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Autore: lady igraine    03/01/2015    0 recensioni
Le Terre di Confine, dopo la Caduta del Regno di Neanna, da duecento anni sono governate dal Conclave, una misteriosa congrega di Maghi che stringe nelle proprie mani il destino dei Regni indipendenti.
Ma quando un incubo antico, quello che ormai è solo un racconto per spaventare i bambini, riemerge dall’oscurità, ogni equilibrio è destinato a spezzarsi.
E Sianna, cresciuta nella sicurezza della sua valle isolata, protetta da presenze rassicuranti che la seguono fin dall’infanzia, è l’inizio di quella crepa che incrinerà il suo mondo, e ne ignora la ragione.
Eppure è lei che La Morte sta cercando e, per sopravvivere, Sianna deve presto fare i conti con un passato più complesso di quanto possa anche solo immaginare.
***
«Te l’ho già detto. Le tue linee non sono complete. Non so come spiegarlo… ma il tuo è un futuro che non posso vedere. È come se l’altra metà del tuo destino non fosse incisa sulla tua mano ma da qualche altra parte, come se appartenesse a qualcun altro»
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA

 

CAPITOLO SECONDO

 

 

«Ynyr!»
Sianna spalancò gli occhi per ritrovarsi con la mano tesa al vuoto e l’altra affrancata al lenzuolo, il cuore che batteva veloce per l’ansia dell’incubo. Ancora tramortita sbatté le palpebre un paio di volte, per cercare di adattare gli occhi chiari alla luce tiepida del sole, e si lasciò cadere nuovamente fra le coperte, sul comodo materasso di lana.
Il letto era caldo e morbido e lei aveva ancora terribilmente sonno. Si rannicchiò e nascose il volto nel cuscino, per prolungare quel momento, le ginocchia strette al petto e le mani congiunte sotto la testa. Quando aveva un incubo e urlava in quel modo, di solito suo fratello irrompeva nella stanza spalancando la porta e poi la sgridava perché aveva svegliato tutta la casa, e alla fine dormiva con lei, perché dopo un brutto sogno di dormire da sola non era capace.
Fu questa strana mancanza a metterla in allarme.
Il silenzio e il profumo delle lenzuola: lavanda. Sua madre odiava la lavanda, non l’aveva mai usata.
Si mise a sedere bruscamente, gli occhi le bruciarono di nuovo per la luce e dovette ripararsi il viso con la mano, mentre una cloaca di pensieri confusi si affacciava alla sua mente e la paura del  sogno l’assaliva ancora.
Suo fratello non era arrivato. Non era la fine del mondo.
La stanza non era camera sua. Non era la fine del  mondo.
Anche se il panico la stava assalendo, non era la fine del mondo.
Si trovava in un ampio ambiente di pietra nuda. La parete di fronte a lei era intervallata da piccoli lettini vuoti e la luce entrava da finestre che le parvero ferite irregolari nella pietra.
«Stai bene ragazza?»
Sianna si  accorse, quasi con sgomento, che il letto accanto al suo era occupato da un uomo il cui  volto era celato da un pesante bendaggio che copriva l’occhio destro. I capelli sporchi e sfatti e la barba lunga, sembrava incapace di muoversi, restava immobile con il viso reclinato verso di lei,  l’espressione vagamente incuriosita di qualcuno palesemente annoiato.
Annuì per riflesso «Credo»
Un verso stridulo le fece sussultare e alzare gli occhi per individuare, appollaiato sulla finestra, un falco bianco dagli occhi grigi.
«Gael!» esclamò e si sentì sollevata nel riconoscere l’animale.
Gettò le gambe oltre il bordo del letto e fece leva con le braccia per alzarsi, ma una fitta di dolore le impedì di muoversi e l’arto sinistro le cedette, facendola ricadere malamente sul materasso.
«Attenta ragazzina… guarda che hai fatto, stai sanguinando» la redarguì ancora lo sconosciuto, strizzando l’unico occhio sano per accennare al suo braccio.
Lo sgomento per lei fu ancora più grande nel rendersi conto che la manica della vestaglia che stava indossando era zuppa di sangue. dovette trattenersi dall’urlare.
