── Per
il bene della Scienza ──
“Un male necessario”
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“L'uomo ha scoperto la bomba atomica,
però nessun topo al mondo
costruirebbe una trappola per topi.”
Albert Einstein
3. La lepre
Novembre 2013
Sono trascorsi pochi giorni
dal mio risveglio, eppure mi sento benissimo, come se fossi rinato. È una
sensazione fantastica, come un buon bagno caldo dopo una giornata stressante.
Viktor è molto simpatico e, quando ha un
po’ di tempo libero, viene sempre a farmi compagnia. A volte mi parla di Klaus,
il suo fidanzato. Gli manca tantissimo, si vede dal suo sguardo: osserva fuori
dalla finestra con aria persa e per un attimo mi sembra che nei suoi occhi ci
sia qualcosa di torbido. Si pietrifica, rannicchiato sulla schiena e sembra
così piccolo e indifeso da suscitarmi un’infinita tenerezza. Poi torna quello
di sempre, si volta verso di me e mi sorride, scompigliandomi i capelli, e riprende
a parlarmi di medicina, chimica, fisica… È un ottimo insegnante. Ha provato a spiegarmi
anche qualcosa di inglese e francese, ma le lingue straniere proprio non riescono
ad entrarmi in testa!
“Hai una mente scientifica, ecco perché!”,
dice sempre così, Viktor, ma credo lo faccia solo per non scoraggiarmi.
C’è qualcosa di strano, in lui, come se
portasse una maschera. Mi tiene all’oscuro di qualcosa, lo sento. A volte
aggira il discorso, svicola, non risponde alle domande che gli pongo. Temo che
lo faccia con tutti, in realtà. Ho come la sensazione, quando lo guardo, che si
trattenga, che finga di essere ciò che non è. Non che menta – non a me, almeno
– eppure con gli altri si comporta in modo evasivo, puramente professionale,
come se fosse un robottino e nulla di più. Un pezzo
del puzzle, non una persona. Solo… un dipendente come
tanti altri.
***
«Mi domando perché non ti ho ancora licenziato!» sbraitò l’orientale,
agitando le braccia con aria inferocita. «Ah, giusto» riprese sarcastico,
alzando l’indice con aria risoluta. «NON POSSO!»
Innervosito, contrariato e
stressato, Saito adagiò la schiena contro la poltrona
girevole in pelle, poggiando la fronte sul palmo della mano con aria
teatralmente stremata. Sospirò un paio di volte sotto lo sguardo impassibile
del sottoposto, voltandosi poi verso la vetrata che ricopriva l’intera parete.
Non sapeva più cosa fare con Viktor, quell’uomo era…
così anarchico! Tenerlo a bada era un’impresa. Giusto Albrecht
sapeva aggirare nel giusto modo i suoi sotterfugi, stava quasi riuscendo a
farselo amico, ma lui non riusciva ad avvicinarsi neanche di un centimetro che
Viktor era pronto a morderlo e strappargli la mano. Indomabile. Quando l’aveva
assunto pensava di poterlo plasmare, di sottometterlo con facilità al suo
volere – dopotutto era talmente giovane ed ingenuo! – e invece no, si era
sbagliato, Viktor riusciva sempre ad ostacolarlo, a mettergli i bastoni tra le
ruote: non ascoltava gli ordini, faceva di testa sua, combinava guai, comprometteva
il lavoro altrui, non rispettava i suoi superiori… E
tutto questo per cosa? Per i suoi princìpi del cazzo!
Eppure non si era pentito di
averlo preso con sé, Viktor era dotato di una mente geniale, un’intelligenza
brillante e un talento sprecato, un talento che Saito
avrebbe voluto sfruttare ma che il giovane gli impediva di alimentare e
migliorare. Prima o poi sarebbe riuscito a modellarlo, quel ragazzino
arrogante. Chi si credeva di essere? Saito sarebbe
riuscito, con un po’ di tempo e l’aiuto essenziale del suo fidato amico e
collega Albrecht, a modellare la mente e la coscienza
di Viktor.
