Disclaimer:
i
personaggi sono proprietà di Furudate Haruichi.
La frase
in apertura viene da “can you feel my
heart” (Bring me the Horizon).
Note: per
quei dettagli che non si sanno di preciso riguardo Tooru (vedi se fosse o meno
presente alla partita della Kitagawa Daiichi vs Yukigaoka, o riguardo
il motivo del tutore al ginocchio), ho fatto di testa mia.
Per il resto, questo è quel che si può definire a tutti gli effetti un “character study”, credo XD
I long for that feeling to not feel at
all.
The higher I get, the lower I’ll sink;
I can’t drown my demons, they know how to swim.
All’inizio la palla è
stata un suo nemico: comunque ci provasse, Tooru non riusciva in alcun modo a
trattenerla fra le dita come avrebbe voluto, né a rilasciarla con quel gesto
pulito ed elegante che si supponeva venisse utilizzato. Il suo gesto non aveva
nulla di tecnico, non aveva eleganza, non aveva fluidità: era come vedere un
bambino che cerca di fare i primi passi – traballante, insicuro, assolutamente
sgraziato.
Quella palla finiva per scivolare tra le dita, tra le mani e colpirlo in viso o
finire a terra.
Tooru aveva imparato a riconoscerlo come “errore” e non sapeva se a farlo
arrabbiare di più fosse il fatto che lui potesse sbagliare o che non sapesse
come correggere quel gesto che avrebbe dovuto farlo sembrare bravissimo e che
invece lo faceva apparire come uno sfigato incapace.
A otto anni Oikawa Tooru si intestardiva a giocare con un pallone del quale non
riusciva nemmeno a coprire la superficie necessaria con le mani, troppo piccole
per riuscire a tenerlo in equilibrio lì sopra la testa, mentre tentava di
palleggiare.
L’ha odiata.
La odia anche adesso, mentre si affaccia alle scuole medie, in un modo molto
diverso che rende quella sfera l’unica cosa a cui sente di aggrapparsi
ossessivamente.
Non c’è nulla di cui andare fieri.
Tooru non è un genio,
non è un “talento”, non è quel giocatore che potrebbe allenarsi la metà del
tempo del resto della squadra ed essere comunque un gradino sopra tutti. Lo
capisce quasi subito, e la cosa si rafforza quando mette piede alle medie e c’è
all’improvviso una squadra con tantissimi iscritti, che poi significa una
concorrenza quasi spietata. Lui ha undici anni, quasi dodici quando si rende
conto che deve lavorare il doppio degli altri – perché può avere delle buone
mani, e una visione di gioco discreta, può avere del potenziale, ma sono tre
cose diverse dal “talento”.
Quella è una cosa che non va davvero coltivata, non quando è schiacciante,
non quando è tutto ciò che una persona mostra di sé non appena entra in
palestra e gli si dà un pallone in mano.
Se Tooru non si allena ogni giorno, palleggiando contro il muro finché non
diventa stupido – “ancora più stupido” direbbe Iwa-chan –, se sta
male e per una settimana non può allenarsi, quando mette di nuovo piede in
campo la sensazione della palla tra le mani è orribile. È come se tutto il suo
corpo fosse di legno, come se le dita non riuscissero ad aprirsi abbastanza;
persino il rumore della palla che gli esce dalle mani è terribile. È un rumore,
una cosa che non dovrebbe esistere – gli alzatori, quelli forti davvero, fanno
uscire la palla immobile e silenziosa, come se non l’avessero nemmeno toccata.
Un giocatore talentuoso, un cosiddetto “genio”, dovrebbe riuscirci.
Tooru no. Tooru deve toccare la palla ogni giorno per sperare che
quell’orribile sensazione non si presenti mai.
Se non si allena il più possibile, a scuola e a casa, gli sembra che i suoi
sensi siano rallentati. Odia quando si rende conto che la palla è lontana e si
muove verso la giusta posizione per giocarla al meglio e poi – troppo tardi –
si accorge che mancava un passo, che è sbilanciato. In quei momenti pensa “se
mi allenassi di più, non perderei il tempo di spostamento così”.
