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Autore: Ivola    29/12/2014    3 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: Mi sento davvero, davvero in colpa perché non aggiorno da tre mesi. Sono stata praticamente incasinatissima e ho perso la voglia di scrivere, senza nemmeno sapere perché. Ma comunque non ho mai pensato neanche lontanamente di abbandonare questa storia, perciò eccomi qui, di nuovo. Avrei voluto scrivere questo capitolo in un modo diverso, ma ho già dovuto combattere contro il blocco e quindi mi sono dovuta accontentare ç_ç Spero vi piaccia, in ogni caso, e che non mi odiate tanto - ma siete liberissimi di farlo, mi sento una persona bruttissima.
Come sempre, pagina facebook QUI e gruppo scambio recensioni QUI. Ultimamente mi sono aperta un account Ask!, quindi se volete farmi qualche domandina vi risponderò volentieri :3 E ho anche un blog tumblr, adesso. Oddio, troppi link x° 
Adesso vi lascio al capitolo.
Buona lettura! ♥


Il titolo del capitolo viene da "A modern myth" dei 30 Seconds to Mars. Vi metto il link perché dovete assolutamente ascoltarla, è la mia canzone preferita della playlist di Blur. E quella che mi fa più piangere. 

Questo banner appartiene a me, ©Ivola.
















 


 


















Blur

(Tied to a Railroad)






028. Twenty-eighth Chapter – Goodbye, goodbye, goodbye.




Quelle parole gli rimbombarono nella cassa toracica in un’eco ghiacciata.
Gli ci volle qualche secondo per assimilare il significato di quell’affermazione così cruda, di quella breve sequenza di parole che suonò estremamente stonata e sbagliata nella sua testa.

« Klaus Wreisht, sei libero. »
Era libero.
La mente di Klaus si svuotò. 
Benjamin lo stava risparmiando. Lo capì nello stesso istante in cui le orecchie cominciarono a ronzargli, quasi i Pacificatori avessero sparato tutti nello stesso istante.
Ma non c’era stato nessuno sparo, non era morto ancora nessuno, e un pensiero di brutale violenza gli esplose nel cervello. Un brivido gelido gli percorse le membra.
Ben stava sacrificando London.
Fu come un lampo accecante nella sua mente che lo stordì e gli fece ghiacciare il sudore alla base del collo.
London... Il nome della donna che amava, che aveva sempre odiato e amato, l’unica donna e persona per cui sarebbe morto, gli vibrò sulle labbra e una paura improvvisa quanto famelica cominciò a divorargli il petto con una tale intensità da farlo barcollare. 
Per qualche istante non volle credere a quelle parole e rimase fermo lì, contro il muro, con le mani alzate in segno di resa e lo sguardo perso davanti a sé. 
Non accadde nulla, tutto rimase statico e bloccato in quell’infinita frazione di secondo.
Poi gli occhi corsero a Ben; e lui voltò il viso, fece qualche passo e si allontanò dal vetro antiproiettile, sparendo dalla sua vista, come se non volesse assistere alle conseguenze della propria decisione.
Lurido codardo.

« Benjamin... » balbettò Klaus, prima, con la paura ad attanagliargli la gola. « Benjamin! » urlò poi, sentendo la propria voce disperatamente terrorizzata rimbombare in quell’enorme sala grigia e vuota.
La sua testa cominciò a sovraffollarsi di pensieri contorti e taglienti; avanzò di qualche metro, come per tentare di avvicinarsi a Ben e ammazzarlo con le proprie mani, ma prima che potesse anche solo fare altro, quattro braccia ben salde lo bloccarono all’improvviso e lui non volle neanche vedere a chi appartenessero. In un primo momento non ebbe la forza di opporsi, ma poi cominciò a lottare - senza risultati. Lo trascinarono indietro, verso l’uscita, e quando fu abbastanza lontano dagli altri ribelli i Pacificatori ripresero la propria cantilena di morte.
Puntare...