Con mano tremante fece scivolare la stoffa oltre la spalla, non curandosi molto del pudore e dell’uomo che non smetteva di fissarla un solo istante, e scoprì che l’omero era steccato e completamente coperto da bende sporche di rosso e d’argento. Nel panico del risveglio non se ne era resa conto, ma ora riusciva a percepire il pulsare della ferita e gli occhi  le si inumidirono per il dolore. E al dolore si aggiunse ancora, terribile e implacabile, la paura, perché non ricordava in alcun modo di essersi ferita.
Con più attenzione si alzò, tenendo il braccio sinistro teso e rigido per non fomentare le fitte che le la attraversavano come una scossa, e raggiunse la cassa ai piedi del suo letto. Gli occhi dello sconosciuto non la lasciarono per un solo instante mentre, a fatica, trafficava con il chiavistello il più silenziosamente possibile per non svegliare gli altri due dormienti, le labbra torturate dai denti per trattenere i lamenti. Come aveva sperato all’interno della cassa ritrovò il suo vestito, profumato come appena lavato. Sapeva di lavanda, ma le bastò spiegarlo per notare gli aloni di fango e erba che non erano venute via e macchiavano il celeste acceso della gonna. La manica sinistra era praticamente carbonizzata, e qua e là vi erano bruciature piuttosto evidenti.
Sua madre si sarebbe infuriata.
Il braccio non la smetteva di pulsare, tormentandola, tanto che non riusciva a credere di non essersene accorta.
L’uomo la fissava ancora.
«Sei la figlia della fattucchiera, vero?» le domandò ad un tratto.
Sianna si accigliò «È una guaritrice»
L’uomo accennò un sorriso di scherno «Ho sentito parlare di voi. La strega dai capelli rossi con due gemelli biondi come il sole e troppo belli. I figli del demonio»
Sianna storse la bocca «È una scemenza. Sembra una cosa stupida solo a pensarla, a dirla diventa veramente ridicola»  ribatté pacatamente, concentrata sul vestito. Non riusciva a piegare il braccio senza soffrire, non sapeva se sarebbe riuscita a cambiarsi da sola. Di certo però non era intenzionata a restare in quella stanza a lungo.
«E comunque non siamo gemelli»
«Le voci dicevano il vero però. Sei così bella da fare quasi paura»
Sianna inarcò un sopracciglio e finalmente alzò il volto per incrociare lo sguardo di quell’uomo sfacciato «La paura rende muti, evidentemente non te  ne faccio abbastanza»
Nonostante il disgusto, sapere che quell’uomo la conosceva era tranquillizzante: non sapeva dove si trovasse, ma perlomeno doveva essere vicino a casa.
«Se la strega fosse qui forse saremmo già  guariti» continuò lo sconosciuto, quasi fra sé e sé.
Ma la strega non c’era.
Perché sua madre non c’era?
Si rialzò sospirando e afferrò con fatica i lembi della camicia da notte di lana grezza che stava indossando. Esitò, nel notare il ferito ancora rivolto verso di lei, come avido di ogni suo gesto, e le venne un moto di nausea. Odiava quelle attenzioni, quel tipo di sguardo, uno sguardo che gli uomini le avevano spesso dedicato, anche quando era una bambina, anche quando era decisamente troppo piccola per capire e le veniva solo una gran paura. Si sfilò la vestaglia e la gettò sul viso di lui, nascondendosi alla sua vista.
«Che diavolo stai facendo?» come aveva immaginato l’uomo non poteva muoversi, né poté liberarsi dalla stoffa. Più tranquilla si dedicò a rivestirsi «È da maleducati, guardare una ragazza che si cambia» ribatté piccata.
Le veniva da piangere per il dolore allucinante che la colpì a tradimento quando s’infilò goffamente la sottana turchina di cotone, morbida e leggera sul braccio dolorante.
In corrispondenza della ferita la manica era aperta, come squartata, e bruciata e sporca di macchie che le ricordarono il sangue.
Il suo sangue, quel suo strano sangue fatto a metà. Più facile fu indossare la guarnacca blu notte senza maniche, aperta sul davanti e sui fianchi e ornata di ricami dorati sui bordi, che strinse semplicemente sotto il seno con una cintura di corda dorata.
Ripiegato con cura, sul fondo  della cassa ritrovò anche il suo mantello, blu notte che sfiorava il nero, con un ampio cappuccio ornato di vaio, e per una ragione a lei inspiegata lo indossò e si coprì il capo.