Un “genio” ci riesce, probabilmente recupera la velocità e la prontezza di
riflessi, nonché la visione del campo, in meno tempo di quanto ne serva per un
intero riscaldamento prima di un match ufficiale. Lui no. Lui deve respirare
l’odore del parquet ogni giorno e muoversi con le linee del campo a
delimitare il suo spazio d’azione per essere certo di non essere in ritardo sul
pallone, mandando tutta l’azione a farsi benedire.
Tooru è in prima media e capisce di essere un alzatore; ma per essere l’alzatore,
deve fare molto più di così – più tempo, più allenamento, più fatica, più
sudore.
Il secondo anno delle medie sta per concludersi e loro sono arrivati a tanto così
dalla vittoria del torneo interscolastico.
“Tanto così” è solo un modo come un altro per dire che hanno perso, che non
sono stati abbastanza forti e Tooru potrebbe sopportarlo – tenendo il muso per
settimane e lamentandosi, e costringendo Iwaizumi a viziarlo per disperazione
perché l’amico sa che intestardirsi con un Oikawa di cattivo umore è
persino più inutile che farlo in condizioni normali – se il problema fosse solo
quello. Lui sta migliorando a vista d’occhio, sente di stare diventando forte,
e non c’è falsa modestia che tenga o lo trattenga dal dirsi bravo. Non
eccellente, non (ancora) perfetto, ma di certo superiore a tanti suoi coetanei.
Che importa se non hanno vinto stavolta? Hanno ancora un anno delle medie, e
poi ben tre anni delle superiori, almeno chi di loro continuerà. Dicono questo
i suoi compagni di squadra.
C’è tempo.
Ma come può credere di avere tempo, quando quello che passerà ad
allenarsi sarà lo stesso che Ushijima impiegherà per migliorare ancora, e
ancora, e ancora diventando un ostacolo insormontabile?
Tooru potrebbe sopportare la sconfitta, se soltanto non fosse da lui pretendere
anche l’impossibile da se stesso e se a sconfiggerlo fosse stata una persona
normale. Invece si tratta di una di quelle persone di talento, a cui qualcuno
ha dato tutto: fisicità, potenza, tattica. Forse è ancora acerba ma c’è, e
Oikawa lo odia per questo.
Giura a se stesso che l’anno seguente gli renderà con
gli interessi quella sconfitta, lo giura di nuovo quando manca meno di un mese
perché quello si trasformi nel suo ultimo anno delle medie.
Al primo allenamento che lo vede come senpai pronto ad accogliere i primini – perché, insomma, ogni aggiunta alla loro
formazione è bene accetta –, si prende la libertà di una pacca sulla spalla di
Iwaizumi e un esuberante quanto insopportabile “Iwa-chan” canticchiato
mentre fa promesse in merito all’essere la squadra più forte, al
diventare un duo imbattibile, al diplomarsi lasciando i primini
nella completa disperazione perché nessuno potrà mai sperare di
eguagliare il mitico, strabiliante “Oikawa-san”; sì,
beh, anche Iwa-chan ovviamente può avere il suo momento di gloria, può essere
il suo secondo.
Quel terzo anno si trasforma in una corsa contro il tempo, contro se stesso,
contro Iwaizumi che gli dice di non prendersela con i primini
e fare la persona matura, contro Kageyama Tobio che
gli chiede di insegnargli questo e quello come a prendersi gioco di lui. Tobio rientra nella stessa categoria di Ushijima, se non
addirittura in una superiore che Tooru non credeva esistesse e che gli fa
venire da vomitare. Gli nega consigli perché ha capito solo guardandolo per
qualche allenamento che Kageyama potrebbe superarlo se gliene venissero dati i
mezzi; il momento in cui lo ammette a se stesso gli fa montare su una tale
rabbia che non esiste dargli i consigli o suggerirgli come batterlo,
come affinare quei sensi che Oikawa potrebbe non avere mai nemmeno fra
vent’anni di sangue sputato sul pavimento della palestra.
Non ci pensa nemmeno per sbaglio, a dargli un’ennesima arma così, bella e
pronta, insegnandogli quel servizio su cui sta impazzendo da mesi.
Tooru lo ignora per la maggior parte del tempo, lo scaccia come se avesse
cinque anni e facesse i dispetti al compagno di asilo che ha il giocattolo più
bello del suo.