« No... » mormorò Klaus, sconvolto, scorgendo da lontano la figura di London, immobile esattamente come una meravigliosa statua di cera, pallida e fragile. « No, no, no... »
I Pacificatori che lo stavano trascinando via non diedero segno di aver ceduto alle sue proteste, così lui continuò a urlare e a dimenarsi, pur essendo allo stremo delle forze.
« No! »
Mirare...
« London! » gridò ancora, bruciandosi le corde vocali e combattendo contro quelli che lo trattenevano. Avrebbe voluto fare qualsiasi cosa per impedire quell’esecuzione. Avrebbe voluto ucciderli tutti, stringere e tenere London al sicuro, portarla via, tornare a Valhalla, proteggerla, salvarla...
London non si voltò verso di lui, ferma contro il muro, e Klaus non smise di urlare, vittima della rabbia e del terrore. 
Riuscì a liberarsi con uno sforzo disumano, senza neanche badare minimamente al dolore dei graffi, dei lividi, delle frustate, e cominciò a correre.
Il respiro spezzato, le gambe deboli, il cuore martellante, il tempo rallentato di botto.
Gli sarebbe bastato solo un istante. Un’ultimo secondo per salvarla. Tutto ciò che Klaus voleva era...
Fuoco!

« London»
... salvarla.

I proiettili colpirono quasi tutti contemporaneamente. Il rumore degli spari coprì ogni cosa e le urla di Klaus non valsero più a nulla.
Vide ogni singolo dettaglio di quella scena: il petto di London si colorò di rosso cremisi all’altezza del cuore e, mentre il suo corpo cadeva scompostamente a terra, la macchia si allargò sui suoi abiti anonimi da prigioniera, fino a che il sangue cominciò a sporcare anche le mattonelle sotto di lei in una pozza scarlatta sempre più larga.
Klaus non smise di correre nemmeno dopo aver visto la stessa scena moltiplicata per tutti i ribelli condannati, anzi, corse ancora più velocemente, così tanto che i suoi muscoli provati dalle torture non ressero, facendolo inciampare e cadere a pochi metri dal corpo di London.
Non gli importava se presto sarebbe stato trascinato nuovamente via, non gli importava più di nulla. Si mosse in direzione della moglie perché non ce la faceva neanche ad alzarsi, con la paura ormai cristallizzata nel petto, e strisciò tra i cadaveri riversi sul pavimento stringendo i denti.
Raggiunse London.
I suoi occhi scuri rimasero spalancati per attimi interminabili su di lei, poi Klaus tentò di farla voltare verso di sé e nel guardare il suo viso si sentì morire. 
Era scioccato; fissava il suo volto pallido e le labbra già violacee, appena dischiuse, e le palpebre che nascondevano i suoi occhi meravigliosi, senza avere la capacità di pensare a nulla, se non al fatto che fosse morta. Che ora fosse lì, stretta tra le sue braccia, sempre incantevole, sempre sua, ma morta.
Morta...
La attirò più forte contro il proprio petto, la scosse prima leggermente e poi più bruscamente, ma lei restava inerte, come una bambola di porcellana ormai rotta. Non si muoveva né respirava. Non l’avrebbe mai più vista ridere, piangere o arrabbiarsi. Era morta al posto suo.
London...
La strinse ancora e ancora, come se nient’altro avesse importanza, appoggiò la propria fronte alla sua e si macchiò le mani del suo sangue vermiglio.
Ti prego...
Non ebbe la forza e la lucidità di piangere. Gli sembrava soltanto un sogno orribile, una scena finta e irreale, con i contorni sfocati. Continuò soltanto a guardarla con gli occhi sbarrati e con il dolore a distruggerlo dall’interno, come un’avida bestia che lo stava disintegrando.
Fu solo qualche secondo, poi i Pacificatori giunsero per portarlo via. E lui si ribellò, urlò ancora pur senza riuscire a sentirsi, reagì come un animale, guidato da un istinto primordiale, e provò a lottare, picchiare, scalciare, ma qualcuno di loro lo stordì con una botta in testa.
L’unica cosa che riuscì a fare prima dell’oblio fu ispirare il profumo di London un’ultima volta. Era profumo di lacrime, di sangue, di sudore, di lavanda, di lamponi, di errori, di speranze distrutte. Un profumo dolceamaro, ma molto più amaro che dolce.
 

