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Autore: Experiment 513    01/01/2015    0 recensioni
Durante la seconda guerra mondiale una ricca famiglia tedesca fonda un laboratorio di ricerca e sperimentazione avanzata, facendo esperimenti per potenziare le capacità fisiche e psichiche degli esseri umani. Le cose si complicano quando il progetto ad esclusiva gestione familiare viene compromesso dall'assunzione di un famoso scienziato giapponese, il quale prende le redini e il controllo del laboratorio, alterando il programma iniziale e stravolgendo l'intero lavoro svolto dagli altri membri. Da quel momento in poi il laboratorio viene caratterizzato da morti, esperimenti illegali, tradimenti e assunzioni di personale non gradito da parte degli scienziati e medici tedeschi, e proprio quando la situazione sta degenerando fino a raggiungere un punto di non ritorno giungono Albrecht e Saito, nipoti dei fondatori, a ripristinare l'efficienza e la meraviglia di quell'edificio, dando anima e corpo per rendere perfetto il loro lavoro. Finalmente si raggiunge un equilibrio stabile e tutti i colleghi sono accomunati dallo stesso scopo: migliorare la razza umana.
Tutto procede tranquillamente per anni, finché Syans - terzo figlio di Albrecht - non diviene vittima di un terribile incidente.
Genere: Introspettivo, Mistero, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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── Per il bene della Scienza ──

 

“Un male necessario”

───────────────────

 

 

 

 

“L'uomo ha scoperto la bomba atomica,

però nessun topo al mondo

costruirebbe una trappola per topi.”

Albert Einstein

 

 

 

3.     La lepre

            Novembre 2013

 

 

 

 

Sono trascorsi pochi giorni dal mio risveglio, eppure mi sento benissimo, come se fossi rinato. È una sensazione fantastica, come un buon bagno caldo dopo una giornata stressante.

    Viktor è molto simpatico e, quando ha un po’ di tempo libero, viene sempre a farmi compagnia. A volte mi parla di Klaus, il suo fidanzato. Gli manca tantissimo, si vede dal suo sguardo: osserva fuori dalla finestra con aria persa e per un attimo mi sembra che nei suoi occhi ci sia qualcosa di torbido. Si pietrifica, rannicchiato sulla schiena e sembra così piccolo e indifeso da suscitarmi un’infinita tenerezza. Poi torna quello di sempre, si volta verso di me e mi sorride, scompigliandomi i capelli, e riprende a parlarmi di medicina,  chimica, fisica… È un ottimo insegnante. Ha provato a spiegarmi anche qualcosa di inglese e francese, ma le lingue straniere proprio non riescono ad entrarmi in testa!

    “Hai una mente scientifica, ecco perché!”, dice sempre così, Viktor, ma credo lo faccia solo per non scoraggiarmi.

    C’è qualcosa di strano, in lui, come se portasse una maschera. Mi tiene all’oscuro di qualcosa, lo sento. A volte aggira il discorso, svicola, non risponde alle domande che gli pongo. Temo che lo faccia con tutti, in realtà. Ho come la sensazione, quando lo guardo, che si trattenga, che finga di essere ciò che non è. Non che menta – non a me, almeno – eppure con gli altri si comporta in modo evasivo, puramente professionale, come se fosse un robottino e nulla di più. Un pezzo del puzzle, non una persona. Solo… un dipendente come tanti altri.

 

 

***

 

 

«Mi domando perché non ti ho ancora licenziato!» sbraitò l’orientale, agitando le braccia con aria inferocita. «Ah, giusto» riprese sarcastico, alzando l’indice con aria risoluta. «NON POSSO

    Innervosito, contrariato e stressato, Saito adagiò la schiena contro la poltrona girevole in pelle, poggiando la fronte sul palmo della mano con aria teatralmente stremata. Sospirò un paio di volte sotto lo sguardo impassibile del sottoposto, voltandosi poi verso la vetrata che ricopriva l’intera parete. Non sapeva più cosa fare con Viktor, quell’uomo era… così anarchico! Tenerlo a bada era un’impresa. Giusto Albrecht sapeva aggirare nel giusto modo i suoi sotterfugi, stava quasi riuscendo a farselo amico, ma lui non riusciva ad avvicinarsi neanche di un centimetro che Viktor era pronto a morderlo e strappargli la mano. Indomabile. Quando l’aveva assunto pensava di poterlo plasmare, di sottometterlo con facilità al suo volere – dopotutto era talmente giovane ed ingenuo! – e invece no, si era sbagliato, Viktor riusciva sempre ad ostacolarlo, a mettergli i bastoni tra le ruote: non ascoltava gli ordini, faceva di testa sua, combinava guai, comprometteva il lavoro altrui, non rispettava i suoi superiori… E tutto questo per cosa? Per i suoi princìpi del cazzo!