Si sentiva più al sicuro, quando era nascosta.
Così bardata e protetta Sianna si accostò all’uomo e lo liberò dalla vestaglia che gli copriva il viso.
«Volevi soffocarmi ragazzina?»  la accusò questo, seccato.
Lo ignorò.
«Sai dove sia mia madre?»
«Nessuno sa dove sia nessuno, ragazzina. Sono bloccato qui dentro da settimane, non posso muovermi e nessuno si decide ad ammazzarmi per farla finita, e di messi come me o peggio di me ne arrivano tutti i giorni e tutti i giorni ne escono altrettanti con un telo sugli occhi. I dispersi sono anche troppi. Tu hai dormito per tanto di quel tempo che sembrava saresti stata la prossima e invece guardati… un miracolo. O una stregoneria. Sei veramente la figlia del demonio»
Sianna boccheggiò alla ricerca di qualcosa con cui ribattere, ma non le riuscì. Rimase confusa a contemplare il volto dello sconosciuto, ricolmo di disprezzo e di quella punta di paura reverenziale insita che conosceva molto bene, perché sotto simili sguardi Sianna ci era cresciuta. L’ansia crebbe anche in lei, sebbene l’uomo non si fosse spiegato con chiarezza qualcosa doveva essere accaduto, e semplicemente Sianna non lo ricordava.
Emise un fischio sottile ed il falco bianco si levò dalla finestra per posarsi metodicamente sul suo avambraccio, privo di protezioni. Se sua madre l’avesse vista si sarebbe arrabbiata e non poco, voleva che indossasse il guanto di pelle sempre, soprattutto quando non era in casa ma tra altre persone, tuttavia a Sianna la ragione di una simile precauzione era sempre sfuggita, le unghie di Gael non l’avevano mai ferita. Solo quando era bambina il falco era riuscito a causarle dolore, ma con il tempo era come divenuta immune ai suoi artigli.
«Non è una strega» ripeté di nuovo, una battaglia persa che non poteva smettere di combattere nonostante tutto. Senza più ascoltarlo gli diede la schiena e puntò dritta all’uscita. La presenza rassicurante e familiare di Gael la spinse a non dare troppo peso a quelle parole cattive. Si limitò a muoversi con  cautela, per cercare almeno di risparmiare un poco l’arto martoriato.
Sianna si richiuse la porta alle spalle con uno schiocco secco e si bloccò di nuovo, per la sorpresa mista a confusione.
Si trovava in un corridoio coperto che si affacciava su un cortile interno illuminato da una luce pallida e smorta. Si avvicinò al muretto basso da cui partivano colonnine decorate e si sporse per guardare il cielo: grigio come fumo, come prima di una tormenta di neve, senza nuvole, solamente compatto e cupo tanto da dare i brividi. Il sole in quel grigio morte ci moriva, i suoi flebili raggi riuscivano  appena ad arrivare a sfiorare il prato verde scuro e gli alberi bassi. Sembrava quasi che dovesse già tramontare, nonostante fosse alto nel cielo, e proprio questo piccolo dettaglio le permise di tirare un sospiro di sollievo.
«Siamo nel Regno d’Ombra» constatò tra sé e sé, per confortarsi.
Le era parso di essere distante da casa, di essersi smarrita, davvero non riconosceva nulla di familiare che potesse tranquillizzarla, mai il sole morto delle sue terre natie le era parso così desiderabile.
Sapeva di casa.
Gael schioccò il becco e Sianna si riscosse e tornò a guardarsi intorno, alla ricerca di una via d’uscita o di qualunque essere umano in grado di dirle cosa diamine stesse succedendo senza cercare di spaventarla a morte o di darle del demonio incarnato. Notò un portone di legno incastonato nella pietra, più grande delle altre porticine che costellavano e ferivano le pareti e percorse la galleria per raggiungerla, desiderando solo di potersi appoggiare al muro per avere un sostegno. Non si era resa conto di quanto stesse male, di quanto si sentisse stanca. Ora, dalla stanchezza si sentiva pesantemente travolta e si scoprì dannatamente debole in quel momento, così debole che si meravigliava di riuscire a trascinarsi. Dovette lasciare andare Gael, perché non aveva più la forza di sostenere anche il suo peso oltre che il proprio.
Tu hai dormito tanto di quel tempo che sembravi la prossima”.