Decide che Tobio può imparare da solo: tutti lo
fanno, lui lo ha fatto e continua in quel modo, e non c’è stato chi gli ha
spiegato come eliminare quel suono maledetto che sembra urlare all’arbitro che
il suo palleggio non è pulito, non c’è stato chi gli ha suggerito la strategia
migliore in una data azione del gioco.
L’alzatore connette la squadra; quando lo fa, però, è da solo.
Il suo terzo anno finisce con il somigliare alla scena di un cartone animato
straniero che ha visto una volta, da bambino, e nemmeno per intero: un gabbiano
si tuffa in mare e riemerge in una pozza di petrolio che lo immobilizza finché
non annega. O almeno, per quello che si ricorda, alla fine il gabbiano muore;
se spunti di nuovo fuori alla fine del cartone animato non lo sa.
Il suo terzo anno è iniziato con lui e la sua certezza di poter raggiungere un
livello ancora più alto, togliendosi di dosso le convinzioni sbagliate e
dimostrando di riuscire a superare i propri limiti. Allenarsi, una cosa che non
è mai stata un peso, per un po’ è stato ancora come respirare – un’ovvietà,
quasi, perché cos’altro mai avrebbe potuto voler fare oltre quello?
Poi, da un giorno all’altro, è diventato tutto troppo e la presenza di Tobio irritante, soffocante: perché deve avere davanti qualcuno
che gli ricordi costantemente che il suo talento ha un limite? Perché deve
assistere a Tobio che migliora, migliora, migliora
senza sforzarsi un briciolo di quanto si sforzino lui o le persone
normali?
Ad un certo punto allenarsi diventa un’ossessione, la precisione di un’alzata
diventa vitale – e ogni volta che riesce Tooru sente qualcosa dentro, qualcosa
che non è più la scarica di adrenalina, non è più l’entusiasmo genuino di
quando ha cominciato e ogni alzata buona sembrava un passo in più verso il
traguardo. Ora il palleggio raggiunge esattamente il punto dove l’attaccante
dovrebbe colpire, e Tooru sente dentro l’insoddisfazione.
Ancora uno, ancora uno, ancora uno— non basta.
Iwaizumi alla fine di ogni allenamento va a recuperarlo: lo ritrova sempre
fuori campo, l’altra metà occupata da palloni mai recuperati, lo sguardo di chi
è costretto a far passare la palla dall’altra parte come se ne andasse della
sua vita. Tooru sa sempre quando Hajime varca la soglia per andare a fermarlo,
lo vede quando si trattiene dal chiamarlo nella speranza che lui rinunci da
solo all’ennesimo allenamento massacrante fatto in solitaria. Sa che l’altro lo
fa per il suo bene, ma è un circolo vizioso senza fine quello che lo spinge ad
alzarsi ancora una volta la palla dandole la giusta rotazione, a fare i tre
passi di una rincorsa che lui raramente effettua a rete – perché non è un
attaccante lui, è il regista della squadra, è la colonna portante e quel
servizio che è a tanto così dal completare sarà il suo unico, vero attacco
degno di questo nome.
Lancio, rincorsa, colpisci; lo ripete fino allo stremo, fino alla paranoia,
fino a quando il nervosismo in qualche modo non gli attorciglia lo stomaco e
poi glielo rilascia ad ogni salto.
Non è colpa di Tobio, in realtà: arriva solo al
momento sbagliato, quando lo stress è diventato insostenibile e lui ha fatto
del miglioramento una malattia, del superare Ushijima qualcosa di poco sano.
Iwaizumi lo ferma, gli urla contro, lo strattona e in qualche modo – Tooru non
sa come – lo recupera: lo tira indietro, lo obbliga a tornare sui suoi passi, e
per un attimo Oikawa lo odia con tutte le sue forze e vorrebbe gridargli che
non capisce, che nessuno di loro lo può fare.
Nessuno di loro sa cosa significhi essere soli a decidere per tutta la squadra,
non hanno idea di come sia dover considerare mille cose in una frazione di
secondo. Vorrebbe davvero vederli, lì a riorganizzare in poco più di un istante
tutti i fattori che lui prende in considerazione per decidere il suo gioco: chi
sono i suoi attaccanti più forti? Chi c’è a muro? La ricezione è precisa?
L’attaccante a cui vuole alzare è in posizione? Ha una buona percentuale
finora? Qual è la sua palla migliore? Cosa si aspetta il muro avversario, come
può eluderlo?
