L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA
CAPITOLO SECONDO
«Ynyr!»
Sianna
spalancò gli occhi per ritrovarsi con la
mano tesa al vuoto e l’altra affrancata al lenzuolo, il cuore
che batteva
veloce per l’ansia dell’incubo. Ancora tramortita
sbatté le palpebre un paio di
volte, per cercare di adattare gli occhi chiari alla luce tiepida del
sole, e
si lasciò cadere nuovamente fra le coperte, sul comodo
materasso di lana.
Il
letto era caldo e morbido e lei aveva ancora
terribilmente sonno. Si rannicchiò e nascose il volto nel
cuscino, per
prolungare quel momento, le ginocchia strette al petto e le mani
congiunte
sotto la testa. Quando aveva un incubo e urlava in quel modo, di solito
suo
fratello irrompeva nella stanza spalancando la porta e poi la sgridava
perché
aveva svegliato tutta la casa, e alla fine dormiva con lei,
perché dopo un
brutto sogno di dormire da sola non era capace.
Fu
questa strana mancanza a metterla in allarme.
Il
silenzio e il profumo delle lenzuola: lavanda.
Sua madre odiava la lavanda, non l’aveva mai usata.
Si
mise a sedere bruscamente, gli occhi le bruciarono
di nuovo per la luce e dovette ripararsi il viso con la mano, mentre
una cloaca
di pensieri confusi si affacciava alla sua mente e la paura
del sogno
l’assaliva ancora.
Suo
fratello non era arrivato. Non era la fine del
mondo.
La
stanza non era camera sua. Non era la fine
del mondo.
Anche
se il panico la stava assalendo, non era la
fine del mondo.
Si
trovava in un ampio ambiente di pietra nuda. La
parete di fronte a lei era intervallata da piccoli lettini vuoti e la
luce
entrava da finestre che le parvero ferite irregolari nella pietra.
«Stai
bene ragazza?»
Sianna
si accorse, quasi con sgomento, che
il letto accanto al suo era occupato da un uomo il cui volto
era celato
da un pesante bendaggio che copriva l’occhio destro. I
capelli sporchi e sfatti
e la barba lunga, sembrava incapace di muoversi, restava immobile con
il viso
reclinato verso di lei, l’espressione vagamente
incuriosita di qualcuno
palesemente annoiato.
Annuì
per riflesso «Credo»
Un
verso stridulo le fece sussultare e alzare gli
occhi per individuare, appollaiato sulla finestra, un falco bianco
dagli occhi
grigi.
«Gael!»
esclamò e si sentì sollevata nel
riconoscere l’animale.
Gettò
le gambe oltre il bordo del letto e fece
leva con le braccia per alzarsi, ma una fitta di dolore le
impedì di muoversi e
l’arto sinistro le cedette, facendola ricadere malamente sul
materasso.
«Attenta
ragazzina… guarda che hai fatto, stai
sanguinando» la redarguì ancora lo sconosciuto,
strizzando l’unico occhio sano
per accennare al suo braccio.
Lo
sgomento per lei fu ancora più grande nel
rendersi conto che la manica della vestaglia che stava indossando era
zuppa di
sangue. dovette trattenersi dall’urlare.
Con
mano tremante fece scivolare la stoffa oltre
la spalla, non curandosi molto del pudore e dell’uomo che non
smetteva di
fissarla un solo istante, e scoprì che l’omero era
steccato e completamente
coperto da bende sporche di rosso e d’argento. Nel panico del
risveglio non se
ne era resa conto, ma ora riusciva a percepire il pulsare della ferita
e gli occhi
le si inumidirono per il dolore. E al dolore si aggiunse ancora,
terribile e
implacabile, la paura, perché non ricordava in alcun modo di
essersi ferita.
Con
più attenzione si alzò, tenendo il braccio
sinistro teso e rigido per non fomentare le fitte che le la
attraversavano come
una scossa, e raggiunse la cassa ai piedi del suo letto. Gli occhi
dello
sconosciuto non la lasciarono per un solo instante mentre, a fatica,
trafficava
con il chiavistello il più silenziosamente possibile per non
svegliare gli altri
due dormienti, le labbra torturate dai denti per trattenere i lamenti.
Come
aveva sperato all’interno della cassa ritrovò il
suo vestito, profumato come
appena lavato. Sapeva di lavanda, ma le bastò spiegarlo per
notare gli aloni di
fango e erba che non erano venute via e macchiavano il celeste acceso
della
gonna. La manica sinistra era praticamente carbonizzata, e qua e
là vi erano
bruciature piuttosto evidenti.
