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Autore: Euridice100    13/12/2014    10 recensioni
"Ma l’altra rialza il capo e lo fissa con odio.
È allora che Gold la vede.
Arretra di un passo con la certezza di avere dinanzi a sé un fantasma.
'No, non può essere.'
Ma è allora che il passato torna a essere presente."
(Victorian!AU RumBelle
Seguito di "Cleaning all that I've become" e "All of the stars".)
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Belle, Nuovo personaggio, Signor Gold/Tremotino, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Your dream is over... Or has it just begun?'
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I - E sarà il sole a chiederci un favore
(per dare un’ombra nuova ai nostri visi)
 
 
 
“E non importa quanto saremo lontani,
ti vedrò ogni giorno,
e non importa quanto saremo sordi,
ti ascolterò ogni minuto.”
 
 
 
Londra, febbraio 1889
 
Uno strattone.
L’ultima resistenza.
E il buio del vicolo l’aveva avvolta nuovamente.
Spaventata, aveva emesso un verso strozzato e scalciato all’indietro per liberarsi della presa che la tratteneva; ma una mano le aveva coperto la bocca impedendole di urlare.
- Shhh! Zitta, o ci troveranno!
Si sarebbe aspettata un tono maschile, il ringhio beffardo di Greg o di uno dei malviventi; ma la voce che aveva udito apparteneva senza dubbio a una donna; e – Belle se n’era resa conto solo allora – la stretta attorno al suo corpo era sì forte, ma non tanto da impedirle di muoversi: erano le sue membra, paralizzate dal terrore, a bloccare ogni gesto.
Si era voltata appena: i luminosi occhi verdi di una giovane avvolta in una mantella rossa la stavano fissando con un misto di apprensione e sfida.
La ragazza dei fiori, aveva rammentato subito, quella nel cui carro sono inciampata.
- Sei nei guai, vero? – la sconosciuta aveva ghignato con l’aria di chi la sapeva lunga – Poco male, hai incontrato me. Andiamo.
L’aveva presa per mano e aveva fatto per guidarla lungo il vicolo, ma il tentativo era stato vanificato dalla resistenza opposta dall’altra.
- Che fai? – la giovane le aveva rivolto un’occhiata stupefatta – Sbrigati, li abbiamo alle costole!
- E chi mi dice che tu non sia una di loro? – Belle le aveva soffiato contro,  allontanandosi di scatto.
Per quanto l’interlocutrice avesse un volto pulito, non aveva intenzione di farsi ingannare ancora una volta e finire in trappola da sola. L’istinto continuava a rivolgerle un unico, assordante monito: Scappa.
Aveva mosso qualche passo per la stradina, la mora che la sbeffeggiava in falsetto: – Grazie mille, Ruby, per non avermi fatta finire nelle grinfie dei Frey, te ne sarò grata in eterno, davvero!
- Preferisco non rischiare.
Non aveva fatto in tempo a concludere la frase che si era ritrovata contro il muro scrostato.
- Resta immobile!
Guidata da un impulso ignoto, aveva obbedito. La ragazza l’aveva lasciata sola ed era uscita sulla piazzetta di fronte; la piazzetta su cui – aveva capito con orrore – erano appena sbucati i suoi inseguitori.
- Tu! – un uomo aveva apostrofato la sconosciuta – Di qua è passata una della tua età, capelli castani, vestito blu? Sbrigati a rispondere!
Alla risposta affermativa, Belle si era sentita svenire.
- È andata da quella parte.
Si era preparata a scappare di nuovo; ma quella volta, nessuno era andato verso la sua direzione – nessuno, se non nuovamente la giovane.
- Li ho mandati verso Spitalfields, dovremmo aver guadagnato tempo. Ora però devi nasconderti…
Non ci stava più capendo niente. La paura e la sorpresa degli ultimi istanti le sarebbero bastate per una vita intera: era convinta di star per essere catturata, e invece…
- Tu li hai allontanati, – aveva realizzato quasi incredula, ancora acquattata contro la parete, quasi incapace di reggersi in piedi – Mi hai salvata…
- Dovere! La mia giornata era una tale noia! – l’altra si era sistemata la mantella sulle spalle e le aveva porto una mano sorridendo allegra – Comunque, io sono Ruby. Hai un posto in cui stare?
 
 
 
New York, agosto 1889 
 
New York era una città strana. Una metropoli, come il posto da cui era fuggito, ma completamente diversa, completamente nuova – e non solo per l’ovvia constatazione che non vi fosse mai stato prima. L’America era descritta come la Terra Promessa, il Nuovo Mondo in cui ogni cosa era possibile, in cui le opportunità erano talmente tante da risultare impossibile non coglierne almeno una: le stesse cose che gli avevano detto di Londra vent’anni prima, quando la sua casa era composta da una stanza dal camino sempre spento.
Ma le intenzioni erano sempre le stesse: ora come allora, desiderava chiudere i conti col passato.
Ora come allora, si lasciava una scia di cocci e di dolori mai sopiti.
Da quando aveva capito che nulla avrebbe esorcizzato i fantasmi che lui non voleva esorcizzare, Robert Gold aveva deciso di seguire il consiglio che l’uomo d’affari in lui riteneva più saggio: gettarsi a capofitto nel lavoro. La ragione ufficiale – la scusa – del suo trasferimento era espandere i propri commerci; ebbene, se dimenticare era impossibile, almeno avrebbe provato a non pensare.
Non sapeva quanto si sarebbe fermato a New York, ma di certo non poco; ciononostante, aveva scelto di non prendere casa, preferendo una suite in un hotel di lusso che, da sistemazione provvisoria, era diventata rifugio fisso. Avere una casa significa avere delle radici, muoversi con la certezza di avere comunque un approdo sicuro, un luogo cui tornare quando il cielo si fa scuro e nessuna stella accorre a rischiararlo; avere una casa significa avere delle persone – anche poche, pochissime, anche apparentemente distanti – cui ci si affeziona sempre.
E lui non intendeva avere nulla di tutto questo.
Lui non poteva avere nulla di tutto questo, dopo l’ennesimo, fatale errore.
La freddezza macchiata di discrezione di camerieri sempre diversi, lo sfarzo asettico di una stanza che lui mai aveva ingentilito con qualcosa di personale, una solitudine cheta che non intendeva affollare: ecco ciò che lo circondava, che considerava la soluzione ottimale per se stesso.
Erano le sbarre di una prigione, soffocante, ma dorata, splendida; una prigione che era fin troppo per qualcuno come lui.
Alle volte Robert Gold si domandava cosa sarebbe accaduto se non l’avesse cacciata; se avesse creduto a Lei, anziché a Cora, se fossero riusciti a partire per Glasgow e sposarsi.
Molte notti l’aspettava all’altare. La vedeva percorrere la navata, papaveri e rose canine in mano 1 – e lui ogni volta si stupiva di quell’abbinamento inusitato –, il velo che ondeggiava lieve, come carezzato da una brezza, e che lasciava scorgere l’azzurro amatissimo. Ma gli occhi di quella sposa non erano lucidi di commozione, non scintillavano felici, no: lo fissavano tristi e accusatori, come solo due altre volte avevano fatto, urlandogli in silenzio la frase che più corrispondeva a realtà.
È stata colpa tua.
Quella sposa non era mai giunta all’altare, né nei sogni né nella realtà.
E il colpevole era l’uomo che vedeva riflesso nello specchio.
 
 
 