Spesso ha meno di due secondi per pensarci, decidere e mettere in atto. E
vorrebbe dire a Iwaizumi che non ha il diritto di dirgli nulla, perché lui la
fa facile, lì a saltare e attaccare quando la responsabilità se l’è presa solo
lui. Ma a Tooru sta bene, sente che è qualcosa che può fare, qualcosa per cui è
portato; è solo che se lui fallisce, chi dovrebbe aiutare?
Nessuno lo può sostituire. Nemmeno Kageyama “il genio” Tobio,
figurarsi gli attaccanti.
Che ne vuole capire, Hajime, di che significa avere la responsabilità di un’intera
squadra?
Apre la bocca e fa per urlare qualcosa, ma Iwaizumi gli dà una testata in pieno
viso.
Fa un male cane.
Lo odia.
Vorrebbe dirgli “grazie”.
Il nervosismo non c’è più, anche se lui non sta saltando; respira e basta.
Non sembra più di nuotare in mezzo al petrolio che gli rende impossibile ogni
movimento.
Non vincono il loro
terzo anno delle medie, non sconfiggono la Shiratorizawa come era nei buoni
propositi sportivi di Oikawa.
In compenso, Tooru vince il premio come miglior alzatore dell’intera prefettura.
Per la prima volta sorride perché ci crede davvero, e nonostante gli bruci aver
perso, sente anche di aver un po’ vinto anche lui: finalmente ha dimostrato
qualcosa.
Lui non è un genio. Eppure è stato migliore di tutti gli altri.
I primi due anni del liceo scivolano via come succede sempre quando la vita è
scandita dalle stesse identiche cose, giorno dopo giorno. Somigliano a un limbo
dove il tempo scorre rallentato, o dove Tooru lo percepisce in quel modo, ancor
prima di accorgersi che all’improvviso la cerimonia d’ammissione all’Aobajousai
è passata, come i test invernali, le partite, il torneo interscolastico. Loro
perdono di nuovo, Oikawa sa perché e al tempo stesso non riesce a capirlo;
prima di riuscire a scrollarsi di dosso la delusione e l’irritazione per
l’ennesima sconfitta contro Ushijima, è già quasi la cerimonia di fine anno, un
saluto ai compagni di scuola e di squadra – nonché alle sue fan ovviamente – e
l’unica cosa che anche se uguale non lo turba e non gli fa sembrare tutto
fastidiosamente vuoto è il tragitto scuola-casa con Iwaizumi al suo fianco.
A volte Tooru non capisce davvero come faccia l’altro a vivere come fa: sa
meglio di qualsiasi loro compagno che Hajime desidera la vittoria contro la
Shiratorizawa con la stessa intensità con cui lo fa lui. Eppure, a volte, gli
sembra che Iwaizumi sia troppo calmo, troppo freddo.
Forse ha solo più buon senso di lui – anzi, quello è certo.
Ad un certo punto Iwaizumi gli propone di fare una visita alla loro vecchia
scuola media, perché deve ritirare dei documenti che gli servono per i crediti
scolastici e tanto vale andare insieme, già che ci sono.
Tooru, inaspettatamente, passa dalla palestra con lui e si rende la persona
antipatica e odiosa che gli riesce bene di essere quando si impegna – a detta
di Iwaizumi, non deve nemmeno applicarsi particolarmente – e il suo picco
d’infantilismo viene raggiunto quando vede Tobio e
gli fa una linguaccia nemmeno avesse sempre i famosi cinque anni che Hajime gli
avrebbe attribuito l’anno precedente quando li vedeva interagire.
Vede Tooru gonfiare le guance, lagnarsi, fare le boccacce a Kageyama e vorrebbe
schiaffarsi una mano in viso o schiaffarla direttamente dietro la nuca di
Oikawa.
Lo vede piantarsi sulle labbra un sorriso plastico degno delle migliori
copertine, di una scena madre dove deve affascinare un pubblico che in lui deve
vedere nient’altro che un personaggio, quello che ogni tanto gli scorge in
volto quando sorride alle ragazze che lo invitano e poi gli confida di non aver
la minima voglia di uscire con loro, perché invece vuole allenarsi.
Vorrebbe prenderlo a pugni, perché non è mai un buon segno.