Forse per questo si sentiva sfinita dopo aver mosso solo alcuni passi. Era solo la testardaggine, probabilmente, a permetterle di avanzare con tanta tenacia. O, più probabile, la paura, la stessa che le aveva stretto il petto  in una morsa appena si era svegliata.
A fatica, con il braccio che urlava il suo dolore, Sianna si appoggiò di peso alla porta di pesante legno massiccio appena dischiuso e la aprì quel tanto che le bastò per potersi infilare dentro la stanza.
Era come entrare nella sala d’aspetto di un qualche nobile, essere lì dentro.  Una saletta piccola, con le  pareti rivestite da  alti mobili di legno ricolmi di libri. Il suo stupore nel vederne tanti, assiepati tutti insieme, sostituì per un breve istante la sua ansia e la sua curiosità per quel posto sconosciuto, per il suo risveglio, per quell’uomo, per l’assenza di sua madre e di suo fratello.
Ynyr glielo diceva sempre, che lei era come una farfalla. La sua attenzione si spostava continuamente senza riuscire mai a soffermarsi del tutto su qualcosa, leggera come una farfalla e altrettanto labile. Come prima si era incantata ad osservare il cielo, ora le punte delle sue dita stavano già scorrendo, il più delicatamente possibile, sulle copertine di pelle consumate. Si gettò rapide occhiate furtive intorno e quando fu certa che nessuno sarebbe spuntato da un attimo all’altro, ne prelevò uno con dolcezza, come stringesse un vero e proprio tesoro. Aveva imparato a leggere, anche se non benissimo, da sua madre, che da bambina aveva avuto un maestro che le aveva insegnato, ma in tutta la sua vita aveva visto due libri, entrambi troppo difficili di contenuti perché potesse comprenderli.
Accarezzò la pelle raschiata di pecora sulla quale era vergata una grafia elegante, contornata da miniature colorate incise sul foglio con un’incredibile precisione. Era veramente meraviglioso.
Una rapida serie di versi rauchi e nasali la fece sussultare, di nuovo, e istintivamente Sianna ripose subito il volume che stringeva tra le dita candide. Gael era la sua spalla fin dall’infanzia, e quello era il segnale che emetteva sempre per avvisarla quando sua madre stava per arrivare, così che Marilien non la potesse cogliere in flagrante durante le sue bravate infantili.
Non potè impedirsi di accendersi, almeno per un istante, di speranza immediatamente soffocata. Perché naturalmente sua madre non c’era, e semplicemente il falco era rimasto chiuso fuori e stava stridendo il suo disappunto.
Sospirò e abbandonò definitivamente quella piccola saletta per uscire all’aria aperta. Tre gradini davanti a lei e una stradina di terra battuta che tagliava un prato verde e si srotolava sul lieve pendio fino ad un agglomerato di case contadine di argilla e fango. Faceva freddo, anche se era estate.
O forse era solo lei a sentire freddo e a provare l’impulso di rannicchiarsi il più possibile su se stessa, se solo il braccio non le avesse fatto male da morire. Ogni passo era una fitta, non importava quanto si sforzasse di tenerlo rigido.
L’aria sapeva di erbe essiccate e sterco, di polvere e marcio e povero. Un connubio nauseante che riuscì a chiuderle lo stomaco sebbene questo non avesse cessato di borbottare un solo istante da quando si era alzata. Quando si sforzava di ricordare qualcosa, rivedeva solo giornate terse e serene, eppure ora ad ogni suo passo le scarpette le sprofondavano nel fango e il fondo del suo abito già si era impantanato. Segnali piuttosto evidenti di recenti temporali.
Recenti temporali che Sianna non ricordava.
Hai dormito tanto di quel tempo…” Quanto tempo?
E suo fratello dove era stato, in quel “tanto tempo”?
Si bloccò di nuovo, questa volta per il panico. La gola le si stava chiudendo e il respiro le mancava. L’unica cosa che riusciva a pensare era che Ynyr non c’era, e Ynyr c’era sempre, e lei non ricordava e lo sconosciuto parlava di feriti e di… dispersi.
E Ynyr non c’era.