Londra, febbraio - maggio 1889
 
Ruby l’aveva guidata per dedali di vicoli sconosciuti, facendole percorrere bassi dal lastricato scivoloso e costeggiare decine di tuguri prima di raggiungere un locale che spiccava tra gli altri per la facciata di mattoni ancora puliti e il portone visibilmente nuovo. Un’insegna in lucido ottone recava la semplice scritta “Granny’s”.
- La locanda di mia nonna, – aveva spiegato la ragazza, lanciandosi occhiate circospette attorno prima di spingerla all’interno – Abbiamo appena finito di ristrutturarla, la riapriremo a breve. Non è granché quanto a lusso, ma è un posticino tranquillo…
L’interno confermava la presentazione: sebbene regnasse il disordine, il lungo bancone, i tavolinetti, le sedie e le stampe comunicavano un senso di calore e di protezione che subito avevano avvolto Belle, ristorandola per quanto possibile.
- Nonna! Abbiamo visite! – aveva urlato Ruby in direzione di una porta sul retro, prima di rivolgersi alla nuova amica – Hai l’aria della brava ragazza, le piacerai di sicuro. Ma ti avverto, – le aveva fatto l’occhiolino – Non farti ingannare dall’aspetto. Sembra innocua, ma quando si arrabbia farebbe tremare anche un lupo…
- Chi è che farebbe tremare anche un lupo?
A parlare era stata una donna bassa e rotondetta dai ricci bianchi e dagli occhietti chiari la cui vivacità non era attenuata dalle lenti tonde che portava. Fu così che Belle fece la conoscenza di Polly “Granny” Lucas, una donna nei confronti della quale si ritrovò a provare subito una riconoscenza e una stima indicibili: perché, dopo averla squadrata ascoltando le sommarie informazioni di Ruby, dopo aver litigato con la nipote – “Disgraziata, tu mi vuoi ammazzare, come ti viene in mente di portarmi in casa le ricercate!” “Non è una ricercata, nonna, si è solo messa nei guai!” “Ah, splendido!” “Non in quel senso!” –  aveva zittito sul nascere le osservazioni dell’ultima arrivata, che pure condivideva le sue ragioni e i suoi timori e già pensava di provare da Tink, e l’aveva obbligata a fermarsi. A sorpresa, le aveva offerto un rifugio, una casa e di che vivere senza porre più domande del dovuto, aiutandola a ricominciare daccapo.
Prima Ruby e poi Granny l’avevano salvata, e di questo Belle le avrebbe ringraziate ogni singolo giorno della sua vita. Sin dalla prima ora in loro compagnia, aveva avuto la sensazione – poi confermata dal tempo – di non trovarsi dinanzi a persone come tante, ma a donne dalla forza d’animo infinita che aveva permesso loro di attraversare mille tempeste senza uscirne scalfite o distrutte. Per quanto apparentemente diverse, le due condividevano la stessa grinta, la stessa energia e una spontaneità naturale che faceva sentire Belle come a casa.
Ma era successo la sera stessa dell’arrivo a Whitechapel. Al termine di quella giornata frenetica, nell’istante in cui aveva riposato il capo sulla nuova brandina l’immensità di quanto successo le era piombata addosso sopraffacendola. Le era mancato il respiro, ondate di panico nella mente e nuove lacrime che premevano prepotenti sotto la corolla delle ciglia.
Perché ci siamo fatti questo, perché?
Non le aveva lasciato il tempo di spiegare: si era consacrato a una menzogna, votandosi a essa fino a sacrificarle il loro amore. L’aveva ferita più a fondo di quanto credesse possibile: l’aveva colpita nel petto, nella mente, nell’animo con gesti e parole che bruciavano come acidi, che corrodevano fino a lasciare vuoti incolmabili, che devastavano più crudeli della dinamite; perché lasciavano illeso il corpo, ma uccidevano dentro.
Non le aveva detto la verità, era ovvio. La loro storia non era finita, non poteva finire così: tra loro non c’erano state semplici dichiarazioni, frasi pronunciate con la bocca e smentite col cuore, no: lui si era aperto a lei, le aveva confidato ogni segreto, ogni rimpianto e ogni rimorso, si era strappato di dosso le maschere cucitegli a forza dal tempo osando mostrarsi per com’era veramente. Si era mostrato nudo nell’anima, aveva condiviso con lei l’intimità dei pensieri, ben più bruciante e pericolosa di quella fisica; come aveva potuto cambiare idea da un momento all’altro, fingere che loro non fossero mai esistiti, che non si fossero mai amati?
Di notte tornavano i ricordi. Durante il giorno parevano sopiti: non assenti, ma semplicemente silenziosi, come se la luce li esorcizzasse confinandoli in una landa in cui il dolore pulsava meno intenso; ma quando le candele si spegnevano e restava sola con sé, ogni scherzo e ogni lite tornava più crudele di prima.
L’intensità disperata con cui l’aveva amata l’ultima volta, come se percepisse il fantasma dell’addio al loro fianco.
L’ultimo bacio che ancora bruciava sulle labbra, delicato come una piuma ma non per questo meno sincero.
Come dimenticare certi sorrisi, certi attimi, certi sguardi, come?
Belle aspettava il giorno come un’ancora di salvezza. Di giorno aiutava con le pulizie, di giorno c’era Ruby che battibeccava con sua nonna – si sarebbe presto abituata alle loro guerre capaci di scuotere il locale dalle fondamenta – e che col suo entusiasmo da diciottenne le raccontava dei suoi mille pretendenti e di Billy che l’aveva baciata per poi fidanzarsi con “quella tettona senza cervello di Lizzie Potter, non ho parole”; di giorno c’era Granny che le parlava del Sussex da cui venivano, della taverna che gestiva da anni con orgoglio e della nipote così ribelle che però si era messa a vendere fiori e ad arrotolare sigari per mantenerle durante i rifacimenti.
Belle aveva raccontato loro solo parte della verità: un impiego presso un ricco borghese, i debiti paterni, il licenziamento improvviso e creditori ben poco raccomandabili alle calcagna.
Non una parola, ovviamente, sulla meraviglia dolorosa di un amore.
Quando Ruby l’aveva cercata, Tink era accorsa subito: aveva stretto Belle al petto senza dire una parola, capendo ogni cosa senza che ci fosse bisogno di dirla, e si era congedata con un’unica frase: – Aspetta che le acque si calmino e vieni a lavorare da me.
Belle aveva accettato, ripromettendosi però una cosa: non sarebbe rimasta lì per sempre. Aveva intenzione di trascorrere qualche tempo nella struttura per poi trovare un altro impiego e, coi primi soldi, acquistare un biglietto di sola andata. Per l’America, l’India o l’Egitto? L’avrebbe deciso in seguito; una cosa era comunque certa, aveva decretato in quel momento d’improvviso ottimismo: non sarebbe rimasta lì a struggersi d’amor perduto mentre lui se la spassava tra soldi e Contesse. Sarebbe partita alla ricerca dell’avventura tanto bramata, realizzando il suo sogno; e in fondo, perché scegliere se c’era un intero mondo da scoprire? Lei l’avrebbe visto tutto, avrebbe esplorato picchi e vallate, avrebbe dato il proprio nome a laghi e piante, e al diamine Robert Gold! Si sarebbe mangiato le mani al pensiero del tesoro che aveva perso!
Da allora, Belle aveva iniziato ad addormentarsi sperando di risvegliarsi direttamente a emergenza rientrata. Non che le sue ospiti la maltrattassero, anzi; ma aveva già sperimentato come il lavoro le impedisse di crogiolarsi nel dolore. Quando il locale era stato riaperto, aveva dovuto smettere di aiutarle: per ovvi motivi, almeno per il momento per lei era fuori discussione circolare in libertà per la sala, e così Belle si era ritrovata confinata nella camera che condivideva con le due. Trascorreva il tempo seduta sul letto: senza i libri tanto amati ma troppo costosi, l’unico svago era Ruby che approfittava di ogni occasione per svignarsela e farle compagnia; e, sebbene pretendesse almeno di riordinare alla chiusura, quei momenti nulla potevano contro il tedio triste di una prigione che pure le garantiva libertà.
E, col passare dei giorni, una nuova preoccupazione si era aggiunta alle altre.
Si era accorta presto che non tutto andava per il verso giusto; se n’era accorta presto, ma ne aveva attribuito la colpa alle recenti esperienze, al trauma di aver dovuto rivoluzionare la propria vita nell’arco di ore, alla paura di essere trovata... Doveva solo tranquillizzarsi, si ripeteva: solo mantenendo la calma e guardando al futuro con positività tutto si sarebbe sistemato, sotto ogni fronte.