    Eppure non si era pentito di averlo preso con sé, Viktor era dotato di una mente geniale, un’intelligenza brillante e un talento sprecato, un talento che Saito avrebbe voluto sfruttare ma che il giovane gli impediva di alimentare e migliorare. Prima o poi sarebbe riuscito a modellarlo, quel ragazzino arrogante. Chi si credeva di essere? Saito sarebbe riuscito, con un po’ di tempo e l’aiuto essenziale del suo fidato amico e collega Albrecht, a modellare la mente e la coscienza di Viktor.

    «Perché non fai fare una passeggiata a Syans? Oggi è una bella giornata, guarda com’è sereno il cielo…» Il tono di voce era mutato completamente, ora era più pacato e gentile, ma l’espressione del moro non si addolcì, rimanendo disgustata ed infastidita dalla presenza dell’orientale.

    «Certo, lo faccio immediatamente.»

    Saito odiava quel tono servile, sapeva che significava tutt’altro e questo lo infastidiva. Come proprietario dell’intero edificio voleva essere rispettato, invece Viktor lo trattava alla stregua di un coetaneo. Un comportamento imperdonabile, soprattutto per un giapponese.

Il giovane uscì e nello stesso istante entrò Albrecht, con un camice bianco e la lunga chioma color mogano legata con una coda di cavallo. Si sistemò gli occhiali e aggrottò la fronte, passando lo sguardo prima sull’uscio e poi sul collega.

    «Cos’ha combinato questa volta?» chiese scherzosamente, prendendo posto sul divanetto in pelle che affiancava una libreria in metallo.

    «Voleva dare ad Alek qualche giorno di permesso. Come se fosse una cosa possibile, capisci?!»

    Albrecht non disse nulla, volgendo lo sguardo ambrato verso l’ampia vetrata.

    «Non capisco cosa gli passi per la testa. Vuole forse farci fallire? Conoscendolo… probabilmente è davvero così!»

    «Non ti scaldare» sussurrò cauto l’austriaco, che ora gli era vicino, con una mano sottile ed affusolata poggiata sulla piccola spalla del collega. Un sorrisetto ambiguo gli incurvava le labbra.

    «Cosa devo fare con lui, Ishii-san? Non riesco a farlo ragionare.»

    «Gli parlerò io, non preoccuparti.»

    Calò il silenzio per svariati minuti. Loro rimasero immobili come statue, persi nei loro pensieri. La stanza, così come tutte le altre, era insonorizzata e l’unico suono udibile in quelle quattro mura erano i loro respiri sincronizzati. Poi il bruno ruppe quell’atmosfera eterea con un rumoroso sospiro, consapevole di non dover dare voce ai suoi pensieri ma deciso a non rimandare oltre.

    «Saito» esordì; l’orientale sapeva che quel tono era fonte di guai, poiché l’amico era solito utilizzarlo – inconsciamente o meno – quando era nervoso e insicuro. Saito si voltò verso di lui, sistemandosi gli occhiali. Quando i loro sguardi si incrociarono e gli occhi chiari dell’orientale si specchiarono in quelli ambrati dell’altro, Albrecht riprese con maggior sicurezza: «Voglio parlare con Syans, ormai sono passati cinque giorni ed è giusto che lui sappia. Voglio dirglielo, Saito.» non si interruppe neanche per prendere fiato, sapendo che un attimo di esitazione sarebbe stato fatale. Vedendo l’espressione perplessa dell’altro aggiunse in tono più acido: «Te lo sto comunicando perché siamo amici e mi sembra giusto che tu lo sappia, non per chiedere il tuo permesso. Lo farò a prescindere dalla tua risposta.»

    Tipico di lui. Saito non poté fare a meno di sorridere.

    «Certo, lo capisco» si alzò e gli diede una pacca sulla spalla. «Hai ragione, è meglio dirglielo ora, ma non strafare con le informazioni» e lo guardò severo, per  controllare che avesse capito, «a piccoli passi, mi raccomando. Pian piano saprà tutto. La verità, tutta in una volta, può essere fatale.»

    «Mi sembra un ragionevole compromesso.»