E lei era in mezzo alla via, immobile e pallida come un fantasma, senza il raziocinio e il coraggio necessario per calmarsi, per ricordarsi che forse avrebbe anche dovuto respirare, se voleva sperare di rivedere suo fratello, e che forse avrebbe potuto chiedere qualcosa, qualunque cosa, al gruppo di uomini incappucciati, vestiti di bianco che proprio in quel momento le stavano passando accanto, con la testa china, le mani congiunte e i pensieri volti ad una preghiera per un qualche dio in cui lei non credeva.
Non sapeva credere, Sianna, non l’aveva mai imparato. O forse sua madre non aveva voluto insegnarle, non aveva voluto regalarle un illusione a cui aggrapparsi la sera, prima di andare a dormire, che la facesse sentire al sicuro, che la calmasse nei momenti di panico.
Nei momenti come quello.
Sianna aveva dovuto imparare ad aggrapparsi a se stessa, per ritrovarsi, per essere ragionevole, e lo fece anche stavolta, s’inventò la ragione che non aveva per costringere la sua gola a riaprirsi e i polmoni a pompare nuova aria.
I sacerdoti non la considerarono, come se non esistesse, se fosse solo un’ombra. Lì seguì con lo sguardo mentre si allontanavano e tornavano all’edificio da cui lei stessa era appena uscita, che doveva essere un monastero.
Un villaggio di sacerdoti, almeno ora aveva una vaga idea di dove fosse finita, e in un villaggio di sacerdoti la strada principale portava sempre alla capanna dove il Sommo Sacerdote incontrava i postulanti, sua madre gliel’aveva spiegato quando da bambina, all’età di cinque anni, l’aveva portata a Lochlainn per far visita alla Signora.
L’aria era piena delle risate impenitenti di alcuni bambini che giocavano a rincorrersi, di donne che chiacchieravano sulle soglie delle misere casette, che stendevano il bucato su corde logore tese tra i muri. La piccola piazzola delimitata dalle capanne fatiscenti era gremita di persone, di animali in gabbia, di polli che giravano liberi per le stradine di fango, di  uomini che contrattavano.
Non aveva mai visto niente di simile, niente di tanto povero, di così misero.
Era tutto troppo lontano dalla sua vita, per sembrarle vero.
Stando immobile aveva attirato lo sguardo incuriosito di alcuni bambini che stavano giocando con un cane ferito e lo punzecchiavano con dei bastoni con una crudeltà troppo ingenua, che la infastidì, la ferì quasi, perché l’aveva vissuta tempo indietro.
Prima di Hanry, prima di Daniel.
Prima che Ynyr s’infuriasse davvero, e la difendesse senza più pietà, crudele quanto gli altri ma infinitamente più forte degli altri.
Sianna scosse il capo e affrettò il passo, scivolando fra quei volti estranei.
Alla fine della strada vide una capanna circolare spiccare sulle misere abitazioni, di solido legno curato con il tetto di paglia rifatto di fresco, e le parve assurdamente familiare, come se in quel posto vi fosse già stata.
Bussò piano, intimorita, ma le fece eco solo il silenzio.
Attese un istante, poi, vedendo che nessuno le apriva, ribussò un po’ più forte.
Stavolta la porta si schiuse mostrando una donna di mezza età che la squadrò da capo a piedi prima di sorridere di circostanza.
«Posso esserti d’aiuto?»
Sianna non seppe che rispondere, cercava nel volto della sacerdotessa la stessa scintilla di familiarità che l’aveva scaldata poco prima, qualcosa a cui aggrapparsi, ma non c’era nulla per lei lì, solo una sconosciuta.
La signora dovette però notare lo smarrimento sul suo viso perché divenne più cordiale e le aprì la porta.
«Accomodati»
 Sianna la fissò senza muovere ciglio, immobile come una statua, mentre i suoi occhi attenti e curiosi studiavano la sacerdotessa e s’imprimevano nella memoria i suoi tratti.
Anche la donna indossava un abito bianco, con i bordi della veste ricoperti di rune dorate, i capelli raccolti in una lunga treccia color mogano a incorniciare un volto non troppo rugoso, ma con profonde zampe di gallina attorno agli occhi nocciola.
Realizzò ad un tratto di essere stata troppo sfacciata e di averla guardata con un insistenza al limite dell’irriverenza e per questo le sfuggì  un sorriso congestionato.
«Io…»
Non era mai stata brava a formulare pensieri coerenti.