Sua
madre si sarebbe infuriata.
Il
braccio non la smetteva di pulsare,
tormentandola, tanto che non riusciva a credere di non essersene
accorta.
L’uomo
la fissava ancora.
«Sei
la figlia della fattucchiera, vero?» le
domandò ad un tratto.
Sianna
si accigliò «È una guaritrice»
L’uomo
accennò un sorriso di scherno «Ho sentito
parlare di voi. La strega dai capelli rossi con due gemelli biondi come
il sole
e troppo belli. I figli del demonio»
Sianna
storse la bocca «È una scemenza. Sembra una
cosa stupida solo a pensarla, a dirla diventa veramente
ridicola» ribatté
pacatamente, concentrata sul vestito. Non riusciva a piegare il braccio
senza
soffrire, non sapeva se sarebbe riuscita a cambiarsi da sola. Di certo
però non
era intenzionata a restare in quella stanza a lungo.
«E
comunque non siamo gemelli»
«Le
voci dicevano il vero però. Sei così bella da
fare quasi paura»
Sianna
inarcò un sopracciglio e finalmente alzò il
volto per incrociare lo sguardo di quell’uomo sfacciato
«La paura rende muti,
evidentemente non te ne faccio abbastanza»
Nonostante
il disgusto, sapere che quell’uomo la
conosceva era tranquillizzante: non sapeva dove si trovasse, ma
perlomeno
doveva essere vicino a casa.
«Se
la strega fosse qui forse saremmo già
guariti» continuò lo sconosciuto, quasi fra
sé e sé.
Ma
la strega non c’era.
Perché
sua madre non c’era?
Si
rialzò sospirando e afferrò con fatica i lembi
della camicia da notte di lana grezza che stava indossando.
Esitò, nel notare
il ferito ancora rivolto verso di lei, come avido di ogni suo gesto, e
le venne
un moto di nausea. Odiava quelle attenzioni, quel tipo di sguardo, uno
sguardo
che gli uomini le avevano spesso dedicato, anche quando era una
bambina, anche
quando era decisamente troppo piccola per capire e le veniva solo una
gran
paura. Si sfilò la vestaglia e la gettò sul viso
di lui, nascondendosi alla sua
vista.
«Che
diavolo stai facendo?» come aveva immaginato
l’uomo non poteva muoversi, né poté
liberarsi dalla stoffa. Più tranquilla si
dedicò a rivestirsi «È da maleducati,
guardare una ragazza che si cambia»
ribatté piccata.
Le
veniva da piangere per il dolore allucinante
che la colpì a tradimento quando
s’infilò goffamente la sottana turchina di
cotone, morbida e leggera sul braccio dolorante.
In
corrispondenza della ferita la manica era
aperta, come squartata, e bruciata e sporca di macchie che le
ricordarono il sangue.
Il
suo sangue, quel suo strano sangue fatto a
metà. Più facile fu indossare la guarnacca blu
notte senza maniche, aperta sul
davanti e sui fianchi e ornata di ricami dorati sui bordi, che strinse
semplicemente sotto il seno con una cintura di corda dorata.
Ripiegato
con cura, sul fondo della cassa
ritrovò anche il suo mantello, blu notte che sfiorava il
nero, con un ampio
cappuccio ornato di vaio, e per una ragione a lei inspiegata lo
indossò e si
coprì il capo.
Si
sentiva più al sicuro, quando era nascosta.
Così
bardata e protetta Sianna si accostò all’uomo
e lo liberò dalla vestaglia che gli copriva il viso.
«Volevi
soffocarmi ragazzina?» la accusò
questo, seccato.
Lo
ignorò.
«Sai
dove sia mia madre?»
«Nessuno
sa dove sia nessuno, ragazzina. Sono
bloccato qui dentro da settimane, non posso muovermi e nessuno si
decide ad
ammazzarmi per farla finita, e di messi come me o peggio di me ne
arrivano
tutti i giorni e tutti i giorni ne escono altrettanti con un telo sugli
occhi.