 

 

Mentre Viktor gli teneva la mano piccola e morbida, Syans percorreva con passo traballante il bordo della fontana.

    «Se lo sapesse, Saito mi ucciderebbe!» disse il moro tra le risa e il rosso si unì a lui.

    «Non farmi ridere,» lo rimproverò Syans scherzosamente, grattandosi una guancia lentigginosa, «altrimenti perderò l’equilibrio!»

    «Va bene, dopotutto sei sotto la mia custodia, ora, quindi è meglio evitare incidenti.»

    Dopo un paio di giri – la fontana era molto grande, con un diametro di circa sei metri – il ragazzino scese con un balzo, si tolse le scarpe e si godette la sensazione dei fili d’erba che gli solleticavano la pianta del piede. Ridacchiò, voltandosi a guardare Viktor in cerca di approvazione. Il giovane sorrise e si sedette sul bordo della fontana, guardandolo con aria intenerita. Syans si mise a correre veloce, tra gli alberi e gli arbusti, distendendo le braccia come se fossero le ali di un aereo. Quando tornò vicino la fontana era madido di sudore, le guance imporporate e i capelli gonfi e crespi pieni di foglie gialle. Viktor rise nel vederlo conciato in quel modo, ma i muscoli del suo viso si contorsero velocemente in un’espressione triste e sconsolata. Vederlo così vivo, così felice, gli ricordava come quella stessa gioia gli fosse stata sottratta anni prima. Chinò lo sguardo sul prato, avvilito: vicino ai suoi piedi una lunghissima fila di formiche nere stava trasportando delle briciole di pane.

    Anche il rosso, per riprender fiato, si sedette sul bordo della fontana. C’era una grande quantità di pesci, rane e tartarughe, lì dentro, e trattenne l’infantile istinto di provare ad acchiapparli per poi farne chissà cosa. Stava per riprendere la sua corsa quando si soffermò a specchiarsi nell’acqua non troppo limpida della fontana. Non ricordava più nulla. Guardava i suoi capelli scombinati, senza forma, come la chioma di un leone, i suoi grandi occhi verdi, il suo visetto da bambino, le sue orecchie piccole e il suo nasino all’insù e non riusciva a riconoscersi. Vedeva un estraneo. Si toccò la faccia come per assicurarsi che fosse davvero lui quello che vedeva riflesso nella superficie dell’acqua. Non ricordava più nulla. Il suo nome, i suoi genitori (ammesso che ne avesse), la sua storia, la sua casa… Ancora nessuno lo aveva degnato di una spiegazione, nonostante le sue innumerevoli domande. Perfino Viktor, suo malgrado, era stato costretto al silenzio. Non riusciva a capacitarsene. Se avevano insistito per non dirgli nulla probabilmente la verità era talmente shockante da poterlo traumatizzare e compromettere la sua incolumità, per questo preferivano tenerlo all’oscuro di tutto. Non era riuscito a trovare un’altra motivazione.

 

 

Albrecht e Saito camminavano uno di fianco all’altro, inseparabili. Alcuni colleghi rabbrividivano al loro passaggio, temendo di essere sgridati dall’orientale, il più severo ed esigente tra i due. L’unica cosa che temevano di Albrecht, invece, era l’aria perennemente ambigua: non si capiva mai cosa pensasse veramente ed era capace di licenziarti con la stessa voce amorevole che avrebbe usato per chiederti come stavi. Il suo sorriso era affabile, non mutava mai, alcuni erano convinti che avesse una paralisi facciale, ma quando il buonumore lo abbandonava, e il sorriso comunque permaneva, gli occhi sembravano due braci ardenti pronte a darti fuoco da un momento all’altro. Questo, solitamente, era l’unico modo per scoprire le sue vere intenzioni: leggere il suo sguardo.

    Prima che i due coproprietari dell’edificio raggiungessero l’uscita si sentirono chiamare da Nolan, un giovane australiano dalla mente geniale che in poco tempo era diventato il migliore nel suo settore.

    «Ho terminato il mio progetto!» annunciò soddisfatto e un bagliore di entusiasmo illuminò i suoi occhi.

    «Ottimo lavoro» rispose Saito con sincera approvazione: Nolan era uno dei pochi che era riuscito ad ingraziarsi lo scorbutico orientale. «Passeremo a dargli un’occhiata quando avremo terminato le nostre incombenze, tu occupati di altro nel frattempo.»