Belle avrebbe dovuto annoverare tra le sue abilità il darsi ottimi consigli che non sapeva seguire. 2
Il tempo pareva avvilupparsi su se stesso, immobile e immutabile, senza che nulla giungesse ad alleviare la prostrazione in cui la gettava quel pensiero che, silente, s’imponeva sempre, schiacciando gli altri, facendole venir voglia di urlare; e più i giorni scivolavano via, più la probabilità in perenne ascesa le rodeva la mente come un tarlo ingordo di legno nuovo.
Non anche questo, ti scongiuro, non questo.
Ma ancora non poteva esserne certa: magari, certamente, la laboriosa quotidianità dell’orfanotrofio avrebbe dissipato l’angoscia…
Mancava ormai poco al trasferimento quando il piccolo Henry era comparso trafelato e aveva bisbigliato semplici, terribili parole: – Continuano a cercarti.
Dalla descrizione non era stato difficile riconoscere l’ennesimo scherano dei Frey; e non fu difficile neanche trovare una soluzione: Belle sarebbe rimasta nascosta.
Doveva solo esser grata alle Lucas che non la cacciavano.
A Tink che l’aveva subito avvisata.
Al destino che non le aveva riservato la sorte di essere catturata da quei mostri.
Doveva solo ringraziare chi le voleva bene e zittire quella parte di sé che smaniava per la libertà più che per l’aria, smettere di comportarsi come una bambina, perché quello non era un gioco e lo sapeva; ma, appena si era ritrovata sola, Belle nulla aveva potuto contro tutto ciò che reprimeva da tante, troppe settimane.
Ma presto, quando gli olezzi della strada avevano iniziato a morderle la gola, quando mandar giù qualsiasi cibo sotto le occhiate perplesse delle ospiti aveva iniziato a costarle una fatica immane e svegliarsi con lo stomaco sottosopra prassi, Belle aveva dovuto dire addio a ogni residua illusione e affrontare la realtà.
Avrebbe sempre ricordato il momento in cui aveva realizzato di essere incinta come il più strano della sua esistenza. Era stato come se il mondo avesse preso a ruotare al contrario e lei, abituata al vecchio corso, avesse vanamente provato a resistere, ottenendo in cambio solo un immenso sconcerto colorato di rassegnazione; ma il corpo era ormai avvezzo alla nuova realtà, e ora che anche la mente l’aveva accettata le due parti di lei tornavano a unità, regalandole una parvenza di equilibrio.
Era ingenua, e forse non aveva visto molto del mondo, ma non era tanto stupida da ignorare le conseguenze del suo stato, le infinite porte che le chiudeva: se fino ad allora la possibilità di ricostruirsi una vita era stata tangibile, ora tutto diventava labile e spaventoso, franava sotto ai piedi come terra travolta dall’acqua.
Era rovinata.
Incinta e non sposata, aveva cercato di prefigurarsi le strade davanti a sé: non ce n’era una che avrebbe percorso. Ruby e Granny, come avrebbero potuto accettare anche quello da parte di una persona tutto sommato estranea che le metteva in costante pericolo? Tink l’avrebbe accolta comunque, ora? E Robert…
Le sarebbe piaciuto avere un figlio con lui, un giorno. Se l’era detto riflettendo sulla vicenda di Ashley, senza sapere di aspettarlo già; e ora quel sogno – anche se non era del tutto convinta di poterlo ancora definire tale – si stava concretizzando nel contesto più assurdo immaginabile. Robert era all’oscuro della sua condizione, e forse – quando ci pensava chiudeva gli occhi, quasi che la coltellata potesse vibrare meno a fondo – se anche l’avesse saputo non gliene sarebbe importato.
Era sola, sola al mondo con suo figlio.
Si era resa conto del pensiero solo dopo averlo formulato; e, nel momento stesso in cui era accaduto, aveva avuto la certezza che non l’avrebbe abbandonata per il resto della vita.
Un figlio.
Avrò un figlio, mio e di Robert.
Nostro.
Con gli occhi sbarrati dal panico e dall’emozione, aveva alzato fino in cima la finestra a ghigliottina: all’improvviso l’aria pareva esser diventata rarefatta, impossibile da respirare.
Un figlio, frutto del loro amore, testimonianza eterna di qualcosa che non poteva essere rinnegato.
Aveva chiuso la finestra, l’aveva riaperta e abbassata nuovamente. Aveva osservato la polvere danzare alla luce del sole, poi si era stesa sul letto, perdendosi a contemplare le macchie di umidità sul soffitto.
Solo molti minuti dopo si era resa conto di star piangendo in silenzio.
Non c’era momento peggiore, situazione peggiore per avere un figlio. Se proprio avesse voluto farlo nascere ed entrambi fossero sopravvissuti, avrebbe comunque fatto meglio lasciarlo a un orfanotrofio, dove magari qualcuno l’avrebbe adottato, offrendogli maggiori opportunità; e se l’avesse affidato a Tink avrebbe anche potuto vederlo crescere, da lontano, certo, ma almeno non sarebbe uscita definitivamente dalla sua vita…
Smetti di sognare, Belle, e cresci.
Il mondo non è una fiaba, l’hai imparato a tue spese.
I ricchi non avrebbero mai preso bambini dai bassifondi, e in istituto suo – loro – figlio sarebbe vissuto in condizioni ben più misere di quelle che in qualche modo avrebbe potuto garantirgli lei; e se l’avesse affidato alle cure dell’amica, conoscere la sua identità, sapere ogni cosa e restare un’estranea l’avrebbe portata alla pazzia.
Certi tagli o sono netti o s’infettano.
L’unica persona con cui avrebbe voluto – dovuto – parlare non c’era; e se ci fosse stata, certi problemi non si sarebbero mai posti, aveva pensato amara.
Forse il suo era puro egoismo, non poteva escluderlo. Una persona più saggia non si sarebbe fatta tanti scrupoli; ma a lei il pensiero di non avere il loro bambino faceva male, persino più male di quanto le avesse fatto Robert.
Già per il semplice fatto di essere loro carne e sangue, quella creatura meritava ogni bene, ogni felicità al mondo; o, se non altro, meritava di stare con la madre: una madre che non sapeva da dove cominciare, che non aveva nessuno cui far riferimento e che era viva solo grazie a sconosciute; che aveva sbagliato, e che certamente avrebbe sbagliato anche con lui, ma che comunque l’avrebbe amato nel modo più profondo possibile, donandogli tutto il cuore in cui già occupava un posto.
Se le sue ospiti l’avessero cacciata e neanche la volontaria avesse potuto aiutarla, avrebbe trovato rifugio in un qualche ospizio per sventurate nella sua condizione. L’idea di lunghe ore in fabbrica per ripagare vitto e alloggio non la spaventava, se le fosse stato permesso di tenere con sé il bambino.
Aveva subito preparato un discorso per Ruby e Granny, parole insignificanti rispetto al colpo che avrebbe loro inferto; ma non c’era stato alcun bisogno di pronunciarle. Erano stati sufficienti un pranzo insieme, i conati provocati dal nuovo sapore del cibo e una fuga risoltasi nel retro, con Ruby che le scostava i capelli dalla fronte e l’anziana che sospirava rassegnata.
- Lo sapevo, – si era limitata a bofonchiare – Lo sospetto da sempre, e su certe cose io non sbaglio mai. Il colpevole…
- Nonna! – l’aveva interrotta una Ruby inaspettatamente sconvolta dalla franchezza della parente.
- … non deve esserne molto felice se la situazione è questa, dico bene?
- Non è per questo, – aveva esalato appena Belle abbandonandosi contro il muro morbido di muschio – È finita per altro. Lui non sa…
- Peggio mi sento. Torniamo dentro, va’.
Aveva alzato il capo di scatto.
Aveva… Aveva davvero capito bene? Non ne era del tutto sicura.
- Volete dire che non devo andarmene?
Rughe di sconcerto avevano attraversato la fronte della donna, che si era voltata verso la nipote: –  Ma si può sapere come diavolo mi hai descritta, sciagurata? – Ruby non aveva fatto in tempo a replicare che già la voce dell’anziana si era addolcita – Belle, nessuno intende mandarti via. Sei parte della famiglia, e se vorrai lo sarà anche tuo figlio. Potrete fermarvi qui quanto vorrete, anche per sempre. E se qualcuno proverà a farvi del male, – aveva continuato decisa – Dovrà prima vedersela con me. Conservo ancora la balestra di mio padre, e non mi farò scrupoli a… 3
Non aveva potuto dire altro: ogni parola era stata bloccata sul nascere dall’abbraccio improvviso e commosso di una Belle che, dopo mesi, aveva reimparato a ridere.
 