Invece Iwaizumi lo lascia stare, prova a prendere il discorso in un secondo
momento ma – nemmeno a dirlo – viene depistato dalle inutili chiacchiere di
Tooru. Così il loro primo anno da liceali si trasforma in secondo, e tutto va
un po’ nello stesso modo e al tempo stesso in maniera un po’ diversa.
Tooru è ancora l’ultimo ad abbandonare la palestra dopo un allenamento, ed è un
po’ come la fotocopia delle scuole medie, non fosse che il suo servizio ora è
davvero temibile ed è divenuto un’arma concreta. Iwaizumi lo aspetta la maggior
parte delle volte, gli sbraita contro quasi sempre, lo prende a pallonate
quando se ne presenta l’occasione – per fortuna sua e della valvola di sfogo
che preferisce dagli ultimi sei anni di vita a questa parte, Tooru gli dà
sempre un numero considerevole di ragioni per lanciargliene a piena forza.
Hajime sente di poter tirare un sospiro di sollievo, perché anche se Oikawa
vuole migliorarsi e si spinge al limite, non gli vede più quell’ossessione
nello sguardo che lo faceva preoccupare – non che glielo avesse mai detto a
chiare lettere – e lo faceva sentire in dovere di restare e aspettare, perché
chissà cosa mai avrebbe potuto combinare quell’idiota.
Sbaglia.
Sono poco oltre la metà delle partite del torneo che li porterà verso la
finale, e quindi ancora una volta verso la Shiratorizawa, quando Oikawa
collassa all’inizio di un allenamento; Iwaizumi è sicuro che se c’è da perdere
qualche mese di vita per le cose che al mondo spaventano di più, a lui sia
appena successo. Scopre così che Tooru dorme poco perché riguarda fino alla
nausea video di partite giocate, le ripete all’infinto come se si trattasse di
un loop temporale dal quale non vuole e non può
uscire; la tattica diventa quasi una forma di autismo che Hajime non sa come
far andare via.
Iwaizumi capisce che Oikawa non ci sta ricadendo, semplicemente non ne è mai
uscito – si impone la ripetizione come una tortura più che come uno strumento
per migliorare, e se anche i risultati poi si vedono, Hajime si chiede quale
sia il prezzo.
Com’è c’è da aspettarsi si arrabbia, lo riprende, gli dà dell’idiota e vorrebbe
persino prenderlo a pugni; invece si limita a parlargli, ed è come una rottura
in fondo, perché se Iwaizumi non si comporta come al solito, nemmeno l’altro
può farlo.
Se Iwaizumi assume quell’espressione quando lo guarda e gli dice di aver
esagerato, facendolo sentire come se gli avesse fatto un torto imperdonabile,
Tooru non può dirgli che è tutto a posto e sorridere, non può farla passare
come l’essere iperprotettivo del compagno.
Forse per la prima volta Tooru capisce cosa significhi davvero che la
squadra non è composta da un solo elemento – specie se uno degli altri in
qualche modo, lentamente, lo consuma lui stesso.
Capisce, ma non impara.
Perdono di nuovo contro la Shiratorizawa e stavolta non c’è niente di quanto
Iwaizumi possa dire che distolga Tooru dalla stupida idea di rimanere lì in
palestra fino a che non stramazzerà al suolo di nuovo. Ad essere sincero, Hajime
capisce meglio di qualsiasi loro compagno di squadra quanto frustrante sia per
Tooru – semplicemente perché ha lo stesso, fervente desiderio di sconfiggere
quel muro che non riescono a superare nonostante l’impegno, nonostante gli
allenamenti, nonostante Oikawa e tutto quello che fa per sopperire a mancanze
che in fondo nemmeno dipendono da lui.
Così Tooru è il primo ad entrare in palestra quando le lezioni finiscono e
l’ultimo ad andarsene; è il capitano della Aobajousai e Iwaizumi non sa chi
potrebbe meritarlo più di lui, ma in compenso vede che a Tooru non basta. Se
possibile quello diventa l’ennesimo motivo per il quale l’altro sente di dove
raggiungere una perfezione che agogna anche se lui per primo riconosce di non
avere ancora – contro ogni aspettativa, e sicuramente contro voglia, Iwaizumi
lo ha sentito ammettere con fin troppa (falsa) tranquillità che Kageyama lo
supera di gran lunga, in quanto a tecnica di alzata.