*


Gli sembrava di avere un chiodo piantato in testa. Aprì le palpebre il più lentamente possibile, come se fossero incollate. 
Un ambiente spoglio e privo di colori, una stanza semivuota. Klaus era steso su una brandina scomoda e, nel riprendere coscienza, guardava il soffitto bianco e pieno di crepe. Non era legato, ma sentiva dolore ovunque, non riusciva a muovere neanche un muscolo.
Una nebbia opprimente gli aleggiava nel cervello, sfocando ogni cosa. Tentò di alzarsi a sedere, ma delle scintille di dolore si espansero per tutto il suo corpo, bloccandolo. 
Il suo primo pensiero fu che gli sarebbe tanto piaciuto morire. Era un desiderio quasi irrazionale, in quel momento, ma vivido nella sua testa. Pregò che le forze lo lasciassero. Si sentiva... evanescente. Sarebbe potuto essere già morto, se solo non ci fosse stato quel dolore a irradiarsi in ogni parte del suo corpo - a partire dalla nuca e dal petto -, a ricordargli che lui, purtroppo, esisteva ancora e che la realtà intorno non era soltanto un misero scherzo della sua mente.
Passarono molti minuti e Klaus rimase lì, con la faccia rivolta verso il soffitto, sperando di abbandonare quel mondo da un istante all’altro. Ma il suo desiderio non si realizzò né in quel momento, né nei secondi a venire.
Alla fine, decise di stringere i denti e provare ad alzarsi. Non riusciva a capire nulla, si sentiva semplicemente come qualcuno che si è svegliato dopo lunghi anni di coma. Non aveva la percezione del reale, nemmeno dei ricordi più recenti.
Con uno sforzo che gli costò qualche secondo di affanno, si mise a sedere sulla brandina e aspettò qualche istante per chiudere gli occhi e mettere a fuoco quella situazione così anomala. Si passò una mano sulla fronte e sentì la sua pelle bollente. Doveva avere anche la febbre, dunque. Forse qualche ferita si era infettata. 
Rimase così, fermo e seduto, per un po’ di tempo, con un mal di testa crescente e una sensazione di spossatezza sempre più maligna. Cercò di focalizzare gli ultimi avvenimenti, ma per molti minuti non ricordò altro che vuoto. E paura. E dolore. Soprattutto dolore.
Ma era un dolore che non aveva mai sperimentato, un dolore sconosciuto, molto diverso da tutti i tipi di dolore che avesse mai provato, molto più forte e brutale. 
C’era ancora nebbia nel suo cervello, quando all’improvviso... un lampo, un fulmine a ciel sereno. Si aprì una voragine nella sua testa e da lì sgorgarono tutti i ricordi. 
Per un attimo rimase senza respiro, lasciandosi investire da quel flusso di emozioni, mentre il suo cuore accelerava i battiti di colpo. Ogni battito divenne una coltellata.
Si alzò in piedi di scatto.
Ma quel movimento così improvviso e per nulla premeditato gli provocò una dolorosissima fitta alla testa, che gli cominciò a girare. E cominciò a girare tutto, tentò di appoggiarsi alla parete, ma si lasciò cadere a terra come un corpo senza vita.
Rimase a terra. Gli sembrava di non respirare più. Le ferite gli facevano ancora più male.
Adesso ricordava.

« London... » sussurrò nel silenzio della stanza.
London era morta.


 
*


Se n’erano andati tutti. Ora era finalmente solo. 
Si stupì di quel pensiero. Qualche mese prima non avrebbe neanche mai pensato di poter accostare due parole come “finalmente” e “solo”. Ma adesso non voleva nessuno. Non voleva essere visto.
Camminò per la sala grigia lentamente, senza guardare nessuno di quei cadaveri stesi a terra in particolare. La stava cercando, certo, ma non era ancora pronto a mettersi di fronte alla realtà. 
Camminò silenziosamente e ogni suo passo rimbombava nel silenzio tombale della sala delle esecuzioni. Forse qualcuno poco più tardi sarebbe arrivato a portare via i corpi dei ribelli. Poi li avrebbero bruciati. Non avevano tempo per seppellirli, la guerra continuava. 
Si chiese per un istante cosa sarebbe successo quando quelli di Capitol City avrebbero scoperto la verità su di lui. Ma in realtà non gli importava. Aveva giocato. Aveva distrutto. Non gli restava null’altro da fare, se non lasciarsi disintegrare da Emil. 
Spostò il cadavere di un uomo sulla quarantina con un calcio e poi la vide. 
Era lì, London. A terra. In una posizione innaturale, con le braccia e le gambe piegate, la bocca socchiusa, il viso pallido. Il petto era inzuppato di sangue. 
Il cuore gli si bloccò nel petto, il respiro si mozzò.
Ben cadde a terra in ginocchio.
La strinse forte contro il proprio petto.
E urlò, urlò tutto il dolore che nessun altro avrebbe ascoltato.