    «Okay, sensei*» Nolan si divertiva ad usare termini giapponesi e probabilmente questo faceva piacere al suo superiore, un motivo in più per continuare a farlo.

    Albrecht lo liquidò definitivamente con un cenno della mano, avviandosi poi verso il giardino, un posto immenso, pieno di alberi e arbusti, ma anche fiori ed ortaggi. Alcuni spazi erano recintati, accessibili solo ad una parte del personale, ma altri erano aperti a chiunque, in modo che medici e pazienti potessero uscire di tanto in tanto per prendere una boccata d’aria.

    L’austriaco si guardò intorno, alla ricerca di Syans. Non gli ci volle molto per individuarlo: era vicino alla grande fontana, in compagnia di Viktor. Il rosso fu tentato di corrergli incontro, ma l’aura poco rassicurante di Saito gli fece cambiare idea. C’era qualcosa di inquietante nel suo sguardo gelido e quel suo sorrisetto trasudava una fastidiosa perfidia. Syans lo trovava terribilmente antipatico, non riusciva a fidarsi di lui, per questo si sentì sollevato nel vedere che era accompagnato dal medico con i capelli lunghi.

    «Ciao, Syans» esordì Albrecht, sfoggiando un sorriso più cordiale del solito. «Come ti senti?»

    L’uomo si sedette sul bordo della fontana, vicino al ragazzino; l’orientale rimase in piedi e Viktor meditò se alzarsi o rimanere lì. Questi ultimi si scambiarono uno sguardo feroce.

    «Sto molto bene, grazie. Ho una gran fame!»

    «Come va il braccio? Ti fa ancora male?»

    Il ragazzo piegò diverse volte il braccio destro, poi lo alzò verso il cielo limpido. «No, non più. A volte sento come se scricchiolasse, però non è doloroso.»

    «Tranquillo, passerà. È un buon segno che tu abbia fame. Ti va di pranzare insieme a me?»

    «Certo» una pausa, lo sguardo sgattaiolò per un momento verso Saito, come per assicurarsi di poter parlare. Albrecht lo notò, ma non seppe se infastidirsi o lasciar correre. «Può venire anche Viktor?» Era l’unico di cui si fidasse, non voleva rimanere da solo con qualcun altro.

    «Preferirei di no. Magari dopo.»

    Il ragazzo non osò ribattere sentendo quel tono deciso, limitandosi piuttosto ad annuire.

    «Bene.»

    Albrecht gli circondò le piccole spalle con un braccio e lo riaccompagnò all’interno dell’edificio. Le loro voci si persero in lontananza e quando Viktor si alzò erano diventati due puntini irraggiungibili in un immenso prato verde. Una brezza fresca agitava le foglie degli alberi e alcuni uccelli cantavano spensierati; quel giardino era un piccolo angolo di paradiso, pieno di farfalle e altri animali.

    Un cespuglio si agitò e due orecchie lunghe e grigie spuntarono da un lato. Una lepre. Saito batté forte un piede sul terreno per farla correre via. L’animale sfrecciò lontano da loro, ma quello scatto la fece notare da una volpe, appostata non poco lontano, che le tenne un agguato riuscendo ad afferrare la lepre dal collo; serrò i denti per esser certa di aver ucciso la sua preda, che per qualche secondo si dimenò tra le sue fauci, poi l’animale dalla folta pelliccia rossa si ritirò tra i cespugli. Saito sorrise.

    Viktor rimase a fissare il punto in cui la volpe aveva azzannato la lepre con gli occhi sgranati. La prima volta che accadde una cosa del genere ne rimase traumatizzato, ma dopo tutte le cose orribili alle quali era stato costretto ad assistere uno spettacolo del genere non lo colpiva come avrebbe fatto anni fa. Stava cominciando ad abituarsi alla sofferenza. Sospirò e chiuse un attimo gli occhi per scacciare quell’orribile scena, quando riaprì le palpebre diede le spalle all’uomo e si avviò verso l’entrata dell’edificio, ripercorrendo i passi di Albrecht e Syans, che ormai erano spariti oltre le porte di metallo. Saito lo afferrò bruscamente da un braccio prima che potesse andarsene: il tedesco, che era più alto di lui di nove centimetri, si finse impassibile, guardandolo dall’alto verso il basso.

    «Quando stasera terminerai il tuo turno, fai un salto nel mio ufficio. Dobbiamo parlare.»

    «Certo.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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* sensei: professore/maestro/dottore.

 

   
 
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