La prima volta che glielo sente dire, Hajime avverte come qualcosa che gli
attorciglia lo stomaco, ma visto che lo stesso Oikawa poi aggiunge di essere
superiore a Tobio in altre cose, immagina che vada
bene. Così lo lascia sfogare, lo aspetta finché il custode non va a minacciarli
di liberare la palestra e tornarsene a casa perché è davvero tardi.
Lascia che Tooru si alleni finché non è senza fiato, lascia che lo faccia da
solo – Oikawa non gli chiede mai di alzargli una palla, di fare qualche attacco
perché lui possa allenarsi in difesa o proprio in alzata, magari. Lascia che
ripeta lo stesso gesto tecnico fino a perderne il conto lui stesso che rimane a
fare da osservatore.
Sente il cuore scoppiargli in petto e saltargli in gola al tempo stesso, quando
dopo una battuta in salto Tooru cade male e finisce in ginocchio; gli è vicino
in un attimo e per la prima volta in vita sua Tooru lo allontana.
«Non avvicinarti!»
È doloroso. Il rifiuto, sì, ma anche guardare Tooru rimanere a terra e
picchiare con un pugno contro il parquet; è doloroso vedere che non riesce a
rialzarsi, mentre corruga la fronte e si morde un labbro nello sforzo di non
farsi sfuggire neanche un lamento; è doloroso vedere come la mano scivoli
lentamente al ginocchio e come lui si pieghi in avanti, finché la fronte sudata
non tocca il pavimento freddo.
È doloroso vedere Tooru che trema perché non ce la fa più.
È tremendo rendersi conto che non è invincibile – ci ha pensato, era così
ovvio, eppure un po’ Hajime ci ha sempre creduto.
Il ginocchio non è nulla di serio, una distorsione che lo obbligherà per un po’
al tutore, e dopo che il medico dirà che può toglierlo starà sostanzialmente a
Tooru decidere in base al fastidio, ai dolori e al carico di lavoro in
palestra.
Il ginocchio tornerà a posto.
Se lo farà anche Tooru, Hajime non lo sa.
Il terzo anno del liceo li accoglie con le nuove matricole piene di voglia di
fare.
Alcune di loro sono ben conosciute, come Kindaichi e Kunimi; ma sono anche un’arma a doppio taglio, perché
arrivano diretti dalla Kitagawa Daiichi
e Iwaizumi in un primo momento non sa che reazione aspettarsi da Tooru.
Il capitano della Aobajousai invece si comporta come se nulla fosse: il tutore
è ancora al suo posto, lì a coprire il ginocchio destro, a mascherare uno
sforzo di troppo; Hajime non lo apprezza, perché non riesce a leggere quanto
effettivamente l’altro stia esagerando o meno. D’altronde di certo non gli
imporrebbe mai di togliere uno dei pochi sostegni che Tooru si è concesso.
Oikawa sorride loro, gli affibbia nomignoli – o li recupera, francamente
Iwaizumi ha smesso di badare a come l’amico d’infanzia chiama gli altri molto
tempo fa, ossia quando ha compreso che non si sarebbe mai liberato di quel “Iwa-chan”
– e sembra che sia tutto a posto, sembrano una squadra equilibrata e pronta a
crescere. Tooru va persino d’accordo con il secondo palleggiatore della
squadra, niente a che vedere con il rapporto con Kageyama, e Hajime non sa dire
se si tratti di Tooru che è maturato o del loro kohai che semplicemente non è
un genio, cosa che gli risparmia un sentimento che finirebbe per somigliare fin
troppo all’odio o alla mal sopportazione.
Si tratta di una coincidenza, il fatto che gli capiti di sentire Kindaichi e Kunimi parlare con
altre matricole nello spogliatoio del loro ultimo anno delle medie; non si
aspetta di sentir accennare alla partita in cui si sono rifiutati di attaccare
la palla del loro alzatore – non serve una spiegazione diretta per capire che
la persona di cui stanno parlando altri non è che Kageyama.
Tooru, di fianco a lui, non dice nulla né cambia espressione, non entra nemmeno
nello spogliatoio, cosa che per un momento Iwaizumi quasi si aspetta. Fa
dietrofront e torna sui suoi passi, e Hajime semplicemente varca la soglia
dello spogliatoio.