 
*

 
Era riuscito ad alzarsi. Il suo corpo tremava e la testa gli mandava fitte lancianti, ma non aveva alcuna importanza. Corse contro la porta della stanza - o cella - in cui l’avevano portato e tentò di aprirla, ma quella rimase beffardamente bloccata. Era chiusa a chiave. Quindi non l’avevano liberato davvero, era stata tutta una farsa. Lanciò un urlo disperato e cominciò a picchiare con i pugni sul metallo della porta, sfogando tutta la sua rabbia, continuando a gridare come un animale intrappolato.
Lo sapeva che lo stavano guardando, da qualche parte, lo sapeva che doveva esserci qualche altra telecamera nascosta. 
Gridò per quelle che gli sembrarono ore. Nessuno venne ad aprirgli. Diede un ultimo pugno alla porta, così forte che sentì spezzarsi almeno un paio di falangi della mano sinistra. Stavolta urlò di dolore e delle lacrime gli appannarono la vista. 
Ma non era ancora abbastanza lucido per piangere, era troppo accecato dalla rabbia e dall’odio, avrebbe voluto uccidere chiunque gli fosse capitato a tiro in quel momento, sarebbe anche stato capace di strangolare tutti i Pacificatori con la mano buona. 
Il centro propulsore di quell’odio era, però, un’altra persona. 
Giurò a se stesso che si sarebbe vendicato di Benjamin, sperò per il suo bene che morisse nel più doloroso dei modi, perché se lo avesse rincontrato l’avrebbe ucciso in un modo ancora peggiore.
Si accasciò sul pavimento ancora una volta, con la schiena appoggiata alla parete. Respirava velocemente e si teneva la mano ferita stringendo i denti. Se qualcuno l’avesse visto davvero, in quel momento, avrebbe pensato che stesse quasi ringhiando contro qualcosa.
Klaus tenne lo sguardo fisso davanti a sé, in direzione della brandina. Ma non la stava guardando sul serio. Tutti i suoi pensieri si addensavano in un unico perno.
E, nella sua testa, sentiva il fucile che aveva ucciso London sparare dieci, cento, mille volte.

Non gli portarono da mangiare, né da bere.
Si erano completamente dimenticati di lui. Rimase in cella per giorni interi, senza muoversi, senza respirare più del necessario, sentendo le forze abbandonarlo sempre più e la propria volontà vacillare.
Aveva perso tutto. Ora avrebbe perso anche se stesso. Non gli era rimasto più niente, neanche qualche briciola di dignità.
Rimase con la schiena appoggiata al muro per quella che sembrò un’eternità, un’eternità fatta di istanti congelati, un’eternità terribilmente lunga e vuota. 
La fame e la sete lo colsero come bestie fameliche quasi quanto il dolore che lo intorpidiva, trascinandolo verso un abisso nero, verso l’oblio.
Non aveva più percezione di nulla, gli sembrava che il mondo si fosse improvvisamente appannato, che i pochi suoni che raggiungevano le proprie orecchie fossero dei martelli pneumatici. 
Era debole.
Era quasi morto.
Era debole e quasi morto, svenuto sul pavimento della cella, quando le bombe giunsero ad attaccare la prigione.

Era incosciente, o forse no. Si sentiva trasportare da qualcuno. Delle voci provenienti da ogni direzione urlavano, impartivano ordini, chiamavano persone che non aveva mai sentito nominare. Il suo corpo veniva sballottato e l’aria che respirava era piena di fumo, mentre i suoi polmoni erano pieni di polvere. 

« Questo è ancora vivo! » gridò qualcuno, molto vicino a lui. « Portatelo insieme agli altri feriti! »
Rumore di hovercraft in volo, in lontananza. Rumori, rumori assordanti, e polvere che gli entrava nelle narici e in bocca e lo soffocava. Non aveva la forza nemmeno per tossire. 
Venne caricato su una specie di barella e trasportato per qualche metro. Mosse piano le dita della mano destra. Cominciò a sentire l’aria fresca sferzargli sul volto sudato e provato. 
Stava per risvegliarsi. Stava per riaprire gli occhi e guardare il cielo dopo settimane di prigionia, ma qualcuno gli iniettò qualcosa con una siringa e allora lui ricadde preda del proprio subconscio. 