I dispersi sono anche troppi. Tu hai dormito per tanto di quel tempo
che
sembrava saresti stata la prossima e invece guardati… un
miracolo. O una
stregoneria. Sei veramente la figlia del demonio»
Sianna
boccheggiò alla ricerca di qualcosa con cui
ribattere, ma non le riuscì. Rimase confusa a contemplare il
volto dello
sconosciuto, ricolmo di disprezzo e di quella punta di paura
reverenziale
insita che conosceva molto bene, perché sotto simili sguardi
Sianna ci era
cresciuta. L’ansia crebbe anche in lei, sebbene
l’uomo non si fosse spiegato
con chiarezza qualcosa doveva essere accaduto, e semplicemente Sianna
non lo
ricordava.
Emise
un fischio sottile ed il falco bianco si
levò dalla finestra per posarsi metodicamente sul suo
avambraccio, privo di
protezioni. Se sua madre l’avesse vista si sarebbe arrabbiata
e non poco,
voleva che indossasse il guanto di pelle sempre, soprattutto quando non
era in
casa ma tra altre persone, tuttavia a Sianna la ragione di una simile
precauzione era sempre sfuggita, le unghie di Gael non
l’avevano mai ferita.
Solo quando era bambina il falco era riuscito a causarle dolore, ma con
il
tempo era come divenuta immune ai suoi artigli.
«Non
è una strega» ripeté di nuovo, una
battaglia
persa che non poteva smettere di combattere nonostante tutto. Senza
più
ascoltarlo gli diede la schiena e puntò dritta
all’uscita. La presenza
rassicurante e familiare di Gael la spinse a non dare troppo peso a
quelle
parole cattive. Si limitò a muoversi con cautela,
per cercare almeno di
risparmiare un poco l’arto martoriato.
Sianna
si richiuse la porta alle spalle con uno
schiocco secco e si bloccò di nuovo, per la sorpresa mista a
confusione.
Si
trovava in un corridoio coperto che si
affacciava su un cortile interno illuminato da una luce pallida e
smorta. Si
avvicinò al muretto basso da cui partivano colonnine
decorate e si sporse per
guardare il cielo: grigio come fumo, come prima di una tormenta di
neve, senza
nuvole, solamente compatto e cupo tanto da dare i brividi. Il sole in
quel
grigio morte ci moriva, i suoi flebili raggi riuscivano
appena ad
arrivare a sfiorare il prato verde scuro e gli alberi bassi. Sembrava
quasi che
dovesse già tramontare, nonostante fosse alto nel cielo, e
proprio questo
piccolo dettaglio le permise di tirare un sospiro di sollievo.
«Siamo
nel Regno d’Ombra» constatò tra
sé e sé,
per confortarsi.
Le
era parso di essere distante da casa, di
essersi smarrita, davvero non riconosceva nulla di familiare che
potesse
tranquillizzarla, mai il sole morto delle sue terre natie le era parso
così
desiderabile.
Sapeva
di casa.
Gael
schioccò il becco e Sianna si riscosse e
tornò a guardarsi intorno, alla ricerca di una via
d’uscita o di qualunque
essere umano in grado di dirle cosa diamine stesse succedendo senza
cercare di
spaventarla a morte o di darle del demonio incarnato. Notò
un portone di legno
incastonato nella pietra, più grande delle altre porticine
che costellavano e
ferivano le pareti e percorse la galleria per raggiungerla, desiderando
solo di
potersi appoggiare al muro per avere un sostegno. Non si era resa conto
di
quanto stesse male, di quanto si sentisse stanca. Ora, dalla stanchezza
si
sentiva pesantemente travolta e si scoprì dannatamente
debole in quel momento,
così debole che si meravigliava di riuscire a trascinarsi.
Dovette lasciare
andare Gael, perché non aveva più la forza di
sostenere anche il suo peso oltre
che il proprio.
“Tu hai dormito
tanto di quel tempo che sembravi
la prossima”.
Forse
per questo si sentiva sfinita dopo aver
mosso solo alcuni passi. Era solo la testardaggine, probabilmente, a
permetterle di avanzare con tanta tenacia. O, più probabile,
la paura, la
stessa che le aveva stretto il petto in una morsa appena si
era svegliata.
A
fatica, con il braccio che urlava il suo dolore,
Sianna si appoggiò di peso alla porta di pesante legno
massiccio appena
dischiuso e la aprì quel tanto che le bastò per
potersi infilare dentro la
stanza.
