per lei.
Quando l’aveva toccato era sobbalzato, ma non per la violenza dello schiaffo: il brivido che gli era corso lungo la schiena aveva come giustificazione la definitiva, estrema presa di coscienza della verità.
Non si trattava di una sosia, di una gemella separata alla nascita o di uno scherzo della mente: Belle French era viva, era reale, ed era davanti a lui, bella e terribile come l’ultima volta che l’aveva vista.
Si premette sul volto una mano guantata: se pure ce ne fosse stato bisogno, quel bruciore sarebbe stato prova definitiva della situazione assurda in cui si era ritrovato.
Non interruppero il contatto visivo: continuarono a ritrovarsi in silenzio, nell’animo un turbinio di emozioni che solo la vita attorno seppe far svanire.
Hulme e Blockehurst avevano agguantato Belle nell’istante stesso in cui aveva alzato mano sul loro datore di lavoro: troppo tardi per impedirle il gesto, ma non per farglielo rimpiangere amaramente. Nonostante la diretta interessata paresse non accorgersene, a Gold bastò un’occhiata per capire che la stretta dei suoi avrebbe attraversato la barriera dei tessuti, lasciando segni sulla pelle della prigioniera.
Segni nel corpo, segni nel cuore.
Possibile che trovasse sempre il modo per farle male?
Pronunciò un’unica frase, un vibrare pericoloso che non ammetteva repliche.
- Lasciatela.
I due si bloccarono, ma non allentarono la presa.
- Mr Gold, questa… Donna – le implicazioni della definizione gli fecero ribollire il sangue nelle vene. Il grande e grosso Blockehurst sbiancò dinanzi alla smorfia dell’industriale – Vi ha colpito.
- Ne sono ben consapevole, dal momento che la guancia colpita è la mia. Ciononostante, vi ho detto di lasciar andare Miss French, e non mi pare l’abbiate fatto.
Mormorii che non attendevano risposta, ordini appena sussurrati che modellavano il mondo a suo piacimento.
Gli piaceva giocare con le cose e le persone, un tempo.
Tutto era ancora come una volta?
Belle seguì abbacinata il brevissimo scambio di battute. Le dita le bruciavano, tanta era stata la forza con cui l’aveva colpito. Cos’era successo? No, non poteva credere a quello che pure sapeva essere realmente successo. Robert era davvero davanti a lei, non era impazzita: era lì, e la guardava con gli occhi spalancati di chi ha appena visto tornare qualcuno dall’Oltretomba.
Come aveva fatto a trovarle, dopo tanto tempo? Era stato un caso, o aveva scoperto la verità e le aveva cercate? Ma quando era tornato? Quando era passata da Kensington per l’ultima volta, due mesi prima? O erano tre? Non ne era certa… Ma, per quanto si fosse sforzata, in quel momento non sarebbe riuscita a ricordarlo.
In quel momento sarebbe solo voluta tornare da Helena, che ora poteva vedere con la coda dell’occhio. Il pianto della bambina era una lama rovente nelle carni: allo spavento per l’incidente si era sommato quello per la scena cui stava assistendo e, sebbene Ruby si stesse impegnando per placarla, i gesti meccanici e gli occhi sgranati della ragazza certo non l’aiutavano nel compito.
Ruby, pensò Belle, nell’assurda speranza che l’altra riuscisse a leggerle dentro, portala a casa e calmala, Raccontale una storia, sai che ci riusciamo solo così, e trova un medico. Tink ti aiuterà, ma ti prego, non farla restare qui…
Come prevedibile, le due non si mossero.
- La stai facendo piangere, – si sorprese a dichiarare incolore. Avrebbe dovuto aggiungere mille altre cose, urlargliele contro, far saltare ogni valvola dell’autocontrollo in suo possesso e fargli assaggiare ciò che aveva vissuto lei negli ultimi anni e negli ultimi secondi; ma si limitò a un commento, un semplice, brevissimo, e forse per questo ancora più incisivo, commento.