 
 
New York, 1889 - 1893
 
Alle volte sentiva Cora. Lettere vane, parole di vuoto e ipocrisia che salvavano agli occhi del mondo un simulacro senza sostanza e che mai accennavano agli eventi di un autunno e di un inverno che avevano posto fine a molte vite; un’apologia di futilità non certo disinteressate.
La Contessa era l’unico mezzo per avere informazioni su Regina, spedita in un’esclusiva scuola preparatoria alla prima avvisaglia di ribellione e fatta tornare al più due volte l’anno.
Col tempo l’aveva perdonata, Regina. Era l’unica in quella storia a meritare briciole di comprensione, ad accedere a una giustificazione che pure non ne cancellava gli sbagli; era stata l’unica a rendersene conto, ad avere il coraggio di provare a porvi rimedio – un rimedio giunto troppo tardi, quando ormai la follia aveva preso possesso delle sue azioni e il filo fragile della speranza si era spezzato per sempre.
Chissà, magari un giorno l’avrebbe rivista. Se fosse successo, si sarebbe scusato per averla odiata tanto: era troppo piccola per capire la tragedia cui aveva preso parte e non meritava simile trattamento da parte di nessuno; tantomeno da parte di sua madre o di colui che le voleva bene, bene come se ne vuole a una figlia, a prescindere dal sangue che scorreva nelle vene. Perché in fondo era stato lui a crescerla, dopo la morte di Henry; e dal suo secondo padre, magari lontano, magari non sempre attento come sarebbe dovuto essere, Regina non meritava un simile tradimento.
Come Lei non meritava di essere tradita dal mondo che tanto amava.
Fra le novità di New York, qualcosa restava invariato: le feste cui era costretto a presenziare. Gli affari gli avevano sempre imposto più relazioni sociali di quante gliene fosse mai importato: ora come allora, si muoveva tra eventi mondani e balli affollati, colazioni di lavoro e parate tanto sontuose e impeccabili quanto ridicole. Robert Gold c’era: c’era sempre, coi suoi completi scuri, il sarcasmo pungente incastonato tra i complimenti e, soprattutto, quell’ombra antica negli occhi castani che lo faceva apparire distante; e alle donne la cosa piaceva, la chiamavano tristezza. 4 Era consapevole dell’effetto che, pure incomprensibilmente, aveva sulle signore della vita mondana tanto britannica quanto statunitense, e non poteva impedirsi di riderne. Si mostrava sempre cortese – quella cortesia fredda, che allontana il prossimo, anziché avvicinarlo – e gelava gli animi e le intenzioni più esplicite, facendo arretrare anche le più ardite con la sua assoluta mancanza di interesse.
Desiderava solo tornare a baciare i sorrisi di una ragazza perduta.
Ma in una sera apparentemente identica a mille altre aveva conosciuto Rebecca Zelenyy. 5
Rebecca aveva un passo felino e ardente, capelli di fiamma e occhi di ghiaccio; e in quello sguardo che prometteva baci e graffi, Gold aveva letto una luce che non era riuscito a interpretare sin da subito. Desiderio di rivalsa? Una scintilla di follia mascherata da bei vestiti? O forse solo le cicatrici di chi si era sempre visto negare anche la compassione? Da figlia di nessuno, maltrattata in un peregrinare incessante di brefotrofi, la donna si era scoperta ultima discendente di una potente casata russa; ma – con lui non ne aveva fatto mistero – l’eredità ricevuta non le aveva portato la felicità.
A cosa servono un titolo e una magione lussuosa, o aver ottenuto un prestigioso impiego per l’Harpeer’s Bazaar quando dentro si è ancora una bambina indesiderata? Quando ciò che serve è solo un po’ d’affetto per sentirsi meno sperduti, meno diversi?
Avevano parlato a lungo la sera in cui si erano incontrati: a Gold piacevano la sua classe innata e l’umorismo sofisticato – forse troppo al di sopra delle capacità del paludoso panorama mondano che, dopo qualche misero convenevole, si ritrovava ancora a prendere le distanze e a preferirle sempre qualcun altro.
Chiacchierare insieme si era rivelato semplice: era una donna interessante, e poi, avere un aggancio ovunque – anche in un giornale simile – sarebbe potuto tornare utile per ogni evenienza.
Si erano incontrati ancora e ancora, sia pure casualmente – troppo casualmente, aveva iniziato a sospettare a un certo punto. Da lì in poi, interpretare certi comportamenti, certe frasi era stato semplice, e porre dei paletti ancora più immediato.
Ma quella sarebbe stata una serata come tante: Rebecca aveva invitato alcuni nomi famosi che voleva assolutamente presentargli e che sarebbero potuti anche rivelarsi investitori. Avrebbero parlato di affari, ecco quanto; nessun pericolo.
Era arrivato dalla donna appena prima che si scatenasse una sorta di diluvio universale che aveva bloccato l’intera città, impedendo agli altri convitati di raggiungerli.
Che colpo di fortuna.
Buttar via il cibo sarebbe stato uno spreco, avevano concluso; tanto valeva cenare in attesa che l’acquazzone finisse e tornare a casa.
Si era ritrovato esattamente nella situazione che non avrebbe voluto si ponesse; ed era persino stato in grado di peggiorarla.
Tra una parola e l’altra, aveva finito col bere più di quanto sarebbe stato saggio, col pensare che Lei non c’era – non ci sarebbe più stata – e col non respingere Rebecca quando si era avvicinata più, sempre più, fino ad annullare ogni distanza imposta dalle regole. A un certo punto aveva pensato che gli occhi della donna somigliavano a quelli di un’altra persona e che forse chiudendo i suoi, di occhi, avrebbe potuto credere di essere ancora con quell’altra persona; o forse quelli erano proprio i Suoi occhi, forse era stato tutto un incubo e Lei era davvero lì, chi poteva dirlo?
Questo gli aveva fatto perdere il controllo. Aveva baciato la Zelenyy, perdendosi a seguire la curva perfetta della sua bocca per ritrovarvi un’altra, inspirando il suo aroma prezioso alla ricerca di note semplici di tè e miele che non potevano appartenere al passato, semplicemente non potevano; aveva finito per farci sesso, solo sesso, perché l’amore l’aveva riservato tutto a un’altra persona.
Una persona che non era Rebecca.
Una persona che non c’era – non c’era più, e che lui aveva tradito, smentendo anche l’estrema promessa fattale, si era reso conto il mattino seguente, realizzando con orrore quanto accaduto.
Nel suo cuore non c’era spazio per la donna pur bellissima accanto a lui; nel suo cuore c’era solo un’altra, Lei e Lei sola. Se quella notte il corpo aveva finto di dimenticare i Suoi fianchi morbidi e dolci, i riflessi quasi opalini della Sua pelle alla luce del camino e la tenera brutalità dei Suoi primi baci inesperti, ora quei frammenti di passato tornavano imperiosi, come per vendicarsi e infliggere una nuova tortura fatta di pentimenti fino ad allora sconosciuti.
Sweetheart, Sweetheart, perdonami, non accadrà più.
La promessa dell’assassino che già stringe le mani al collo della vittima.
È stato il vino, sai che diversamente io mai…
Era tutto inutile. Una scarna giustificazione non l’avrebbe salvato dal giudizio: se la coscienza protestava tanto e obiettava severa alle sue meschine difese, un motivo c’era, e lui non poteva fare altro che accettarlo e imparare, in qualche modo, a convivere con l’ennesima defezione di cui si macchiava.
Avrebbe dovuto spiegare subito a Rebecca la realtà dei fatti e non vederla più; ma la donna pareva essersi legata a lui in un modo che riusciva solo a definire malsano. Pareva ritrovarla in ogni luogo, anche nel più inimmaginabile; e, per quanto cercasse di parlar chiaro e mostrarsi netto e gelido, non riusciva ad allontanarla in alcun modo.
Peggio: ci era finito a letto altre volte, imboccando l’ennesimo di quei sentieri intricati e osceni di cui pareva costellata la sua esistenza.
Sapeva di star sbagliando: glielo ribadiva la luce che iniziava a danzare negli occhi della donna, la stessa luce che in una vita precedente aveva illuminato altri sguardi. Glielo dicevano le sue stesse parole – Tu hai smesso di farmi sentire indesiderata –, che non ottenevano mai risposta, ma che non per questo la fermavano.
Non era neanche lontanamente innamorato – il semplice pensiero era un insulto alla Sua memoria –, né voleva restare invischiato in una relazione che in buona parte avrebbe ricalcato le orme della storia con Cora.
Una relazione tossica, alleanze di veleno, baci spinosi e cuori dimenticati.
Però, in un modo o nell’altro, si ritrovava nel letto della Zelenyy, ripromettendosi di non ripetere l’errore e di smetterla con quello che, da parte sua, non poteva neanche definirsi inganno – perché lui non le aveva mai fatto promesse, ma lei gliene faceva senza parlare, e ciò non le rendeva meno sincere; ma ogni volta restava in silenzio, ritrovandosi a fare i conti con un cappio al collo che diventava sempre più stretto.
Se Lei non fosse morta, gli avrebbe perdonato anche un tradimento? Perché di quello si trattava, anche se i sentimenti non erano coinvolti.
Avrebbe accettato di starle lontano pur di saperla viva; avrebbe accettato ogni cosa, pur di scoprire che era tutto un incubo.
Ma il passato non si può cambiare.
Il passato o si affronta o lo si evita.
E lui cercava sempre di sfuggirgli fin quando non c’era modo di evitare la resa dei conti.
 