Era
come entrare nella sala d’aspetto di un
qualche nobile, essere lì dentro. Una saletta
piccola, con le
pareti rivestite da alti mobili di legno ricolmi di libri. Il
suo stupore
nel vederne tanti, assiepati tutti insieme, sostituì per un
breve istante la
sua ansia e la sua curiosità per quel posto sconosciuto, per
il suo risveglio,
per quell’uomo, per l’assenza di sua madre e di suo
fratello.
Ynyr
glielo diceva sempre, che lei era come una
farfalla. La sua attenzione si spostava continuamente senza riuscire
mai a
soffermarsi del tutto su qualcosa, leggera come una farfalla e
altrettanto
labile. Come prima si era incantata ad osservare il cielo, ora le punte
delle
sue dita stavano già scorrendo, il più
delicatamente possibile, sulle copertine
di pelle consumate. Si gettò rapide occhiate furtive intorno
e quando fu certa
che nessuno sarebbe spuntato da un attimo all’altro, ne
prelevò uno con
dolcezza, come stringesse un vero e proprio tesoro. Aveva imparato a
leggere,
anche se non benissimo, da sua madre, che da bambina aveva avuto un
maestro che
le aveva insegnato, ma in tutta la sua vita aveva visto due libri,
entrambi
troppo difficili di contenuti perché potesse comprenderli.
Accarezzò
la pelle raschiata di pecora sulla quale
era vergata una grafia elegante, contornata da miniature colorate
incise sul
foglio con un’incredibile precisione. Era veramente
meraviglioso.
Una
rapida serie di versi rauchi e nasali la fece
sussultare, di nuovo, e istintivamente Sianna ripose subito il volume
che
stringeva tra le dita candide. Gael era la sua spalla fin
dall’infanzia, e
quello era il segnale che emetteva sempre per avvisarla quando sua
madre stava
per arrivare, così che Marilien non la potesse cogliere in
flagrante durante le
sue bravate infantili.
Non
potè impedirsi di accendersi, almeno per un
istante, di speranza immediatamente soffocata. Perché
naturalmente sua madre
non c’era, e semplicemente il falco era rimasto chiuso fuori
e stava stridendo
il suo disappunto.
Sospirò
e abbandonò definitivamente quella piccola
saletta per uscire all’aria aperta. Tre gradini davanti a lei
e una stradina di
terra battuta che tagliava un prato verde e si srotolava sul lieve
pendio fino
ad un agglomerato di case contadine di argilla e fango. Faceva freddo,
anche se
era estate.
O
forse era solo lei a sentire freddo e a provare
l’impulso di rannicchiarsi il più possibile su se
stessa, se solo il braccio
non le avesse fatto male da morire. Ogni passo era una fitta, non
importava
quanto si sforzasse di tenerlo rigido.
L’aria
sapeva di erbe essiccate e sterco, di
polvere e marcio e povero. Un connubio nauseante che riuscì
a chiuderle lo
stomaco sebbene questo non avesse cessato di borbottare un solo istante
da
quando si era alzata. Quando si sforzava di ricordare qualcosa,
rivedeva solo
giornate terse e serene, eppure ora ad ogni suo passo le scarpette le
sprofondavano nel fango e il fondo del suo abito già si era
impantanato.
Segnali piuttosto evidenti di recenti temporali.
Recenti
temporali che Sianna non ricordava.
“Hai dormito tanto
di quel tempo…” Quanto
tempo?
E
suo fratello dove era stato, in quel “tanto
tempo”?
Si
bloccò di nuovo, questa volta per il panico. La
gola le si stava chiudendo e il respiro le mancava. L’unica
cosa che riusciva a
pensare era che Ynyr non c’era, e Ynyr c’era
sempre, e lei non ricordava e lo
sconosciuto parlava di feriti e di… dispersi.
E
Ynyr non c’era.
E
lei era in mezzo alla via, immobile e pallida
come un fantasma, senza il raziocinio e il coraggio necessario per
calmarsi,
per ricordarsi che forse avrebbe anche dovuto respirare, se voleva
sperare di
rivedere suo fratello, e che forse avrebbe potuto chiedere qualcosa,
qualunque
cosa, al gruppo di uomini incappucciati, vestiti di bianco che proprio
in quel
momento le stavano passando accanto, con la testa china, le mani
congiunte e i
pensieri volti ad una preghiera per un qualche dio in cui lei non
credeva.
Non
sapeva credere, Sianna, non l’aveva mai
imparato. O forse sua madre non aveva voluto insegnarle, non aveva
voluto
regalarle un illusione a cui aggrapparsi la sera, prima di andare a
dormire,
che la facesse sentire al sicuro, che la calmasse nei momenti di panico.