Quando Klaus si svegliò, fu investito da una piacevole sensazione di torpore. Nessun dolore. Neanche lieve. Si sentiva semplicemente stanco, come se avesse vissuto per diecimila anni.
Si guardò intorno molto lentamente. Era in un luogo fin troppo diverso da quello in cui aveva vissuto quelle settimane. Sembrava un palazzo abbandonato e in via di decadimento, con letti di fortuna recuperati un po’ ovunque. Dai feriti sulle brandine, sul pavimento, sulle barelle, capì che doveva essere una sorta di ospedale improvvisato. Degli infermieri volontari correvano in giro accertandosi che i feriti stessero bene, alcuni controllavano le persone in condizioni più gravi, altri coprivano i morti con delle lenzuola pulite. 
Si guardò il braccio e vide un ago affondato in endovena, collegato ad una flebo poco lontana. Era steso su un materasso e l’avevano, probabilmente, imbottito di antidolorifici. 
Non aveva idea di cosa fosse successo. L’ultima cosa reale che ricordava era... uno sparo. E del sangue. E un profumo familiare. 
Tentò di alzarsi, ma arrivò presto un’infermiera a dirgli di restare fermo, perché non era ancora pronto per alzarsi. Gli sorrise gentilmente e poi corse in direzione di un altro ferito.
Klaus prese un lungo respiro, sorpreso di non ritrovarsi i polmoni distrutti dal fumo e dalla polvere. Aveva freddo, ma non gli importava.
Il suo busto era fasciato da numerose bende pulite e la mano sinistra era stata ingessata. Gli suonò strano che qualcuno si fosse preso cura di lui, quando invece pochi giorni prima non facevano altro che torturarlo.
Aveva ancora una volta la mente annebbiata, ma stavolta era una sensazione piacevole, benigna. Per un momento ci fu soltanto lui, la libertà, l’aria fresca e le voci lontane degli infermieri che si adoperavano per i pazienti. 
Poi sentì qualcuno piangere, a qualche materasso di distanza. Era un uomo, probabilmente poco più vecchio di lui ma conciato molto peggio. Aveva metà testa fasciata e piena di sangue. Sarebbe stato impossibile vedere le sue lacrime in quella condizione, ma i suoi singhiozzi erano così straziati che devastarono la mente di Klaus.

« Sono morti... » mormorava tra sé, ma lui riusciva a sentirlo perfettamente, come se fosse il suo interlocutore. L’uomo strinse di scatto il polso dell’infermiera di prima, che era tornata per controllarlo. « Dimmi che li seppelliranno, ti prego... » pianse, ancora.
La ragazza annuì e lo tranquillizzò, ma sembrava soltanto che lo stesse facendo per accontentarlo. E Klaus cominciò a sentirsi male.
Sembrò che il tetto gli fosse crollato improvvisamente addosso, come aveva fatto quello della prigione. Sono morti, dimmi che li seppelliranno, ti prego.
Gli mancò l’aria, ancora una volta.
E ricordò, ancora una volta.
Il dolore tornò a farsi sentire, più violento di prima. Come un fuoco che lo stava bruciando dall’interno. Come un fuoco che non avrebbe mai smesso di ardere.

 
*

 
Klaus dormiva. Lo osservava, da lontano. Era quasi immobile sul suo materasso, il petto si alzava e abbassava appena.
Era vivo. Forse per miracolo.
Ben non riusciva a fare a meno di guardarlo. Ben il torturatore, Ben il traditore, Ben la spia dei ribelli. L’avevano avvisato prima del bombardamento della prigione. Era riuscito a scappare. Ben aveva voluto che morisse anche Klaus, in quell’esplosione. Avrebbe voluto portare a termine ciò per cui Emil era venuto alla luce. 
Uccidere Klaus.
Klaus, non London.
E invece aveva fatto una muta promessa alla gemella. L’aveva salvato. E lei era morta. E ora giaceva sotto un cumulo di macerie.
E invece Klaus era ancora vivo. 
In quel momento due impulsi si facevano strada nella propria mente: soffocarlo con un cuscino o baciarlo. O entrambi. Due impulsi, due riflessi del proprio io, uno di Emil e uno di Benjamin.
Alla fine gli si avvicinò. Cautamente, per non svegliarlo. Non voleva essere visto, né da lui né da nessun altro. 
Lo osservò più da vicino. Aveva le labbra leggermente schiuse, i capelli sulla fronte e il viso imperlato di sudore freddo. Era pieno di bende e sangue secco.
Ucciderlo o baciarlo. 
Fu difficile domare entrambi gli impulsi, ma alla fine Ben semplicemente si voltò e se ne andò.

 


















   
 
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