 
 
Londra, maggio - luglio 1889
 
Erano stati dei mesi strani, quelli. La vita aveva come abbandonato il binario seguito fino ad allora per intraprendere senza indicazioni un percorso nuovo e misterioso, la cui destinazione era ignota, ma che certo avrebbe – aveva già – cambiato il suo modo di vedere la realtà.
Era normale provare un simile amore per qualcuno che ancora non si conosceva? La forza di quel sentimento finiva sempre per sopraffarla. Il mondo aveva iniziato a ruotare attorno alla creatura che portava in grembo: era per lei, prima ancora che per se stessa, che faceva ogni cosa e ancora accettava la sua strana prigionia. In gioco ora c’era anche suo figlio, e per lui avrebbe smosso il mondo: proteggerlo non era semplice dovere, era volontà.
Si sorprendeva sempre più spesso a carezzarsi il ventre che iniziava a ingrossarsi, a perdersi in una sorta di silenziosa comunicazione col nascituro, provando a interpretare come risposte i timidi calcetti che iniziava a sferrarle.
Lui – o lei, anche se segretamente sperava in un maschietto – come sarebbe stato? A chi sarebbe somigliato, a lei o a…
Il padre. Un tasto da non toccare. Lo pensava, Belle, lo pensava giorno e notte; e non poteva non chiedersi come sarebbero andate le cose se fossero rimasti insieme. Avrebbe gioito alla notizia di diventare nuovamente genitore? Sì, di questo era sicura. Probabilmente ne sarebbe rimasto anche più scioccato di lei, ma poi avrebbe cambiato idea: avrebbe iniziato a viziarla e coccolarla ogni istante, prevedendo e soddisfacendo persino le voglie più bislacche, come faceva Graham.
Quel ragazzo timido era comparso all’improvviso. Quando  la situazione pareva essersi calmata, Belle aveva iniziato a scendere in cucina, e qualche volta si era persino avventurata con Ruby a fare un giro dell’isolato; ma un giorno, la porta si era spalancata ed era comparso un giovane dalla barba castana che aveva subito puntato lo sguardo su di lei.
Era scattata prima ancora di pensare: aveva afferrato la bottiglia più vicina e si era messa a urlare di essere pronta a colpirlo se solo avesse mosso un passo e toccarla.
Le altre erano corse a fermarla prima dell’irreparabile.
- Belle, – le aveva spiegato Ruby – Non ti farà del male! È nostro cugino!
- Che comunque avrebbe dovuto avvisare, invece di piombare qui all’improvviso come un ladro, – aveva prontamente precisato Granny.
Humbert Graham, aveva scoperto alla fine, era davvero parente delle sue ospiti: di fresca assunzione a Scotland Yard, si era da poco trasferito a Londra, e la sua unica intenzione era davvero un’innocente visita al ramo della famiglia in città da più tempo.
L’esordio disastroso – quando ci ripensava Belle aveva voglia di seppellirsi dall’imbarazzo, anche se in fondo, l’avevano consolata, la sua era stata una reazione più che giustificabile – non aveva scoraggiato l’uomo dal ripresentarsi, questa volta dopo aver avvisato: dal giorno in cui Belle non aveva più provato ad ammazzarlo, aveva iniziato a farsi vedere ogni giorno e a fermarsi a chiacchierare – anche se poi era il saluto di una certa ragazza dagli occhi azzurri a farlo arrossire, specie da quando aveva capito che, nonostante la pancia sempre più tonda, non era impegnata. Anche la diretta interessata se n’era accorta ben presto, ritrovandosi a provare uno stupore sincero tinto di malinconia: perché Graham era cortese e onesto, perché parlare con lui era semplice come bere un bicchier d’acqua e presto avevano iniziato a trascorrere ore intere a conversare, perché quando gli aveva confidato di amare le ciliegie e i libri lui si era presentato con un sacco colmo di quei frutti e una raccolta di poesie, perché…
Perché Graham era innamorato di Belle al punto da essere pronto anche a sposarla, anche subito, anche se si conoscevano da pochissimo, le aveva confidato Ruby in un inedito ruolo di mezzana; ma lei, lei non lo era di lui.
Era una stupida, lo sapeva. Se avesse detto di sì, lui l’avrebbe sempre trattata con gentilezza, considerandola una pari e un’amica, prima ancora che una moglie; avrebbe voluto bene al bambino come suo, e non li avrebbe mai abbandonati all’improvviso per paura dell’amore. Il poliziotto era bello e buono, innamorato e sincero, e non la giudicava: dove mai avrebbe trovato qualcun altro simile?
Ma lei non lo amava.
Gli voleva bene, ma non poteva fingere: nella sua mente, nel suo cuore c’era solo un altro, un altro che continuava a farla soffrire e che lei, stupidamente si rimproverava, continuava ad amare. Prendere in giro Graham sarebbe stato un gesto ignobile che lei non aveva alcuna intenzione di compiere.
Non aveva usato intermediari: gliel’aveva detto lei stessa, mordendosi le labbra a sangue e sentendosi quasi male dinanzi alla tristezza che aveva velato gli occhi del giovane bobby. L’uomo aveva accettato la sua risposta, sia pure a malincuore; ma non aveva spezzato i ponti: dopo una settimana trascorsa a leccarsi le ferite, era ricomparso con una consuntissima copia di “Cime Tempestose” in mano.
- Amici? – aveva chiesto quasi trattenendo il fiato in attesa della risposta.
Belle aveva sorriso.
- Amici.
Due giorni dopo, come destato dal pericolo di perderla, l’altro aveva deciso di ricomparire nella sua vita.
 
 
 
New York, dicembre 1893
 
- Che bell’anello, – gli aveva detto Rebecca una sera – Ma… All’anulare sinistro? Come una fede?
Gold aveva scostato la mano.
La donna non poteva immaginare le conseguenze di una domanda tanto innocente, ciò che stava rievocando e il pentimento che, più tangibile di un macigno, premeva sul petto del compagno, annullando anche il gesto tanto istintivo del respirare. L’aveva guardato interrogativa, ma la stretta si era fatta più intensa; la voce generalmente così morbida non aveva mascherato una minaccia implicita quando si era ritrovata a ripetere la domanda, come se avesse capito di aver toccato un tasto dolente e non intendesse scusarsene.
In quell’istante Gold aveva capito che i suoi scrupoli erano vani: Rebecca non sapeva proprio niente dell’amore.
Emotivamente era una ragazzina, la stessa ragazzina povera che spiava le fortune altrui col cuore gonfio di invidia, sognando di riuscire un giorno a farle proprie a qualsiasi costo. Forse Rebecca aveva intuito la ragione della sua improvvisa freddezza e si era messa in testa di prendere il posto della sconosciuta nel suo cuore, di assicurarsi la sua fiaba personale diventando la nuova Lei.
Ma nessun’altra sarebbe mai potuta essere Mrs Gold.
Rebecca conosceva il possesso, conosceva la bramosia, ma – come Cora – l’amore le era del tutto alieno.
E lui, per un istante, si era ritrovato a invidiarla.
- Sì, – aveva risposto infine – Sono stato sposato.
- E cos’è successo?
- È morta.
- Quindi l’anello era suo? – aveva incalzato, incurante delle sue frasi smozzicate.
- Sì. Del mio barlume di luce in un oceano d’oscurità.
Era la prima volta che dava voce al pensiero, eppure si era detto che non c’era modo migliore per definirla.
Ma anche il barlume è scomparso.
E sai perché.
 
 
 