Nei
momenti come quello.
Sianna
aveva dovuto imparare ad aggrapparsi a se
stessa, per ritrovarsi, per essere ragionevole, e lo fece anche
stavolta,
s’inventò la ragione che non aveva per costringere
la sua gola a riaprirsi e i
polmoni a pompare nuova aria.
I
sacerdoti non la considerarono, come se non
esistesse, se fosse solo un’ombra. Lì
seguì con lo sguardo mentre si
allontanavano e tornavano all’edificio da cui lei stessa era
appena uscita, che
doveva essere un monastero.
Un
villaggio di sacerdoti, almeno ora aveva una
vaga idea di dove fosse finita, e in un villaggio di sacerdoti la
strada
principale portava sempre alla capanna dove il Sommo Sacerdote
incontrava i
postulanti, sua madre gliel’aveva spiegato quando da bambina,
all’età di cinque
anni, l’aveva portata a Lochlainn per far visita alla Signora.
L’aria
era piena delle risate impenitenti di
alcuni bambini che giocavano a rincorrersi, di donne che
chiacchieravano sulle
soglie delle misere casette, che stendevano il bucato su corde logore
tese tra
i muri. La piccola piazzola delimitata dalle capanne fatiscenti era
gremita di
persone, di animali in gabbia, di polli che giravano liberi per le
stradine di
fango, di uomini che contrattavano.
Non
aveva mai visto niente di simile, niente di
tanto povero, di così misero.
Era
tutto troppo lontano dalla sua vita, per
sembrarle vero.
Stando
immobile aveva attirato lo sguardo
incuriosito di alcuni bambini che stavano giocando con un cane ferito e
lo
punzecchiavano con dei bastoni con una crudeltà troppo
ingenua, che la
infastidì, la ferì quasi, perché
l’aveva vissuta tempo indietro.
Prima
di Hanry, prima di Daniel.
Prima
che Ynyr s’infuriasse davvero, e la
difendesse senza più pietà, crudele quanto gli
altri ma infinitamente più forte
degli altri.
Sianna
scosse il capo e affrettò il passo,
scivolando fra quei volti estranei.
Alla
fine della strada vide una capanna circolare
spiccare sulle misere abitazioni, di solido legno curato con il tetto
di paglia
rifatto di fresco, e le parve assurdamente familiare, come se in quel
posto vi
fosse già stata.
Bussò
piano, intimorita, ma le fece eco solo il
silenzio.
Attese
un istante, poi, vedendo che nessuno le
apriva, ribussò un po’ più forte.
Stavolta
la porta si schiuse mostrando una donna
di mezza età che la squadrò da capo a piedi prima
di sorridere di circostanza.
«Posso
esserti d’aiuto?»
Sianna
non seppe che rispondere, cercava nel volto
della sacerdotessa la stessa scintilla di familiarità che
l’aveva scaldata poco
prima, qualcosa a cui aggrapparsi, ma non c’era nulla per lei
lì, solo una
sconosciuta.
La
signora dovette però notare lo smarrimento sul
suo viso perché divenne più cordiale e le
aprì la porta.
«Accomodati»
Sianna
la fissò senza muovere ciglio,
immobile come una statua, mentre i suoi occhi attenti e curiosi
studiavano la
sacerdotessa e s’imprimevano nella memoria i suoi tratti.
Anche
la donna indossava un abito bianco, con i
bordi della veste ricoperti di rune dorate, i capelli raccolti in una
lunga
treccia color mogano a incorniciare un volto non troppo rugoso, ma con
profonde
zampe di gallina attorno agli occhi nocciola.
Realizzò
ad un tratto di essere stata troppo
sfacciata e di averla guardata con un insistenza al limite
dell’irriverenza e
per questo le sfuggì un sorriso congestionato.
«Io…»
Non
era mai stata brava a formulare pensieri
coerenti.
Non
era mai stata brava ad essere coerente, e in
quel frangente più che mai, con lo sguardo smarrito e i
pensieri ingarbugliati
più di una matassa di lana, persino formulare una frase
risultava un’impresa
degna di una ballata.
«Noi…
Dove è noi?»
La
donna si accigliò e Sianna divenne paonazza in
un battito di ciglia «Cioè intendo, dove siamo
noi! Cioè, dove è qui!