Non era mai stata brava ad essere coerente, e in quel frangente più che mai, con lo sguardo smarrito e i pensieri ingarbugliati più di una matassa di lana, persino formulare una frase risultava un’impresa degna di una ballata.
«Noi… Dove è noi?»
La donna si accigliò e Sianna divenne paonazza in un battito di ciglia «Cioè intendo, dove siamo noi! Cioè, dove è  qui! Dove è… casa mia…»
Doveva essere sembrata pazza, e probabilmente lo era davvero, non c’era altra spiegazione. Svegliarsi e non avere Ynyr accanto non poteva certamente essere reale, era troppo assurdo per essere reale.
«Tu da dove vieni?»
Sianna rilassò le spalle, dominando il nervosismo e ignorando il solito, pungente dolore al braccio sinistro. «Vengo da Gleann Dubhar. In effetti non so quanto possa essere lontano da qui. Non so nemmeno dove sia il “qui” e questo complica un po’ le cose» ammise con un sorriso imbarazzato. Il suo imbarazzo  crebbe ulteriormente, di fronte all’aria perplessa della donna.
«È che… non ricordo molto bene» aggiunse come per giustificarsi «Anzi, credo di non ricordare per niente»
Come un fulmine a ciel sereno balenò sul viso della sacerdotessa il disagio, un rammarico disarmante che intensificò le sue paure.
«Tu hai lasciato l’ospitale senza consenso, non è vero?» la rimproverò la donna.
Sianna dondolò sui piedi, incerta, e gli occhi percorsero subito la strada dalla quale era venuta. L’imponente edificio di pietra doveva essere l’ospitale.
«Non c’era nessuno» chiarì sulla difensiva «Non c’era la mia famiglia, e un perfetto sciocco vaneggiava scemenze e mi dava del demonio. Diciamo che questo non mi ha proprio spinto a starmene seduta buona e tranquilla»
Sei la solita irriverente. Tu i guai te li cerchi.
Avrebbe voluto mordersi la lingua, ma ormai le parole le erano uscite tutte senza che prendesse mai fiato tra l’una e l’altra. Saccente e irriverente, ecco cosa le avrebbe detto suo madre, magari con un bello scappellotto alla testa e un cipiglio furioso ad animare gli occhi verdi.
La sacerdotessa esitò, oscillando fra la sorpresa e l’indignazione, per poi concederle un sorriso indulgente o almeno vagamente cordiale, di facciata.
«C’erano altri, insieme a te, quando sei arrivata. Ritengo più opportuno che siano loro a spiegarti la tua situazione, perciò ritorna all’ospitale. In queste condizioni non saresti mai dovuta uscire»
Accennò al suo braccio e Sianna vide che la stoffa di quella che una volta era stata una manica, tempo prima, era zuppa di sangue, il colore scuro della tintura ne nascondeva la sfumatura rosso argentea.
«Ha ragione, mi scusi per il disturbo»
La Signora annuì e la congedò chiudendo la porta, lasciandola esitante su quella soglia, senza sapere cosa fare. Alzò il viso al cielo solo per vedere Gael che l’aveva seguita, a distanza, discretamente. Da quando gli aveva salvato  la vita, quel falco era il suo compagno più fedele, una guida che le aveva  permesso infinite volte di non perdersi.
Il dolore al braccio e lo stomaco contratto. «Gael» sussurrò, e quasi colse una sfumatura accorata nella sua stessa voce «Vorrei tanto che portassi Ynyr da me, questa volta»
Suo fratello non aveva mai avuto bisogno di guide, per raggiungerla, la trovava con una facilità frustrante, mentre lei per ritrovarlo doveva sempre imbrogliare, lui era troppo sfuggente.
Ritornò sui suoi passi rimproverandosi di non aver aspettato che qualcuno andasse da lei, ma alla fine restare immobile in attesa non era nella sua natura.
Il monastero era l’unico edificio di pietra e si ergeva alto al di sopra di tutti i tetti di paglia umida e marcia. La facciata era decorata ad  archi rotondi e colonnine sottili e il portone di legno a distanza sembrava ancora più imponente, intagliato con immagini sfocate di divinità e miti. Il secondo piano anche era ornato di archi e l’ombra di qualche sacerdote attraversava il corridoio come uno spirito evanescente, rapida ed elegante.