«Perché non fai fare una
passeggiata a Syans? Oggi è una bella giornata,
guarda com’è sereno il cielo…» Il tono di voce era
mutato completamente, ora era più pacato e gentile, ma l’espressione del moro
non si addolcì, rimanendo disgustata ed infastidita dalla presenza
dell’orientale.
«Certo, lo faccio
immediatamente.»
Saito
odiava quel tono servile, sapeva che significava tutt’altro e questo lo infastidiva.
Come proprietario dell’intero edificio voleva essere rispettato, invece Viktor
lo trattava alla stregua di un coetaneo. Un comportamento imperdonabile,
soprattutto per un giapponese.
Il giovane uscì e nello stesso istante entrò Albrecht,
con un camice bianco e la lunga chioma color mogano legata con una coda di
cavallo. Si sistemò gli occhiali e aggrottò la fronte, passando lo sguardo
prima sull’uscio e poi sul collega.
«Cos’ha combinato questa
volta?» chiese scherzosamente, prendendo posto sul divanetto in pelle che
affiancava una libreria in metallo.
«Voleva dare ad Alek qualche giorno di permesso. Come se fosse una cosa
possibile, capisci?!»
Albrecht
non disse nulla, volgendo lo sguardo ambrato verso l’ampia vetrata.
«Non capisco cosa gli passi
per la testa. Vuole forse farci fallire? Conoscendolo…
probabilmente è davvero così!»
«Non ti scaldare» sussurrò
cauto l’austriaco, che ora gli era vicino, con una mano sottile ed affusolata
poggiata sulla piccola spalla del collega. Un sorrisetto ambiguo gli incurvava
le labbra.
«Cosa devo fare con lui, Ishii-san? Non riesco a farlo ragionare.»
«Gli parlerò io, non
preoccuparti.»
Calò il silenzio per svariati
minuti. Loro rimasero immobili come statue, persi nei loro pensieri. La stanza,
così come tutte le altre, era insonorizzata e l’unico suono udibile in quelle
quattro mura erano i loro respiri sincronizzati. Poi il bruno ruppe
quell’atmosfera eterea con un rumoroso sospiro, consapevole di non dover dare
voce ai suoi pensieri ma deciso a non rimandare oltre.
«Saito»
esordì; l’orientale sapeva che quel tono era fonte di guai, poiché l’amico era
solito utilizzarlo – inconsciamente o meno – quando era nervoso e insicuro. Saito si voltò verso di lui, sistemandosi gli occhiali.
Quando i loro sguardi si incrociarono e gli occhi chiari dell’orientale si
specchiarono in quelli ambrati dell’altro, Albrecht
riprese con maggior sicurezza: «Voglio parlare con Syans,
ormai sono passati cinque giorni ed è giusto che lui sappia. Voglio dirglielo, Saito.» non si interruppe neanche per prendere fiato,
sapendo che un attimo di esitazione sarebbe stato fatale. Vedendo l’espressione
perplessa dell’altro aggiunse in tono più acido: «Te lo sto comunicando perché
siamo amici e mi sembra giusto che tu lo sappia, non per chiedere il tuo
permesso. Lo farò a prescindere dalla tua risposta.»
Tipico di lui. Saito non poté fare a meno di sorridere.
«Certo, lo capisco» si alzò e
gli diede una pacca sulla spalla. «Hai ragione, è meglio dirglielo ora, ma non
strafare con le informazioni» e lo guardò severo, per controllare che avesse capito, «a piccoli
passi, mi raccomando. Pian piano saprà tutto. La verità, tutta in una volta,
può essere fatale.»
«Mi sembra un ragionevole
compromesso.»
Mentre Viktor gli teneva la mano piccola e morbida, Syans
percorreva con passo traballante il bordo della fontana.
«Se lo sapesse, Saito mi ucciderebbe!» disse il moro tra le risa e il rosso
si unì a lui.
«Non farmi ridere,» lo
rimproverò Syans scherzosamente, grattandosi una
guancia lentigginosa, «altrimenti perderò l’equilibrio!»
«Va bene, dopotutto sei sotto
la mia custodia, ora, quindi è meglio evitare incidenti.»