Dove è… casa mia…»
Doveva
essere sembrata pazza, e probabilmente lo
era davvero, non c’era altra spiegazione. Svegliarsi e non
avere Ynyr accanto
non poteva certamente essere reale, era troppo assurdo per essere reale.
«Tu
da dove vieni?»
Sianna
rilassò le spalle, dominando il nervosismo
e ignorando il solito, pungente dolore al braccio sinistro.
«Vengo da Gleann
Dubhar. In effetti non so quanto possa essere lontano da qui. Non so
nemmeno
dove sia il “qui” e questo complica un
po’ le cose» ammise con un sorriso
imbarazzato. Il suo imbarazzo crebbe ulteriormente, di fronte
all’aria
perplessa della donna.
«È
che… non ricordo molto bene» aggiunse come per
giustificarsi «Anzi, credo di non ricordare per
niente»
Come
un fulmine a ciel sereno balenò sul viso
della sacerdotessa il disagio, un rammarico disarmante che
intensificò le sue
paure.
«Tu
hai lasciato l’ospitale senza consenso, non è
vero?» la rimproverò la donna.
Sianna
dondolò sui piedi, incerta, e gli occhi
percorsero subito la strada dalla quale era venuta.
L’imponente edificio di
pietra doveva essere l’ospitale.
«Non
c’era nessuno» chiarì sulla difensiva
«Non
c’era la mia famiglia, e un perfetto sciocco vaneggiava
scemenze e mi dava del
demonio. Diciamo che questo non mi ha proprio spinto a starmene seduta
buona e
tranquilla»
Sei
la solita irriverente. Tu
i guai te li cerchi.
Avrebbe
voluto mordersi la lingua, ma ormai le
parole le erano uscite tutte senza che prendesse mai fiato tra
l’una e l’altra.
Saccente e irriverente, ecco cosa le avrebbe detto suo madre, magari
con un
bello scappellotto alla testa e un cipiglio furioso ad animare gli
occhi verdi.
La
sacerdotessa esitò, oscillando fra la sorpresa
e l’indignazione, per poi concederle un sorriso indulgente o
almeno vagamente
cordiale, di facciata.
«C’erano
altri, insieme a te, quando sei arrivata.
Ritengo più opportuno che siano loro a spiegarti la tua
situazione, perciò
ritorna all’ospitale. In queste condizioni non saresti mai
dovuta uscire»
Accennò
al suo braccio e Sianna vide che la stoffa
di quella che una volta era stata una manica, tempo prima, era zuppa di
sangue,
il colore scuro della tintura ne nascondeva la sfumatura rosso argentea.
«Ha
ragione, mi scusi per il disturbo»
La
Signora annuì e la congedò chiudendo la porta,
lasciandola esitante su quella soglia, senza sapere cosa fare.
Alzò il viso al
cielo solo per vedere Gael che l’aveva seguita, a distanza,
discretamente. Da
quando gli aveva salvato la vita, quel falco era il suo
compagno più
fedele, una guida che le aveva permesso infinite volte di non
perdersi.
Il
dolore al braccio e lo stomaco contratto.
«Gael» sussurrò, e quasi colse una
sfumatura accorata nella sua stessa voce
«Vorrei tanto che portassi Ynyr da me, questa volta»
Suo
fratello non aveva mai avuto bisogno di guide,
per raggiungerla, la trovava con una facilità frustrante,
mentre lei per
ritrovarlo doveva sempre imbrogliare, lui era troppo sfuggente.
Ritornò
sui suoi passi rimproverandosi di non aver
aspettato che qualcuno andasse da lei, ma alla fine restare immobile in
attesa
non era nella sua natura.
Il
monastero era l’unico edificio di pietra e si
ergeva alto al di sopra di tutti i tetti di paglia umida e marcia. La
facciata
era decorata ad archi rotondi e colonnine sottili e il
portone di legno a
distanza sembrava ancora più imponente, intagliato con
immagini sfocate di
divinità e miti. Il secondo piano anche era ornato di archi
e l’ombra di
qualche sacerdote attraversava il corridoio come uno spirito
evanescente,
rapida ed elegante.
Si
muoveva con la circospezione di una ladra, in
parte temendo di essere cacciata se qualche sacerdote
l’avesse vista e
non l’avesse riconosciuta come ospitata, in parte
perché non aveva voglia di
essere nuovamente rimproverata per essere uscita senza chiedere il
permesso. In
fondo però dubitava seriamente che a qualcuno lì
importasse di lei.