Londra, luglio 1889
 
Era successo all’improvviso. La sera prima avevano chiuso più tardi del solito e avevano deciso di approfittare della mattina libera per riassettare. Era seduta a lucidare dei boccali quando Ruby aveva abbandonato la scopa e squittito felice.
- Hanno lasciato il giornale di ieri! – l’aveva afferrato famelica voltandone già le pagine – Chissà se c’è qualcosa sul rosso… Pare che vada di moda questa Stagione…
Dopo un paio di minuti, il quotidiano già giaceva abbandonato al suo destino.
- Non una parola sui colori. Solo feste cui non andrò mai e Gold che se ne va in America.
L’orciolo le era sfuggito di mano, finendo per disegnare un tappeto di cocci ai suoi piedi e di rigagnoli di residui di birra ai suoi piedi. D’istinto si era ritrovata a stringere le mani attorno al ventre, come a proteggersi.
Ruby e Granny l’avevano raggiunta subito.
- Tutto bene?
- Vuoi stenderti? Nonna, cosa facciamo, vado a chiamare aiuto, cosa facciamo?
Le voci le erano giunte sovrapposte e attutite, la mente bloccata all’istante in cui quel nome era stato pronunciato e riportato con violenza nella sua vita, dopo mesi trascorsi a proteggerlo nel cuore.
“Solo feste cui non andrò mai e Gold che se ne va in America.”
Se non fosse stata seduta le ginocchia non l’avrebbero sorretta.
- Sto bene, – aveva mentito – Solo un capogiro.
Nessuna le aveva creduto: l’avevano costretta ad andare a riposarsi, e per una volta era stata lieta di obbedire. Desiderava solitudine, una solitudine che non aveva ottenuto perché Ruby era rimasta al suo fianco per ogni necessità; se non altro, la ragazza non aveva iniziato a chiacchierare per non stancarla ulteriormente e lei aveva potuto dedicarsi al giornale che, nonostante l’unanime parere contrario, aveva portato con sé.
Aveva scorso le pagine con il cuore in gola fino ad arrivare a quella incriminata e, quando l’aveva trovata, aveva respirato a fondo prima d’immergersi nella lettura.
Loro figlio si muoveva senza requie, come se avesse intuito il turbamento della madre.
“Solo feste cui non andrò mai e Gold che se ne va in America.”
Il senso dell’articolo era molto semplice; nondimeno, Belle aveva dovuto leggerlo tre volte per capirlo, e ancora certe frasi le parevano sfumate, liberamente interpretabili, nonostante quella loro chiarezza che le rendeva ancor più dure, ancora più inaccettabili.
Ma c’è mai stato qualcosa di accettabile tra noi?
In estrema sintesi: Robert Gold stava partendo per l’America. Lì avrebbe portato a termine alcune operazioni commerciali tenute segrete fino all’ultimo. La data della partenza, non riportata, era comunque imminente. Non si conosceva la durata della permanenza oltreoceano.
Nella vita si studiano nozioni ben più complesse, ma a Belle quell’articolo era parso la lezione più difficile da mandare a memoria.
Sarebbe salpato a giorni. A giorni avrebbe messo alla porta i dipendenti di Kensington, chiuso le stanze custodi di un amore e di un figlio e salutato Londra.
Se ne sarebbe andato.
Lo conosceva troppo bene per non capire che quello non era un viaggio di lavoro, ma un fuga.
Un esilio volontario dopo non essere mai andato a cercarla.
O forse ancora una volta non hai capito niente.
Obiettivamente quel trasferimento non variava le cose: un fiume e qualche quartiere li avevano già allontanati tanto da renderli alieni l’una all’altro, intoccabili e distantissimi; ma sapere di averlo nella stessa città, di respirare la stessa aria, essere illuminati dallo stesso sole e bagnati dalla stessa pioggia in un certo senso l’aveva rassicurata durante quei mesi.
Come se fossero ancora vicini, legati nonostante la frattura.
Ma ora… Ora non avrebbe avuto neanche quella consolazione.
Ora sarebbe stato un oceano a frapporsi, una nuova terra così diversa da quella calpestata fino ad allora, nuove persone, un cielo diverso.
Diversi noi?
No, si era risposta. Quel viaggio – qualsiasi motivazione avesse avuto – nulla avrebbe potuto contro la verità che lei ben conosceva: lui avrebbe continuato ad amarla e temerla tanto da preferire allontanarla anziché rischiare di ferirsi. Forse razionalmente non si era ancora reso conto di quanto successo, ma sentimentalmente sì, ed era questa la ragione della scelta; o forse era lei a essere una sognatrice idiota che s’illudeva sempre, ma la situazione comunque non cambiava.
L’articolo era corredato dalla sua foto ufficiale. Aveva seguito con l’indice i tratti del volto, mordendosi le labbra al ricordo delle volte in cui li aveva percorsi con baci.
L’ombra nei suoi occhi pareva più cupa che mai; anche il loro bambino l’avrebbe avuta? Chissà se un giorno, per le strade del mondo, padre e figlio si sarebbero in qualche modo incontrati.
Si sarebbero mai conosciuti?
Sì.
Si sarebbero conosciuti perché lei li avrebbe fatti conoscere, in un modo o nell’altro. Non avrebbe permesso a Robert Gold di andarsene continuando a ignorare la verità, di chiudere anche con quella parte del passato senza affrontarlo: si sarebbe presentata a Kensington, sarebbe rimasta lì anche a costo di essere trascinata via con la forza, si sarebbe attirata i peggiori epiteti, forse l’avrebbe ritenuta solo una donnaccia in cerca di denaro, ma avrebbe parlato con lui.
E stavolta l’avrebbe dovuta ascoltare.
Aveva fatto un sonno breve e agitato popolato da sogni illogici, e si era svegliata ancor prima delle ospiti. Aveva lasciato un brevissimo biglietto – Vado da Tink, torno presto –, si era calata in testa un vecchissimo cappello di Granny ed era uscita da sola per la prima volta dopo mesi.
Nessuno faceva caso a lei, e appena si era allontanata dal territorio dei Frey aveva sospirato sollevata; anche se, quando era salita sull’omnibus, era stata colta da un’inquietante sensazione di essere osservata che non l’aveva abbandonata per il resto del viaggio. La situazione attorno a lei pareva tranquilla, eppure quell’impressione non accennava a svanire.
Quando aveva scorto casa, aveva mandato giù un groppo alla gola e rivolto un’unica preghiera al Cielo.
Fa’ che ci sia ancora.
Uno sconosciuto dal naso camuso stava chiudendo il cancello dell’entrata secondaria.
Aveva allontanato con ferocia dalla mente l’ovvia motivazione di quel gesto.
- Cerco Mr Gold, – aveva dichiarato.
- E Mr Gold cerca te?
Aveva ignorato lo sberleffo e l’aveva guardato dritto negli occhi rispondendo: – Devo mostrargli una cosa.
- Immagino cosa, – aveva sghignazzato ammiccando, prima di sputare per terra evitandola appena – Ma se a Gold gli viene voglia, mica scende tanto in basso da prendersi una come te. Non è certo suo, quindi niente quattrini, bella.
- Non gli chiederei un centesimo nemmeno se stessi morendo di fame, – aveva replicato imponendosi calma – Fatemi vedere Mr Gold, per favore.
- E che vuoi, se non vuoi soldi? Senti, – l’uomo aveva finto comprensione – Te lo ripeto, non c’è trippa per gatti. Dici che faccio entrare la prima che passa? Ci tengo al lavoro, io, non posso permettermi di perderlo.
- Devo parlargli. Lui mi conosce, accompagnatemi e vedrete voi stesso…
- Allora non mi sono spiegato, – l’aveva afferrata per un braccio, strappandole un ringhio di protesta – Non ho pietà solo perché sei incinta, lo capisci, vero? Gold se n’è andato due ore fa, – aveva proseguito, incurante della sua espressione – Puoi seguirlo in America, dargli tutte le prove che magari una sera era sbronzo e ti ha sbattuta per bene, ma se credi che sgancerà un soldo, che si prenderà cura del bastardo di una puttana, allora fattelo proprio dire, tu della vita non hai capito un cazzo.
Il respiro le si era strozzato in gola per l’indignazione.
- No! Non è così, non…
- Oh, Lacey! Dio mio, ti ringrazio! – l’esclamazione sollevata di Ruby l’aveva paralizzata – Ci spiace avervi disturbato, signore, – si era scusata in un tono timido e tremante che non le apparteneva – Quando si è ritrovata vedova e incinta, la mia povera cugina è uscita di senno dal dolore. L’ho portata a passeggiare un po’ per distrarla, ma l‘ho persa di vista e già temevo per le sue sorti… È stata così fortunata a incontrare un uomo gentile come voi… Spero non vi abbia infastidito…
La guardia aveva ascoltato le lusinghe impegnato a studiare lascivo la ragazza; era tornato in sé per borbottare qualcosa quando era già troppo tardi: la mora aveva bisbigliato un altro ringraziamento sbattendo le ciglia e ne aveva approfittato per trascinare via Belle in fretta e furia.
Solo quando si erano allontanate abbastanza da essere fuori dalla portata dell’uomo, Ruby si era fermata di colpo.
- Adesso tu mi dici cosa ti è venuto in mente, idiota di una Belle French, – la voce dell’amica tradiva una rabbia crescente – Hai idea della paura che ho preso stamattina vedendoti andar via? Credevo che ti volessi ammazzare, che… Non lo so, dannazione, non lo so! Ti ho rincorsa per mezza città, non mi sembrava vero averti ritrovata su quel maledettissimo omnibus!
Due ore.
Era arrivata in ritardo di due misere ore.
Ruby aveva continuato a blaterare da sola e se n’era presto resa conto; così come si era resa conto di star trattando l’amica troppo bruscamente.
- Belle? – l’aveva scossa piano – Belle… Che ti ha detto quel porco?
Non era stati tanto gli insulti riferiti a lei a ferirla, quanto il modo in cui era stato definito il loro bambino.
Lei e Robert potevano anche non essersi sposati, ma questo giustificava l’offesa a loro figlio – nulla avrebbe potuto giustificare qualcosa di simile.
Se fosse arrivata prima, avrebbe parlato direttamente con lui, e avrebbero chiarito ogni cosa. Anche se glieli avesse nuovamente porti, avrebbe rifiutato i soldi: non li voleva, non voleva niente di materiale, davvero, non ce n’era bisogno; voleva solo dirgli che sarebbero diventati genitori, pensava solo che anche lui avesse il diritto di saperlo, solo quello.
Ma lui… Lui…
- Se n’è andato… – era stata appena in grado di sussurrare.
Ruby aveva deglutito evitando il suo sguardo.
- Lo so. Lo so.
- Come fai a…?
- Stanotte hai parlato nel sonno. Hai fatto il suo nome… – aveva sospirato – Dobbiamo tornare, Belle. Non ti fa bene restare qui.
Aveva annuito. No, non le faceva bene star lì.
Doveva andar via.
Tornare a Whitechapel.
Si era passata il dorso di una mano sugli occhi.
Doveva accettare il punto fermo che il destino aveva assegnato loro.
Ma a questo, anche tra le lacrime Belle lo sapeva, non si sarebbe mai rassegnata.
Lei non avrebbe mai smesso di combattere per loro.
Mai.
 