Dopo un paio di giri – la
fontana era molto grande, con un diametro di circa sei metri – il ragazzino
scese con un balzo, si tolse le scarpe e si godette la sensazione dei fili
d’erba che gli solleticavano la pianta del piede. Ridacchiò, voltandosi a
guardare Viktor in cerca di approvazione. Il giovane sorrise e si sedette sul
bordo della fontana, guardandolo con aria intenerita. Syans
si mise a correre veloce, tra gli alberi e gli arbusti, distendendo le braccia
come se fossero le ali di un aereo. Quando tornò vicino la fontana era madido
di sudore, le guance imporporate e i capelli gonfi e crespi pieni di foglie
gialle. Viktor rise nel vederlo conciato in quel modo, ma i muscoli del suo
viso si contorsero velocemente in un’espressione triste e sconsolata. Vederlo
così vivo, così felice, gli ricordava come quella stessa gioia gli fosse
stata sottratta anni prima. Chinò lo sguardo sul prato, avvilito: vicino ai
suoi piedi una lunghissima fila di formiche nere stava trasportando delle
briciole di pane.
Anche il rosso, per riprender
fiato, si sedette sul bordo della fontana. C’era una grande quantità di pesci,
rane e tartarughe, lì dentro, e trattenne l’infantile istinto di provare ad
acchiapparli per poi farne chissà cosa. Stava per riprendere la sua corsa
quando si soffermò a specchiarsi nell’acqua non troppo limpida della fontana.
Non ricordava più nulla. Guardava i suoi capelli scombinati, senza forma, come
la chioma di un leone, i suoi grandi occhi verdi, il suo visetto da bambino, le
sue orecchie piccole e il suo nasino all’insù e non riusciva a riconoscersi.
Vedeva un estraneo. Si toccò la faccia come per assicurarsi che fosse davvero
lui quello che vedeva riflesso nella superficie dell’acqua. Non ricordava più
nulla. Il suo nome, i suoi genitori (ammesso che ne avesse), la sua storia, la
sua casa… Ancora nessuno lo aveva degnato di una
spiegazione, nonostante le sue innumerevoli domande. Perfino Viktor, suo
malgrado, era stato costretto al silenzio. Non riusciva a capacitarsene. Se
avevano insistito per non dirgli nulla probabilmente la verità era talmente
shockante da poterlo traumatizzare e compromettere la sua incolumità, per
questo preferivano tenerlo all’oscuro di tutto. Non era riuscito a trovare
un’altra motivazione.
Albrecht e Saito camminavano
uno di fianco all’altro, inseparabili. Alcuni colleghi rabbrividivano al loro
passaggio, temendo di essere sgridati dall’orientale, il più severo ed esigente
tra i due. L’unica cosa che temevano di Albrecht,
invece, era l’aria perennemente ambigua: non si capiva mai cosa pensasse
veramente ed era capace di licenziarti con la stessa voce amorevole che avrebbe
usato per chiederti come stavi. Il suo sorriso era affabile, non mutava mai,
alcuni erano convinti che avesse una paralisi facciale, ma quando il buonumore
lo abbandonava, e il sorriso comunque permaneva, gli occhi sembravano due braci
ardenti pronte a darti fuoco da un momento all’altro. Questo, solitamente, era
l’unico modo per scoprire le sue vere intenzioni: leggere il suo sguardo.
Prima che i due coproprietari dell’edificio raggiungessero l’uscita si
sentirono chiamare da Nolan, un giovane australiano
dalla mente geniale che in poco tempo era diventato il migliore nel suo
settore.
«Ho terminato il mio progetto!»
annunciò soddisfatto e un bagliore di entusiasmo illuminò i suoi occhi.
«Ottimo lavoro» rispose Saito con sincera approvazione: Nolan
era uno dei pochi che era riuscito ad ingraziarsi lo scorbutico orientale.
«Passeremo a dargli un’occhiata quando avremo terminato le nostre incombenze,
tu occupati di altro nel frattempo.»
«Okay, sensei*»
Nolan si divertiva ad usare termini giapponesi e probabilmente
questo faceva piacere al suo superiore, un motivo in più per continuare a
farlo.