Solo
suo fratello si era davvero curato di lei,
non l’avrebbe mai lasciata. La sola idea che
potesse averlo fatto le
faceva salire il pianto, la faceva sentire sola per davvero, e sola non
lo
voleva essere.
Si
sfregò le palpebre con forza, per evitare di
cedere alle lacrime senza una ragione. Era ridicolo piangere in quel
modo,
senza dignità, a causa di un pensiero partorito
esclusivamente dalla sua
testa.
Quando
ormai fu giunta sulla soglia
dell’edificio un urlo la fece trasalire e alzò di
scatto il volto arrossato.
«Sianna!»
Non
fece in tempo a voltarsi che venne
letteralmente travolta da una ragazza che
l’atterrò strappandole
l’ennesimo lamento di dolore.
Subito
la figura si distaccò ma non ebbe bisogno
di vederla in viso per riconoscerla.
«Maledizione
Kea mi hai fatto malissimo! Che
cavolo ti è preso?»
Kea
le sorrise raggiante «Che cavolo prende a te
semmai! Mi sei mancata serpe, avevo paura che non ti saresti
più svegliata»
La
sua migliore amica si scostò il lunghi
capelli neri, liscissimi e setosi che le arrivavano appena oltre la
spalla,
rivelando due altrettanto oscuri occhi arrossati e lucidi di pianto
trattenuto
e due pesanti borse violacee per il sonno perso.
Kea
era una dura in superficie, era l’amica che la
trattava male, sbuffata, sollevava le spalle e le sopracciglia e le
chiedeva,
con esasperazione “Ma io cos’ho sbagliato con
te?”. In realtà però era fragile
come fine porcellana, delicata proprio come il suo aspetto lasciava
intendere,
e sempre lei che la malediva un giorno sì e
l’altro pure era la stessa capace
di piangere come una sciocca quando Sianna partiva con sua
madre e suo
fratello, anche solo per qualche giorno, e che l’accusa
sempre con un “Non mi
vuoi abbastanza bene. Sei un idiota”, anche se sapeva che
sarebbe ritornata di
lì a breve. Sianna si gettò al collo
dell’amica, ignorando le fitte di protesta
del suo braccio, ed una tragica sensazione che qualcosa
d’irreparabile
fosse accaduto le colpì lo stomaco con la violenza
di un pugno, un
sentimento estraneo a lei che con prepotenza si stava
insinuando dentro
di lei.
Un
sentimento che proveniva da Kea, Sianna li
percepiva sempre i sentimenti di Kea, erano come un ariete a volte, le
sfondavano la cassa toracica e le toglievano il fiato, sempre troppo
intensi,
troppo dolorosi, e Kea che era incredibilmente minuta, alta un soldo di
cacio e
sottile come un giunco, riusciva a nasconderli agli occhi del mondo,
agli occhi
di chiunque tranne Sianna.
C’era
odore di fuoco, nella paura della sua
migliore amica, lo stesso fuoco che Sianna aveva sognato, e urla
frastornanti
che la intontirono e la fecero sentire nuovamente smarrita.
«Non
possiamo sbagliare a non controllarti per
qualche ora che tu subito scappi»
l’apostrofò Lisanda, sopraggiunta insieme
alla gemella Iris e alla piccola Marion che subito si lanciò
su di lei per
creare un abbraccio di gruppo che quasi la soffocò.
«Va
bene, ho capito, c’è tanto amore
nell’aria! Ma
ti prego… Mari non respiro! Ahi!»
Marion
assottigliò i grandi occhi verdi «Come se
respirare fosse la cosa più importante, egoista»
«Se
bastava lasciarti sola per far sì che ti
svegliassi avremmo dovuto piantarti in asso fin dal primo
giorno»
«Siamo
le solite ingenue, ci preoccupiamo per lei
e ci dimentichiamo che ha più vite di un gatto»
concluse Iris sollevando gli
occhi al cielo.
Sianna
si scostò da Mari e Kea per guardare le sue
amiche una ad una: il pallore di Kea, denso come ceramica bianca,
contrastava
incredibilmente con la sua chioma nera come ali di corvo e ancora di
più con i
suoi occhi, anch’essi neri, che ingoiavano la pupilla.