Una constatazione ovvia, che ai tempi in cui i confini tra i loro corpi erano stati solo illusione lui avrebbe preso in giro, ma che in quel momento rappresentava tutta la verità di cui sapeva farsi portavoce. Robert Gold poteva far piangere lei, e non sarebbe stata né la prima né l’ultima volta; ma non poteva – non doveva – far versare una lacrima a Helena
Helena no, Helena mai.
Ed era quello che stava facendo.
Come scottati, i due galoppini mollarono la presa, mentre sul volto di Gold compariva un’espressione indecifrabile.
- Perdonami, – c’era una strana ironia nel fatto che, tra le miriadi di parole che avrebbe potuto rivolgerle, la prima fosse stata proprio la più immediata e la più difficile, quella che non andava pronunciata, ma dimostrata – Né io né gli altri intendevamo farle male. Come sta?
Quasi contemporaneamente alla donna, si voltò verso la piccina. Non riusciva a distinguerne bene i lineamenti, ma i tratti principali urlavano una somiglianza con Belle che solo un legame di sangue poteva giustificare; e lei non aveva parenti stretti a Londra…
Non c’erano dubbi da dissipare, domande da porre o questioni da risolvere: aveva udito lui stesso quella vocina sottile pronunciare lettere che marchiavano a fuoco la situazione.
L’aveva chiamata mamma.
Aveva chiamato la sua Belle mamma.
Hai quasi investito la figlia del tuo grande amore.
Si morse a sangue l’interno della guancia per impedirsi di pensare ad altro che non fosse il presente, il “qui” e l’ “ora”. Al resto avrebbe riflettuto in seguito, una volta tornato a casa e trascorso il resto della giornata in compagnia di bevande cui appellarsi quando, l’indomani, il recente passato gli sarebbe parso in un primo momento incomprensibile; ma adesso aveva altro cui badare.
La consapevolezza improvvisa di essere così vicino alla figlia di Belle gli fece stringere lo stomaco: quella ragazza buffa e irritante, che non perdeva occasione per contraddirlo ma poi era sempre pronta ad ascoltarlo, la sua Sweetheart così tenera e così amata… Mamma.
Non era semplice da accettare, e forse non l’avrebbe accettato mai fino in fondo, ma era la vita: la vita che andava sempre avanti per chi era in grado di affrontarla, che offriva sempre nuove sorprese, che aveva regalato a lei una bambina e a lui…
A lui nulla.
Forse tra lui e Belle era stato lui il vero morto per tutti quegli anni.
- Devo tornare da lei, – fu l’unica risposta che ottenne.
- Vuoi… Vuoi che ti accompagni?
Si chiese perché gliel’avesse proposto. Lui non aveva più alcun diritto, se mai avesse potuto vantarne; ma lasciarla di nuovo, ora che l’aveva ritrovata, scoperta viva e apparentemente in salute, gli pareva intollerabile. Ora che era stato sul punto di distruggere nuovamente il corso della sua vita, doveva almeno far qualcosa per scusarsi per tutto il male che, a quanto pareva, avrebbe sempre continuato a infliggerle.
Con un’occhiata in tralice impose ai suoi di non seguirlo, appuntandosi di ricompensare la loro ritrosia con una notevole decurtazione della paga, e raggiunse Belle dalla ragazza mora e dalla bambina.
Non riuscì a non notare che la donna non l’aveva incoraggiato, ma neanche l’aveva allontanato: si era voltata rapida e aveva proseguito per la strada, incurante di ciò che non fosse la sua creatura.
Si sentiva esausta, Belle: avvertiva una profonda stanchezza, come se quel giorno iniziato da poco si fosse protratto per un tempo infinito; come se fossero trascorsi anni dall’ultima volta che fosse stata realmente bene.
E forse lo erano davvero.
Appena la vide giungere, Helena le buttò le braccine al collo in cerca di protezione; il cuore le batteva forte come un tamburo.
- Sono qui, – Belle le sussurrò all’orecchio – Sono qui, tesoro. Andrà tutto bene, – la bambina annuì con forza, con la fiducia incrollabile che sempre riponeva in lei e che in quel momento la costrinse a sbattere più volte le palpebre per allontanare le lacrime – Te lo prometto.