Si muoveva con la circospezione di una ladra, in parte temendo di essere cacciata se qualche sacerdote  l’avesse vista e non l’avesse riconosciuta come ospitata, in parte perché non aveva voglia di essere nuovamente rimproverata per essere uscita senza chiedere il permesso. In fondo però dubitava seriamente che a qualcuno lì importasse di lei.
Solo suo fratello si era davvero curato di lei, non l’avrebbe mai lasciata. La sola idea che potesse  averlo fatto le faceva salire il pianto, la faceva sentire sola per davvero, e sola non lo voleva essere.
Si sfregò le palpebre con forza, per evitare di cedere alle lacrime senza una ragione. Era ridicolo piangere in quel modo, senza dignità, a causa di  un pensiero partorito esclusivamente dalla sua testa.
Quando  ormai fu giunta sulla soglia dell’edificio un urlo la fece trasalire e alzò di scatto il volto arrossato.
«Sianna!»
Non fece in tempo a voltarsi che venne letteralmente travolta da  una ragazza che l’atterrò strappandole l’ennesimo lamento di dolore.
Subito la figura si distaccò ma non ebbe bisogno di vederla in  viso per riconoscerla.
«Maledizione Kea mi hai fatto malissimo! Che cavolo ti è preso?»
Kea le sorrise raggiante «Che cavolo prende a te semmai! Mi sei mancata serpe, avevo paura che non ti saresti più svegliata»
 La sua migliore amica si scostò il lunghi capelli neri, liscissimi e setosi che le arrivavano appena oltre la spalla, rivelando due altrettanto oscuri occhi arrossati e lucidi di pianto trattenuto e due pesanti borse violacee per il sonno perso.
Kea era una dura in superficie, era l’amica che la trattava male, sbuffata, sollevava le spalle e le sopracciglia e le chiedeva, con esasperazione “Ma io cos’ho sbagliato con te?”. In realtà però era fragile come fine porcellana, delicata proprio come il suo aspetto lasciava intendere, e sempre lei che la malediva un giorno sì e l’altro pure era la stessa capace di piangere come una sciocca quando Sianna partiva con sua madre  e suo fratello, anche solo per qualche giorno, e che l’accusa sempre con un “Non mi vuoi abbastanza bene. Sei un idiota”, anche se sapeva che sarebbe ritornata di lì a breve. Sianna si gettò al collo dell’amica, ignorando le fitte di protesta del suo braccio, ed una tragica sensazione che qualcosa d’irreparabile fosse  accaduto le colpì lo stomaco con la violenza di un pugno, un sentimento estraneo a lei  che con prepotenza si stava insinuando dentro di lei.
Un sentimento che proveniva da Kea, Sianna li percepiva sempre i sentimenti di Kea, erano come un ariete a volte, le sfondavano la cassa toracica e le toglievano il fiato, sempre troppo intensi, troppo dolorosi, e Kea che era incredibilmente minuta, alta un soldo di cacio e sottile come un giunco, riusciva a nasconderli agli occhi del mondo, agli occhi di chiunque tranne Sianna.
C’era odore di fuoco, nella paura della sua migliore amica, lo stesso fuoco che Sianna aveva sognato, e urla frastornanti che la intontirono e la fecero sentire nuovamente smarrita.
«Non possiamo sbagliare a non controllarti per qualche ora che tu subito scappi» l’apostrofò Lisanda, sopraggiunta insieme alla gemella Iris e alla piccola Marion che subito si lanciò su di lei per creare un abbraccio di gruppo che quasi la soffocò.
«Va bene, ho capito, c’è tanto amore nell’aria! Ma ti prego… Mari non respiro! Ahi!»
Marion assottigliò i grandi occhi verdi «Come se respirare fosse la cosa più importante, egoista»
«Se bastava lasciarti sola per far sì che ti svegliassi avremmo dovuto piantarti in asso fin dal primo giorno»
«Siamo le solite ingenue, ci preoccupiamo per lei e ci dimentichiamo che ha più vite di un gatto» concluse Iris sollevando gli occhi al cielo.