Sembravano due profondi
buchi in grado di risucchiare qualunque cosa; le gemelle Iris e
Lisanda, la
stessa immagine riflessa allo specchio, i visi tondi dai tratti dolci,
gli
occhi grandi leggermente a mandorla, di un singolare nocciola che
virava al
grigio, i capelli biondo cenere e la pelle dorata,
un’abbronzatura naturale che
avevano sempre avuto; infine Marion, la piccola zingara del gruppo,
gitana nel
sangue e nei vestiti sempre troppo osceni, di stracci e sete colorate,
con la
sua pelle bronzea, gli occhi orientali di giada che ricordavano le
gemme in
Earrach, la sua fronte sporgente e spaziosa, ed i capelli castano
dorati, che
contrastavano con le sue origini zingaresche. Le sue amiche erano nane
per
vocazione, non poteva essere altrimenti, erano tutte incredibilmente
basse,
sembravano bambine, anche se Mari bambina lo era davvero con i suoi
dodici anni.
Sianna
tirò un sospiro di sollievo, se tutte loro
erano presenti la situazione non doveva essere troppo fuori controllo.
«Perché
siamo qui?»
La
tensione con cui le ragazze si guardarono tra
loro, come alla ricerca delle giuste parole, le fece rimangiare il suo
ultimo
pensiero. Lisy tossicchiò, abbassando lo sguardo, e cinse le
spalle di Iris con
un braccio in un gesto protettivo, Marion si sfregò gli
occhi stanchi, ma fu
Kea a parlare per tutte, fissandola seria negli occhi.
«Sianna,
devo dirti una cosa. So che dovrebbe tuo
fratello, ma lui…»
Sianna
sentì il sangue defluirle completamente
dalla vene e gli occhi le si inumidirono all’idea che la
brutta sensazione che
aveva accompagnato il suo risveglio riguardasse proprio il fratello.
«Ynyr
sta bene vero?» l’aggredì afferrandole
il
braccio e stringendolo con più forza del dovuto, la voce le
tremava per il
panico «Perché non è qui?
Dov’è? Lo sapevo che gli era successo qualcosa,
prima
l’ho chiamato e lui non c’era… non
è venuto! Lui viene sempre!»
Kea
l’afferrò per le spalle e la scosse
«Calmati, per
Nehalennia, fammi almeno parlare! Ynyr sta benissimo Sianna, non
è per lui che
ti devi preoccupare»
Senza
accorgersene una lacrima le era scivolata
tra le ciglia. Kea le stava sorridendo debolmente e si sentì
tremendamente
stupida, ad essersi spaventata in questo modo. D’altro canto
la situazione
anomala di certo non stava aiutando i suoi nervi.
«È
qui con noi, è stato Ynyr a portarti qui»
chiarì Lisy.
L’adrenalina
l’abbandonò rapida come era andata a
formarsi e Sianna si lasciò andare completamente sdraiandosi
supina sul
lastricato della galleria. Stava diventando catastrofica a dare retta
al suo
istinto, a quel nodo nello stomaco che la tormentava e le dava
l’impressione
che il mondo fosse finito mentre lei dormiva.
Le
ragazze le sedevano attorno e la studiavano,
stranamente caute, ma si convinse che era lei a volerle vedere inquiete
ad ogni
costo.
«Mi
hai spaventata a morte» rimproverò la sua
migliore amica con l’espressione più truce che le
riuscì di fare. Sospirò e si
risollevò da terra, le sue amiche angosciate lo sembravano
davvero, e di nuovo
la colpì quella sensazione che sapeva di avvertimento, alla
bocca dello
stomaco. Si accigliò e fisso confusa i bellissimi volti che
la osservavano come
se avessero ancora molto da dire.
«Sianna»
kea esitò «Tua madre è morta»
ANGOLO AUTRICE
Ed ecco il terzo, spero s'inizi a capire qualcosa! E visto che due giorni fa era il mio compleanno, che so, regalatemi una recensione! Io ci spero sempre! La storia è molto lunga e complicata, ma spero non desistiate!
Eh... beh a presto spero, più recensioni ricevo più sono invogliata a postare velocemente!
PS: lo so, il disegno è pessimo, ma è stato il primo disegno che ho fatto di Sianna, ormai qualcosa come sette anni fa e... anche se non sapevo fare i nasi ci tengo un sacco ecco! e visto che mi piace quando gli altri autori mi fanno vedere come s'immaginano i personaggi, ho pensato che potesse far piacere anche a voi! =)