Robert le stava seguendo al locale: nonostante la confusione, il rumore dei suoi passi le appariva nitido e chiaro, ancora inconfondibile alle orecchie. Si aggrappò di più alla figlia: avrebbe potuto scacciarlo, perché già aveva fatto abbastanza e forse era meglio che si disperdesse anche lui come la folla. Avrebbe voluto, in fondo, scacciarlo. Ma se l’avesse fatto, avrebbe mai trovato la forza di perdonarsi?
No.
In fin dei conti, Belle, anche tu, anche ora, sei un’egoista.
- Che fine avete fatto? – Granny si portò le mani al petto quando i tre entrarono nel locale – Cos’è successo? Sono stati i…?
- No, – l’anticipò lei – La stavano investendo. Sembra star bene, ma ho mandato Ruby a chiamare un medico e Graham…
- Oh, Dei del Cielo! Portiamola su, forza, – l’anziana si fermò di colpo, scorgendo Gold solo allora. Dalla sua espressione era palese che si stesse chiedendo cosa diamine ci facessero insieme colei che era diventata la sua seconda nipote e un elegante gentiluomo in completo sartoriale su misura – E voi chi siete?
-  Lo conosco, garantisco io per lui, – la voce di Belle si ruppe appena, una reazione che però non passò inosservata – L’ho conosciuto cinque anni fa.
La locandiera socchiuse gli occhi e sospirò profondamente, come se tutto le fosse chiaro; ma, prima che l’uomo potesse aprir bocca, le donne salirono una scalinata e lui fu costretto a imitarle. Rimase sulla soglia di una piccola camera da letto mentre l’anziana poneva domande concitate cui pure Belle rispondeva, mentre adagiava la piccola su un giaciglio e le parlava per tranquillizzarla.
I passi svelti di qualcuno che stava sopraggiungendo di corsa attirarono la sua attenzione: senza degnarlo di uno sguardo, la ragazza mora di prima e un poliziotto si precipitarono nella stanza.
- Helena! – urlò questi, affiancandosi a Belle e cingendola con forza – Cos’è successo, come state? Ruby mi ha detto che...
Gold non colse il seguito del discorso: la sua mente era immobile, bloccata all’istante in cui l’uomo aveva afferrato Belle e l’aveva abbracciata con l’intensità di chi si conosce a fondo, di chi non ha più segreti per l’altro e ora, vedendolo in difficoltà, è disposto a proteggerlo a qualunque costo.
All’istante in cui lei aveva pronunciato il suo nome – Graham, aveva detto, e quelle sei lettere erano state sei pugnalate, inferte una dopo l’altra senza pietà, senza concedergli il tempo di un respiro, facendolo quasi boccheggiare per quel colpo sordo che aveva sentito dentro di sé, oltre il cuore, oltre l’anima, oltre tutto. 
All’istante in cui, la donna ancora tra le braccia, si era avventato sul letto e aveva chiamato a sé la bambina, la voce incrinata dalla preoccupazione.
Se non l’avesse creduta morta e fosse stato destinato a non ricoprire più alcun ruolo nella sua vita, Gold avrebbe augurato a Belle solo una cosa: di essere felice. Di viaggiare in lungo e in largo e intraprendere mille avventure, di leggere intere biblioteche, di innamorarsi di qualcuno che le desse una vita serena – la vita serena che lui non le aveva dato mai. Di sposarlo e farci tanti bambini, bambini che sarebbero stati belli più del sole, con quelle iridi di acqua che sapevano conquistare anche i più vili.
E ora che aveva dinanzi quella speranza concretizzata, avvertiva la morsa sleale – feroce, inopportuna – della gelosia.
Era quel giovane dalla barba castana l’uomo di Belle, ora. Era lui il suo sposo, l’uomo al cui fianco aveva deciso di trascorrere l’eternità; era lui, ora, a vegliare i suoi sonni e risvegliarsi accanto a lei, ad ascoltare la musica della sua risata e cogliere i suoi sospiri.
Graham, non Gold.