La performance di Oikawa in allenamento è ottima, come sempre. Rasenta
l’impeccabile e, se anche Kindaichi e Kunimi lo possono ricordare vagamente dal loro primo anno
alle medie, Tooru è molto diverso da allora; è come riscoprirlo interamente e
lui sembra del tutto intenzionato a mostrare il meglio di sé – per narcisismo,
sì, perché il suo ego gongola in presenza dei complimenti degli altri, ma anche
perché è a ciò che aspira da sempre: la perfezione.
Iwaizumi non lo sa, ma c’è un momento in cui Oikawa ha pensato che a Tobio stesse bene. Un momento di cieca cattiveria gratuita
in cui la sua mente ha formulato il pensiero “quella non è una cosa che puoi
sistemare solo perché sei un genio, eh?” e davvero, sa che non è colpa di
nessuno – quindi nemmeno di Kageyama –, ma è più forte di lui, istintivo, quasi
brutale.
Ha cercato così a lungo qualcosa che quelli come lui non potessero fare, che
quando gli è stata detta (per quanto indirettamente) è stata come una vittoria,
come il completamento di un viaggio, come la risposta che finalmente viene data
dopo anni di agonie e ricerche.
«Ohi, Assikawa!»
Solo una persona lo chiama così, e meno male che non si volta subito, perché la
pallonata che lo colpisce con forza sulla nuca avrebbe altrimenti deturpato il
suo (bellissimo) viso. Una mano sale istintivamente a massaggiare la parte
lesa, l’accenno di un broncio che va già formandosi sulle sue labbra mentre si
volta verso il suo aguzzino, che poi sarebbe il suo migliore amico, che poi è
l’ace e vice-capitano – e tutta una serie di cose che lo rendono uno dei
pilastri della vita di Oikawa insieme alla pallavolo di per sé.
Iwaizumi lo guarda più seccato che arrabbiato.
«Cos’ho fatto per meritarmelo, Iwa-chan?!»
«Stavi sicuramente pensando a qualcosa di stupido! Tienilo per dopo
l’allenamento!» rimbecca l’altro con fare brusco, Kunimi
che è ancora fermo nella posizione dov’è ricaduto dopo il salto, leggermente
fuori dall’asta in zona quattro. Oikawa lo fissa, arriccia il naso, si
acciglia.
«Kunimi-chan, l’alzata era troppo fuori?»
«Uh...» Kunimi sembra messo più in crisi dalla
domanda che altro, come se non fosse abituato a sentirsela rivolgere; a Tooru
torna in mente il nomignolo con cui Kageyama è conosciuto ormai in tutta la
prefettura se non anche al di fuori di essa in alcuni casi, e non fa fatica a
spiegarsi il motivo di tanto apparente disagio da parte dello schiacciatore.
Incurva le labbra in un sorriso e lo incalza a riprovare – non gli ci vuole
nulla a trovare il tempo dell’altro ragazzo, la sua palla ideale, il modo di
tirarne fuori non il cento per cento magari, ma un buon potenziale. Per il
cento per cento è fiducioso, però: dopotutto la capacità di osservazione è una
delle sue migliori qualità, ne è cosciente e l’ha affinata più possibile, per
renderla un’arma da sfruttare al meglio.
È così che se ne rende conto, che lo capisce davvero: la sua squadra –
in cui lui è ovviamente incluso, in cui ognuno di loro è un organo
vitale – è quello che fa la differenza, quello che tira fuori il suo migliore
talento.
Tooru ha capito che non potrà mai essere un palleggiatore del livello tecnico
di Kageyama, o con la potenza fisica di Ushijima; non può fare nulla per quelle
abilità che, semplicemente, non sono innate.
Ma anche lui ha qualcosa di innato, una capacità che Tobio
non ha e che lo ha persino tradito – e ora, ora capisce che non può
esistere cosa peggiore per un alzatore che scoprire di non avere la totale
fiducia della sua squadra.
Ci sono cose che non potrà mai allenare; cose per cui non importa quanto si
impegni o quanto si ossessioni, non potrà mai acquisirle.
Ma quella squadra è come il premio di miglior alzatore alla fine delle scuole
medie: ha perso, ma è risultato il migliore di tutti.
Non è Kageyama, ma può ancora essere molto meglio di chiunque altro.