Albrecht
lo liquidò definitivamente con un cenno della mano, avviandosi poi verso il
giardino, un posto immenso, pieno di alberi e arbusti, ma anche fiori ed
ortaggi. Alcuni spazi erano recintati, accessibili solo ad una parte del
personale, ma altri erano aperti a chiunque, in modo che medici e pazienti
potessero uscire di tanto in tanto per prendere una boccata d’aria.
L’austriaco si guardò
intorno, alla ricerca di Syans. Non gli ci volle molto
per individuarlo: era vicino alla grande fontana, in compagnia di Viktor. Il
rosso fu tentato di corrergli incontro, ma l’aura poco rassicurante di Saito gli fece cambiare idea. C’era qualcosa di inquietante
nel suo sguardo gelido e quel suo sorrisetto trasudava una fastidiosa perfidia.
Syans lo trovava terribilmente antipatico, non
riusciva a fidarsi di lui, per questo si sentì sollevato nel vedere che era
accompagnato dal medico con i capelli lunghi.
«Ciao, Syans»
esordì Albrecht, sfoggiando un sorriso più cordiale
del solito. «Come ti senti?»
L’uomo si sedette sul bordo
della fontana, vicino al ragazzino; l’orientale rimase in piedi e Viktor meditò
se alzarsi o rimanere lì. Questi ultimi si scambiarono uno sguardo feroce.
«Sto molto bene, grazie. Ho
una gran fame!»
«Come va il braccio? Ti fa
ancora male?»
Il ragazzo piegò diverse
volte il braccio destro, poi lo alzò verso il cielo limpido. «No, non più. A
volte sento come se scricchiolasse, però non è doloroso.»
«Tranquillo, passerà. È un
buon segno che tu abbia fame. Ti va di pranzare insieme a me?»
«Certo» una pausa, lo sguardo
sgattaiolò per un momento verso Saito, come per
assicurarsi di poter parlare. Albrecht lo notò, ma
non seppe se infastidirsi o lasciar correre. «Può venire anche Viktor?» Era
l’unico di cui si fidasse, non voleva rimanere da solo con qualcun altro.
«Preferirei di no. Magari
dopo.»
Il ragazzo non osò ribattere
sentendo quel tono deciso, limitandosi piuttosto ad annuire.
«Bene.»
Albrecht
gli circondò le piccole spalle con un braccio e lo riaccompagnò all’interno
dell’edificio. Le loro voci si persero in lontananza e quando Viktor si alzò
erano diventati due puntini irraggiungibili in un immenso prato verde. Una
brezza fresca agitava le foglie degli alberi e alcuni uccelli cantavano
spensierati; quel giardino era un piccolo angolo di paradiso, pieno di farfalle
e altri animali.
Un cespuglio si agitò e due
orecchie lunghe e grigie spuntarono da un lato. Una lepre. Saito
batté forte un piede sul terreno per farla correre via. L’animale sfrecciò
lontano da loro, ma quello scatto la fece notare da una volpe, appostata non
poco lontano, che le tenne un agguato riuscendo ad afferrare la lepre dal
collo; serrò i denti per esser certa di aver ucciso la sua preda, che per
qualche secondo si dimenò tra le sue fauci, poi l’animale dalla folta pelliccia
rossa si ritirò tra i cespugli. Saito sorrise.
Viktor rimase a fissare il punto
in cui la volpe aveva azzannato la lepre con gli occhi sgranati. La prima volta
che accadde una cosa del genere ne rimase traumatizzato, ma dopo tutte le cose
orribili alle quali era stato costretto ad assistere uno spettacolo del genere
non lo colpiva come avrebbe fatto anni fa. Stava cominciando ad abituarsi alla
sofferenza. Sospirò e chiuse un attimo gli occhi per scacciare quell’orribile
scena, quando riaprì le palpebre diede le spalle all’uomo e si avviò verso
l’entrata dell’edificio, ripercorrendo i passi di Albrecht
e Syans, che ormai erano spariti oltre le porte di
metallo. Saito lo afferrò bruscamente da un braccio prima
che potesse andarsene: il tedesco, che era più alto di lui di nove centimetri,
si finse impassibile, guardandolo dall’alto verso il basso.
«Quando stasera terminerai il
tuo turno, fai un salto nel mio ufficio. Dobbiamo parlare.»
«Certo.»
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* sensei: professore/maestro/dottore.