Il pensiero era tagliente come pietra focaia: lei, che era stata sua, ora di un altro.
Sei stato tu a volerla perdere. Lei sarebbe rimasta.
Per sempre, gli aveva dato la sua parola quando si erano incontrati; ma il loro per sempre non aveva mai assaggiato l’eternità. Si era fermato prima, molto prima; non aveva spiegato le ali, aveva volato appena nel loro cielo, perché lui gliele aveva spezzate con la crudeltà di cui si sapeva capace.
Non poteva muovere accuse verso Belle, né verso il suo compagno – il padre di sua figlia, si corresse.
Lui non ne aveva diritto.
Aveva solo il dovere di assumersi, almeno una volta nella vita, le sue responsabilità. Di muovere un passo e chiedere perdono per aver quasi distrutto il loro piccolo mondo. L’avrebbe colpito se avesse ammesso la sua colpa? L’avrebbe abbattuto con un pugno, manganellato a sangue? Se qualcuno avesse torto un capello a Neal, lui – qualunque padre degno di questo nome – l’avrebbe ucciso senza esitazione.
- Io, – si schiarì la voce attirando l’attenzione dell’uomo, che lasciò andare Belle. Fronteggiò il suo sguardo sconsolato costringendosi a tener alto il proprio – Vorrei scusarmi per quanto accaduto. State certo che non mancherò di punire il mio dipendente per la sua imperdonabile disattenzione. Immagino quale sia il vostro stato d’animo al momento, e le mie parole vi sembreranno forse ipocrite, ma vi assicuro che mi premurerò affinché vostra figlia resti indenne da ogni conseguenza.
Tre paia di occhi lo fissarono perplessi. Anche Belle, che cullava sempre la bimba, a quelle parole rialzò il capo e lo guardò come sorpresa.
- Voglio scusarmi per l’incidente… Per vostra figlia…
- Non è nostra figlia, – farfugliò Graham, voltandosi verso le due – Belle? Belle, cosa…? – lei annuì, continuando a scorrere le dita tra i capelli spettinati della figlia – Mi stai dicendo che è lui?
- Forse è il caso che parliate da soli, – intervenne Ruby, non senza rivolgere un’occhiata al sempre più confuso Gold, che non capiva cosa stesse accadendo.
, pensò Belle. Per quanto non sapesse da dove iniziare, per quanto la testa le pulsasse dolorosamente, l’unica cosa da fare era sfruttare l’occasione. Forse non ci sarebbe stata un’altra opportunità, forse era quello il secondo e ultimo incontro che il destino riservava loro, e lasciarselo sfuggire era fuori discussione; così come era fuori discussione lasciare Helena. Le sue paure non avevano nome: sapeva solo che, finché fosse rimasta accanto a lei, nulla avrebbe potuto farle del male, ferirla, rischiare di portargliela via ancora.
Quasi intuendo i suoi timori, Granny le pose le mani sulle spalle.
- Va’, – le sorrise comprensiva – Resteremo noi con Helena finché non arriverà il medico e non le accadrà nulla. Sei solo qui accanto, se ti cercherà ti chiameremo.
Belle si alzò piano, non prima di aver scoccato l’ennesimo bacio sulla fronte della bambina e averle rivolto altre rassicurazioni nella lingua che solo i genitori conoscono. Ne raccolse il sorriso – il primo dopo l’accaduto – come se fosse il tesoro più prezioso, e uscì dalla stanza facendo cenno di seguirla a Gold.
- Chiudi la porta e siediti, per favore, – gli indicò il tavolo di legno grezzo, avvicinandovisi lei stessa. Lui ubbidì solo alla prima metà della richiesta.
- Perché dovrei sedermi? – era l’ennesima frase priva di senso, una tra le tante che aveva sentito negli ultimi minuti. La sua mente tornava al silenzio che era piombato dopo le scuse e all’inaspettata replica di Graham. Non avrebbe mai previsto simile risposta: la realtà gli era sembrata così chiara e lampante… Che la ragazzina fosse stata concepita nel bordello da cui Belle era evidentemente riuscita a fuggire? In tal caso, sarebbe stato un argomento delicatissimo, che lei certo non avrebbe voluto riportare alla luce; ma allora perché quella reazione da parte di tutti i presenti?