 
 
New York, gennaio 1894
 

Trascorrere qualche settimana lontano da New York era stato utile sotto più punti di vista: aveva concluso degli affari rilevanti, ma soprattutto aveva preso una decisione fondamentale.
Una decisione che avrebbe attuato appena avesse rivisto Rebecca.
Avrebbe messo fine al loro rapporto. Sarebbe stato schietto e diretto: le avrebbe detto di non avere più intenzione di continuare a incontrarla perché, semplicemente, non era interessato a nulla che lei potesse offrirgli.
Fosse stata un’altra, persino Cora prima che, forse avrebbe corretto il tiro e usato parole meno brutali; ma, avendo già sperimentato l’esecrabile tendenza della donna a fraintendere le lusinghe, aveva continuato dritto per la sua strada.
Quando aveva messo piede nella suite e aveva percepito quella fragranza esotica e conturbante, aveva capito che qualcosa non andava. Che quel profumo non doveva – non poteva – essere rimasto lì tanto a lungo; ma se ora gli solleticava le narici e le stanze erano a soqquadro, un motivo c’era, e poteva essere solo uno.
La sagoma seduta di fronte al camino acceso aveva dissipato ogni dubbio.
Udendo il suo nome, Rebecca si era voltata dolcemente; ma la smorfia sul viso non comunicava alcunché di tenero o gentile: la luce che scintillava negli occhi chiari era fredda, brutale, cattiva.
Tra le dita stringeva due oggetti sottili come nastri che Gold aveva identificato presto.
- Di chi sono? – la donna aveva domandato perentoria, con una voce stridula e crudele.
- Di mio figlio e di mia moglie. Lasciale stare, non sono tue.
- Come nient’altro… – aveva mormorato sprezzante – Sai, mi sono informata. Tua moglie ti ha lasciato quando eri ancora povero. Quando non potevi certo regalarle un anello così.
- Il mio passato non è affar che ti riguarda.
- È di un’altra, vero? Com’è che l’hai chiamata, “barlume nell’oscurità”? Quella a cui scrivi ancora, vero? – se la situazione fosse stata meno tragica, avrebbe trovato un che d’ilare nella confusione tra Lei e la Mills. Non gli aveva concesso la possibilità di replicare – Io me le sono sempre guadagnata, le cose. Ho sempre lottato per ottenerle, nessuno mi ha mai regalato nulla. E ora arrivano questi, questi, – aveva agitato davanti a sé le ciocche intrecciate – E mi portano via quel che è mio di diritto. Quel che io ho sudato per avere!
- Attenta a rivendicare il possesso sulle tue sedicenti cose, Dearie.
Rebecca era balzata verso il fuoco, le trecce salde tra le dita. Gli aveva lanciato un ultimo sguardo di sfida liberando tra le fiamme la prova fisica che, due volte nella vita, Robert Gold aveva amato qualcosa oltre al denaro e al potere.
Per un istante era sceso il silenzio nel salottino. Quel silenzio che accompagna l’irreparabile, tanto denso da potersi afferrare, stringere, da sentirlo premere sulla pelle fino a far male.
La quiete della tempesta.
L’industriale non aveva urlato. Lo scatto dell’ex amante era stato troppo repentino per essere anticipato o bloccato in qualche modo; non aveva potuto far altro che trasalire osservando le lingue di fuoco avvolgere le reliquie, inghiottirle senza timidezza – come un innamorato presuntuoso, consapevole che i suoi baci più appassionati non verranno respinti.
Aveva detto solo: – Non c’è rimedio a quello che hai fatto.
Rebecca lo guardava ancora con quegli occhi folli. Lo guardava certa della vittoria, convinta che distruggere un ricordo bastasse a cambiare ciò che era stato; a ribaltare, in un certo senso, il corso degli eventi e assicurarsi un posto di spicco nel futuro di chi non lasciava andare il passato.
Ma se solo fosse stato possibile tornare nel passato, lui sarebbe stato il primo a provarci.
Quando l’aveva cacciata – lui furibondo nonostante la facciata, lei più isterica che mai mentre veniva trascinata via dalla sicurezza –, quando aveva sperato vanamente che si fosse salvato almeno l’ultimo ricordo del suo bambino, quando si era ritrovato solo, si era guardato indietro e aveva scoperto che, forse, Rebecca aveva portato a termine la sua missione implicita.
All’ultimo era riuscita a scoperchiare il vaso di Pandora, facendone emergere tutti i mali dell’anima di Gold, sottolineando l’inutilità dei suoi sforzi privi di senso.
Era andato in America con tre precisi obiettivi e ne aveva falliti due su tre: la statistica non era dalla sua. Se già l’aveva capito anni prima, ora ne aveva la conferma definitiva: non L’avrebbe mai dimenticata. Le luci di New York non avevano scacciato il Suo fantasma: L’avrebbe ritrovato lì come a Parigi, come a Bombay, come in qualsiasi altra parte del mondo.
La sua era una fuga senza soluzione, che non l’avrebbe mai condotto a una meta – perché la meta era illusione, perché la meta non esisteva più; tanto valeva tornare là dove tutto era iniziato, là dove forse avrebbe potuto far pace col suo ricordo.
Pochi giorni, il tempo di sistemare gli affari, e avrebbe osato quest’estremo tentativo.
Sarebbe tornato a casa.
 
 
 