Sianna si scostò da Mari e Kea per guardare le sue amiche una ad una: il pallore di Kea, denso come ceramica bianca, contrastava incredibilmente con la sua chioma nera come ali di corvo e ancora di più con i suoi occhi, anch’essi neri, che ingoiavano la pupilla. Sembravano due profondi buchi in grado di risucchiare qualunque cosa; le gemelle Iris e Lisanda, la stessa immagine riflessa allo specchio, i visi tondi dai tratti dolci, gli occhi grandi leggermente a mandorla, di un singolare nocciola che virava al grigio, i capelli biondo cenere e la pelle dorata, un’abbronzatura naturale che avevano sempre avuto; infine Marion, la piccola zingara del gruppo, gitana nel sangue e nei vestiti sempre troppo osceni, di stracci e sete colorate, con la sua pelle bronzea, gli occhi orientali di giada che ricordavano le gemme in Earrach, la sua fronte sporgente e spaziosa, ed i capelli castano dorati, che contrastavano con le sue origini zingaresche. Le sue amiche erano nane per vocazione, non poteva essere altrimenti, erano tutte incredibilmente basse, sembravano bambine, anche se Mari bambina lo era davvero con i suoi dodici anni.
Sianna tirò un sospiro di sollievo, se tutte loro erano presenti la situazione non doveva essere troppo fuori controllo.
«Perché siamo qui?»
La tensione con cui le ragazze si guardarono tra loro, come alla ricerca delle giuste parole, le fece rimangiare il suo ultimo pensiero. Lisy tossicchiò, abbassando lo sguardo, e cinse le spalle di Iris con un braccio in un gesto protettivo, Marion si sfregò gli occhi stanchi, ma fu Kea a parlare per tutte, fissandola seria negli occhi.
«Sianna, devo dirti una cosa. So che dovrebbe tuo fratello, ma lui…»
Sianna sentì il sangue defluirle completamente dalla vene e gli occhi le si inumidirono all’idea che la brutta sensazione che aveva accompagnato il suo risveglio riguardasse proprio il fratello.
«Ynyr sta bene vero?» l’aggredì afferrandole il braccio e stringendolo con più forza del dovuto, la voce le tremava per il panico «Perché non è qui? Dov’è? Lo sapevo che gli era successo qualcosa, prima l’ho chiamato e lui non c’era… non è venuto! Lui viene sempre!»
Kea l’afferrò per le spalle e la scosse «Calmati, per Nehalennia, fammi almeno parlare! Ynyr sta benissimo Sianna, non è per lui che ti devi preoccupare»
Senza accorgersene una lacrima le era scivolata tra le ciglia. Kea le stava sorridendo debolmente e si sentì tremendamente stupida, ad essersi spaventata in questo modo. D’altro canto la situazione anomala di certo non stava aiutando i suoi nervi.
«È qui con noi, è stato Ynyr a portarti qui» chiarì Lisy.
L’adrenalina l’abbandonò rapida come era andata a formarsi e Sianna si lasciò andare completamente sdraiandosi supina sul lastricato della galleria. Stava diventando catastrofica a dare retta al suo istinto, a quel nodo nello stomaco che la tormentava e le dava l’impressione che il mondo fosse finito mentre lei dormiva.
Le ragazze le sedevano attorno e la studiavano, stranamente caute, ma si convinse che era lei a volerle vedere inquiete ad ogni costo.
«Mi hai spaventata a morte» rimproverò la sua migliore amica con l’espressione più truce che le riuscì di fare. Sospirò e si risollevò da terra, le sue amiche angosciate lo sembravano davvero, e di nuovo la colpì quella sensazione che sapeva di avvertimento, alla bocca dello stomaco. Si accigliò e fisso confusa i bellissimi volti che la osservavano come se avessero ancora molto da dire.
«Sianna» kea esitò «Tua madre è morta»
 



ANGOLO AUTRICE



Ed ecco il terzo, spero s'inizi a capire qualcosa! E visto che due giorni fa era il mio compleanno, che so, regalatemi una recensione! Io ci spero sempre! La storia è molto lunga e complicata, ma spero non desistiate! 
Eh... beh a presto spero, più recensioni ricevo più sono  invogliata a postare velocemente!
PS: lo so, il disegno è pessimo, ma è stato il primo disegno che ho fatto di Sianna, ormai qualcosa come sette anni fa e... anche se non sapevo fare i nasi ci tengo un sacco ecco! e visto che mi piace quando gli altri autori mi fanno vedere come s'immaginano i personaggi, ho  pensato che potesse far piacere anche a voi! =)

  
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