La donna lo supplicò con lo sguardo.
- Siediti, – ripeté, finalmente ascoltata – Non è facile.
Respirò a fondo e socchiuse le palpebre. Il terrore ancora le scorreva nelle vene, ma s’impose di confinarlo nell’angolo più remoto di sé. Le parole che stava per dire avrebbero comunque cambiato il corso degli eventi per sempre; meritavano di essere pronunciate con determinazione, forti della verità di cui erano espressione. Non poteva presentarsi pallida e tremante, biascicarle come se non ne fosse certa, no: doveva esclamarle a voce alta e chiara, dominata dalla sicurezza e dalla fede in sé.
Doveva parlare.
Quando Belle riaprì gli occhi, a Gold parve che un fuoco limpido stesse divampando nelle iridi turchesi che mai aveva dimenticato. Un fuoco che li avrebbe avvolti, divorati, cambiando in eterno i connotati delle loro esistenze.
Un pensiero si fece strada tra i tanti, silente e per questo ancora più pressante.
No, provò a negare, non è così.
Non può essere.
La chiamò, cercando nel suo volto una smentita che non trovò.
Ciò che ottenne fu molto più semplice e terribile.
 
- Helena è nostra figlia.
 
 
 
When people run in circles,
it’s a very, very mad world.

“Mad World”- Gary Jules
 
 
 
 
 
 
N. d. A.: Hello, people!
Avete trascorso un buon Natale? Siete stat* coi vostri cari, mangiato cose buone e scartato tanti bei regali? XD
Il mio dono per voi è questo capitolo, che teoricamente arriva in ritardo rispetto al 25, ma puntuale per il nostro calendario. Spero vi piaccia – o comunque non vi faccia completamente schifo: un commento, anche critico, è sempre graditissimo. ;) Spero come sempre di non aver reso OOC i personaggi, specie Belle, sebbene personalmente trovi verosimile un certo sconvolgimento dopo un simile shock. Tra dubbi, interruzioni e fraintendimenti vari, alla fine ho fatto scoppiare la rivelazione-bomba…Ma gli effetti dell’esplosione si avranno solo tra due settimane.
A Natale Euridice non  più buona. ♥
E, restando in tema di cattive mai redente, LEI È TORNATA.
Quanto mi è mancato muovere Cora, quanto. Certo non è cambiata, e quindi magari aspettatevi qualche complicazione, magari un po’ diverse da quelle viste finora – la maledizione “#RumBellemaiunagioia” colpisce anche nelle fanfiction, eh. E mi è mancato anche scrivere di Regina, che qui ritroviamo quindicenne e con tutte le paturnie dell’età, amplificate da una mamma disponibile e attenta come quella che si ritrova; sarà una Regina più matura, più severa rispetto a quella di un tempo, magari con tocchi da Evil Queen, ma con le insicurezze già lette – e già viste nella serie, aggiungerei. Speriamo bene!
Grazie infinite a chi ha letto, recensito e/o aggiunto a una categoria la storia: il due gennaio quest’umile serie compirà il suo primo compleanno, e se sono arrivata qui il merito è anche vostro e del sostegno che non mi avete mai fatto mancare. Sarò ripetitiva, ma quando dico che non ho parole per esprimervi la mia gratitudine sono sincera: ciascun* di voi è stat* ed è semplicemente fondamentale. ♥
Nei prossimi giorni mi metterò in pari con le recensioni e le risposte in arretrato - mi scuso per il ritardo: questo periodo è sempre pieno di impegni!
Vi saluto, augurandovi un 2015 “magggico” che realizzi tutti i vostri desideri e una dolcissima Befana; come sempre, io vi aspetto sulla pagina Facebook “Euridice’s World”!
Salvo imprevisti, “arrileggerci” al 10 di gennaio! :)
Euridice100
   
 
Leggi le 13 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Once Upon a Time / Vai alla pagina dell'autore: Euridice100