Londra, novembre 1889 - aprile 1894
 
La prima volta che aveva stretto loro figlia tra le braccia Belle aveva pensato che, se fosse morta in quel momento, se ne sarebbe andata con l’orgoglio di aver messo al mondo la creatura più bella che fosse mai esistita.
Ma Belle non aveva alcuna intenzione di morire: era allora, come le aveva detto Granny, che iniziava la seconda metà della sua vita.
Quella sera di novembre non era nata solo la loro bambina, ma anche una nuova parte di lei, una parte che prima non riusciva neanche a immaginare. Non era una sensazione facile da spiegare, né era in qualche modo paragonabile alle emozioni provate sino ad allora: sapeva solo che, nell’istante in cui un vagito acuto le aveva riempito le orecchie, in quel pianto di vita aveva riconosciuto anche se stessa. Aveva sentito uno strappo tra chi era stata e chi sarebbe stata, superato una linea di demarcazione sottile e nettissima che cambiava tutto per sempre; la vita per come l’aveva sino ad allora conosciuta apparteneva a un passato che non sarebbe più tornato e verso cui provava al più una malinconia venata di dolcezza: ma ora, ora, stringeva tra le braccia il proprio presente e il proprio futuro, e solo da quello si sarebbe lasciata vincere.
Il suo regalo inatteso, la sorpresa che aveva rapito la sua vita ribaltando ogni residua certezza, sostituendosi prepotentemente a ogni progetto, ogni piano; ma mai sarebbe tornata indietro, mai avrebbe scambiato quel fagottino rosa e castano per una vita di viaggi o sete, di avventure o oro.
Era lei il suo viaggio e la sua seta, la sua avventura e il suo oro, lei che era molto più dell’oro: perché l’oro è prezioso, ma duttile,  si lascia modellare dalle dita abili degli artigiani, si lascia adattare e vincere nonostante la preziosità che l’avvolge; mentre la bambina che stringeva al seno sarebbe stata diversa. Lo aveva intuito sentendola scalciare impetuosa in lei, ne aveva avuto conferma vedendo i suoi larghi occhi passare dall’incertezza del grigio acquoso della nascita alla determinazione perfetta del nocciola di cui si era innamorata un anno prima.
Gli occhi di suo padre.
Ma non sarebbe stata solo come lui. Era fatta anche d’oro, non solo d’oro: lei avrebbe saputo splendere, imporsi sull’oscurità di due esistenze e rischiararla, trasfigurarla, sconfiggerla.
Quella bambina così  piccola e così tenera avrebbe riportato il sole nella vita dei suoi genitori.
Era per questo che aveva scelto quel nome tra i tanti: Helena, dal greco “Helios”, “sole”. 6
Helena non sarebbe stata oro, sarebbe stata sole.
Come aveva anche solo potuto pensare di darla via? Quel giorno doveva essere ammattita, poco ma sicuro. Trascorreva ore e ore a coccolarla, a solleticarle i piedini, baciare le fossette che comparivano sulle guanciotte tonde e sode a ogni sorriso, a meravigliarsi nel ritrovare in lei i tratti propri o dell’amato. Le descriveva il mondo che le circondava, la bellezza nascosta nei luoghi impensabili, gli arcobaleni che scoppiavano dopo le tempeste; per lei inventava storie, colorando l’universo quando il cielo era troppo grigio. Le raccontava il modo in cui i suoi genitori si erano conosciuti, odiati e innamorati, giurandole il bene che le avrebbe voluto il padre se l’avesse conosciuta, perché aveva già dimostrato di saper amare a fondo, anche se non riusciva a trovare la forza di crederci; le parlava dei mille errori che avevano compiuto e della perfezione che avevano creato, lei.
A Belle pareva che Helena seguisse attenta quei discorsi, come se in qualche modo fosse interessata alle sue origini. Era impossibile per una bambina tanto piccola, certo, ma i suoi occhi scuri come sassi di torrente parevano più grandi, più maturi della sua età.
Come capaci di intuire la voragine che segnava l’esperienza di vita di sua madre.
Da quando loro figlia era nata, il ricordo di Robert era mutato: era sempre presente, sempre incastonato nel profondo nel cuore e impossibile da strappare – si potrebbe mai strappare una parte di se stessi? –, ma più dolce, meno crudele. C’era ancora il dolore, c’era ancora la rabbia per non essere stata creduta, e c’era ancora l’amore – quell’amore così ardente e implacabile, così fiero e graffiante – e sempre ci sarebbe stato; però era come se l’affetto per sua figlia avesse inglobato l’altro, non imbrigliato, ma addolcito, proprio come il sole mitiga l’inverno e guida verso la primavera.
Era così che doveva intendere Helena, pensava vedendola crescere tenera e testarda, far fronte a Granny e complottare con Ruby, capeggiare i bambini di Tink e comandare a bacchetta un Graham dalla pazienza infinita: là dove avevano cercato d’imporre l’inverno, loro figlia aveva riportato la primavera.
Mossa da una speranza che resisteva al tempo, passava ancora da Kensington: osservava da lontano i cancelli sbarrati e stringeva più forte la piccina, pensando che anche quella volta era andata male, ma la prossima sarebbe andata meglio, sì.
La prossima volta lui ci sarebbe stato e loro sarebbero entrate. Avrebbero inspirato a pieni polmoni l’odore di cera e agrumi di casastrano come a volte un posto in cui si è stati pochi mesi riesca a diventare rifugio più di quello in cui magari trascorriamo anni – ed Helena avrebbe corso per i lunghi corridoi, urlando eccitata dall’avventura e dal nuovo passatempo. Sarebbero passate da ogni stanza e avrebbero riso per le chincaglierie sparse ovunque, avrebbero urlato di gioia dinanzi agli infiniti libri della biblioteca, e sarebbero scese in cucina a salutare i loro amici mai dimenticati.
Mary Margaret e Archie le avrebbe sommerse di biscotti e abbracci rimproverandole per averli fatti attendere tanto, Emma avrebbe borbottato che ora avrebbe dovuto riordinare tutto daccapo, ma poi avrebbe sorriso a una Helena impegnata a domandare a Killian perché la chiamasse Coccodrillina. Aurora e Kathryn avrebbero loro spazzolato i capelli, e lei avrebbe coccolato anche il piccolo di Ashley e Sean, in attesa che le porte dello studio si riaprissero.
E quando lui fosse arrivato, avrebbe sorriso a loro, solo a loro, e allora sarebbero stati pronti a cominciare una nuova fase della loro vita.
Tutti e tre insieme.
Sì, ne era certa: sarebbero tornati a essere famiglia.
 
 
 
Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti:
in qualche modo sottile, essi diventano un unico sistema.
Ciò che accade a uno continua a influenzare l’altro,
anche se distanti chilometri o anni luce.7
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il titolo del capitolo e i versi iniziali vengono da “Branchie” di Alberto bebo Guidetti de “Lo stato sociale”.
1: le rose canine rappresentano piacere e dolore, il papavero oblio – http://www.daltramontoallalba.it/civilta/rosaselvatica.htm e http://ilgiardinodeltempo.altervista.org/papavero-2/;
2: “Io so darmi ottimi consigli / che seguir non so” – “Alice nel Paese delle Meraviglie”;
3: @Julie_Julia, ogni promessa è debito - ♥;
4: adattamento di “Ai più appare un tipo lontano, e le ragazze adorano quella distanza, che chiamano tristezza.” - “Emmaus”, Alessandro Baricco;
5: Non ho chiamato Zelena direttamente così perché abbiamo già una Helena, nome che ho scelto prima che si sapesse della Strega e che non ho voluto cambiare. Ho preferito ispirarmi all’attrice che la interpreta e all’assonanza Zelena / Zelenyy, che in russo significa “verde”, e proprio da questo sono partita per l’accenno di background;
6: http://www.nostrofiglio.it/nomi/nomi/helena;
7: non so se il post sull’equazione di Dirac che circola in rete sia corretto; io mi sono limitata a copiarne la suggestiva spiegazione. Eventuali scienziat* alla lettura perdonino eventuali errori.
 
 
 
 
 
N. d. A.: Saaalve! ♥
Innanzitutto, ringraziarvi è d’obbligo. Avete accolto questo seguito con un calore e un affetto inimmaginabili: le vostre parole dedicatemi qui e su “Euridice’s World” mi hanno sinceramente emozionata, e non posso che restare a bocca aperta dinanzi a tutta la fiducia che riponete in me. Perciò grazie, grazie davvero a chi ha recensito, letto il primo capitolo e a chi ha subito aggiunto la long alle preferite/ricordate/seguite: m’impegnerò sempre per non deludervi! ♥
Quanto a noi… Tante, troppe, pagine, lo so. Ve l’avevo annunciato: le cose da scrivere erano infinite, e a un certo punto ho anche pensato anche di spezzare il capitolo, anche se poi sono tornata sui miei passi: ho preferito analizzare il flashback tutto in una volta in modo da tornare al “presente” e concentrarmi su quello. In futuro mi conterrò, promesso.
Il vostro parere è più che benvenuto: la paura dell’OOC e simili non muore mai, anche perché ho introdotto personaggi cui non mi sono mai dedicata prima e quindi qualche dubbio in più c’è. I vostri consigli sono preziosi, fatevi sotto e ditemi la vostra su ogni aspetto!
Piccoli appunti: avendo già trattato le sorti post-rottura di Gold in “All of the stars”, per ovvi motivi ho preferito soffermarmi maggiormente su Belle. Comunque, non avrei mai potuto infliggerle tutte quegli orrori accennati nella oneshot di collegamento! Amo il personaggio, ma soprattutto non mi pare opportuno affrontare tanto leggermente temi delicati come la prostituzione e la violenza sessuale.
Rileggendo, mi rendo conto di aver forse fatto piangere Belle un po’ più del dovuto. Personalmente penso che, visto la situazione e gli ormoni, comunque ci sta; ma, se non siete d’accordo, parlate. Quanto a Graham e Belle… Sono il mio guilty pleasure, ecco. ♥ Nella serie non hanno mai interagito, ma questo non mi impedisce di immaginare un incontro durante la prigionia della giovane nel castello di Regina e di trasporlo a modo mio. Li vedo piuttosto affini: non tanto da costruirci su una storia d’amore, ma abbastanza per un’amicizia.
In “Flame and ice” la figura della fioraia non era né casuale né nuova, perché aveva già fatto un’apparizione nel capitolo “La mia vita senza te” – la ragazza mora col mantello rosso che vende la rosa a Gold è proprio Ruby! ;)
Qualcuna, sempre a causa della oneshot, ha avanzato l’ipotesi delle seconde nozze per Gold. Non avrei mai potuto - bis: la Zelenyy è stata solo l’amante di un periodo; non escludo, tuttavia, di farla ricomparire, anche perché l’ho fatta uscire di scena un po’ frettolosamente. Alcune frasi che la donna pronuncia sono tratte dalla stagione 3B.
Ci si rilegge sabato 27 dicembre: vi anticipo che nel prossimo capitolo ritroveremo vecchie e nuove conoscenze e tornerà il vecchio metodo d’intitolazione.
Grazie ancora, e buon Natale, Dearies! :) :***
Euridice100
   
 
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